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n. 11/2008 - © copyright

NAZARENO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo
nell'Università degli Studi di Messina)

Prime osservazioni sulla "nuova"
retrocessione dei beni espropriati (*)

1.- L’espropriazione di beni, essenzialmente (da un punto di vista statistico) di proprietà privata, è sempre stata vista come una forma eccezionale di procacciamento di aree non amichevolmente (almeno di solito) acquisibili, ma indeclinabilmente necessarie (o considerate tali dall’amministrazione) per la realizzazione di un opera pubblica o di pubblica utilità.

La pugliattiana figura del trasferimento coattivo, nella quale il trapasso del diritto di proprietà sui beni individuati come necessari prescinde dalla volontà del proprietario e viene attuato a mezzo di un provvedimento dell’autorità amministrativa (così come l’autorità giudiziaria ordinaria la dispone in sede di esecuzione forzata), ha sempre rappresentato uno strumento straordinario, il cui esercizio appare legittimato dal concorso di tutta una serie di condizioni formali, in senso procedimentale, e reali.

Uno strumento, in altri termini, che in tanto può essere legittimamente adoperato in quanto non se ne possa fare a meno, in mancanza cioè di un’alternativa, quale potrebbe essere l’acquisizione a mezzo di contratto stipulato con il proprietario che si determini a cedere quei beni in via volontaria.

L’ordinamento, invero, ha sempre cercato di favorire una soluzione di questo tipo; ma gli incentivi, variamente ideati, non sono mai stati sufficientemente allettanti. Si pensi al prezzo da offrire al proprietario, che, lungi dall’essere, come dovrebbe, maggiore rispetto a quello corrente di mercato e comunque remunerativo, è, invece, inesorabilmente parametrato ad indici fiscali che ne vanificano la valenza persuasiva: ossia all’indennità espropriativa, calcolata come tutti sappiamo, alla quale viene aggiunto un addendo; anzi, piuttosto, dalla quale non viene detratto un sottraendo (si allude al perverso meccanismo dell’art 5bis L. 8 agosto 1992, n. 359 sulla sottrazione del 40% dell’indennità oggettivamente determinata in danno di chi non addiviene alla cessione volontaria dei beni espropriandi).

Mai come nel caso dell’espropriazione di beni per ragioni di pubblica utilità si è avuta un’espressione più acconcia, per definire il fenomeno, del c.d. sacrificio della proprietà privata, dato che, in mancanza di un adeguato ed equo corrispettivo, proprio di un sacrificio si tratta.

Ecco perché, a parte i pur rigorosi accertamenti preliminari all’espropriazione in ordine alla sussistenza dei necessari presupposti che giustifichino tale sacrificio, l’ordinamento appresta una sorta di controllo in certo senso ex post, volto a verificare se, in concreto, fosse proprio necessario il sacrificio stesso.

Da un lato, la verifica dell’avvenuto completamento o quanto meno l’inizio (si vedrà meglio appresso) dell’opera di pubblico interesse per la quale era stata disposta l’espropriazione e, dall’altro, l’accertamento, ad opera realizzata, della mancata utilizzazione di parte del bene espropriato e, dall’altro ancora, come personalmente ci sembra, lo stesso autoriconoscimento di un sopravanzo di bene espropriato (i cc.dd. relitti), rappresentano appunto strumenti idonei ad appurare se l’espropriazione, ossia quel sacrificio di beni privati, fosse in tutto o in parte ingiustificato. E, nella misura in cui si accerta questo, si mette in moto un meccanismo restitutorio che dovrebbe in certo modo porre riparo al...mal fatto.

Ma non sono sempre e soltanto motivi di ristoro, di una certa valenza sociale, alla base della retrocessione, del ritrasferimento al vecchio titolare della proprietà del bene che gli era stato sottratto, potendovi concorrere anche ragioni di carattere economico (per il beneficiario dell’espropriazione, l’improduttività di un bene non utilizzato o non più utilizzabile in tutto o in parte), affettivo (per l’espropriato, l’interesse, anche non economico, a ricomporre l’unità del cespite spezzata dall’espropriazione riunificando il compendio patrimoniale originario), i quali tutti possono provocare il fenomeno della retrocessione.

Il tutto, a volte, anzi sovente, anche contro ogni convenienza propriamente economica se, anticipando quanto si dirà, all’indennità espropriativa a suo tempo incassata dall’espropriato, nella ben nota estorsiva misura, si contrapponeva un prezzo di retrocessione commisurato al reale valore di mercato. Ma le cose, almeno sul punto, sono ormai cambiate (vedi appresso).

A tutto questo attende, appunto, l’istituto della retrocessione, che, a seguito della riforma della disciplina legislativa dell’espropriazione, è bene dirlo o ripeterlo subito, non ha cambiato configurazione concettuale o meccanismo operativo rispetto al precedente regime, ma ha solo subìto qualche ritocco nominativo sul piano formale, immutato rimanendo invece, per il resto, l’originario assetto.

2. Come la legge generale sulle espropriazioni per pubblica utilità 25 giugno 1865, n. 2359 - ormai espressamente abrogata per effetto dell’art. 58 del D.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, come modificato dal D.Lgs. 27 dicembre 2002, n.302, entrato definitivamente in vigore il 30 giugno 2003 - anche il nuovo T.U. prevede una doppia forma di retrocessione dei beni espropriati.

Anche il nuovo t.u., come la legge n. 2359/1865, dedica all’argomento poche e scarne disposizioni: appena tre articoli (artt. 46-48), addirittura uno in meno di quanti contenuti nella legge del 1865 (artt. 60-63, i primi tre dei quali dedicati ad una delle due forme e l’ultimo alla seconda forma). Le denominazioni – retrocessione totale e retrocessione parziale – che nella prassi, nella giurisprudenza e nella dottrina contraddistinguevano i due tipi di retrocessione, sono state adesso codificate ed utilizzate come intitolazione degli artt. 46 e 47, rispettivamente dedicate a quella totale ed a quella parziale (contrariamente al criterio seguito dal legislatore del 1865, che, senza denominazioni o intitolazioni, trattava prima e ben più diffusamente della retrocessione parziale).

Singolare è la circostanza che il terzo articolo (art. 48) dedicato alla retrocessione detti "disposizioni comuni per la retrocessione totale e per quella parziale".

Per completezza espositiva, si nota che le modifiche apportate nel 2002 all’originario t.u. unico del 2001 consistono soltanto nell’integrazione del secondo comma dell’art. 46 a proposito del decorso del termine di validità del provvedimento di autorizzazione paesistica ex art. 16 R.D. 3 giugno 1940, n. 1357, in verità non propriamente attinente alla materia della retrocessione o, comunque, non soltanto ad essa. Dalle notazioni che seguono si evincerà che il legislatore del 2001/2002 non ha compiuto grossi sforzi intellettivi nel confezionamento dei tre articoli riguardanti la retrocessione, omettendo di far tesoro dell’abbondante elaborazione giurisprudenziale e dei risultati concettuali cui era pervenuta la rinnovata attenzione dedicata dalla dottrina ad un argomento prima trascurato.

Nessuno dei tanti profili problematici che presentava la vecchia normativa appare risolto dalla nuova.

Nulla sui soggetti legittimati alla retrocessione, per nessuna delle due forme; nulla sui beni concretamente retrocedibili, soprattutto nel caso della retrocessione parziale; nulla sulla applicabilità dell’istituto anche in caso di cessione volontaria dei beni espropriandi; nulla sul riparto della giurisdizione nei due casi di retrocessione; nulla sull’ammissibilità di un ritrasferimento a mezzo di un normale contratto (anche se si parla di impossibile "accordo delle parti"); nulla in ordine alla possibile attivazione di poteri di controllo sostitutivo, soprattutto quando si verifichi la coincidenza tra beneficiario dell’espropriazione ed autorità espropriante; nulla sull’ammissibilità della retrocessione parziale in caso di abbandono dell’opera pubblica pur già realizzata; ecc.

Una risposta ai predetti vuoti normativi dovrà, quindi, essere ancora data dalla giurisprudenza, nonostante l’ottima occasione perduta per una soluzione definitiva che il legislatore avrebbe potuto scegliere tra le tante offerte dalla prassi.

Rimangono così da considerare soltanto i risultati di un confronto lessicale tra due testi normativi: a distanza di quasi 140 anni non si può dire che le espressioni usate dal recente t.u. brillino particolarmente, se non per piccoli aggiustamenti dovuti alla naturale evoluzione del linguaggio ("siasi", "all’uopo", "acquistato", "eseguimento", ecc.).

3. Contrariamente alla legge del 1865, il t.u. attuale tratta per primo della retrocessione totale, forse perché l’ha ritenuta come la forma più macroscopica e grave di inutile sacrificio della proprietà privata.

La retrocessione totale, proprio in quanto tale, dovrebbe poter cancellare, appunto totalmente, ogni traccia dell’avvenuto esproprio.

Va subito rilevato come la formula lessicale (art. 6 t.u.) sia certo più chiaramente espressiva del vecchio art. 63 della legge 1865.

Quest’ultimo descriveva i presupposti per la retrocessione totale: "Fatta l’espropriazione se l’opera non siasi eseguita e siano trascorsi i termini a tal uopo concessi o prorogati…". Espressione nella quale venivano accostate una mera rilevazione in punto di fatto, ossia "se l’opera non siasi eseguita", e la scadenza temporale dei termini originariamente assegnati per il completamento dell’opera pubblica programmata ovvero, eccezionalmente, prorogati.

La nuova formula ipotizza la retrocessione totale nel doppio caso della mancata realizzazione dell’opera o del mancato inizio di questa: "che l’opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata".

Rispetto all’originaria configurazione normativa, la pregressa dottrina, sulla scorta dell’art. 13 della stessa legge del 1865, che prescrive la fissazione dei termini – non solo iniziali, ma anche, e soprattutto, finali - dei lavori nella dichiarazione di pubblica utilità, non ammetteva, come ostativo alla retrocessione, il semplice inizio dei lavori stessi.

Se, si opinava in giurisprudenza, entro il termine ultimo di cui sopra, i lavori devono essere completati, il semplice inizio di essi non era ritenuto sufficiente a scongiurare la retrocessione, in quanto il decorso del termine finale comporta la decadenza ipso iure della dichiarazione di pubblica utilità.

La giurisprudenza aveva, in qualche caso, parificato al compimento dei lavori il semplice inizio degli stessi (TSAP, 23 febbraio 1989, n. 20), mantenendo però pressoché unanimemente la regola del completo inutilizzo a seguito della "mancata totale realizzazione dell’opera pubblica come complessivamente programmata" (Cons. Stato, sez. IV, 8 luglio 2003 n. 4057; Cass. civ, sez. I, 3 aprile 2003, n. 5121; 29 novembre 2001, n. 15188, riferentesi però alla vecchia disciplina dell’istituto), ipotizzando la retrocessione totale "qualora l’opera originariamente prevista sia stata parzialmente realizzata" (SS.UU., 7 agosto 2001, n. 10894; 13 luglio 2001, n. 9542; 13 aprile 2000, n. 134).

Adesso, ossia dopo la riforma 2001/2002, sembra sufficiente che, entro i termini, l’opera pubblica sia stata anche soltanto "cominciata", una volta che il legislatore ha ritenuto di recepire la (minoritaria) inclinazione giurisprudenziale a parificare alla mancata esecuzione (completa) dell’opera il semplice mancato inizio (Cons. Stato, sez.VI, 11 maggio 1992, n. 367; TSAP, 23 febbraio 1989, n. 20).

4. Una novità indiretta nella disciplina legislativa della retrocessione si rinviene fuori del Capo X del t.u. espressamente dedicata all’istituto, ed è costituita dall'abrogazione della previsione normativa (vecchio art. 13) del quadruplice termine che prima doveva necessariamente (almeno per due di essi) accompagnare ogni dichiarazione di pubblica utilità.

Portata sicuramente innovativa va, quindi, riconosciuta alla previsione, nel nuovo art. 46, comma primo, del t.u., di un termine ben preciso, prima del quale va ormai considerata inammissibile ogni domanda di retrocessione, quanto meno di quella c.d. totale.

Molto generosamente, la legge ormai consente all’amministrazione espropriante di completare o anche solo cominciare l’opera pubblica o di pubblica utilità entro il termine di dieci anni; un arco di tempo eccessivamente dilatato dato che un mero inizio dell’opera a distanza di tanto tempo dovrebbe essere supportato da una verifica della permanente utilità dell’iniziativa ovvero, il che è lo stesso, della permanente necessità del sacrificio imposto al privato espropriato, anche perché non è a priori da escludere un inizio lavori fasullo o meramente strumentale ai fini interruttivi del termine al di là di una reale esigenza della cosa pubblica.

Viene, comunque, da chiedersi quale senso possa darsi ad una disposizione legislativa del genere, che tace proprio sul risvolto più importante: cosa accade dopo un tempestivo (si fa per dire, entro dieci anni!) inizio dei lavori, se di questi non si prevede l’ultimazione entro un certo termine. Un ottimo esempio di … infinito! Un profondo rimpianto del regime passato è, almeno sul punto, più che legittimo, essendosi vanificato un importante elemento di certezza.

5. Un senso è a darsi anche all’alternativa indicata nel primo comma dell’art. 46 t.u., tra realizzazione dell’opera e suo inizio, stante la palese disomogeneità dei due eventi, rappresentando la prima un dato reale e definitivo, mentre l’altro sa sin troppo, se non di espediente strumentale, di un momento privo di significato non essendo supportato da un idoneo presidio garantista.

E giustamente (DE MARZO) è stato osservato che se è sufficiente il semplice inizio infradecennale dell’opera ad impedire la retrocessione, il richiamo dell’ipotesi del completamento è superfluo. Se, invece, è rilevante il momento della realizzazione, è privo di senso comune ogni riferimento al momento dell’inizio dell’opera, essendo questo scontatamente, e precedentemente, avvenuto.

Se, poi, si tiene presente che lo stesso comma dell’art. 46 t.u. sin qui considerato parifica alla mancata realizzazione ed al mancato inizio la circostanza che risulti ("anche in epoca anteriore") l’impossibilità dell’esecuzione dell’opera, si conclude nel senso che "non qualunque attività paralizza il diritto dell’espropriato, ma solo quella che esprima la realizzazione, nel decennio, delle finalità per le quali l’espropriazione fu disposta" (DE MARZO). Ma così, pur esattamente, opinando si svuota di ogni contenuto la previsione legislativa di una ben triplice alternativa.

Sul piano concreto, appare veramente ingiustificato e socialmente e giuridicamente inadeguato che il diritto, che lo stesso ordinamento riconosce all’ex proprietario, di promuovere un’apposita iniziativa - che peraltro, in linea concettuale, si atteggia come esercizio di un vero e proprio diritto potestativo, di fronte al quale all’amministrazione espropriante non rimane che pati – mirante a riottenere la proprietà di un immobile risultata ingiustificatamente usurpata e non propriamente espropriata, possa essere pregiudizialmente precluso e definitivamente vanificato da un fatto, il mero inizio dei lavori, di per sé insignificante in quanto non dimostrativo di un reale proposito dell’amministrazione di portare a termine l’opera, privo di ogni valenza in termini di garanzia dell’ultimazione della stessa. Non basta certamente quello, che sovente è solo il prologo all’ennesima incompiuta dell’amministrazione e smentisce le finalità stesse dell’istituto della retrocessione come riassunte e ricordate nell’incipit delle presenti note. La disposizione in esame ha dunque avuto il torto di codificare un deprecabile filone lassista della giurisprudenza in materia.

6. Non va taciuta l’estrema improprietà lessicale e la lacunosità della disciplina dettata al riguardo sempre dal primo comma dell’art. 46 t.u., tanto più deprecabili adesso, cioè in occasione di una riforma che giunge dopo 140 anni e dopo decenni e decenni di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale dell’istituto, del quale manca ancora una qualsivoglia indicazione normativa che spieghi i tempi e le modalità di esercizio del diritto in questione.

Cominciamo col considerare che, intanto, l’impossibilità dell’esecuzione dell’opera dovrebbe "risultare", per chiederci: risultare a chi e da che cosa? Allo stesso espropriato, all’amministrazione espropriante, ad altra amministrazione, quale quella che ha disposto l’espropriazione dopo avere accertato e magari dichiarato la pubblica utilità dell’opera? E risultare da che cosa: da un dichiaratorio esplicito e specifico della stessa amministrazione espropriante, del tipo cioè, per la retrocessione c.d. parziale, della indicazione dei relitti non utilizzati e quindi retrocedibili, ovvero da una dichiarazione dell’autorità che aveva adottato il provvedimento ablatorio, ovvero ancora da un’apposita pronuncia del giudice, peraltro deputato per legge (art. 46) ad accertare la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità?

Ed a tal riguardo: è proprio necessario che venga pronunciata questa decadenza, una volta che quest’ultima si verificava un tempo per scadenza dei termini ex art. 13 della legge del 1865, ora che la retrocessione può essere richiesta anche quando "risulta" l’impossibilità dell’esecuzione dell’opera, indipendentemente da qualsivoglia termine espressamente o automaticamente apposto alla dichiarazione di p.u.? A parte il fatto che ogni decadenza prospetta, anche implicitamente, profili sanzionatori a carico dell’amministrazione che non ha voluto, saputo, potuto eseguire l’opera pubblica programmata, mentre adesso l’impossibiltà di esecuzione può esser dipesa anche da fatti obbiettivi non imputabili all’amministrazione stessa. Ciò diversamente da quanto era previsto nella normativa precedente, che ipotizzava espressamente che fossero "trascorsi i termini a tal uopo concessi o prorogati" (art. 63).

Troppi interrogativi: il loro numero e la rilevanza dei punti che li suggeriscono non sono compatibili con una legge di riforma tanto attesa e così (per altri aspetti) moderna.

7. Continuando la lettura del primo comma del nuovo art. 46 t.u., con riguardo al contenuto della domanda di retrocessione – a parte quanto già detto a proposito dell’accertamento della decadenza della dichiarazione di p.u. – si legge che l’espropriato può chiedere che sia, in primo luogo, disposta la "restituzione del bene espropriato".

Ma la restituzione è solo un mero fatto, un mero comportamento, un mero adempimento, una mera operazione (peraltro, solo formale, trattandosi di beni immobili), secondaria in ogni caso alla vera e propria retrocessione, che consiste nel ritrasferimento del diritto di proprietà, non nella datio, nella consegna (o riconsegna) della cosa, che in tanto può essere pretesa dall’(ormai ex) espropriato in quanto questi sia tornato ad essere proprietario.

Non si ha nemmeno adesso un cenno circa la possibilità, da non escludersi, che la retrocessione, ossia il ritrasferimento del diritto di proprietà, avvenga in via amichevole e convenzionale direttamente dall’amministrazione espropriante al retrocessionario. Un forse inconsapevole cenno al riguardo, con un po’ di buona volontà, può forse ricavarsi dalla circostanza che la legge omette di specificare il destinatario della richiesta di "restituzione", che dovrebbe essere il giudice (ordinario), come espressamente statuiva l’art. 63, ma potrebbe anche essere la stessa amministrazione espropriante.

Se dapprima la "restituzione", che si andava a chiedere alla "autorità giudiziaria competente", chiamata a pronunciare preliminarmente la decadenza della dichiarazione di p.u., veniva ad essere statuita "mediante il pagamento del prezzo" determinato o in via amichevole o a mezzo di periti nominati ai sensi degli artt. 32 e 33 della legge di allora, adesso il t.u. incredibilmente prevede che il proprietario espropriato chieda (a chi … di competenza, come sopra si è detto), oltre che l’accertamento della decadenza della dichiarazione di p.u. e la restituzione del bene espropriato, anche ("e") che sia disposto "il pagamento di una somma a titolo di indennità".

A parte la stranezza di un espropriato che chiede una sorta di condanna nei propri confronti al pagamento di una somma di denaro, quando sarebbe stato più semplice e più esatto prevedere che la "restituzione" venisse dal giudice (o dall’amministrazione, in caso di retrocessione … amichevolmente concordata) subordinata all’accertamento e quantificazione della somma da versare a quest’ultima, appare importante sottolineare che il t.u. parla adesso, non più di prezzo (ben tre volte ne parlava negli altrettanti articoli dedicati all’istituto la legge del 1865), ma di "indennità".

Orbene: si tratta di un’espressione impropria, dato che commentatori del recente t.u. parlano ancora di prezzo, che non potrebbe che essere rappresentato, trattandosi sostanzialmente di una sorta di rivendita (di "ritrasferimento" parla oggi l’art. 48 t.u.), da un corrispettivo ragguagliato al prezzo di mercato (nel che si era da noi scorta la ragione della relativamente scarsa utilizzazione dell’istituto della retrocessione dato che all’espropriato era stata accordata una spesso miserevole indennità espropriativa).

Sembra proprio che non si tratti pìù di versare un prezzo pari al valore di mercato. E proprio in questo sembra che si debba rinvenire la vera innovazione del t.u. in materia di retrocessione.

Di "indennità" si parla, come visto, nel primo comma dell’art. 46. Genericamente di "corrispettivo" e di "somma" si parla nei primi due commi dell’articolo successivo. Di "corrispettivo della retrocessione", si parla in termini neutri nell’art. 48; ma subito dopo l’esplicito rinvio alla competenza dell’ufficio tecnico erariale o alla commissione provinciale, entrambi preposti alla determinazione dell’indennità di espropriazione, ed ai "criteri applicati per la determinazione dell’indennità di esproprio", induce a ritenere che, in una visione di maggiore e dovuta equanimità e ponendo termine alla sperequazione tra indennità di espropriazione e prezzo di retrocessione, anche se non si tratta adesso di vera e propria, di pura e semplice restituzione dell’indennità di espropriazione a suo tempo ricevuta (come originariamente previsto dalla Commissione Reale in sede di formulazione della legge espropriativa del 1865), la rideterminazione di quella che possiamo ormai senza esitazione definire indennità di retrocessione sia solo giustificata dall’esigenza di aggiornare i valori parametrali a suo tempo seguiti per il calcolo dell’indennità di espropriazione "con riguardo al momento del ritrasferimento".

L’assimilazione dell’indennità di retrocessione a quella di espropriazione è confermata dalla previsione (art. 48, comma secondo, t.u.) di una opposizione alla relativa stima da proporsi direttamente "alla corte di appello nel cui distretto si trova il bene espropriato".

8. Diverse sono le innovazioni introdotte in materia di retrocessone c.d. parziale, ipotesi ricorrente quando, ad opera pubblica eseguita, sopravanzano beni non utilizzati nell’esecuzione dell’opera.

Il previgente regime (artt. 60 e 61 della legge del 1865), dopo avere riconosciuto il "diritto ad ottenere la retrocessione" agli "espropriati o aventi ragione da essi", stabiliva il dovere dell’amministrazione beneficiaria dell’espropriazione (anche indipendentemente da una richiesta di retrocessione) di pubblicare un elenco dei "beni che, non dovendo più servire all’eseguimento dell’opera pubblica, sono in condizioni di essere rivenduti". In caso di omissione interveniva il prefetto con i suoi poteri di controllo sostitutivo. Nei tre mesi successivi gli aventi diritto al riacquisto dovevano "farne espressa richiesta". Una volta fissato il prezzo, entro il mese successivo doveva essere effettuato il pagamento. Prescrizioni dettate a pena di decadenza. La giurisdizione sulle eventuali questioni sin qui sorte era di spettanza del giudice amministrativo.

La legge non prevedeva il caso che, pur dopo questa articolata procedura, non si addivenisse alla retrocessione in via amichevole, mediante un normale contratto di vendita. Mancando questo accordo, pur nel silenzio normativo, non era da escludersi il ricorso al giudice ordinario per chiedere una sentenza costitutiva che ne facesse le veci, come per la retrocessione totale.

Come relitto, in quanto tale suscettibile di retrocessione, era da considerarsi eventualmente anche un intero fondo che non fosse stato per nulla utilizzato. Anche in questo caso si aveva retrocessione parziale, con la relativa liturgia procedurale.

Queste regole risultano modificate nel nuovo t.u.

Non si sa, intanto, se volutamente o inconsapevolmente il legislatore ha considerato legittimato a chiedere la retrocessione solamente l’espropriato e non anche gli "aventi ragione" da esso, come sotto il regime precedente, non potendosi escludere che l’interesse – economico, ma anche affettivo – alla ricomposizione di un fondo mutilato dall’intervento ablatorio possa estendersi anche agli aventi causa dell’espropriato, soprattutto quando questi lo sono a titolo ereditario. E non si ignori quanto si è sopra detto a proposito dell’ammissibilità dell’azione di retrocessione parziale anche quando si tratta di rivendicare un intero fondo, se questo dovesse risultare del tutto inutilizzato in sede di esecuzione dell’opera pubblica. Si vedrà se la giurisprudenza adotterà un criterio di rigido rigore lessicale sul punto.

Una giustificazione può essere immaginata solo con riguardo alla circostanza che adesso il retrocessionario è tenuto a versare un corrispettivo commisurato all’indennità di espropriazione (sia pure aggiornata alla data del ritrasferimento); sicchè il diritto di retrocessione potrebbe intendersi limitato proprio all’ex proprietario espropriato quasi a … risarcirlo della privazione coattiva della proprietà a fronte di un’indennità di valore quasi simbolico, sventura non capitata ai suoi aventi causa che non avrebbero così titolo ad alcun trattamento di favore essendo succeduti nella titolarità dell’immobile già mutilato dall’espropriazione.

Si nota poi, nel prosieguo della lettura, che si prevede espressamente un’iniziativa dell’ex proprietario, la quale fa sorgere nell’amministrazione beneficiaria dell’espropriazione il dovere di indicare "i beni che non servono all’esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità". Avrei più correttamente detto "i beni che non sono serviti all’esecuzione dell’opera", dato che l’incipit dell’art. 47 t.u. accorda il diritto di retrocessione solamente "quando è stata realizzata l’opera", non prima. Sin troppo ovvia questa nostra osservazione, ma tant’è.

L’amministrazione espropriante dovrà pure indicare "il relativo corrispettivo", il cui ammontare ovviamente può non essere accettato dall’aspirante retrocessionario, il quale potrà avvalersi, come per il caso dell’indennità di retrocessione totale, del rimedio di cui al secondo comma dell’art. 48, dato che si tratta di disposizione espressamente dichiarata comune ad entrambe le forme di retrocessione.

9. In caso di mancata indicazione dei beni residuati e del relativo valore in termini indennitari, il t .u. prevede non più il ricorso all’autorità prefettizia, in quanto dotata del potere di controllo sostitutivo, ma alla stessa autorità che aveva disposto l’espropriazione, che avrà così il compito di "determinare la parte del bene espropriato che non serve più per la realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità" (art. 47, comma terzo).

La soluzione adottata può apparire assai discutibile, dato che ormai l’autorità preposta all’espropriazione è pressoché costantemente quella comunale (sindaco o chi per lui), i cui poteri ablatori sono quasi sempre meramente esecutivi di una dichiarazione di pubblica utilità nascente o direttamente dalla legge o da altra autorità, sicchè appare strano che il giudizio di inservibilità dei cc.dd. relitti sia demandato ad un organo privo di elementi di riscontro sui quali basare il giudizio stesso.

Potrebbe dirsi che, a ben guardare, una volta che la retrocessione parziale può essere azionata solo ad esecuzione dell’opera ultimata, sarebbe assai agevole individuare il surplus immobiliare, quanto cioè è sopravanzato a lavori completati, sulla scorta del progetto esecutivo dell’opera.

Questo è esatto sino ad un certo punto dato che abbiamo più volte chiarito che ci possono essere porzioni di immobile espropriato che, pur non essendo state interessate dalla costruzione vera e propria, possono tuttavia essere poste a servizio dell’opera stessa in funzione pertinenziale a tenore dei principi generali del codice civile (art. 817), anche indipendentemente da una specifica previsione progettuale. In tal caso occorrerebbe un giudizio che non potrebbe che essere di pertinenza dell’ente proprietario del terreno espropriato ed esecutore dell’opera pubblica.

10. Curiosamente il t.u. glissa su quelli che erano – vigente il regime della legge espropriativa generale del 1865 – i profili problematici e dogmatici di maggior rilievo. In particolare, su quelli attinenti alla giurisdizione.

Si allude alla natura dell’azione di retrocessione da esplicarsi davanti al giudice ordinario e che non in altro si risolveva se non in una azione di esecuzione in forma specifica di un obbligo legale a contrattare nei confronti della pubblica amministrazione.

Abbiamo a suo tempo ricordato come, sotto l’impero della legge espropriativa generale del 1865, il coevo codice civile non contenesse la previsione di un’azione corrispondente a quella che è oggi consacrata nell’art. 2932 del codice civile del 1942; e che, quindi, la disposizione di cui all’art. 63 di quella legge ("… gli espropriati possono domandare che sia dall’autorità giudiziaria competente pronunciata la decadenza dell’ottenuta dichiarazione di pubblica utilità e sieno loro restituiti i beni espropriati…"), nel senso ossia che il giudice ordinario emettesse una sentenza costitutiva che tenesse luogo del contratto non stipulato costituiva una straordinaria deroga al sistema allora vigente, quando cioè sentenze di tal tipo erano interdette al giudice ordinario nei confronti di una pubblica amministrazione.

Quella che sembrava un’irriducibile avversione verso questo tipo di pronunce e che ci aveva indotti a spendere molte pagine controcorrente si è vieppiù attenuata anche in corrispondenza dell’escalation delle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, specie a partire dal decreto n. 80 del 1998.

Ebbene, il t.u. stranamente sembra glissare sul punto; tant’è vero che non v’è cenno alcuno circa un’eventuale domanda giudiziale di retrocessione. L’unico accenno ad un intervento del giudice ordinario è contenuto nell’art. 48, che prevede l’opposizione alla stima dell’indennità di retrocessione davanti alla corte d’appello.

Per la domanda di retrocessione, che nel 1865 vedeva come destinataria unica l’autorità giudiziaria, il t.u. non ne specifica la direzione, limitandosi, sia nell’art. 46 per la retrocessione totale sia nell’art. 47 per la retrocessione parziale, a stabilire che gli aventi diritto possono "chiedere la retrocessione", forse privilegiando, contrariamente al vuoto normativo al riguardo della legge del 1865, ogni possibilità di un ritrasferimento dei beni retrocedendi da realizzarsi in via amichevole e concordata; con la conseguenza di considerare come residuale e patologica la via giudiziaria.

A quanto sopra si aggiunga l’analogo silenzio tenuto, anzi mantenuto (conformemente alla legge del 1865), in ordine alla spettanza della giurisdizione in caso di controversie circa l’indicazione o la mancata indicazione dei beni suscettibili di retrocessione parziale.

Si ricordi che, vedendosi nella posizione degli ex proprietari aspiranti alla retrocessione dei relitti sopravanzati all’esecuzione dell’opera pubblica programmata uno status di interesse legittimo, la conseguenza ineluttabilmente logica era l’attribuzione del relativo contenzioso alla giurisdizione del giudice amministrativo.

11. Apparentemente irrisolto, appunto apparentemente, è rimasto il problema della estensibilità dell’istituto della retrocessione al caso di immobili oggetto di cessione volontaria pur concordata in un quadro espropriativo che prevedeva la procedura ablatoria.

La nuova normativa non ne parla, come non ne parlava la legge del 1865. Ma già allora avevamo sposato, per considerazioni varie, la tesi dell’inammissibilità.

Tesi che adesso appare ancor più agevolmente propugnare, riteniamo, per il semplice fatto che il t.u. prevede, come corrispettivo della retrocessione, non più il pagamento di un prezzo, naturalmente da parametrare ai valori di mercato, ma un’indennità da calcolare con gli stessi criteri dell’indennità espropriativa a suo tempo corrisposta al proprietario espropriato, ancorché avuto riguardo al momento del ritrasferimento.

E’ agevole, a questo punto, concludere per la negativa in ordine alla problematica in questione sulla base della semplice considerazione che, in caso di cessione volontaria dei beni espropriandi, al proprietario non viene corrisposta la pura e semplice indennità espropriativa calcolata con gli estorsivi criteri dell’art. 5 bis della legge 8 agosto 1992, n. 359 (aggiunto in sede di conversione del D.L. 11 luglio 1992, n. 333), ma senza la decurtazione del 40 per cento. Ammetterlo alla retrocessione significherebbe consentirgli di lucrare rispetto al corrispettivo della cessione volontaria più o meno liberamente concordata.

In ogni caso, in considerazione dei presupposti e delle modalità della retrocessione, questa non può che riguardare i beni formalmente espropriati per l’esecuzione di una specifica opera pubblica o di pubblica utilità, alla cui esecuzione o alla cui in esecuzione è legato il diritto alla "restituzione". I beni ceduti volontariamente possono forse ritenersi alienati in via definitiva all’amministrazione senza che questa sia tenuta a dar conto di un preciso programma di utilizzazione del bene, almeno al proprietario che li ha ceduti.

12.- Un’ultima novità del t.u. è rappresentata dall’inserimento, tra le disposizioni riguardanti il diritto di retrocessione, di norme riguardanti il c.d. diritto di prelazione che sui beni retrocedendi spetterebbe ai comuni interessati.

Si tratta di un istituto non noto alla legge espropriativa generale del 1865, introdotto nel nostro ordinamento dalla c.d. legge sulla casa (art. 21 L. 22 ottobre 1971, n. 865).

Si tratta del diritto (di natura potestativo ad esercizio giudiziale) accordato a tutti i comuni nel cui territorio siano state eseguite, sulla base di una regolare dichiarazione di pubblica utilità, opere pubbliche o di p.u., per la cui esecuzione o mancata esecuzione si siano creati i presupposti di una retrocessione o dell’intero compendio degli immobili espropriati o di quelli eventualmente sopravanzati. In tale caso, i comuni territorialmente legittimati, entro 180 giorni dall’intervenuta cessazione della predetta destinazione pubblicistica, possono esercitare "diritto alla prelazione sulle aree comprese nel loro territorio dietro il pagamento di un corrispettivo determinato ai sensi dell’art. 16 e seguenti" legge cit..

Un disposizione maldestramente formulata, avendo il legislatore lasciato incerti presupposti, tempi e modalità di esercizio, soggetti passivamente legittimati e quant’altro.

Il nuovo t.u. ha solo in parte posto rimedio al … mal fatto, nel senso di fatto male. Si sarebbe potuto stabilire una decorrenza del predetto termine per l’esercizio del diritto di prelazione non già a partire dal difficilmente individuabile momento della "cessazione della destinazione", ma, come logica avrebbe voluto, dalla ben più precisa data di cui al precedente art. 47 t.u., il quale prescrive che, in caso di richiesta, da parte del proprietario espropriato, di retrocessione dei beni residuati dopo l’esecuzione dell’opera pubblica, l’amministrazione interpellata, ossia quella beneficiaria a suo tempo dell’espropriazione, "con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, trasmessa al proprietario ed al Comune nel cui territorio si trova il bene", indica i beni retrocedibili. Si sarebbe avuta così una data ben precisa, rappresentata appunto da quella del ricevimento dell’atto in questione, dalla quale sarebbero decorsi i 180 giorni concessi all’ente per esercitare il suo diritto di prelazione. Si è preferito, invece, consentirne l’esercizio entro il predetto termine a partire "dalla data in cui gli è notificato l’accordo delle parti, contenente con precisione i dati identificativi dell’area e il corrispettivo, ovvero entro il termine di sessanta giorni, decorrente dalla data di notifica dell’atto che ha determinato il corrispettivo".

Un criterio quello sopradescritto certamente contrario ad ogni principio di economia procedimentale.

Il quadro che se ne ricava è, paradossalmente, il seguente. Il proprietario espropriato fa domanda di retrocessione al soggetto beneficiario dell’espropriazione. Quest’ultimo indica i beni che non sono serviti all’esecuzione dell’opera con comunicazione diretta al proprietario espropriato ed al comune interessato. Questa comunicazione è priva di significato, perché il comune non è tenuto a fare alcunché, una volta ricevuta la comunicazione. La pratica di retrocessione prosegue nel contraddittorio dialettico tra i soli proprietario espropriato ed ente espropriante, per quanto attiene sia alla indicazione o esatta indicazione delle aree retrocedibili sia alla determinazione del corrispettivo, la quale può magari avvenire solo a seguito ed a conclusione di un contenzioso giudiziale, eventualmente davanti al giudice amministrativo (quanto alla individuazione dei relitti) ed alla corte di appello ed alla Corte di cassazione (quanto alla determinazione del corrispettivo della retrocessione), con dispendio di energie, tempo e spese. Al termine di tutto questo percorso, faticosamente praticato da espropriato ed amministrazione beneficiaria dell’espropriazione, si addiviene tra costoro all’accordo amichevole; in mancanza di questo, l’espropriato è però costretto a ricorrere al giudice ordinario perché, con sentenza costitutiva, disponga la restituzione (rectius: il ritrasferimento del diritto di proprietà sui beni retrocedendi). Dopo di che si aprirebbe la fase della prelazione, per la quale la decorrenza del relativo esercizio è di incerta datazione, limitandosi il t.u. a fissarla a partire o dalla notifica di un accordo – che, come sì è visto, potrebbe anche non essere intervenuto, mentre addirittura questa notifica non è affatto prevista dalle precedenti disposizioni del t.u. – o da quella (neanche questa prescritta) dell’atto che ha determinato il corrispettivo.

Far decorrere il termine per l’esercizio del diritto di prelazione da una data-evento di incerto accadimento non rappresenta un contributo di certezza o di economia.

Al che si aggiunga che la visione prettamente … civilistica delle modalità e degli effetti dell’esercizio del diritto di prelazione, che interviene a contratto già concluso o anche solo non ancora sottoscritto, non appare compatibile con l’evenienza che manchi l’accordo di retrocessione o che questa avvenga a mezzo di autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 2932 c.c., dato che in tal caso la prelazione inciderebbe, caducandola, non su un contratto, ma su una sentenza, magari passata in giudicato, per effetto della quale l’effetto reale del ritrasferimento del bene risulta pronunciato in via definitiva in favore del proprietario espropriato. A meno che nel relativo giudizio il comune non venga considerato parte necessaria. Ma questa è fantasia.

(*) Saggio dedicato agli Scritti in onore di Leopoldo Mazzarolli

Nota bibliografica.

Scritti anteriori alla riforma: N. SAITTA, In tema di retrocessione di immobile espropriato, in Giur.Siciliana, 1957; I beni espropriati retrocedibili, in Rass. Dir.Pubbl. 1961; I soggetti legittimati alla retrocessione, in Scritti in memoria di Zanobini, Milano 1964; Natura ed esercizio del diritto di retrocessione, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1964; La retrocessione dei beni espropriati, Milano 1974; Retrocessione dei beni espropriati,, voce in Enc .Giur Treccani, vol. XXVII, Roma 1991; Un utile "ritorno" al tema della retrocessione, in Corr. Giur. 1992; Problemi in tema di retrocessione, ivii, 1994. F. SAITTA, Brevi note in tema di retrocessione dei beni espropriati, in In iure praesentia, 1986.

Scritti successivi alla riforma: B.G. CARBONE, Retrocessione, in Commentario al t.u. sull’espropriazione per p.u., a cura di M. De Paolis- M. Pallottino, Rimini 2004; G. DE MARZO, Commento agli artt.46-48, in L’espropriazione per p.u., a cura di F.Caringella-R. De Nictolis-G. De Marzo-L. Maruotti, 2° ed., Giuffrè 2003.


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