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Articoli e note

n. 11/2003  - © copyright

GIROLAMO SCIULLO (*)

La base giuridica dell’espropriazione: il vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità e l’occupazione acquisitiva ^

SOMMARIO: 1. Generalità. – 2. Il vincolo preordinato all’esproprio. – 3. La dichiarazione di pubblica utilità. – 4. L’occupazione acquisitiva e usurpativa. – 5. L’acquisizione provvedimentale.

 

1. Nel d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, come modificato dal d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 302, d’ora in avanti Tu, per base giuridica dell’espropriazione possono intendersi due diversi complessi di elementi. Il primo è costituito, secondo le previsioni degli artt. 8 e 23, comma 1, dal vincolo preordinato all’esproprio, dalla dichiarazione di pubblica utilità e dalla determinazione, anche in via provvisoria, dell’indennità. Il secondo, previsto dall’art. 43 in assenza di un «valido ed efficace provvedimento di esproprio» - ipotesi questa realizzata anche dalla mancanza di uno solo degli anzidetti elementi-, è rappresentato dalla utilizzazione di un immobile per scopi di interesse pubblico.

In ambedue i casi ci si riferisce all’espropriazione intesa come vicenda di trasferimento coattivo di un diritto da un soggetto ad un altro, ma, nell’uno, si considera la base giuridica dell’atto disciplinato dall’art. 23 («decreto di esproprio»), nell’altro, a quello disciplinato dall’art. 43 («atto di acquisizione»).

Tenuto conto della sostanziale identità di effetti fra i due atti, si può dire nel complesso che la base giuridica dell’espropriazione è costituita nella nuova disciplina dal vincolo espropriativo, dalla dichiarazione di pubblica utilità e dalla determinazione dell’indennità, oppure, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, dall’utilizzo del bene per scopi di interesse pubblico. Nella presente relazione ci si occuperà di essi ad eccezione della determinazione dell’indennità.

2. Il vincolo preordinato all’esproprio rappresenta il punto di collegamento fra l’espropriazione e la pianificazione urbanistica. Sul piano funzionale esso serve ad individuare “dove” l’opera pubblica o di pubblica utilità, in vista della quale l’espropriazione è condotta, sarà realizzata, ossia il bene da espropriare. Di per sé il vincolo non trova riscontro nella l. 25 giugno 1865, n. 2359, ma non costituisce di certo una novità.

Nel procedimento–tipo disciplinato dalla legge sull’espropriazione, ad individuare il bene da espropriare provvedeva l’atto dichiarativo di pubblica utilità, direttamente o per il tramite del piano particolareggiato (artt. 21 e 16). Tuttavia la legge prevedeva, sia pure come strumenti facoltativi il piano regolatore di riorganizzazione e quello di ampliamento dell’abitato, la cui approvazione comportava la dichiarazione di pubblica utilità (artt. 86, 92 e 93). Con riferimento a questi casi si può dire che già la legge n. 2359 aveva delineato il rapporto fra pianificazione urbanistica ed espropriazione.

Tale rapporto, che adesso l’art. 8 del Tu rende esplicito, trovò, come è noto, negli artt. 7 e 11 della l. urb. 17 agosto 1942, n. 1150 (quanto alle previsioni di localizzazione e alla loro vigenza a tempo indeterminato), un’ulteriore e, a seguito della diffusione dell’obbligatorietà dello strumento urbanistico generale, più larga base, sicché anche prima della nuova disciplina era da considerarsi esistente il principio secondo il quale il decreto di esproprio poteva essere emanato purché l’opera risultasse coerente con le previsioni del piano urbanistico [1].

Il Tu non offre la nozione di vincolo preordinato all’esproprio, ma, occupandosi dei fattori genetici dello stesso, sembra indirettamente confermare quella utilizzata dalla giurisprudenza, secondo la quale esso va inteso come la prescrizione urbanistica che localizza l’opera in modo «lenticolare», ossia ne individua puntualmente il relativo sedime [2]. Come tale va distinto dai vincoli c.d. conformativi, che discendono dalla zonizzazione del territorio comunale e che attengono alla destinazione urbanistica «in via generale e diffusa per parti omogenee» di zone dello stesso territorio [3].

I fattori genetici del vincolo sono indicati dagli artt. 9, comma 1, e 10, commi 1 e 2, e possono consistere:

a) nel piano urbanistico generale o in una sua variante;

b) in caso di opere non conformi alle previsioni del piano, in un atto che in base alla vigente normativa comporti una variante al piano urbanistico (ad es. un accordo di programma ex art. 34, comma 5, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), purché nello stesso si dia espressamente atto del vincolo;

c) oppure, sempre nel caso di opere non conformi alle previsioni del piano, nella variante semplificata al piano urbanistico, da realizzare secondo il procedimento dettato dall’art. 19, commi 2 ss.

Al riguardo va rilevata un’apparente ridondanza nella formulazione del Tu. Secondo l’art. 8, lett. a), oltre alla previsione dell’opera da parte dello strumento urbanistico generale o di un atto equivalente, sarebbe necessario che «sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio», il che avviene, in base all’art. 9, comma 1, quando diventa efficace «l’approvazione del piano urbanistico generale o di una sua variante che prevede la realizzazione dell’opera». La formulazione si spiegherebbe perché nell’articolato predisposto dal Consiglio di Stato si ammetteva che il piano urbanistico potesse prevedere l’opera, ma che il vincolo fosse differito al momento dell’inserimento dell’opera nel programma dei lavori [4] di cui all’art. 14 della l. 109 del 1994.

Caduta questa possibilità, la formulazione, pur nella sua imperfetta fattura, forse si giustifica ove si tenga conto che, secondo la giurisprudenza sopra ricordata, il vincolo sorge quando la previsione urbanistica non si limiti alla previsione dell’opera, ma la localizzi in termini precisi (o «lenticolari»). In breve, il doppio presupposto previsto dall’art. 8, comma 1, lett. a), farebbe riferimento alla necessità della presenza di entrambi gli elementi.

Quello che più preme rilevare è comunque che la prescrizione urbanistica comportante il vincolo può essere contenuta sì nel piano regolatore generale, ma che, laddove sussista la previsione di piani attuativi c.d. di terzo livello, saranno questi di regola a determinare il vincolo.

Quanto alla variante semplificata, è da dire che essa, a differenza della variante indicata sub a) – di carattere generale o puntuale per la realizzazione di una singola opera -, è coeva o conseguente all’approvazione di un progetto di opera pubblica o di pubblica utilità e che segue un procedimento caratterizzato da una fattispecie di silenzio-assenso.

Gli effetti del vincolo sono disciplinati dagli artt. 9, comma 2, 13, comma 1, e 12, comma 3. Nel testo originario del d.p.r. 327, in base alle prime due disposizioni, tale effetto consisteva nel rendere legittima la dichiarazione di pubblica utilità: veniva, infatti, affermato che entro il termine di durata del vincolo (cinque anni) «può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera».

Il d.lgs. 302 ha riscritto l’art. 12 del testo originario, prevedendo, al comma 3, che «qualora non sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio la dichiarazione di pubblica utilità diventa efficace al momento di tale apposizione a norma degli artt. 9 e 10». Si può quindi concludere che ormai il vincolo espropriativo si pone come presupposto di efficacia e non di legittimità della dichiarazione di pubblica utilità.

Brevemente sugli altri aspetti del regime relativo al vincolo. Il suo periodo di efficacia è di cinque anni (art. 9, comma 2). Se durante tale periodo viene emanato l’atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità, il vincolo per così dire si consolida. In caso contrario «decade» (rectius, cessa di efficacia) e per l’area interessata trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 19 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 (Tu in materia edilizia) (art. 9, comma 3), ossia quella relativa alle aree prive di regolamentazione urbanistica. Tale disciplina prevede, all’interno dei centri abitati, solo interventi di recupero, e, all’esterno, un’edificabilità ridotta (0,03 metri cubi per metro quadro).

Il vincolo «decaduto», peraltro, può essere motivatamente reiterato mediante uno degli atti idonei alla sua apposizione, tenendo conto dell’esigenza di soddisfazione degli standard ossia degli spazi da riservare ad usi d’interesse pubblico (art. 9, comma 4).

La reiterazione del vincolo comporta l’obbligo di corrispondere al proprietario dell’area interessata un’indennità «commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto». Così dispone l’art. 39, comma 1, del Tu, che tiene conto della nota sentenza della Corte costituzionale 171 del 1999. Secondo una tesi [5], che pare persuasiva, il danno andrebbe quantificato sulla base degli stessi parametri che prevedono l’indennità per l’espropriazione in senso stretto, adattati all’entità del pregiudizio.

Da ultimo è da menzionare che l’art. 9, comma 5, consente al Consiglio comunale, durante il periodo di efficacia del vincolo, di disporre o autorizzare un progetto di opera diversa da quella originariamente prevista dallo strumento urbanistico. Anche in questo caso il procedimento di approvazione della delibera comunale da parte della Regione o dell’ente delegato contempla un’ipotesi di silenzio-assenso.

3. Nella considerazione tradizionale la dichiarazione di pubblica utilità consiste nell’accertamento che una determinata opera presenta una finalità di interesse pubblico che rende legittimo, per la sua realizzazione, il sacrificio della proprietà privata attraverso lo strumento dell’espropriazione. Il relativo atto, a sua volta, è reputato non un mero giudizio, ma un provvedimento dal momento che esso presuppone non solo un’indagine di carattere tecnico, ma anche valutazioni in termini di opportunità [6].

A differenza del vincolo preordinato all’esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità costituisce un istituto già presente nella l. n. 2359, che anzi prevedeva un apposito atto volto a porla in essere (artt. 10 ss.). Come è noto, accanto a questo caso c.d. di dichiarazione esplicita, la legislazione successiva annoverò casi di dichiarazione ex lege e soprattutto di dichiarazione implicita, ossia come effetto accessorio di un provvedimento avente altra funzione giuridica [7], effetto divenuto “ordinariamente” connesso all’approvazione del progetto di un’opera, a seguito dell’art. 1, comma 1, della l. 3 gennaio 1978, n. 1, e dell’art. 14, comma 13 della l. 109 del 1994 e succ. mod.

Nell’economia complessiva del procedimento espropriativi delineato dal d.p.r. n. 327 la dichiarazione di pubblica utilità ha perso, in parte, di rilevanza, giacché non assolve più alla funzione di individuare l’area oggetto della localizzazione dell’opera, compito questo, come si è visto, assegnato, al vincolo.

Soprattutto, poi, il Tu, per esigenze di semplificazione e celerità del procedimento, ha generalizzato il sistema della dichiarazione implicita. Benché utilizzi le espressioni «provvedimento che dispone la pubblica utilità» (art. 13, commi 1 e 3), e «atto che dichiara la pubblica utilità»(art. 13, comma 4, art. 16, comma 1, art. 43, commi 1 e 2, lett. a), e rubrica dell’art. 14), il Tu disciplina solo atti che «comportano la dichiarazione di pubblica utilità», senza prevedere e normare un provvedimento ad hoc. In breve, utilizza quale modello procedimentale unico la dichiarazione di pubblica utilità implicita [8].

Gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità sono menzionati anzitutto dall’art. 12, comma 1, e consistono ne:

a) l’approvazione del progetto definitivo dell’opera (come già previsto dall’art. 14, comma 13, della l. n. 109 del 1994 e succ. mod.) da parte dell’autorità espropriante (ossia quella che ex art. 3, comma 1, lett. b), risulta titolare del potere di espropriare o eccezionalmente il privato al quale sia stato attribuito il medesimo potere);

b) l’approvazione di un piano c.d. attuativo di terzo livello (piano particolareggiato, di lottizzazione ecc.) oppure l’approvazione di uno strumento urbanistico (ad es. in materia ambientale) ovvero l’emanazione di un atto (definizione di una conferenza dei servizi, perfezionamento di un accordo di programma ecc.) quando ad essi la normativa vigente assegni l’effetto di dichiarazione di pubblica utilità o effetti equivalenti.

Va rilevato al riguardo che il medesimo atto può al contempo disporre il vincolo preordinato all’esproprio e comportare la dichiarazione di pubblica utilità. E’ il caso dei piani attuativi di terzo livello, quando lo strumento urbanistico generale non preveda la puntuale localizzazione dell’opera, oppure della conferenza dei servizi e degli accordi di programma, menzionati tanto dall’art. 10 che dall’art. 12.

Nella ipotesi di varianti di un progetto (ad es. in corso d’opera), l’art. 12, comma 2, prescrive l’approvazione delle stesse da parte dell’autorità espropriante ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, ma non una nuova apposizione del vincolo espropriativo, se esse non determinino variazioni di tracciato al di fuori delle zone di rispetto di cui al d.p.r. 11 luglio 1980, n. 753, e del d.m. 1° aprile 1968 [9]. Ciò significa, come è stato osservato [10], che i proprietari di aree ricadenti nelle fasce di rispetto sono potenzialmente esposti all’espropriazione.

Come ulteriore atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità, da valere nel caso di espropriazioni senza trasformazione del bene (di cui all’art. 1, comma 2), l’art. 13, comma 8, menziona il provvedimento di destinazione ad uso pubblico dell’immobile vincolato, con cui sono indicati finalità e costi dell’intervento previsto nonché i tempi per eventuali lavori di manutenzione.

L’effetto della dichiarazione di pubblica utilità è di carattere autorizzatorio nei confronti dell’autorità espropriante: nel periodo di efficacia della dichiarazione può essere emanato il decreto di esproprio (art. 13, comma 4 e art. 23, comma 1, lett. a)). Tale effetto si produce anche in mancanza di una sua espressa indicazione nell’atto che comporta la dichiarazione (art. 13, comma 2).

L’art. 13 della l. n. 2359 prevedeva che nell’atto di dichiarazione della pubblica utilità dovessero essere fissati quattro termini: di inizio e di ultimazione dell’espropriazione, di inizio e di ultimazione dei lavori. Norma questa che aveva dato adito ad un assai ampio contenzioso, anche sotto il profilo del riparto giurisdizionale, in particolare con riferimento alla mancata prefissione di detti termini e all’emanazione tardiva del decreto di esproprio [11]. L’art. 13 del Tu (insieme all’art. 53) ha inteso risolvere buona parte di questa serie di questioni, prevedendo che l’atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità può stabilire il termine finale per l’emanazione del decreto di esproprio e che in mancanza di tale determinazione il termine è di cinque anni decorrenti dalla data di efficacia dell’atto che comporta la dichiarazione (art. 13, commi 13 e 14).

Restano comunque salvi i termini maggiori stabiliti dalla legge per l’esecuzione delle previsioni di piani territoriali o urbanistici (ad es. di diciotto e di dieci anni previsti per l’esproprio delle aree inserite rispettivamente nei piani di zona e nei piani degli investimenti produttivi).

Il termine fissato dall’atto e quello legale possono essere prorogati, prima della loro scadenza e per un periodo non superiore a due anni, per casi di forza maggiore o altre giustificate ragioni, da parte della stessa autorità che ha emanato l’atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità (art. 13, comma 5).

Nella versione originaria del Tu il termine legale e quello fissato dall’autorità erano riferiti all’esecuzione e non all’emanazione del decreto di esproprio. Ove si consideri che l’esecuzione di tale decreto, consistente nell’immissione nel possesso del beneficiario dell’esproprio (art. 23, comma 1, lett. h)), può intervenire entro il termine di due anni (art. 24, comma 1), risulta evidente che la versione finale del Tu permette una dilatazione dei tempi della vicenda espropriativa.

Benché la non felice formulazione letterale consentirebbe altre interpretazioni, il coordinamento fra i commi 3 e 4 dell’art. 13 spinge a ritenere che il termine determinabile dall’autorità non può eccedere quello legale quinquennale. Una diversa soluzione, oltre a rendere possibile un’ulteriore e incerta dilatazione dei tempi dell’espropriazione, rimetterebbe all’autorità anche la durata dell’occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione, giacché ai sensi dell’art. 22-bis, comma 6, questa è destinata a perdere efficacia se il decreto di esproprio non venga emanato nel «termine di cui all’art. 13».

L’inutile decorso del termine comporta l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità (art. 13, comma 6).

Da ultimo va ricordato che, ai fini della formazione di quello che è stato definito l’«archivio-scadenziere» [12], l’autorità che emana uno degli atti previsti dall’art. 12, comma 1, ossia comportanti la dichiarazione di pubblica utilità, è tenuta a trasmetterne copia al Ministero delle infrastrutture o alla Regione a seconda che si tratti di opere di competenza statale o regionale (art. 14).

Sia il vincolo preordinato all’esproprio sia la dichiarazione di pubblica utilità (come del resto anche la determinazione dell’indennità), nella sistematica del Tu (artt. 8, 9 ss. e 12 ss.), danno luogo a «fasi» del procedimento espropriativo (ossia a sue articolazioni compiute sul piano funzionale). Nel caso della dichiarazione di pubblica utilità, mancando un atto ad essa specificamente rivolto, il termine attiene alla formazione dell’atto da cui consegue la dichiarazione di pubblica utilità. L’articolazione in fasi ha consentito una più agevole fissazione di regole concernenti la partecipazione degli interessati e in generale l’estensione al procedimento espropriativo delle regole dettate dalla l. 7 agosto 1990, n. 241.

Gli artt. 11 e 16 sanciscono, infatti, in linea di principio la partecipazione degli interessati all’iter procedurale relativo alla formazione del vincolo preordinato all’esproprio e dell’atto da cui consegue la dichiarazione di pubblica utilità, disciplinando la comunicazione dell’avvio del procedimento, la possibilità di accesso agli atti procedurali e quella di presentare osservazioni all’autorità espropriante.

4. Con l’art. 43 recante la rubrica «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse» il legislatore del Tu ha inteso dettare una disciplina per la prima volta autonoma – non limitata nel raggio di applicazione ai profili di finanza pubblica o di risarcimento [13] - sulla c.d. espropriazione sostanziale o senza potere, con l’obiettivo di adeguare l’ordinamento italiano agli orientamenti espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare riconducendo l’istituto di origine giurisprudenziale al rispetto del principio di legalità. Come nel caso degli altri istituti fin qui esaminati consideriamo la situazione anteriore al Tu, nei suoi termini principali.

Sotto l’etichetta espropriazione sostanziale si distinguevano due istituti con tratti in parte comuni in parte diversi: l’occupazione acquisitiva e l’occupazione usurpativa.

La prima nasce convenzionalmente [14] con la pronuncia delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n. 1464 [15]. Si consolida in successive pronunce, tra le quali merita di essere ricordata in particolare quella ancora delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940 [16], fino a diventare “diritto vivente”, oggetto di sostanziale riconoscimento da parte sia del legislatore (a partire dalla l. 27 ottobre 1988, n. 458) sia della Corte costituzionale (specie con la pronuncia 2 novembre 1996, n. 369 [17]).

Nella sua formulazione “sedimentata” l’occupazione acquisitiva indicava la perdita da parte del proprietario e il contestuale acquisto a titolo originario da parte della pubblica amministrazione della proprietà di un terreno, non fatto oggetto di espropriazione, a seguito della sua irreversibile trasformazione derivante dalla realizzazione di un’opera pubblica. I tratti salienti dell’istituto erano rappresentati poi: dal vincolo per la p.a. di risarcire il danno corrispondente al valore del fondo, oltre agli interessi e alla rivalutazione monetaria; dall’inefficacia dell’eventuale atto di esproprio intervenuto dopo l’acquisizione; infine, e in particolare, dal presupposto costituito dall’occupazione del terreno a seguito della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzare [18].

E’ proprio la mancanza di quest’ultimo dato a rappresentare l’elemento caratterizzante dell’occupazione usurpativa, figura individuata dalla giurisprudenza a partire dal 1997 [19]. L’assenza del titolo abilitativo, impedendo il collegamento teleologico fra l’occupazione e le finalità pubbliche perseguite dal procedimento espropriativo, comportava il diverso trattamento della fattispecie, consistente anch’essa nella trasformazione, non accompagnata dall’espropriazione, di un fondo privato a seguito dell’esecuzione di un’opera pubblica: mancando il titolo che giustificasse la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, non si verificava l’effetto estintivo-acquisitivo della proprietà. Il privato pertanto poteva esperire i normali rimedi possessori e petitori [20], a meno che egli, a fronte della compromissione del terreno causata dalla realizzazione dell’opera, non preferisse chiedere il risarcimento del danno, da apprezzarsi come rinuncia abdicativa implicita della proprietà.

Inoltre, il danno andava integralmente risarcito [21] e in ordine al relativo diritto non correva la prescrizione, permanendo in capo al privato la proprietà [22].

Non è il caso in questa sede di analizzare i fattori che hanno determinato la costruzione giurisprudenziale (un “groviglio” –come è stato detto [23]- di scelte del legislatore, prassi delle amministrazioni, atteggiamenti culturali e interpretativi dei giudici) né il suo fondamento o le reazioni che essa ha suscitato [24]. Merita peraltro un accenno, perché essa costituisce uno dei fattori che hanno spinto gli estensori del Tu a prevedere la norma dell’art. 43, la pronuncia Carbonara e Ventura c. Italia (30 maggio/30 agosto 2000 [25]) della Corte europea dei diritti dell’uomo. In essa la Corte ritenne che l’istituto dell’occupazione acquisitiva si ponesse in contrasto con l’art. 1, Protocollo n. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rilevando la violazione sotto vari profili del principio di legalità menzionato nella disposizione: perché l’applicazione ricevuta dall’orientamento della Cassazione e la sua non vincolatività non rispondevano ai canoni di «accessibilità, precisione e prevedibilità» richiesti alle norme del diritto interno dal principio; perché l’istituto permetteva «in maniera generale» all’amministrazione di trarre beneficio da una situazione illegale; perché, infine, la riparazione per la privazione della proprietà non era automaticamente corrisposta dall’amministrazione, ma andava richiesta dall’interessato entro cinque anni.

E’ opportuno altresì accennare al tema del risarcimento del danno, tema che rappresenta un punto centrale nella valutazione dell’istituto. Come si è detto, nella posizione giurisprudenziale, a fronte dell’effetto estintivo-acquisitivo, si poneva il diritto al risarcimento del danno, nella misura del valore venale del fondo.

Tale principio fu messo in discussione dal legislatore con l’art. 1, comma 65, della l. 549 del 1995 (sostitutivo dell’art. 5-bis, comma 6, del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. nella l. 8 agosto 1992, n. 359), che, nell’introdurre un nuovo criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, operò un’equiparazione nel quantum fra risarcimento per occupazione acquisitiva e indennità di esproprio. L’equiparazione ad una fattispecie legittima di una illegittima fu portata al giudizio della Corte costituzionale, che, con la pronuncia 369 del 1996, ritenne non conforme a Costituzione la disposizione denunciata, sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, della garanzia della proprietà e del buon andamento dell’amministrazione. Peraltro la Corte negò che sussistesse una copertura costituzionale al criterio dell’integralità del risarcimento del danno, potendo il legislatore apporvi limitazioni sulla base di un equo contemperamento degli interessi in gioco.

L’indicazione fu prontamente colta dal legislatore, che, con l’art. 3, comma 65, della l. n. 662 del 1996, aggiunse all’art. 5-bis il comma 7-bis, secondo il quale «in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i criteri di determinazione dell’indennità di cui al comma 1, con l’esclusione della riduzione del 40 per cento. In tale caso l’importo è altresì aumentato del 10 per cento». Ciò significava in buona sostanza l’applicazione dei medesimi criteri previsti per la determinazione dell’indennità di esproprio nel caso di cessione volontaria, con il solo incremento del 10 per cento.

Con la sentenza 30 aprile 1999, n. 148, la Corte costituzionale, nuovamente chiamata a pronunciarsi, giudicò «non irrisorio né meramente apparente» l’incremento previsto dalla disposizione e pertanto ritenne che fosse stato realizzato il contemperamento degli interessi richiesto dalla pronuncia 369. Peraltro la Corte tenne anche conto, nel valutare la disposizione, del suo carattere limitato nel tempo e “congiunturale” (per il nesso con le esigenze della finanza pubblica).

Da parte sua, il giudice civile ritenne che l’art. 5-bis, comma 7-bis, si applicasse solo in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità valida, negando pertanto che esso potesse valere per i casi di occupazione usurpativa, per i quali il risarcimento del danno andava ragguagliato al valore dell’immobile [26].

5. E veniamo all’analisi dell’art. 43 del Tu. Come accennato, la sua previsione è stata dettata «al fine di adeguare l’ordinamento italiano alla Convezione europea dei diritti dell’uomo». Viene introdotto così «nel sistema un istituto che consente all’amministrazione di acquisire, mediante un titolo giuridico, l’opera pubblica in un primo tempo realizzata in assenza del valido criterio di esproprio: l’illecito aquiliano (che si ha nel caso di occupazione senza titolo) viene meno al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione».

I passi, tratti dal parere dell’Adunanza generale 29 marzo 2001 [27], ben compendiano la ratio e il carattere fondamentale dell’istituto previsto dall’art. 43. All’occupazione acquisitiva e a quella usurpativa, entrambe costruite dalla giurisprudenza come fatti estintivo-costitutivi della proprietà, subentra un atto, l’acquisizione provvedimentale [28], previsto dal legislatore, emesso dalla p.a., che produce il trasferimento del titolo proprietario.

Nella sistematica originaria del Tu l’acquisizione provvedimentale si presentava come istituto «di chiusura», perché destinato ad operare quando il decreto di esproprio mancasse o fosse giuridicamente invalido, parallelo a tale atto, giacché al pari di questo volto a determinare l’estinzione del diritto del proprietario per scopi di pubblico interesse, ed eccezionale, perché la eliminazione dell’occupazione preordinata all’esproprio ne limitava presumibilmente i casi di possibile impiego. Quest’ultimo carattere è però venuto meno con la (re)introduzione di tale istituto nell’art. 22-bis ad opera del d.lgs. 302 del 2002.

Fin qui i tratti generali. Per quelli più specifici, vengono in rilievo anzitutto i presupposti che sono tre. Il primo è costituito dall’assenza di un «valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità» (comma 1). Peraltro il comma 2, lett. a), prevede che l’atto di acquisizione possa essere emanato «anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio». Sembrerebbe potersi concludere che la mancanza o l’annullamento del decreto di esproprio, oppure dell’atto di apposizione del vincolo o di quello da cui consegue la dichiarazione di pubblica utilità integri il presupposto. Gli altri due sono rappresentati dall’«utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico» e dalla «modifica» del bene, espressione questa probabilmente meno pregnante della «trasformazione irreversibile» di cui parlava la giurisprudenza.

Quanto alla portata, l’istituto può trovare applicazione non solo per il diritto di proprietà, ma anche per quello di servitù (comma 5).

Il provvedimento di acquisizione ha carattere discrezionale («l’autorità … può disporre») ed è il risultato di una ponderazione («valutati gli interessi in conflitto») fra l’interesse pubblico connesso all’utilizzazione del bene e quello del proprietario (comma 1). Di tale ponderazione va dato atto, ex art. 3 della l. 241 del 1990, nella motivazione, nella quale devono altresì risultare le circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione del fondo e la data dalla quale essa si è verificata (comma 2, lett. b)).

Inoltre, il provvedimento, che va notificato al proprietario nelle forme degli atti processuali civili, deve determinare la misura del risarcimento del danno e disporne il pagamento entro il termine di trenta giorni (comma 2, lett. c)).

Circa il suo procedimento formativo, l’art. 43 non fa cenno a forme di partecipazione dell’interessato, ma non è da ritenersi esclusa l’applicazione degli artt. 7 ss. della l. 241 del 1990.

Accanto all’ipotesi fin qui illustrata del provvedimento discrezionale di acquisizione, l’art. 43, comma 3, prevede che quando sia impugnato uno degli atti «indicati nei commi 1 e 2» oppure sia esercitata l’azione volta alla restituzione del bene, l’amministrazione che «ne ha interesse o chi utilizza il bene» possa richiedere al giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, la «condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo».

La disposizione non è di agevole lettura, ma sembra prevedere una domanda riconvenzionale quando il proprietario impugni il decreto di esproprio oppure l’atto di apposizione del vincolo, o quello da cui è derivata la dichiarazione di pubblica utilità o finanche il provvedimento di acquisizione oppure, in assenza di detti atti, quando chieda unicamente la restituzione del bene indebitamente utilizzato. La domanda riconvenzionale, da valere in caso di fondatezza dell’azione proposta, può essere presentata dall’amministrazione interessata o da chi utilizza il bene ed è rivolta al conseguimento di una pronuncia che escluda la restituzione del bene senza limiti di tempo sia pure a fronte della condanna al risarcimento del danno.

Per rendere coerente tali previsioni con quelle dei precedenti commi è da pensare che spetti al giudice amministrativo (presumibilmente si tratta di un caso di giurisdizione esclusiva estesa al merito) controllare la correttezza della ponderazione operata dalla p.a. o, se ad avanzare la domanda riconvenzionale sia stato un privato utilizzatore del bene, compiere egli stesso quella ponderazione, non compiuta o non compiuta validamente dall’amministrazione. E analogamente dovrebbe dirsi per il risarcimento del danno.

L’«esclusione della restituzione senza limiti di tempo» non comporta il trasferimento della proprietà. Anche per questo aspetto, per portare a coerenza complessiva la previsione, è da pensare che dopo la pronuncia del giudice amministrativo non residuino margini di apprezzamento per l’amministrazione e che quindi essa sia tenuta ad emettere l’atto di acquisizione, atto di carattere vincolato e come tale esposto all’applicazione degli ordinari meccanismi di tutela giurisdizionale, fino alla nomina di un commissario ad acta in sede di giudizio di ottemperanza.

Punto centrale dell’istituto è la misura del risarcimento del danno, disciplinata a regime dall’art. 43, comma 6, e in via transitoria, con riferimento quindi ai casi di occupazione acquisitiva, dall’art. 55.

Il comma 6 dell’art. 43 prevede che, «salvi i casi in cui la legge altrimenti disponga» il risarcimento del danno sia determinato nella «misura corrispondente al valore del bene utilizzato» e, qualora trattasi di terreno edificabile, «sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7», con l’aggiunta degli interessi moratori «a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo». Dunque il risarcimento è determinato fondamentalmente con riguardo al valore del bene, valutato –come suggerisce di ritenere la disciplina degli interessi moratori- al momento in cui il fondo è stato occupato sine titolo, con l’aggiunta degli interessi moratori aventi analoga decorrenza.

Da sottolinearsi è la salvezza di una diversa previsione di legge, che un pensiero malevolo potrebbe intendere come un tacito invito al legislatore.

La prescrizione dell’azione risarcitoria, sottoposta al termine quinquennale, decorre presumibilmente dalla data del provvedimento di acquisizione, provvedimento al quale, nella disciplina dell’art. 43, è collegato il risarcimento del danno.

Come norma transitoria l’art. 55, comma 1, prevede che «nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, ai fini della determinazione del risarcimento del danno si applicano i criteri previsti dall’art. 37, comma 1, con esclusione della riduzione del quaranta per cento e con l’incremento dell’importo nella misura del dieci per cento».

La norma, che trova applicazione «anche nei giudizi pendenti alla data del 1° gennaio 1997» (art. 55, comma 2), ricalca quella già considerata dall’art. 5-bis, comma 7-bis, del d.l. n. 333 del 1992. Peraltro se ne distacca perché considera i casi di utilizzazione soltanto dei suoli edificabili. Il suo campo di operatività –tenuto conto che il d.lgs. 302 del 2002 ha fatto venir meno le parole «o dichiarativo della pubblica utilità» che nel testo originario seguivano quelle «provvedimento di esproprio» e considerata altresì l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui la disposizione del comma 7-bis non valeva per le occupazioni usurpative- va circoscritta ai soli casi di occupazione accompagnata da valida dichiarazione di pubblica utilità, e non anche di occupazione sine titolo ab initio (benché, a rigore, anche la mancanza o l’annullamento dell’atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità sarebbe in grado di determinare l’invalidità del decreto di esproprio) .

Per concludere, si può affermare che con l’art. 43 il legislatore ha certamente “legalizzato” l’espropriazione sostanziale. In una visione “realistica” del fenomeno fattuale sotteso sembra però doversi osservare che il disvalore per gli abusi della p.a. in materia espropriativa si manifesta da parte del legislatore non attraverso l’ignoranza del fenomeno a livello di disciplina giuridica, ma con maggiore possibilità di successo mediante la leva del risarcimento del danno. Solo se questo risulti significativamente distante dalla misura dell’indennità di esproprio e se, conseguentemente, per la sua corresponsione possano venir chiamati a rispondere sul piano della responsabilità contabile gli agenti amministrativi, è possibile confidare nel tramonto dell’espropriazione sostanziale, un tempo occupazione acquisitiva o usurpativa, d’ora in avanti occupazione provvedimentale. Anche in questo settore, infatti, la responsabilità civile è in grado di dispiegare appieno la sua funzione di deterrenza [29].


 

(*) Ordinario di Diritto amministrativo nell'Università di Verona.

^ Relazione presentata al Convegno del Centro Studi di Estimo e di Economia Territoriale (Cagliari, 24 ottobre 2003).

[1] Cfr. L. Maruotti, Art. 8, in L’espropriazione per pubblica utilità, a cura di F. Caringella e A., Giuffrè, Milano 2002, 81.

[2] Cass., Sez. un., 23 aprile 2001, n. 173.

[3] Sez. Un., cit.

[4] Cfr. L. Maruotti, Art. 8, cit., 93.

[5] Cfr. F. Caringella, Art. 39, in L’espropriazione, cit., 487.

[6] Cfr., per tutti, V. Italia, G. Landi, G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2000, 540.

[7] Casi di dichiarazione ex lege furono previsti anzitutto dalla l. n. 5188 del 1879 che riformulò l’art. 9 della l. n. 2359. Va precisato che il primo caso di dichiarazione implicita fu contenuto nella stessa l. n. 2359, che agli artt. 92 e 93 la faceva discendere dall’approvazione dei piani regolatori, cfr. G. Morbidelli, voce Dichiarazione di pubblica utilità, in Dig. disc. pubbl., vol. V, Torino 1989, 59

[8] Sul punto cfr. G. De Francesca, R. Daloiso, Art. 12, in L’espropriazione per pubblica utilità nel nuovo testo unico, a cura di F. Caringella, G. De Marzo, Ipsoa, Milano 2002, 158 s. e 165 ss.

[9] Rispettivamente in tema di ferrovie e altri servizi di trasporto e in tema di nastri autostradali.

[10] Cfr. P. Loro, Il Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità, Esselibri, Napoli 2003, 38.

[11] Secondo la Cassazione in questi casi il decreto di esproprio era da ritenersi nullo, con conseguente lesione di un diritto soggettivo e competenza giurisdizionale dell’autorità giudiziaria ordinaria (cfr. Sez. Un., 22 marzo 2001, n. 4088, in Cons. Stato, 2001, II, 967, diversamente, da ultimo, Cons. St., Ad. Pl., 26 marzo 2003, n. 4, in Foro amm., 2003, 877). Le questioni di giurisdizione sono state peraltro superate dall’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e dall’art 7 della l. 21 luglio 2000, n. 205, contemplanti la giurisdizione esclusiva in materia urbanistica nella quale ricade anche la materia espropriativi (ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario relativamente alle controversie aventi ad oggetto la determinazione o la corresponsione dell’indennità di esproprio).

[12] Cfr. L. Maruotti, Art. 14, in L’espropriazione per pubblica utilità, cit., 152.

[13] Sui quali, rispettivamente, cfr. le ll. 27 ottobre 1988, n. 458; 30 dicembre 1991, n. 413, e 20 dicembre 1995, n. 539 di conversione del d.l. 20 ottobre 1995, n. 444; 28 dicembre 1995, n. 549, e 23 dicembre 1996, n. 662.

[14] Peraltro un precedente è rintracciabile in Cass, sez. I, 8 giugno 1979, n. 3243.

[15] In Foro it., 1983, I, 626.

[16] In Foro it., 1988, I, 2262.

[17] In Foro it., 1996, I, 3257.

[18] Cfr. in particolare Sez. Un., n. 3940/1988. Altri elementi erano dati dalla qualificazione dell’occupazione come fatto illecito di carattere istantaneo sia pure con effetti permanenti e dall’inizio del decorso della prescrizione del credito, fatto coincidere con la trasformazione del suolo o con la cessazione dell’occupazione d’urgenza ove l’una fosse intervenuta durante il periodo di durata dell’altra.

[19] Cfr. Cass. 16 luglio 1997, n. 1615, 26 agosto 1997, n. 7998, e Sez. Un., 4 marzo 1997, n. 1907.

[20] Peraltro la giurisprudenza, nel caso in cui la reintegrazione in forma specifica avesse recato pregiudizio all’economia nazionale, consentiva ai sensi dell’art. 2933 c.c. solo il risarcimento per equivalente, cfr. ad es. Cass. 7 aprile 2000, n. 4392.

[21] V. infra per la non applicabilità dei criteri introdotti dalla l. 626 del 1996.

[22] L’illecito, in questo caso, era considerato permanente, cfr. ad es. Sez. Un., n. 1907 del 1997.

[23] A. Gambero, voce Occupazione acquisitiva, in Enc. dir., Agg. IV, Milano 2000, 862.

[24] Anche di recente l’espropriazione sostanziale è stata qualificata come «istituto che legittima i comportamenti illeciti della P.A.», V. Carbone, Il commento, in Corr. giur., 2001, 466.

[25] In Corr. giur., 2001, 464.

[26] Cfr., ad es., Cass. nn. 1615 e 7998 del 1997.

[27] Punto 13.3.

[28] Così A. Perini, Utilizzazione senza titolo, Sez. II, par. 2, in Commentario al Testo unico dell’espropriazione per pubblica utilità, a cura di G. Sciullo, (in corso di pubblicazione) Giappichelli.

[29] Per un ordine di idee analogo cfr. A. Gambaro, voce Occupazione acquisitiva, cit., 872 s.

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