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n. 7-8/2008 - © copyright

NAZARENO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo)

Le mezze-novità giurisprudenziali e normative in materia di accesso*

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SOMMARIO: Premesse. I: 1.- La querelle diritto soggettivo-interesse legittimo dalla legge del 1990 alla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 16 del 1999. – 2. Il dissenso della giurisprudenza “minore” anche dopo la riforma del processo amministrativo del 2000. Nuovo deferimento all’Adunanza Plenaria nel 2005.- 3. Le due decisioni n. 6 e n. 7 del 2006 dell’Adunanza.- 4. Rimane irrisolto per … irrilevanza il problema della qualificazione del diritto di accesso.- 5. Il connesso problema della reiterabilità dell’istanza di accesso e della perentorietà del termine per ricorrere. Conferma e mera conferma.- II. 1. La legge fondamentale n. 241 del 1990 ed il regolamento del 1992.- 2. Le nuove disposizioni in tema di tutela giurisdizionale e amministrativa e le novelle del 2005.- 3. La previsione di un nuovo regolamento.- 4. Le “novità” introdotte dal regolamento n. 184 del 2006.- 5. Conclusioni.

 

Un istituto assai tormentato quello dell’accesso alla documentazione amministrativa sin dalla stessa iniziale previsione legislativa (quasi sedici anni or sono ormai), dal trattamento regolamentare delle sue modalità di esercizio (due anni dopo), dalle sue interconnessioni con il processo amministrativo evidenziate e rafforzate in occasione della “205”, dalla contemporanea previsione di pseudo forme di tutela anche in via amministrativa (legge di delegificazione n. 340 del 2000), per finire al riordino sistematico delle varie disposizioni che lo riguardano (legge n. 15 dello scorso 2005), ed, infine, alla riformulazione di pochi mesi or sono del regolamento di attuazione (d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184, in G.U. n. 114 del 18 maggio successivo).

Non meno accidentato il sentiero percorso dalla giurisprudenza sino alla duplice vetta della Plenaria, tra le cui tre pronunce – n. 16 del 1999 e nn. 6 e 7 del 2006 – si è inserita tutta una serie di altalenanti, ossia contraddittorie, pronunce di sezione e di t.a.r.

I

1.- Si ricorda che, a stretto tenore lessicale, non sarebbe stato giustificato alcun dubbio circa la natura giuridica del “diritto” di accesso, come tale essendo espressamente definito nel primo comma dell’art. 22, nell’art. 23, nell’art. 24, primo e secondo comma, nell’art. 25 della “241”; per tacere del regolamento di attuazione n. 352 del 1992 (nell’intestazione, negli artt. 1-3, 5, 9, 10 - secondo e terzo comma – e 11), nonché nel D.M. 26 ottobre 1994. n. 682 e nell’art. 4 della legge n. 265 del 1999. Vanno ricordati a parte i precedenti di cui all’art. 25 della legge n. 816 del 1985 (“diritto di visione degli atti”) e dell’art. 7 della legge n. 142 del 1990 (peraltro, non abrogato dalla di poco successiva “241”[1]) : le … dimensioni di questo “diritto” erano state, anche demagogicamente, esaltate dalla predisposizione di uno strumentario garantistico, sia a livello organizzativo (si pensi alla speciale Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi istituita dall’art. 27 della legge n. 241), sia alle modalità di esercizio, semplificate al massimo della … informalità e dell’immediatezza, sia ancora per un consegno di tutela giudiziale estremamente semplificato ed accelerato (almeno nelle intenzioni).

Tuttavia, l’applicazione pratica del nuovo istituto, non disgiunta dalla inveterata ritrosia della vecchia burocrazia, soprattutto a livello locale, a rinunziare all’abitudine di rispondere “picche” alle domande di accesso del cittadino, ma soprattutto l’instaurazione di un abbastanza diffuso contenzioso in materia con le connesse esigenze di contraddittorio anche con soggetti estranei all’amministrazione interpellata, hanno introdotto il tarlo del dubbio sulla natura giuridica del diritto in esame, sino al punto di scomodare la stessa massima autorità giurisdizionale amministrativa.

Il deferimento della risoluzione del “dubbio” all’Adunanza Plenaria era stato opera della VI sezione [2], che, come, peraltro, l’intera giurisprudenza sezionale o di t.a.r., nel qualificare o per qualificare questo speciale “diritto” aveva preso le mosse da rilevazioni e considerazioni connesse proprio alla tutela giurisdizionale allo stesso accordata, a partire dalle esigenze di contraddittorio legate alla presenza in taluni casi di terzi controinteressati in senso tecnico, alla natura decadenziale del termine per ricorrere, alle caratteristiche di processo di tipo impugnatorio proprie del giudizio sull’accesso, alla natura esclusiva della giurisdizione del t.a.r., ecc.

Ricordiamo che si era ancora alla vigilia, inconsapevole peraltro, della novella del 2000, ammesso e non concesso, considerati gli eventi giurisprudenziali successivi, che la “205”, con il suo innovativo art. 1, abbia costituito un riferimento di certezza, prevedendo l’onere della notifica del ricorso in materia di accesso ai controinteressati; il che avrebbe dovuto far propendere i definitori del “diritto” in esame verso l’interesse legittimo.

Ma si era già acquisita la presenza di un possibile “terzo”, essendo già da tempo entrata in vigore la legge n. 675 del 1996, che nel rapporto, considerato sin qui bilaterale, accedente-amministrazione aveva inserito una posizione soggettiva esattamente qualificata di rango almeno uguale a quella del richiedente, che portava ad una sorta di trilateralità non propriamente compatibile con gli schemi concettuali e giuridici tipici del diritto soggettivo.

Rimaneva, tuttavia, il dubbio, legato doppiamente, da un lato, all’enfasi essenzialmente demagogica che ha sempre accompagnato l’istituto in esame dal suo stesso riconoscimento, dall’altro al relativo lessico normativo.

Sotto il profilo della tutela giurisdizionale, in mancanza di disposizioni al riguardo, si affermava, come sopra accennato, la natura di giurisdizione esclusiva del giudizio ex art. 25 legge n. 241, quale naturale conseguenza della preconcetta e testuale accezione di diritto soggettivo del potere in parola, quando, invece, noi si diceva [3] che i casi di giurisdizione esclusiva, in quanto in deroga alla regola della unicità della giurisdizione, dovrebbero trovare espresso fondamento in una norma di legge che espressamente li preveda come tali sottraendoli al giudice naturale dei diritti soggettivi. Altrimenti anche questo contenzioso andava lasciato al giudice ordinario, mentre la “241”, attribuendone la cognizione al t.a.r., sarebbe andata contro lo stesso precetto costituzionale dell’art. 103. Adesso, poi, dopo la nota pronuncia costituzionale n. 204 di due anni or sono, questo criterio mi pare risulti rafforzato.

Come corollario di quella concezione, peraltro maggioritaria, si aveva la contestazione della natura di giudizio impugnatorio in favore del giudizio di mero accertamento con condanna ad un facere e la conseguente irrilevanza della mancata notificazione del ricorso ai controinteressati, trovando applicazione il disposto dell’art. 102 c.p.c. e quindi la possibilità della integrazione del contraddittorio in luogo della inammissibilità del ricorso [4].

Si era altresì dedotto dall’asserita caratterizzazione esclusiva della giurisdizione che “la mancata impugnazione del diniego nel termine di decadenza non osta alla possibilità di far valere il diritto di accesso nel termine di prescrizione a fronte di un nuovo provvedimento negativo, indipendentemente dal fatto che sia o meno quest’ultimo meramente confermativo” [5] (affermazione sulla quale si tornerà appresso).

Opportuna, quindi, la rimessione alla Plenaria. E questa [6], senza lasciarsi fuorviare da argomenti di tipo testuale (si parla di “enfasi” del legislatore), ha ritenuto che il termine “diritto” sia stato più volte adoperato ma nel suo senso più generico e atecnico, ha riaffermato la natura di giudizio di tipo impugnatorio contro un provvedimento amministrativo autoritativo (o l’inerzia), il carattere decadenziale del termine per ricorrere, la soggezione del giudizio in parola alle normali regole del processo amministrativo, quindi l’inammissibilità del ricorso non notificato ai controinteressati. Sotto quest’ultimo profilo, non si può parlare, aggiunge la decisione, di questioni su diritti soggettivi contrapposti nel caso di confliggenza tra la pretesa dell’accedente ed il diritto alla privacy del titolare dei dati riservati; bensì di interessi legittimi contrapposti: “la posizione di diritto o interesse va determinata tendendo conto della incidenza che ha il provvedimento lesivo, e non comparando le contrapposte posizioni dei soggetti che, rispettivamente, siano lesi o favoriti dall’atto medesimo. Inoltre, nella materia dell’accesso le controversie vanno decise tenendo conto delle varie posizioni coinvolte e sulla base di giudizi di prevalenza”. A fronte dell’interesse del soggetto leso dal provvedimento negativo dell’amministrazione interpellata e della sua legittimazione a ricorrere si ha l’interesse del soggetto che sarebbe leso se il provvedimento fosse di segno positivo e che ha, quindi, piena legittimazione a resistere al ricorso dell’accedente, l’accoglimento del quale potrebbe danneggiarlo; il che val quanto dire che è controinteressato in senso proprio.

Aggiungerei che, al di là della legittimazione a ricorrere al t.a.r., legislativamente riconosciuta all’accedente avverso tutti i provvedimenti negativi, limitativi o elusivi del suo diritto di accesso, anche al soggetto titolare dei dati riservati, ai quali sia stato chiesto l’accesso, va riconosciuto il diritto di opporsi alla richiesta; in una prima fase, in sede propriamente amministrativa, replicando alla comunicazione di avvertimento inviatagli dall’amministrazione interpellata e negando l’autorizzazione all’ammissione all’accesso richiesto; quindi, mediante la proposizione di un ricorso allo stesso t.a.r. per impugnare l’eventuale provvedimento ammissivo emesso in dispregio del suo diniego di autorizzazione. In tal caso, a parti rovesciate, la legittimazione passiva come controinteressato spetta all’accedente. E sarebbe assai singolare che, a fronte di questa legittimazione a ricorrere, spettante al titolare dei dati personali riservati ma illegittimamente divulgati a terzi, non spetti allo stesso soggetto il diritto di prevenire tale divulgazione resistendo in giudizio al ricorso proposto dall’accedente abusivo. Né potrebbe negarglisi la legittimazione ad impugnare la sentenza di t.a.r. che abbia accolto il ricorso di quest’ultimo. E non soltanto ove sia stato parte nel giudizio di primo grado come controinteressato, ma anche quando ne sia stato pretermesso: a parte le note questioni circa la concorrenza della facoltà di appello con la legittimazione a proporre opposizione di terzo[7], viene spontaneo dire: più “parte” di così…

2.- La Plenaria n. 16 del 1999 venne subito accolta con un sospiro di sollievo: finalmente un definitivo chiarimento che mettesse a tacere le querelles su quello che sembrava essere il problema del sesso degli angeli.

Invece … Invece, già all’indomani si sono avute - non tanto o non soltanto in dottrina [8], sede naturale, almeno quella accademica se non quella “giudiziaria”, deputata alle dispute anche solo di tipo bizantino – ma nella stessa giurisprudenza amministrativa, lesta a smentire e dissentire anche a fronte di così autorevole presa di posizione; a partire dai t.a.r. [9], che pur avrebbero dovuto, nel rispetto dei ruoli e pur rivendicando ogni forma di autonomia di giudizio[10], tenerla in debita considerazione, salvo discostarsene, ma solo a costo di addurre solidi argomenti dissentivi, non solamente affermazioni essenzialmente apodittiche quale l’asserzione pura e semplice che il diritto di accesso, “nell’impianto normativo di cui alle leggi nn. 241 e 142 ed al regolamento [del 1992] si configura come autonomo diritto soggettivo all’informazione non soggetto, in quanto tale, a termini di decadenza […] che può essere esercitato sia nel corso del procedimento, in via strumentale rispetto alla partecipazione al procedimento, sia a procedimento concluso, in maniera indipendente rispetto alla sussistenza di un interesse ad impugnare atti in sede giurisdizionale” [11]; ovvero che, “ai sensi dell’art. 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241, l’accesso ai documenti amministrativi si configura come un diritto soggettivo perfetto, la cui cognizione in sede contenziosa è devoluta alla giurisdizione esclusiva del G.A. secondo le regole del giudizio di accertamento proprio dei diritti soggettivi”[12]. Autentiche apodissi, ma non nel senso filosofico primigenio del termine di aristotelica derivazione, bensì in quello più corrente e attuale di veri e propri asserti non dimostrati, ma anzi espressi come tipici apoftegmi cui ciecamente credere, una volta che è proprio la legge n. 241 a lasciare insoluto il problema. Come lo stesso discorso sulla giurisdizione esclusiva spettante al giudice amministrativo, quando, invece di qualificare come tale la giurisdizione in materia di accesso solo sulla base dell’affermazione che si tratti di materia di diritto soggettivo, si potrebbe, ugualmente, capovolgere il tutto e ricavare la natura di diritto soggettivo della pretesa accessiva dal carattere esclusivo della giurisdizione [13].

Interviene, a questo punto, la legge di riforma del processo amministrativo del 2000, la quale dettava norme che si pensava avrebbero definito per sempre la questione, quale quella di cui al rinnovato ed integrato art. 21 legge t.a.r., il cui primo comma prevedeva[14] espressamente la “previa notifica all’amministrazione ed ai controinteressati” del ricorso in materia di accesso proposto in pendenza di altro giudizio, che, ribadendo la trilateralità del rapporto accedente-amministrazione-terzo e, connessa all’onere della notifica, l’inammissibilità del ricorso in caso di difetto della stessa, con la conferma del carattere decadenziale del termine, non porta certamente acqua al mulino della tesi avversata dalla Plenaria dell’anno prima.

Ma anche dopo la “205” continua il dissenso della giurisprudenza minore (absit iniuria verbis), pressoché unanimemente ferma nella riaffermazione della natura di diritto soggettivo del potere di accesso.

In ordine cronologico, lo stesso Consiglio di Stato, mentre, apparentemente sotto l’influsso della novella del 2000, aveva con un sol colpo mostrato di avere risolto ogni problema circa la qualificazione del diritto di accesso come interesse legittimo (con l’aggiuntiva aggettivazione “pretensivo”), la “conseguente” natura impugnatoria del giudizio di t.a.r., “il cui oggetto è costituito dal provvedimento espresso o tacito di rifiuto, da impugnarsi nel termine perentorio di giorni trenta, previa notificazione agli eventuali controinteressati a pena di inammissibilità[15], poco dopo[16] si rimangia tutto quanto, parlando assertivamente di “diritto soggettivo perfetto”, come tale “esercitabile da chiunque vi abbia interesse, indipendentemente dalla fondatezza della domanda astrattamente proponibile, dinanzi al T.a.r., all’esito della documentazione richiesta”.

Conformemente, sempre lo stesso Consiglio, anche negli anni immediatamente successivi, è per la natura di diritto soggettivo “in quanto la legge ne disciplina minutamente l’attribuzione e l’esercizio e perché non è correlato all’esistenza di un potere amministrativo, potendo trovare un limite solo in specifiche e tassative esigenze di riservatezza” [17]. Ma altra sezione [18], contemporaneamente, richiamando ed applicando una regola generale del processo amministrativo, al di là della “atecnicità” del termine usato dal legislatore del 1990, ritiene “ravvisabile la posizione di interesse legittimo quando il provvedimento amministrativo è impugnabile, come nel caso del ‘diritto’ di accesso, entro un termine perentorio”.

L’altalena dondola sino al 2005, quando, sempre il Consiglio di Stato [19], prende in un primo momento aperta posizione contro la pronuncia della Plenaria: quasi un braccio di ferro, una sfida basata sul … numero: “Sebbene l'adunanza plenaria ritenga il ricorso previsto dall'art. 25, L. n. 241 del 1990, in materia d'accesso fondato su posizioni di interesse legittimo con il conseguente onere di notifica al controinteressato (ai sensi dell'art. 21 comma 1, 1. TAR), un cospicuo orientamento giurisprudenziale ha al contrario rilevato che il medesimo ricorso si basi su una posizione sostanziale avente natura di diritto soggettivo, con le conseguenti implicazioni processuali; donde va senz'altro concesso il beneficio dell'errore scusabile a chi abbia proposto il ricorso, impostando il processo come se si chiedesse la tutela di un diritto soggettivo: non possono andare in danno delle parti le oscillazioni della giurisprudenza in ordine all'effettiva portata delle regole processuali sull'ammissibilità del ricorso”. Suscita sorpresa che.si stigmatizzi l’oscillazione della giurisprudenza in materia a fronte di un’espressa pronuncia della Plenaria, che dovrebbe istituzionalmente servire da guida e da deterrente proprio per evitare queste oscillazioni[20] e che invece viene bellamente contestata..

In un secondo momento, però, e si arriva così all’autunno 2005, un elementare bisogno di certezza - proprio a tutela del cittadino perplesso circa modi e tempi per la tutela dei propri interessi e coinvolto in dispute bizantine cinicamente ignare di questi ultimi – induce la IV e la VI sezione[21] a riconsiderare la questione dopo avere rilevato la “perduranza di contrasti giurisprudenziali sulla qualificazione del diritto di accesso anche in epoca successiva alla decisione dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 24 giugno 1999, n. 16”.

In proiezione verso un nuovo deferimento alla Plenaria, che sarebbe stato ultroneo … a bocce ferme, viene giustamente addotta, come fatto nuovo giustificativo della decisione che si andava a prendere, “l’influenza della normativa sopravvenuta” di cui alla L. 11 febbraio 2005, n. 15 ed alla L. 14 maggio 2005, n. 80: dapprima, con la qualificazione del diritto di accesso come inerente “ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (nuovo comma 2 dell’art. 22 della novellata “241”); quindi, con l’espressa qualificazione come esclusiva della giurisdizione spettante in materia al giudice amministrativo (nuovo comma 5 dell’art. 25 della stessa legge).

La sezione IV non manca, tuttavia, di confessare la propria propensione verso la qualificazione del diritto di accesso in termini di diritto soggettivo. Anzi, a ben guardare, non sembra avere dubbi al riguardo, tant’è che riferisce che “secondo la giurisprudenza di questo Consiglio” (ma anche l’Adunanza Plenaria è Consiglio di Stato, eccome!) “il diritto di accesso ai documenti amministrativi si configura come un diritto soggettivo”.

Ciò che ingenera qualche dubbio è solo una questione, se non marginale sicuramente secondaria (non di importanza, ma d’ordine logico): la compatibilità di questa (per le Sezioni, pacifica) qualificazione in termini di diritto soggettivo del diritto di accesso con la natura decadenziale del termine per ricorrere e quindi con la possibilità di rinnovare l’istanza di accesso ed eventualmente riattivare la tutela giurisdizionale [22]: “le eventuali determinazioni negative, anche se divenute inoppugnabili per decorso del termine previsto dall’art. 25 comma 3 della legge n. 241 del 1990, non fanno venire meno, sul piano sostanziale, la posizione giuridica dell’interessato all’accesso, potendo questi rinnovare l’istanza”. In pratica, una reiterazione all’infinito, con il solito limite del termine prescrizionale.

Ma questo alle Sezioni rimettenti non appare compatibile con la ratio del termine decadenziale, in parola, in quanto ispirato all’esigenza di conferire certezza all’azione amministrativa e stabilità all’assetto da questa sancito in ordine alla spettanza dell’accesso: “il fine legislativamente perseguito sarebbe eluso dalla permanente possibilità di rieccitare l’esercizio dell’attività amministrativa non debitamente stigmatizzata”, ritenendo riferibile la decadenza connessa al mancato rispetto del termine di legge alla singola determinazione negativa dell’autorità, con la possibilità di impugnare ogni ulteriore pronuncia di diniego emessa da quest’ultima: una “distonia con il principio di economicità dell’azione amministrativa nella misura in cui si consente, a fronte di una vicenda sostanziale unitaria, una pluralità di procedimenti culminanti in provvedimenti ognuno dei quali impugnabile, a prescindere dalla rituale contestazione delle precedenti determinazioni”[23]. Circa l’incontestabile previsione normativa di un termine perentorio per ricorrere, si conclude nel senso che la relativa sanzione decadenziale “dovrebbe avere a oggetto non il singolo provvedimento ma la decisione sostanziale assunta; con l’effetto di rendere inoppugnabili atti successivi, che rimandino a detta decisione senza apportare nuovi elementi valutativi, o comunque la precedente determinazione sull’accesso se non impugnata tempestivamente”.

Conclusivamente, sembra che alle Sezioni interessi solamente quest’ultimo profilo consequenziale rispetto alla acquisita e scontata qualificazione del diritto di accesso in termini di diritto soggettivo.

3.- Ma l’Adunanza [24] non si ferma a questa limitata prospettazione e, almeno nelle intenzioni iniziali, pensa di potere, una volta per tutte, percorrere tutti i 360 gradi della problematica.

Dà preliminarmente atto della convinta premessa circa la configurabilità in termini di diritto soggettivo del diritto di accesso secondo le Sezioni rimettenti, per poi precisare, come sopra detto, l’oggetto specifico del quesito rimessole: se il provvedimento di diniego deve essere impugnato, come dispone la legge, entro un ben preciso termine, avente pertanto natura decadenziale, la conseguenza sarebbe che “dalla mancata impugnazione discende l’inammissibilità del gravame proposto contro il successivo diniego, meramente confermativo del primo”.

L’Adunanza ripercorre, quindi, il decorso contraddittorio della giurisprudenza dopo la pronuncia del 1999 e ne riprospetta gli elementi problematici, anche alla luce delle recenti riforme, così come del resto si è sopra riferito parlando dell’ordinanza di rimessione.

Sorprendentemente, però, a questo punto, l’Adunanza - forse perché si sentiva chiamata pur sempre (anche) a decidere un giudizio di merito e quindi su una fattispecie concreta (quella dapprima sottoposta all’esame rispettivamente dei t.a.r. bresciano e romano e delle Sezioni di appello rimettenti) - deludendo ogni aspettativa di tanto attesa definitiva chiarezza, esclude che “nella specie, rivesta utilità ai fini della identificazione della disciplina applicabile al giudizio avverso le determinazioni concernenti l’accesso, prendere posizione in ordine alla natura della posizione soggettiva coinvolta”; lasciando, quindi irrisolto il quesito, in verità non espressamente formulato nell’ordinanza di rimessione, se il diritto di accesso sia carne o pesce, imboccando una via traversa che, anticipiamo, perviene alla conclusione che a volte si tratta di carne a volte (buono per l’astinenza del venerdì) di pesce.

Tra i vari “ambiti soggettivi normativamente riconosciuti di interessi giuridicamente rilevanti, anche in contrapposizione tra di loro”, creatisi nell’ordinamento (anche comunitario) nel generale contesto del diritto alla conoscenza ed all’informazione nei rapporti con la pubblica amministrazione, trovano posto l’interesse all’accesso, quello alla riservatezza, quello al segreto. Situazioni soggettive, opina l’Adunanza, che “più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscersi, ormai, non solo ai diritti soggettivi, ma anche agli interessi legittimi), risultano caratterizzate per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritti o interessi)”.

Per continuare nella banale metafora “alimentare” di cui sopra, si tratterebbe non tanto della materia commestibile, quanto piuttosto della … posata adatta per mangiarla (coltello per la carne e coltello per il pesce, insomma): diritto di accesso come strumento, non diritto in sé, valido per se stesso, ma funzionale in quanto rivolto a consentire di verificare ed eventualmente azionare il contenuto, la consistenza della situazione sostanziale di cui l’accedente è titolare, riservando a questa ultima la necessità e la rilevanza giuridica di una distinzione fra diritto soggettivo ed interesse legittimo.

4.- Irrisolto il problema qualificativo del diritto di accesso, ovvero, formulato, quasi si fosse alla Consulta, un giudizio di irrilevanza e quindi accantonato il primo problema, l’Adunanza, con le decisioni nn. 6 e 7, ha affrontato un profilo, ovviamente pertinente al diritto di accesso, ritenuto risolvibile anche senza prendere posizione sul problema di fondo: la compatibilità della previsione normativa di un termine perentorio entro il quale proporre il ricorso in materia di accesso e, quindi, ove il diritto di accesso avesse eventualmente la consistenza di diritto soggettivo, la proponibilità di reiterate impugnative avverso successive determinazioni negative dell’autorità interpellata nel rispetto del generale limite temporale della prescrizione dei diritti.

Ed il problema viene risolto in linea con la qualificazione neutra che viene data al diritto di accesso in entrambe le sue possibili accezioni, avendolo assunto non come posizione soggettiva autonoma fine a se stessa ma come potere procedimentale da esercitare in funzione strumentale, ed alla natura del termine per ricorrere di cui all’art. 25 della “241”, “da ritenere necessariamente posto a pena di decadenza”, e rimasto immutato pur dopo le numerose modifiche ed integrazioni apportate al suo testo originario del 1990, “ a meno di non volerne sostenere l’assoluta irrilevanza, pur a fronte del chiaro tenore della norma e della sua coerenza con la rilevata esigenza di certezza che ha anzi indotto il legislatore a delineare un giudizio abbreviato che mal si concilierebbe con la proponibilità dell’azione nell’ordinario termine di prescrizione” (dec. n. 6).

Si ha così che questo carattere essenzialmente strumentale “si riflette inevitabilmente sulla relativa azione, con la quale la tutela della posizione soggettiva è assicurata. In altre parole, la natura strumentale della posizione soggettiva riconosciuta e tutelata dall’ordinamento caratterizza marcatamente la strumentalità dell’azione correlata e concentra l’attenzione del legislatore, e quindi dell’interprete, sul regime giuridico concretamente riferibile all’azione, al fine di assicurare, al tempo stesso, la tutela dell’interesse ma anche la certezza dei rapporti amministrativi e delle posizioni giuridiche di terzi controinteressati”[25]; “il giudizio a struttura impugnatoria” (la vecchia tesi del giudizio di accertamento viene messa da parte) “consente alla tutela giurisdizionale dell’accesso di assicurare la protezione dell’interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell’esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati che si è visto essere pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa”[26]; ne deriva, “secondo ricevuti principi, come inevitabile corollario, che la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo” [27].

5.- Ridimensionate, quindi, per non dire deluse, le aspettative di quanti chiedevano che, finalmente dopo sette anni, si chiudesse questa storia infinita, nonché il rilievo oggettivo delle due decisioni della Plenaria, chiaramente intesa a non abiurare la tesi del 1999, ma anche a non cedere definitivamente alla fronda interna dei dissenzienti, l’enunciato di ordine generale espresso dall’Adunanza si è ridotto a poca cosa.

Nessuna particolare importanza è, infatti, da assegnare all’affermazione della natura perentoria, quindi decadenziale (o viceversa), del termine per ricorrere contro le determinazioni negative o elusive adottate dall’amministrazione interpellata, dato che in realtà neppure i frondisti del diritto soggettivo (nelle stesse ordinanze di deferimento all’Adunanza) negavano siffatta natura, essendosi avuta solo la prospettazione del problema della compatibilità della stessa con il diritto di accesso come diritto pieno.

La questione unica ed ultima da risolvere (ma veramente l’ultima, come importanza) era quella della reiterabilità della domanda di accesso o, meglio, della reiterabilità dell’impugnazione dopo l’esito negativo della prima domanda di accesso e la mancata impugnazione in termini del relativo provvedimento o dopo l’esito negativo dello speciale ricorso ex art. 25. Un problema da risolvere e concretamente risolto in quattro e quattr’otto con la pura e semplice rilettura dei principi generali in materia di consolidazione di fronte ad atti “meramente” (l’avverbio, come noto, è d’obbligo) confermativi.

Si ha così che se non viene rispettato il termine per impugnare una determinazione negativa o elusiva sulla domanda di accesso o se il ricorso viene proposto ma viene anche rigettato, l’accedente può utilmente reiterare la domanda di accesso ed ammissibilmente impugnare la nuova determinazione anch’essa sfavorevole solo se la domanda stessa e/o la determinazione stessa contengano un quid novi che escluda che l’una e/o l’altra siano fedeli e chiare fotocopie di quelle precedenti, anche al di là di eventuali parafrasi del testo.

Si tratta qui solamente di rinvenire gli estremi necessari perché la nuova domanda di accesso ed il nuovo provvedimento siano veramente “nuovi”, per una qualsiasi delle tante ragioni già individuate - pressoché concordemente[28] - da dottrina e giurisprudenza.

Non pare, a questo, punto di dover ulteriormente immorare sul punto, dato che la problematica più varia in materia di “confermatività” o di “mera confermatività” risulta già approfonditamente esplorata da altri di recente, con la conclusione che “l’ipotesi dell’atto meramente confermativo dovrebbe restare fuori da qualsivoglia sindacato giurisdizionale” [29].

Sulla falsariga della rassegna dottrinale e giurisprudenziale sopra indicata, si può solamente concludere, con specifico riguardo al diritto di accesso, che, ferma restando la natura perentorio-decadenziale del termine per ricorrere ex art. 25 L. n. 241 del 1990, l’effetto preclusivo derivante dalla violazione o dalla consumazione del predetto termine colpisce la singola determinazione negativa od elusiva sulla domanda di accesso, non impedendo per ciò stesso la riproponibilità del ricorso, ossia dell’impugnazione di una nuova determinazione amministrativa che venga emanata sua sponte dopo una nuova valutazione o con una nuova motivazione, magari a seguito di una domanda di accesso che presenti elementi di vera novità. Non si vede, del resto, perché, avverso un atto che per queste ragioni sia “nuovo”, non si possa proporre un “nuovo” ricorso.

Gli elementi di novità possono essere tra i più vari[30]; in materia di accesso, va tenuto presente il contenuto della domanda originaria in relazione al quale si sia avuta la determinazione sfavorevole dell’amministrazione interpellata. Se l’accedente si avvede che il rigetto della propria istanza riguarda, ad es., la non chiara legittimazione all'istanza stessa, ben potrà con una nuova istanza meglio illustrare o supportare documentalmente detta legittimazione e quindi impugnare una nuova eventuale determinazione sfavorevole dell’amministrazione; ovvero, con una nuova istanza, fornire elementi aggiuntivi idonei alla individuazione della documentazione alla quale si era chiesto di accedere; ovvero, ancora, contestare un’eventuale obiezione di riservatezza con nuovi argomenti, rigettando i quali l’amministrazione adotterebbe un provvedimento sicuramente “nuovo” e quindi impugnabile; ovvero, in caso di solo parziale ammissione all’accesso, chiedere con nuova istanza l’accesso ad una documentazione alternativa rispetto a quella originariamente richiesta in visione-copia. Ma la novità può riguardare la stessa amministrazione interpellata ove questa, che aveva opposto un diniego immotivato, adotti una nuova determinazione sfavorevole dandole un supporto motivazionale adeguato o comunque compiendo valutazioni diverse da quelle espresse nella precedente determinazione. E l’esemplificazione potrebbe ancora continuare.

In tutti questi possibili casi, nessun ostacolo alla reiterabilità dell’istanza di accesso ed alla proponibilità di nuove impugnazioni, l’effetto preclusivo nascente dalla natura decadenziale del termine per ricorrere riguardando solamente l’impugnazione di ogni singola determinazione sfavorevole dell’amministrazione interpellata, ferma restando la riapertura del termine stesso o, meglio, la decorrenza di un nuovo termine con nuovo rischio di decadenza per una nuova impugnativa da proporre avverso la nuova determinazione: purchè la “novità” sia autentica.

Teoricamente, all’infinito. Sicché vien da chiedersi (ed il cerchio si chiude e si torna all’inizio): ma è davvero irrilevante che si tratti di…carne o di pesce? E’ davvero inutile prendere posizione sulla natura del diritto di accesso; è cioè del tutto irrilevante che si tratti di diritto soggettivo o di interesse, anche ai fini della concreta tutela giurisdizionale? L’ormai dichiarata natura esclusiva della giurisdizione del giudice amministrativo discende dal fatto che il diritto di accesso ha la consistenza del diritto soggettivo, ovvero la qualificazione legislativa in questi termini (ex lege n. 80), sta a significare solamente che il giudice amministrativo se ne può occupare tanto che il diritto di accesso sia strumento-potere procedimentale a tutela di una retro-sottostante posizione soggettiva di diritto soggettivo quanto di interesse legittimo?

Per chiudere questa prima parte, non è priva di significato la circostanza che la giurisprudenza successiva alle due decisioni della Plenaria mostri di mantenere le proprie convinzioni in materia di qualificazione del diritto di accesso, tant’è che si continua a parlare [31] di interesse legittimo; e non come obiter dictum, né per la voglia di dissertare, ma come premessa necessaria al giudice amministrativo per decidere se potere correttamente esercitare il dovere-potere di disapplicazione, che non può che riguardare questioni afferenti a posizioni di diritto soggettivo, pervenendo dunque alla conclusione che il legislatore della “241” non è “tecnicamente” ben attrezzato in materia di terminologia, con conseguente inammissibilità della disapplicazione in materia di “diritto” di accesso, che diritto non è.

II

1. - Se dal diritto vivente passiamo poi al quadro normativo, ci si avvede che il tessuto connettivo dell’istituto appare oggi come il frutto di una serie di stratificazioni normative sul nucleo originario del 1990, derivato anch’esso dal primigenio progetto della commissione Nigro.

E’ da tenere presente che già al testo della “241”, e quindi di natura formalmente legislativa, si era accodato ad integrazione un importante corpus normativo di rango formale inferiore nella scala gerarchica delle fonti: un regolamento di attuazione (D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352), che in realtà non era un mero regolamento esecutivo della legge sia perché riguardava solamente il diritto di accesso sia perché conteneva tutta una serie di disposizioni che andavano a colmare vere e proprie lacune della legge fondamentale, tant’è che lo stesso art. 1 ne enunciava il contenuto in questi termini: “Il presente regolamento disciplina le modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi”. E si sa bene che disciplinare le modalità di esercizio di un diritto significa anche conformarlo; come disciplinare i casi di esclusione significa anche fissarne i limiti oggettivi, profili entrambi di solito riservati alla legge fondamentale e non delegati ad una regolamentazione formalmente amministrativa a mezzo di atti eventualmente vulnerabili come tutti gli atti amministrativi anche a contenuto normativo (si pensi alla disapplicazione degli atti amministrativi generali [32]).

Soprattutto in occasione dell’emanazione di quello che ormai possiamo definire come primo regolamento di attuazione, si è notato come il preambolo del decreto n. 352 facesse espresso riferimento al secondo comma dell’art. 24 della legge come fonte legittimante, dato che proprio detta disposizione conteneva una generica delega al governo ad emanare “uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso e gli altri casi di esclusione del diritto di accesso”, espressioni che hanno poi trovato riscontro nell’intitolazione del regolamento e nel primo comma del suo primo articolo.

Ma l’art. 24 della legge faceva altresì riferimento all’art. 17, comma secondo, della “legge Spadolini” (23 agosto 1988, n. 400), che, come è noto, ha razionalizzato il procedimento di delegificazione [33]. L’emanazione del regolamento del 1992, intervenuta dopo la scadenza del termine semestrale assegnato al governo dalla “241” e che aveva suscitato discussioni circa l’applicabilità immediata della legge che, a tenore dell’art. 31, era subordinata all’entrata in vigore dei regolamenti previsti dall’art. 24 cit., rappresenta appunto la concreta realizzazione dell’operazione di delegificazione, sostanzialmente integrando le disposizioni della legge fondamentale sul diritto di accesso e definendone concretamente il contenuto e la portata.

Da qui il contenuto innovativo di quel regolamento, che per la prima volta indicava le concrete modalità di esercizio del diritto in parola, prevedendo, in particolare, il regime privilegiato che dovrebbe godere la richiesta di accesso, svincolata da ogni formalità ed affidabile ad una semplice istanza, anche verbale, potenzialmente destinata ad essere esaudita immediatamente, con una formalizzazione solo eventuale ed eccezionale.

Di non minore rilievo la previsione di casi di esclusione in aggiunta a quelli già stabiliti dalla legge, talmente incisivi sulla sostanziale latitudine del diritto da far dubitare della legittimità dell’utilizzo dello strumento delegificativo, trattandosi di materia, ancorché non oggetto di riserva di legge assoluta né espressamente prevista in Costituzione, di assoluta rilevanza sociale e democratica.

Il regolamento del 1992 ha svolto negli anni successivi un ruolo non particolarmente significativo, a causa essenzialmente sia della non convinta applicazione che ne hanno fatto tanto i burocrati che gli utenti, non perfettamente consci dell’importante conquista conseguita e succubi di una tradizionale abitudine di rassegnazione di fronte alla resistenza sempre opposta dall’amministrazione, sia della insofferenza della burocrazia a recepire le novità della “241” ed a modificare il proprio radicale inveterato atteggiamento mentale verso le richieste del cittadino, considerato al servizio dell’amministrazione e mai viceversa.

Le novità, sul piano sostanziale dei limiti del diritto di accesso più che su quello formale, essendo mancate espresse riforme legislative, apportate dalla legge sulla privacy (31 dicembre 1996, n. 675), non hanno avuto un minimo di organicità né di completezza, al punto da non avere dirette ripercussioni sulle disposizioni della “241” sul diritto di accesso, con le quali è comunque mancato un opportuno coordinamento.

2. - Sul piano della tutela giurisdizionale del diritto di accesso, interessanti novità sono state introdotte dall’art. 1 L. 21 luglio 2000, n. 205. Integrando l’art. 21 legge t.a.r., la legge di riforma del processo  amministrativo ha previsto la possibilità, in pendenza di un giudizio davanti al t.a.r., di tutelare le proprie ragioni rivolgendosi al presidente del tribunale per una decisione in camera di consiglio con ordinanza istruttoria. E’ stato altresì consentito prescindere dal patrocinio tecnico di un legale. Ma quel che è più significativo è la codificazione della regola, ormai affermatasi in giurisprudenza, dell’onere della previa notifica dell’istanza al t.a.r. ai controinteressati (la definizione di costoro la fornirà la legge n. 15 del 2005), portando così in certo senso acqua al mulino dei propugnatori del diritto di accesso come interesse legittimo.

Sporadici e disordinati, comunque, gli interventi del legislatore sugli artt. 22 ss. della legge del 1990, quale l’art. 15 della legge 24 novembre 2000, n. 340 di delegificazione-semplificazione per il 1999, che era stato dettato nello speranzoso intento di ulteriormente garantire il diritto di accesso sostituendo il comma 4 dell’art. 25 della legge n. 241 con una terminologia, peraltro, assolutamente deprecabile sul piano tecnico[34]; anche qui altro che semplificazione, essendo stato inserito, in funzione garantista, il commissario civico che, a quanto risulta, non è mai stato interpellato data l’estrema macchinosità e dilatorietà del nuovo rimedio e la sua incerta convivenza con la tutela in via giurisdizionale.

Ma è nel 2005 (leggi nn. 15 e 80) che si ha un certo riordino delle disposizioni concernenti il diritto di accesso soprattutto quanto allo speciale giudizio, al punto di fare affermare di recente che si tratterebbe di “una quasi totale riscrittura del Capo V della 241” [35].

In verità, quanto al vecchio problema della qualificazione del diritto di accesso, al quale è stata dedicata la prima parte di queste note, non sono certamente gli argomenti letterali quelli che possono risolverlo e fornire concrete certezze. Non evitano una reiterazione dell’arcinota accusa di atecnicismo e di enfasi del legislatore anche espressioni quale quella della lettera a) del nuovo-riscritto art. 22 di intonazione terminologica, secondo il quale si intende “per diritto di accesso il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” [36], espressioni che sembrano servire piuttosto (o soltanto) a definire il contenuto dell’accesso come operazione acquisitiva di conoscenza in quanto tale, non già a prendere posizioni teoriche qualificative di un certo senso.

Lo stesso dicasi per l’espressa qualificazione come “esclusiva” della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di ricorsi in tema di accesso, che dovrebbe valere a “togliere spazio alla tesi per la quale quello di accesso non sarebbe in realtà un diritto soggettivo”[37]. Nel commentare sopra la nuova posizione assunta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nelle due recenti decisioni nn. 6 e 7 di questo 2006, avevamo dubitato circa l’asserita irrilevanza della qualificazione del diritto di accesso come diritto soggettivo o come interesse a fronte della nuova qualificazione in termini di esclusività della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di accesso. A questo punto rinnoviamo la domanda: basta davvero questa qualificazione della potestà giurisdizionale del giudice amministrativo per qualificare come diritto soggettivo il “diritto” di accesso, ove si tenga presente il carattere anfibologico della giurisdizione esclusiva, che non riguarda solamente i diritti soggettivi, ma anche gli interessi legittimi?

Se poi ci poniamo per un momento nell’ottica nella quale l’Adunanza Plenaria, con le sue decisioni di questo inizio d’anno, ha considerato il problema della qualificazione del diritto di accesso, scorgendo in esso una sorta di potere procedimentale strumentalmente finalizzato alla tutela di situazioni giuridiche soggettive, che possono indifferentemente avere il contenuto (e la corrispondente tutela giurisdizionale) di diritto soggettivo o di interesse legittimo, è bene che i poteri di cognizione e di decisione del giudice amministrativo siano quelli propri della giurisdizione esclusiva, sufficientemente fungibili sì da adattarsi alle singole fattispecie.

Conclusivamente, non pare decisivamente probante, ai pretesi fini qualificatori del diritto di accesso, l’uso da parte del legislatore della “80” dell’espressione “giurisdizione esclusiva”.

Bisogna, per altro verso, riconoscere che con i due interventi del 2005 si è avuta una migliore sistemazione organica del quadro normativo dei limiti e quindi della estensione del diritto di accesso, con un’opportuna razionalizzazione ed integrazione dei casi di esclusione voluti dal legislatore[38].

Quanto alla tutela del diritto di accesso, un’ulteriore ennesima rielaborazione dell’art. 25 della “241” ha avuto il pregio, con una specie di “taglia-incolla” dalla legge n. 205 del 2000, di ordinare in un unico comma varie disposizioni inopportunamente inserite nella legge t.a.r. del 1971 come modifiche ed aggiunte alla stessa, malgrado la chiara inerenza appunto alla tutela dell’accedente nei confronti dell’amministrazione interpellata ma variamente recalcitrante. Così, espunte formalmente dal testo dell’art. 21 legge t.a.r. e trasferite, nel quadro di un auspicato riassetto normativo, nel corpo dell’art. 25 della “241”, troviamo nel benedetto comma quinto di quest’articolo le nuove disposizioni (sopra ricordate) sulle modalità di proposizione del ricorso in pendenza di un giudizio di t.a.r., sull’onere della notifica del ricorso stesso ai controinteressati (dei quali viene fornita una definizione legislativa) e sulla prescindibilità dall’apporto di un difensore tecnico. Adesso, sarà sufficiente la lettura del quinto comma dell’art. 25 per avere un quadro completo delle disposizioni relative ai rimedi amministrativi e giurisdizionali in tema di accesso.

3.- Ma il legislatore del 2005 non si è limitato a tanto, aggiungendo invece una sorta di elemento di incertezza destinato a turbare la definitiva razionalità dell’assetto normativo del diritto di accesso.               

Si allude alla previsione di un nuovo regolamento di attuazione in materia di accesso al posto di quello del 1992, del quale si è detto.

Anche per questa nuova normazione a mezzo regolamento sono state già espresse precise ragioni di perplessità, a partire dalla stessa fonte di legittimazione, essendo stato notato che “ad una prima lettura della legge n. 241 del 1990, nel testo attualmente vigente, non si evince la fonte della potestà del Governo di intervenire con un proprio regolamento sull’accesso ai documenti amministrativi [39]. Invero, una delega alla potestà regolamentare del Governo si rinviene nel comma sesto dell’art. 24, ma il suo oggetto è ben precisato: “prevedere casi di sottrazione all’accesso di documenti amministrativi”, così come sono dettagliatamente precisati i quattro casi nei quali tali ulteriori esclusioni dall’accesso possono essere ammesse. E, a ben guardare, queste occasioni erano così dettagliatamente descritte dal comma in esame, che rimaneva ben poco spazio al Governo per individuare questi nuovi casi di esclusione, al punto che gli stessi potevano considerarsi già fissati direttamente dalla legge.

In verità la delega-autorizzazione al Governo, se non è desumibile dal testo della “241”, lo è dalla stessa legge n. 15, nel cui ultimo articolo (art. 23) era stato accordato al Governo un termine di tre mesi per l’adozione di “un regolamento inteso a integrare o modificare il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992, n. 352, al fine di adeguarne le disposizioni alle modifiche introdotte dalla presente legge”.

Se, quindi, la potestà regolamentare dal cui esercizio è scaturito il nuovo regolamento (d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184) trova un regolare titolo di legittimazione nella legge, le perplessità di cui si diceva riguardano fondatamente il tipo di regolamento che la legge n. 15 ha affidato al Governo: un regolamento di delegificazione, come è dato rilevare dallo stesso art. 23, comma secondo, che richiama espressamente l’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

Per la dottrina più immediata, “non si vede l’esigenza di disporre una nuova delegificazione per modificare un precedente regolamento”[40], dato che la citata norma delegante chiariva che l’emanando regolamento sarebbe stato “inteso a integrare o modificare il regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 27 giugno 1992, n. 352”, sicchè sarebbe dovuto bastare un normale regolamento di attuazione o esecutivo.

Probabilmente un regolamento di delegificazione è stato ritenuto necessario come strumento formalmente idoneo a modificare o integrare un regolamento di pari natura.

Ma, come esattamente osservato dalla già richiamata dottrina, per autorizzare legittimamente l’adozione di un nuovo regolamento di delegificazione sarebbe stata necessaria, come dispone il già citato art. 17, la formulazione di precisi principi direttivi, ossia la determinazione delle norme generali regolatrici della materia; il che era avvenuto con l’art. 26, comma 2, della legge n. 241 del 1990 per il regolamento n. 352 del 1992, ma non con l’art. 23, comma 2, della legge n. 15 del 2005 per questo nuovo regolamento del 2006.

Il Governo in questa occasione non si è limitato, come sarebbe stato suo preciso e delimitato compito, ad integrare o modificare il regolamento del 1992, avendo proceduto invece alla integrale abrogazione dello stesso, tale dovendosi considerare l’abrogazione di tutti gli articoli, con esclusione dell’art. 8, del quale è stata però solo differita la caducazione all’emanazione del regolamento di cui all’art. 24, comma 6, della nuova “241” sui casi aggiuntivi di esclusione dall’accesso. Un eccesso di “delega”?

   Sta di fatto, comunque, che, mentre l’art. 1 del regolamento del  1992 definiva come proprio oggetto la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso, il corrispondente primo articolo del nuovo regolamento indica un più limitato oggetto: “le modalità di esercizio”, soltanto; salvo poi passare a trattare l’ambito di applicazione del diritto di accesso, descrivendolo in termini ben diversi dai contorni applicativi che la legge n. 241 dà allo stesso ambito nell’art. 23 rimasto immutato dopo le riforme del 2005.

  A questo punto una domanda s’impone, anzi più d’una: perché mai il legislatore del 2005, che pur aveva sconvolto il testo degli artt. 22, 24 e 25, ha ritenuto di lasciare immutato il testo dell’art. 23 avente ad oggetto proprio l’ “ambito di applicazione del diritto di accesso”, se, a distanza di pochi mesi, il Governo, forte di una fantomatica e generica disposizione delegatoria contenuta nella stessa legge di riforma n. 15 cit., ne avrebbe poi sostanzialmente modificato i confini? Si trattava veramente di poca cosa, “tanto poca” da considerarla delegabile ad una disposizione regolamentare, consentendo a questa di modificare la precedente previsione anche se di rango legislativo? Forse perché il regolamento n. 184 del 2006 è di tipo delegificativo? Che bisogno c’era di ricorrere ad un siffatto strumento normativo se non era prevista nessuna modifica a disposizioni di rango legislativo, essendo ben delimitato il compito dell’emanando regolamento? Era davvero nei poteri del Governo, stante l’assenza, nella norma delegante, delle prescrizioni generali di cui all’art. 17 della “Spadolini”, incidere così sostanzialmente sull’estensione soggettiva del diritto di accesso?

  Del resto, come già detto all’inizio di questa seconda parte, le stesse modalità di esercizio non sono forse sostanzialmente rilevanti? Eppure anche questo sarebbe stato delegato al regolamento governativo, invece di approfittare della riforma della legge n. 15 per legificare anche queste modalità. Che un diritto vada esercitato in un certo modo anziché in un altro non è indifferente. Prevedere, come forma privilegiata di accesso, la via informale e solo come eventuale ed eccezionale quella tradizionale, non è cosa di poco conto, sicchè non si vede perché non dovesse formare oggetto di una disciplina a mezzo legge; il che andava, peraltro, fatto già con la legge n. 241.

  4.- L’unica novità di un certo rilievo, la cui esigenza non si era ancora posta né nel 1990 né nel 1992, è rappresentata dalla generalizzata esclusione del diritto di accesso in tutti i casi nei quali “risulti l’esistenza di controinteressati” (art. 5 reg. 2006); in tali ipotesi l’accesso può procedere solamente per via formale. In questi come in tutti gli altri casi nei quali non sia possibile l’esercizio del diritto di accesso in via informale, l’amministrazione interpellata è tenuta, come prima, ad invitare l’interessato a presentare domanda di accesso formale; la novità è data dalla soppressione dell’avverbio “contestualmente” che prima accompagnava l’invito predetto, quasi che questo possa adesso essere effettuato ad libitum dell’amministrazione. Un’opportuna correzione lessicale è data dalla eliminazione di una disposizione scritta male, riguardante la presentazione di una richiesta di accesso “irregolare o incompleta” : “…l’amministrazione, entro dieci giorni, è tenuta a darne tempestiva comunicazione al richiedente…”: l’aggettivo “tempestiva”, oggi soppresso, era veramente fuori luogo una volta che risultava fissato un termine ben preciso.

  E’ adesso, finalmente, concesso al richiedente ammesso all’accesso “prendere appunti e trascrivere in tutto o in parte i documenti presi in visione” (art. 7, comma 5).

  Mancava una disciplina di dettaglio procedurale riguardante il ricorso in via amministrativa avverso i provvedimenti negativi in materia di accesso da inoltrare alla speciale Commissione per l’accesso di cui all’art. 27 della “241”. Adesso (art. 12 reg.) l’effettività della tutela in via amministrativa è maggiormente assicurata con la previsione di apposite disposizioni procedurali e con l’espressa garanzia in favore degli eventuali controinteressati, ai quali va notificato il ricorso, analogamente a quanto previsto per il ricorso al giudice amministrativo, come pure con il riconoscimento, in favore dei soggetti titolari di dati personali ai quali sia stato consentito l’accesso, della legittimazione a ricorrere avverso i provvedimenti ammissivi.

  Proiettato verso il futuro ma già aggiornato ad una realtà ben presente, appare il recepimento della normativa di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n, 445, del d.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 e del d.P.R. 7 marzo 2005, n. 82, ai fini della realizzazione dell’accesso alla documentazione amministrativa per via telematica.

   5.- Conclusivamente, il quadro normativo in materia di diritto di accesso appare oggi adeguatamente completo, anche se tecnicamente non ineccepibile, anzi alquanto raffazzonato, frutto di un non necessario né funzionale sistema intrecciato di tutele in via amministrativa ed in via giurisdizionale. Basti guardare l’ormai chilometrico nuovo art. 25 della “241”, infarcito degli apporti di cinque o sei fonti normative diverse, con un comma, il quarto, ingiustificatamente logorroico ed interamente dedicato ai rimedi in via amministrativa, dei quali l’esperienza testimonia la scarsa frequentazione, a causa di un duplice percorso che non ha neppure il pregio della celerità, a fronte della specialità del rimedio giurisdizionale davanti al giudice amministrativo che è, al contrario, assai praticato con discreta soddisfazione dei ricorrenti.

  Ciò non toglie che si sia persa, anche in questo campo, un’occasione d’oro, quanto meno con ben due leggi di riforma adottate lo scorso anno, per approntare, una volta razionalizzata la materia, una disciplina organica e snella, mentre, come è stato rilevato proprio all’indomani dell’adozione del nuovo regolamento, si è avuta “una disciplina non poco intricata”[41], che, essendo ripartita in due distinti testi normativi – di rango diverso, ma con uno di essi costituito da una forma speciale di regolamento, idoneo in astratto ad equipararsi all’altro e quindi cronologicamente a prevalere su di esso – comporta sempre problemi di coordinamento e di eventuale reciproco adattamento.


 

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*Saggio destinato agli “Scritti in onore di Vincenzo Spagnuolo Vigorita”.

[1] Sul punto: P. VIRGA, L’amministrazione locale, Milano 1991, p. 351.

[2] Ord. 25 marzo 1999, n. 332, in Cons. Stato, 1999, I, 485.

[3] Sino al Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2005, p. 393.

[4] F. CARINGELLA, Il procedimento amministrativo,V ed., Napoli 2002, p. 263.

[5] F. CARINGELLA, op. cit., p. 264.

[6] Dec. 24 giugno 1999, n. 16, in Guida al Diritto, 1999, n. 29, p. 85.

[7] Si vedano, nel mio Sistema, cit., pp. 571 ss.

[8] La nota di commento alla stessa decisione della Plenaria (G. CARUSO, Conoscenza dei documenti amministrativi in bilico tra diritto soggettivo e interesse legittimo, in Guida al diritto, 24/1999, p. 89), stante la provenienza dell’A., è sostanzialmente ascrivibile alla stessa magistratura. Vedi nota successiva.

[9] T.a.r. Calabria-Reggio Cal., 10 novembre 1999, n. 1382, in T.a.r., 2000, I, 442. Le “gravi perplessità” di fronte alla decisione dell’Adunanza, confessate dall’A. del commento di cui alla nota precedente, trovano pieno riscontro nella sentenza emessa dallo stesso t.a.r. del quale egli fa parte.

 [10] Di recente, in tema, il mio Crisi della giustizia amministrativa: tra mancato rispetto dei ruoli e tramonto della collegialità, in Giust.Amm.it,,on line, 1/2006.

[11] T.a.r. Calabria-Reggio Cal., n. 1382/99, cit.

[12] Cons. Stato, sez. IV, 24 luglio 2000, n. 4092, in Cons. Stato, 2000, I, 1794.

[13] Sul punto interverrà (v. oltre) la legge 14 maggio 2005, n. 80, ma senza risolvere il problema di fondo.

  [14] L’uso del verbo all’imperfetto è dovuto alla formale abrogazione della norma che si riporterà nel testo da parte della legge n. 80 del 2005, che, con una sorta di “taglia e incolla”, ha inserito la norma stessa nel corpo del rinnovato art. 25 della legge n. 241 quale appendice al suo comma quinto. Sul punto v. oltre.

  [15] Cons. Stato, sez. IV, 15 dicembre 2000, n 6719, in Foro Amm., 2000, f. 12. In favore della tesi dell’interesse legittimo, saranno poi anche: Sez. V, 8 settembre 2003, in Cons. Stato, 2003, I, 1913; 7 aprile 2004, n. 1969, inedita.

  [16] Sez. IV, 19 marzo 2001, n. 1621, in Giust. Civ., 2002, I, 245.

 [17] Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938, (in Foro It., 2004, 3, 510, con nota di M. OCCHIENA), dove inspiegabilmente si afferma, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato, la natura di diritto soggettivo “anche alla luce delle profonde modifiche dell’ordinamento apportate dalla . 21 luglio 2000, n. 205” e (addirittura!) “della riforma del titolo V della Costituzione”; il che dovrebbe indurre a “superare l’orientamento secondo cui il diritto di accesso avrebbe natura di interesse legittimo” e ad affermare “che esso ha natura di diritto soggettivo pieno e perfetto” (“pieno” … di che?), “all’attuale stato evolutivo dell’ordinamento” (!?). In senso contrario, nel senso cioè di usare le stesse espressioni ma in direzione opposta: Sez. IV, 29 novembre 2003, n. 6510, in Cons. Stato, 2003, I, 2556: “L’art. 22 L. 7 agosto 1990, n. 241 ha inquadrato l’accesso ai documenti della pubblica amministrazione non nella figura del diritto soggettivo, ma (alla luce di tutti i vigenti condizionamenti legislativi e regolamentari) in quella di interesse legittimo”.

  [18] Sez. V, 8 settembre 2003, n. 5034, in Cons. Stato, 2003, I, 1913.

  [19] Sez. VI, 16 febbraio 2005, n. 504, in Foro Amm.-CDS, 2005, 470.

 [20] Oscillazioni che sono più evidenti a livello di t.a.r.: di diritto soggettivo si parla in Ta.r.-Lazio, sez. II, 14 maggio 2002, n. 4247, in Foro Amm-TAR, 2002, 1634; T.a.r. Abruzzi-L’Aquila, 5 agosto 2003, n. 907, in AURUM-UTET, 2006, 2; T.a.r. Marche, 14 ottobre 2003, n. 1022, in Giorn. Dir.Amm., 2003, 12, 1307; di interesse legittimo in T.a.r. Piemonte, sez. II, 13 giugno 2003, n. 907, in AURUM-UTET, 2006, 2; T.a.r. Toscana, sez. I, 23 aprile 2004, n. 1225, in sito istituzionale internet.

[21] Ordd. sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2954 e sez, IV, 9 settembre 2005, n. 4686, in Cons. Stato, I, 998 e 1515.

  [22] Le sentenze (T.a.r. Lazio, sez. III, 2004, n. 468, e T.a.r. Lombardia-Brescia, 13 aprile 2005, n. 363), sulle quali le due sezioni erano chiamate a pronunciarsi in grado di appello, avevano ritenuto che “la consistenza di diritto soggettivo della pretesa di accesso comporterebbe l’impugnabilità dei successivi provvedimenti nell’arco temporale della prescrizione”. Tesi giudicata dalle ordinanze in esame “non convincente”.

[23] Le ordinanze di rimessione, senza demordere dalla dichiarata propensione verso la tesi del diritto soggettivo, aggiungono, tuttavia, che “l’imposizione di un termine decadenziale per l’esercizio dell’azione, il cui spirare preclude in via definitiva l’azionabilità della pretesa in giudizio, è pienamente compatibile anche con la tutela dei diritti soggettivi” (con vari esempi di derivazione, però, civilistica).

  [24] Decisione 18 marzo 2006, n. 6, cui fa eco, nella stessa data e col numero immediatamente successivo, altra pronuncia provocata da altra ordinanza di rimessione (sez. VI, 7 giugno 2005, n. 2954, cit.), emessa nel giudizio di appello avente ad oggetto la reiterazione di una domanda di accesso ad un ordine professionale.

  [25] Decisioni n. 6 e n. 7, citt.

  [26] Decisioni n. 6 e n. 7, citt.

  [27] Decisioni n. 6 e n. 7, citt.

[28] Questa sostanziale concordia in materia è stata rilevata e documentatamente riferita, ancorché con cenni critici, da F. SAITTA, Per una nozione di <atto confermativo> compatibile con le esigenze di tutela giurisdizionale del cittadino, in Foro Amm.-CDS, 2003, 2423 ss.

[29] Cfr. F. SAITTA, op. cit.. Cfr. pure G. FALCON, Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. Amm., 2003, 38 ss.

  [30] Per un’ampia casistica in generale, cfr. F. SAITTA, op. cit., 2425 ss.

[31] T.a.r. Lazio, sez. III quater, 14 giugno 2006, n. 4558.

  [32] Si consideri la fattispecie sottoposta ai giudici di cui alla nota precedente.

[33] Sulla natura di regolamento di delegificazione del D.p.r. n. 352, quindi in grado anche di modificare leggi precedenti, ma che “resta pur sempre un atto di natura regolamentare, come tale modificabile da successive fonti di rango secondario”, cfr. A. CELOTTO, Semplificazione o complicazione? Un appunto di tecnica normativa sul d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184-Regolamento recante disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi, in GiustAmm.it-on line, n. 5/2006, che cita al riguardo F. MODUGNO, Appunti sulle fonti del diritto, rist., Milano 2005, 114.

  [34] Sul punto si sono avute nostre osservazioni estemporanee: Verso un accesso sempre più accessibile (a proposito dell’art. 15 legge 24 novembre 2000, n. 340), in Giust.It.-on line, 2/2001, ora in I provvedimenti monocratici nel processo amministrativo, Milano 2002, pp. 151 ss.

  [35] Così G. MISSERINI, Le forme e i limiti dell’accesso ai documenti amministrativi, in Aspetti dell’attività amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento, a cura di D. MASTRANGELO, rist. agg. , Roma 2006, p. 63.

  [36] Legge 11 febbraio 2005, n . 15.

  [37] D. MASTRANGELO, op. cit, p. 7.

  [38] Per una recente rassegna in materia, G. MISSERINI, op. cit., pp. 72 ss.

  [39] A. CELOTTO, op. cit.

  [40] A. CELOTTO, op. cit.

 [41] A. CELOTTO, ibidem, il quale parla, a proposito dell’uso dello strumento delegificativo, “di un ennesimo caso in cui la delegificazione viene usata non quale strumento della semplificazione, ma come elemento di ulteriore complicazione”, quando invece in una materia quale il procedimento amministrativo “la disciplina dovrebbe essere innanzitutto chiara, univoca e contenuta possibilmente in un unico testo normativo. Non certo come ora accade per il diritto di accesso, disciplinato in parte nella L. n. 241 e in parte in un regolamento di cui nella stessa L. 241 non vi è traccia”. Ma si è visto nel testo come la fonte legittimante del nuovo regolamento sia rinvenibile nella legge n. 15 del 2005, in aggiunta alle disposizioni formalmente destinate ad essere incorporate nel testo della “241”.

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Documenti correlati:

VIRGA G., L’araba fenice della natura giuridica del diritto di accesso, in LexItalia.it n. 5/2006, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/virgag_araba.htm


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