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n. 9/2008 - © copyright

NAZARENO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo
nell’Università di Messina)

L’accesso ai pareri legali tra segreto professionale
e trasparenza amministrativa

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1.- Ricordo che, allorquando fu emanata la "241" ed apprendemmo che per la prima volta avevano ricevuto lo sperato riconoscimento legislativo antiche rivendicazioni di trasparenza dell’azione amministrativa e speranze di – in qualche modo – diventare partecipi non dei risultati di questa ma della sua genesi, fummo in parecchi a segnalare il timore che alla concreta applicazione di tutte queste belle novità legislative sarebbero state di ostacolo, da un lato, la non ancora acquisita presa di coscienza dei cittadini dei nuovi diritti acquisiti (senza la quale questi diritti non sarebbero stati esercitati) e, dall’altro e soprattutto, l’inveterato malvezzo della burocrazia a rifiutare ogni sguardo "indiscreto" nel suo operato.

Quanto a questo secondo profilo, la scusa, il tabù abitualmente addotto dall’amministrazione a giustificazione del rifiuto opposto a tutte le forme di richiesta di informazioni, di copie di atti, ecc., era, sistematicamente, la natura "interna" dell’atto del quale il cittadino chiedeva copia o semplice visione ovvero la non ancora avvenuta ultimazione del procedimento amministrativo che detto atto inglobava (magari per la pendenza della fase successiva del controllo).

Mentre, ancor oggi, a distanza di quasi un ventennio, si registrano casi di rifiuto dovuti alla pretesa incompletezza dell’iter procedimentale (della successiva fase del controllo o comunque integrativa dell’efficacia non si parla più), il c.d. diritto di accesso alla documentazione amministrativa appare pressoché del tutto vanificato quando oggetto della richiesta di visione/copia è un parere che l’amministrazione abbia domandato ad un legale di propria fiducia (ciò che, con la sempre crescente proliferazione di esperti, accade assai di frequente).

Qui il rifiuto dell’amministrazione alla richiesta dell’accedente diventa sistematico anche perché … facile, non sussistendo alcun dovere di motivazione del rifiuto stesso, dato che i sempre poco aggiornati uffici burocratici lo ritengono assolutamente giustificato, anzi addirittura doveroso.

2.- Tutto questo mentre la giurisprudenza è ormai consolidata in direzione opposta.

Lo spunto per queste brevi considerazioni è stato duplice: da un lato, la lettura (in una occasione professionale) di un’ennesima risposta negativa ad una richiesta di accesso ad un parere legale (nella specie, dell’Avvocatura dello Stato) (" …Come Le è noto, secondo prassi consolidata e pienamente condivisibile, trattandosi di parere interno rilasciato a questa Università dall’Organo di consulenza legale, lo stesso non è suscettibile di rilascio in copia…"), e, dall’altro, la lettura contemporanea di un’ennesima recentissima sentenza (T.A.R. Lazio-Roma, sez. III quater, 27 agosto 2008, n. 7930, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/82/tarlazio3_2008-08-27.htm), nella quale, nei limiti ormai noti, la rilasciabilità, anzi la doverosa rilasciabilità, di copia dei pareri legali risulta riaffermata.

Naturalmente, nessuno si è sognato mai di pretendere una piena ed indiscriminata accessibilità, ostandovi intuitive esigenze di riservatezza ed in genere di privacy, di segreto professionale e, perché no?, di tutela del diritto di difesa.

A volere scendere nel dettaglio, si consideri lo spesso invocato art. 2 del D.P.C.M. 26 gennaio 1996, n. 200 (Regolamento recante norme per la disciplina di categorie di documenti dell’Avvocatura dello Stato sottratti al diritto di accesso), il quale espressamente esclude dall’accesso "i pareri resi in relazione a lite in potenza o in atto e la relativa corrispondenza" (oltre, ovviamente, agli "atti defensionali").

A proposito della surriferita disposizione, è stato, intanto, chiarito che la stessa "risulta applicabile, in quanto norma di principio, al di là della difesa erariale" (T.A.R. Calabria-Reggio Calabria, 12 dicembre 2006, n. 1815), dato che "detta regola ha una portata generale, codificando il principio, valevole per tutti gli avvocati, siano essi del libero foro o appartenenti ad uffici legali di enti pubblici, secondo cui, essendo il segreto professionale specificamente tutelato dall’ordinamento, sono sottratti all’accesso gli scritti defensionali" [Cons. Stato, sez. V, 2 aprile 2001, n. 1893, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2001-1893.htm, per la quale si tratta di "un segreto che gode di una tutela qualificata", anche di natura penale (art. 622 cod. pen. e art. 200 cod. proc. pen.: T.r.g.a. Trentino-Alto Adige, 27 gennaio 2003, n. 39, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/private/tar/tartrento_2003-01-27.htm]. La disposizione regolamentare in esame, in sostanza, "mira proprio a definire con chiarezza il rapporto tra accesso e segreto professionale, fissando una regola che appare sostanzialmente ricognitiva dei principi applicabili in questa materia, anche al di fuori dell’ambito della difesa erariale" (Cons. Stato, sez. V, n. 1893/2001, la quale aggiunge che la prevalenza del segreto professionale e del connesso divieto di accesso, si aggiunge, "si manifesta con pienezza anche in relazione alle amministrazioni locali e nei riguardi delle richieste formulate dai consiglieri comunali", rispetto alle quali - che pur sono espressione di un potere funzionale espressamente riconosciuto dalla legge (n. 142 del 1990) - possono fondatamente configurarsi "eccezioni al principio di trasparenza, direttamente desumibili da specifiche disposizioni legislative").

Va però segnalato che la tesi recepita nella surriportata decisione della V sezione, nella parte in cui, come da ultimo riferito, afferma la prevalenza del segreto professionale sul diritto dei consiglieri comunali di accedere, per fini connessi all’esercizio del proprio mandato elettivo (specie se appartenenti ad un gruppo consiliare di opposizione), alla documentazione amministrativa dell’ente, risulta in certo senso ripudiata da una pronuncia successiva dello stesso consesso giudicante (sez, V, 4 maggio 2004, n. 2716, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds5_2004-05-04.htm), che ha in sostanza attenuato il rigore del segreto professionale, in considerazione anche del dovere di segretezza imposto ai consiglieri comunali circa le notizie e gli elementi di cui abbiano acquisito la conoscenza a mezzo dell’esercizio del loro speciale diritto di accesso, giudicato incondizionato e senza limiti neppure di natura quantitativa. Cosicché "le limitazioni poste, al riguardo, dal D.P.C.M. n. 200 non possono applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall’amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo".

3.- A volere tirare una prima somma da questi dati normativi e giurisprudenziali, abbiamo già i seguenti punti fermi:

- l’accesso ai pareri legali richiesti da una pubblica amministrazione è, in via di principio, ammesso in favore degli aventi titolo a richiedere l’accesso stesso in generale, salvo limiti da precisare;

per i consiglieri comunali (e provinciali) vigono regole di legittimazione per accedere alla documentazione dell’amministrazione comunale (o provinciale) di appartenenza certamente diverse da quelle cui devono sottostare in genere tutti gli altri accedenti;

i limiti espressamente previsti dalla normativa vigente per i pareri resi dall’avvocatura erariale valgono anche per quelli resi dagli avvocati del libero foro.

3.1.- Passando a considerare partitamente questi postulati concettuali, si consideri subito che l’assoggettamento dei pareri legali all’accesso da parte degli aventi diritto rappresenta la pura e semplice applicazione delle regole in materia di accesso: nessuno strappo, quindi, ai sommi principi da parte della giurisprudenza nè creazioni "pretorie" tese a coprire una lacuna normativa. Tutto normale, insomma.

Tutto normale, però, a condizione che si abbia ben chiara la possibile diversa natura dei pareri che l’amministrazione può richiedere al proprio legale di fiducia, dato che la soluzione al problema di fondo che ha suscitato le presenti considerazioni non può essere uniforme.

Come è stato già osservato (Cons. Stato, sez. V, n. 1893/2001, cit., in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2001-1893.htm), le diverse forme ed i diversi momenti in cui l’amministrazione può ricorrere alla consulenza esterna - in altri termini, le differenze tra i vari contesti - si riflettono anche sulla disciplina dell’accesso ai documenti. Può così aversi che il ricorso ai pareri esterni avvenga e si inserisca nell’ambito di un’apposita istruttoria procedimentale. Il parere, in tal caso, assume e svolge una precisa funzione endoprocedimentale e, come tale, deve lasciare traccia di sé nella motivazione del provvedimento finale. Aggiungerei che, anzi, il parere reso dal consulente esterno può rappresentare, esaurendolo, l’intero compendio motivazionale, non essendo inconsueto che l’amministrazione preferisca - anche ad un maleinteso scopo di scarico di responsabilità, come se, così operando, il provvedimento fosse da ascrivere ed imputare, sotto questo profilo, esclusivamente al consulente e non (anche o esclusivamente) all’amministratore/dirigente dal quale quel provvedimento formalmente proviene che il parere stesso ha condiviso- non aggiungere nulla al parere reso dal consulente: il classico caso, insomma, della ben nota motivazione ob relationem.

Va da sé, però, che in tal caso scatta la disposizione del secondo comma dell’art. 3 della "241", che prescrive che l’atto (in questo caso, il parere) posto a supporto ed in luogo della motivazione diretta deve essere reso "disponibile", cioè … accessibile.

In altre parole, l’inserimento del parere tra i vari segmenti endoprocedimentali vale in certo senso ad "amministrativizzare" un atto pur avente una scaturigine privatistica (l’incarico di consulenza), a trasformarlo in autentica "documentazione amministrativa" ai sensi e per gli effetti dell’art. 22 della citata "241", rendendolo così regolarmente accessibile.

Ma può anche accadere che il parere venga richiesto in occasione di una contingenza contenziosa; ossia, tanto nel corso di un giudizio nel quale sia parte (per decidere sulla costituzione o propendere per una transazione o un intervento in autotutela) o comunque abbia interesse (per esempio, per decidere se intervenire in un giudizio vertente tra altri, aderendo alla pretesa del ricorrente o a quella del resistente: ad adiuvandum ovvero ad opponendum), oppure in un momento pre-contenzioso (costituito, per esempio, da un atto di diffida o da un formale invito a partecipare ad una fase conciliatoria, fallita la quale è quasi scontata l’instaurazione di una causa). In altri termini, il parere chiesto al consulente di fiducia può valere per stabilire la strategia difensiva processuale, pre-processuale o anche nella fase c.d. giustiziale in sede di tutela in via amministrativa. E si è giustamente osservato che, un’indiscriminata ammissione all’accesso alle consulenze legali dell’amministrazione potrebbe alterare posizioni paritarie e comunque negativamente incidere sul diritto di difesa costituzionalmente garantito (art. 24) anche in favore della parte pubblica di una controversia (Cons., Stato, sez. V, n. 1893/2001, cit., in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2001-1893.htm), sbilanciando queste posizioni in favore della controparte, alla quale si finirebbe col fornire una condizione di privilegio, senza contropartite, un … favore non da ricambiare.

Da qui l’esclusione dall’accesso della documentazione relativa ai rapporti di consulenza esterna propriamente afferente ad un giudizio in atto o ad un … pre-giudizio.

E’ di tutta evidenza che quanto sin qui detto in questo sub-paragrafo non deve trarre in inganno lasciando immaginare una sorta di aproblematicità della questione che in verità non esiste. Se è facile, infatti, individuare una fattispecie propriamente giudiziale traendone conseguentemente l’inaccessibilità della relativa documentazione proveniente dai legali dell’amministrazione, non è altrettanto semplice accertare, di volta in volta, se il carteggio (pareri e quant’altro) intercorrente tra amministrazione e consulente esterno sia insuscettibile di accesso in quanto inerente ad un quadro pre-contenzioso. Chi sarebbe legittimato a precludere l’accesso a questa documentazione sulla base di un’asserita natura (para- o) pre-contenziosa della vicenda nella quale la richiesta si inserisce, a formulare cioè giudizi di potenziale contenziosità se non la stessa amministrazione che è sospettosamente incline a far valere detta natura onde potere rifiutare l’accesso stesso? Ed è proprio su questo, più che sul profilo formale riguardante la destinazione effettiva del parere legale reso, che nasce e verte la gran parte della giurisprudenza che la prassi quotidianamente occasiona,.

Ma è, forse, pertinente un’ulteriore considerazione. Se può, infatti, anche ammettersi che la fattispecie possa offrire obiettive indicazioni in termini contenziosi, per esempio, avuto riguardo alla natura (sfavorevole per il destinatario) della pratica avviata dall’amministrazione, sicché è lecito prevedere che, al termine della serie procedimentale, il provvedimento terminale provocherà una reazione da parte del destinatario con l’apertura di una vera e propria fase contenziosa, non altrettanto può dirsi riguardo ad iniziative procedimentali intraprese dall’amministrazione, magari previa puntuale osservanza della prescrizione di cui all’art. 7 della "241" quanto all’avviso di avvio del procedimento, inizialmente preordinate a provvedimenti favorevoli, al punto di non lasciar presagire nessun contenzioso al riguardo, che solo nel prosieguo prendono un indirizzo di segno contrario. In casi del genere, non appare giustificato alcun ostracismo dell’amministrazione di fronte ad una domanda di accesso tipicamente finalizzato al tentativo di … convincere l’amministrazione a riprendere la vecchia rotta favorevole; tentativo pienamente legittimo che non va ostacolato sino a quando non si pervenga alla determinazione finale, con un possibile ulteriore sbocco apertamente contenzioso se si tratterà di soluzione sfavorevole.

3.2.- Come riferito, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, il divieto di accesso non dovrebbe frustrare la "curiosità" dei consiglieri comunali, non foss’altro perché la loro è una curiosità qualificata e quindi giustificata e, quindi ancora, tutelata. E’ qualificata in quanto espressione del potere-dovere, accordato e riservato a ciascuno dei componenti di un collegio amministrativo democraticamente eletto, di ottenere dagli uffici comunali tutte le notizie e tutte le informazioni "utili all’espletamento del proprio mandato", così come previsto dall’art. 31, comma 5, della legge 8 giugno 1990, n. 142; è giustificata, appunto, da esigenze funzionali connesse al mandato elettivo, al punto che non è neppure prescritta un’espressa motivazione per la richiesta di accesso, essendo in re ipsa la giustificatezza della stessa; è tutelata con ogni forma di guarentigia, che non trova riscontro nello status di qualsiasi altro cittadino, al punto che abbraccia ogni possibile argomento, nel senso che non è limitata alle sole competenze amministrative dell’ente, essendo connessa all’espletamento del mandato nella sua più ampia accezione e, quindi, "in tutte le sue potenziali implicazioni al fine di una compiuta valutazione della correttezza e dell’efficacia dell’operato dell’amministrazione comunale".

Senonchè, stante l’alternanza di pronunce di segno opposto, non è stato ancora definitivamente chiarito se l’onnimirante diritto di accesso spettante ai consiglieri comunali si arresti quando impatti con il divieto di cui al decreto del 1996, riguardante la collaborazione, a livello consultivo e defensionale, tra avvocatura erariale ed amministrazioni statali (o equiparate: regioni, università, ecc.); divieto sul quale una prima pronuncia del Consiglio di Stato risale già a dieci anni or sono (sez. IV, 27 agosto 1998, n. 1137), che è stato ritenuto rispondere "ad elementari considerazioni di salvaguardia della strategia processuale della parte, che non è tenuta a rivelare ad alcun soggetto e, tanto meno, al proprio contraddittore, attuale o potenziale, gli argomenti in base ai quali intende confutare le pretese avversarie" (Cons. Stato, sez. V, n. 1893/2001, cit., in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2001-1893.htm) che non ritiene sufficiente garanzia, per ammettere l’apertura anche a pretese conoscitive riguardanti atti defensionali e pareri legali compilati su richiesta dell’amministrazione, il dovere di segretezza che grava sui consiglieri comunali su ogni fatto o notizia (ancorché) legittimamente acquisiti nell’esercizio del loro diritto istituzionale di richiedere l’accesso alla documentazione amministrativa del comune di appartenenza).

Cronologicamente successivo a questo indirizzo - e, quindi, solo in quanto tale, più "moderno" ed "attuale", è l’orientamento assunto dalla stessa Sezione pochi anni dopo, del quale si è detto a conclusione del riepilogo giurisprudenziale (dec. n. 2716/2004, cit., in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds5_2004-05-04.htm). Si ritiene, adesso, sufficiente garanzia il dovere di segretezza gravante sui consiglieri comunali accedenti (art. 43, comma 2, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267) e conseguente che l’espletamento del mandato di cui sono investiti abiliti i consiglieri comunali a conoscere "tutte quante le attività svolte dall’amministrazione comunale nonché dalle aziende e dagli enti dipendenti, affinché possano consapevolmente intervenire in ogni singolo settore… Il mandato dei consiglieri comunali non potrebbe essere pienamente espletato ove ad essi fosse interdetto di potere accedere ad una parte degli atti …Una siffatta limitazione verrebbe, invero, a restringere la possibilità di intervento, sia in senso critico sia in senso costruttivo, incidendo negativamente sulla possibilità d’integrale espletamento del mandato ricevuto". Quanto allo specifico divieto di accesso agli atti difensivi di cui al D.P.C.M. n. 200 del 1996, "le limitazioni poste al riguardo non possono, infatti, applicarsi, in via analogica, ai consiglieri comunali, i quali, nella loro veste di componenti del massimo organo di governo del comune, hanno titolo ad accedere anche agli atti concernenti le vertenze nelle quali il comune è coinvolto nonché ai pareri legali richiesti dall’amministrazione comunale, onde prenderne conoscenza e poter intervenire al riguardo".

A questi criteri largamente ammissivi sembra si stia adeguando la giurisprudenza amministrativa di primo grado (v. T.a.r. Toscana, 6 aprile 2007, n. 622, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/tartoscana2_2007-04-06.htm).

Si rimane, tuttavia, perplessi circa l’affermazione che, quanto al divieto di accesso agli atti dei legali della p.a. (avvocatura erariale o foro libero), si tratterebbe di applicazione "in via analogica", quasi che la disposizione regolamentare in esame fosse diretta a destinatari specifici, diversi dai consiglieri comunali, quando invece l’art. 2 si limita a prescrivere il divieto di accesso in sé e per sé considerato, ossia in termini meramente oggettivi, con l’indicazione degli atti sottratti all’accesso (addirittura con qualche ripetizione: ad es., per la "corrispondenza", menzionata due volte), ma senza riferimento alcuno ai destinatari del divieto stesso, distinti in categorie e/o qualifiche, tal che i consiglieri, non contemplati specificamente in queste fantomatiche categorie, potrebbero essere coinvolti nel divieto di accesso solo in via di analogia e non direttamente.

3.3.- Assolutamente scontata, infine, appare la riconosciuta equiparazione tra avvocatura erariale, foro libero e avvocatura interna di enti pubblici, quanto all’estensione del diritto di accesso a pareri legali ed atti defensionali in genere (atti difensivi in senso stretto e corrispondenza varia): il ruolo professionale svolto da questi avvocati e l’uso che dei loro scritti viene fatto dall’ente pubblico dagli stessi assistiti non giustificano, infatti, distinzione alcuna.


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