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1/2014 - ©
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MARCO ROSSI (*)
Società
partecipate, la legge di stabilità rafforza l'obbligo di
dismissione
di cui alla L. 244/2007 tra luci ed ombre
La Legge di Stabilità (contenuta nella L. 147/2013), come noto, ha profondamente rinnovato la disciplina delle società partecipate dagli enti locali, tanto dal punto di vista delle regole per il loro mantenimento (superando il previgente obbligo di dismissione introdotto dalla L. 122/2010 per gli enti di minore dimensione) quanto dal punto di vista dei vincoli gestionali.
In tale quadro di riferimento, risultano del tutto peculiari, poi, le misure adottate, seppure per un periodo limitato, per dare concreta attuazione, anche per società non appetibili per il mercato, all'obbligo di dismissione previsto, per gli enti locali, dalla L. 244/2007 (Legge Finanziaria 2008).
Tale obbligo, come si ricorderà, interessava le società aventi ad «oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali».
Queste società, in particolare, avrebbero dovuto essere cedute, mediante procedure ad evidenza pubblica, entro 36 mesi (per effetto della proroga contenuta nella L. 69/2009) dall’entrata in vigore della legge, ossia entro il 31.12.2010.
Si è trattato di un adempimento che, indubbiamente, ha avuto – sul piano sostanziale – un impatto tendenzialmente limitato, nel senso che ha determinato la dismissione di un numero estremamente contenuto di partecipazioni, anche tra quelle ritenute non strettamente strategiche dai rispettivi enti locali.
Da una parte, infatti, hanno rilevato ragioni legate alle amministrazioni pubbliche interessate, che hanno inteso sovente la norma come un mero adempimento formale, da assolvere individuando le motivazioni che avrebbero consentito comunque il mantenimento della partecipazione detenuta.
Dall’altra parte, invece, hanno inciso ragioni più oggettive e legate allo specifico contesto di riferimento: le società in questione avevano talora registrato delle perdite e in alcuni casi le partecipazioni da dismettere erano largamente minoritarie, risultando così scarsamente appetibili dal mercato.
A dimostrare il limitato effetto prodotto dalla disposizione rileva la circostanza che, proprio dopo la scadenza del termine originariamente previsto, il legislatore è intervenuto in modo decisamente più drastico con l’art. 14 della L. 122/2010, prevedendo un obbligo di dismissione di tutte le società (con alcune deroghe ed eccezioni) per i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti e delle società ulteriori rispetto alla prima per i comuni con popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti.
In tale quadro di riferimento si inserisce la scelta operata dalla la Legge di Stabilità 2014, che offre alle amministrazioni in questione una transitoria e straordinaria opportunità per "uscire" dalle società non strettamente necessarie per il conseguimento delle finalità istituzionali, peraltro non scevra da criticità tanto per gli stessi enti pubblici quanto per le società partecipate.
Si stabilisce, infatti, al comma 569 dell’art. 1, che il termine di trentasei mesi originariamente previsto per al dismissione delle partecipate (in scadenza, come detto, al 31.12.2010) è prorogato di 4 mesi dalla data di entrata in vigore della L. 147/2013, decorsi i quali la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto.
Nei successivi 12 mesi alla cessazione, poi, la società è chiamata a liquidare in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'art. 2437-ter, secondo comma, del codice civile, relativi al recesso dalle spa, che prendono in considerazione la «consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell'eventuale valore di mercato delle azioni» (nessun richiamo è operato all’art. 2473 del codice civile, relativo al recesso nelle società a responsabilità limitata).
Quindi, in primis, è riaperto il termine per la dismissione delle partecipazioni non detenibili, per quanto già scaduto da 3 anni, per rendere disponibile un’ulteriore finestra temporale al fine di garantire agli enti la possibilità di tentare di realizzare l’alienazione delle azioni e quote non strategiche.
Nell’ambito di tale periodo, che ha una durata di 4 mesi dall’entrata in vigore della L. 147/2013 (si conclude a fine aprile), quindi, gli enti locali sono chiamati nuovamente a svolgere le procedure di dismissione delle partecipate, ricorrendo all’evidenza pubblica.
In caso di mancata alienazione, entro il termine indicato, poi, è previsto un meccanismo del tutto nuovo e peculiare per interrompere il rapporto societario intercorrente tra l’ente e la società partecipata, inedito altresì nell’ambito del diritto societario (che pure conosce degli strumenti, come il diritto di recesso, che conducono al conseguimento del medesimo risultato).
E’, infatti, stabilito che, trascorso tale termine, la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto e che, nei successivi 12 mesi, la società è chiamata a liquidare in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'art. 2437-ter, secondo comma, del codice civile.
Di conseguenza, si prevede una decadenza ope legis della partecipazione con il conseguente obbligo, per la società, di procedere alla liquidazione all’ente del valore delle quote o delle azioni detenute in funzione della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali nonché dell’eventuale valore di mercato.
Non si tratta, esplicitamente, di un diritto di recesso, dal momento che il legislatore non qualifica come tale lo strumento innovativo introdotto: del resto, vi sono alcune differenze significative, come emerge considerando che l’esercizio del diritto di recesso comporta e presuppone l’espressione di una volontà, legata all’interruzione del rapporto societario.
Tale espressione, nel caso di specie, eventualmente, potrebbe essere individuata nella deliberazione con cui l’ente ha riconosciuto (ai sensi della L. 244/2007) che la partecipazione non risulta strettamente necessaria al conseguimento delle finalità istituzionali ovvero nella procedura ad evidenza pubblica esperita per giungere alla cessione.
A corroborare la conclusione che non si tratti di un vero e proprio diritto di recesso rileva anche il richiamo normativo operato, che riguarda non l’intera procedura relativa al recesso quanto esclusivamente i criteri (previsti dal codice civile per le società per azioni) da utilizzare per individuare il valore da liquidare al socio (ente locale) uscente.
Del resto, anche l’iter ordinariamente disciplinato dal diritto societario per giungere alla liquidazione del socio a seguito dell’esercizio del diritto di recesso è molto diverso da quello ipotizzato nella Legge di Stabilità 2014.
Ai sensi dell’art. 2437 quater, infatti, in primis, gli amministratori devono offrire le azioni del socio recedente agli altri soci in proporzione al numero delle azioni possedute.
In caso di mancato acquisto da parte degli altri soci, poi, è previsto il collocamento presso terzi, ovvero presso soggetti non soci.
Qualora anche tale soluzione non consenta di procedere alla cessione delle azioni del socio recedente è disposto il rimborso delle azioni del recedente mediante acquisto da parte della società utilizzando riserve disponibili anche in deroga ai limiti previsti per l’acquisto di azioni proprie.
In assenza di utili e riserve disponibili, poi, deve essere convocata l’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale ovvero lo scioglimento della società.
Non va neppure dimenticato che, nell’ambito del recesso, i soci hanno diritto di conoscere la determinazione del valore delle azioni nei quindi giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea da cui può scaturire il riconoscimento di un diritto di recesso.
Alla luce di tali considerazioni sono del tutto evidenti le differenze tra la procedura del recesso e l’iter disegnato, in via eccezionale, dalla Legge di Stabilità 2014, che prevede immediatamente la cessazione della partecipazione e, nel termine di 12 mesi, l’obbligo di liquidazione in contanti della quota di partecipazione.
La riconduzione o meno di questa procedura peculiare allo strumento del recesso, peraltro, ha anche un ulteriore impatto rilevante, tra l’altro di contenuto sostanziale.
In caso di disaccordo sul valore, infatti, qualora non si riconduca la fattispecie al caso del recesso, non risulterebbe applicabile la procedura (sicuramente più rapida e semplificata) di cui all’art. 2437 ter, ultimo comma, del codice civile che rinvia la determinazione del valore di liquidazione ad «relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte diligente»
Di conseguenza, nel caso di specie, occorrerebbe procedere attraverso l’attivazione di un normale procedimento contenzioso presso il giudice ordinario, chiamato (eventualmente mediante apposita consulenza tecnica d’ufficio) a determinare il valore da riconoscere all’ente.
Ed in effetti non è difficile immaginare che la soluzione introdotta dal legislatore possa comportare il verificarsi di disaccordi tra società ed enti locali nella determinazione del valore della partecipazione, soprattutto in presenza di una quota rilevante detenuta nella società, con la conseguente consistenza dell’uscita finanziaria che quest’ultima è chiamata a sopportare.
Così come non è parimenti difficile ipotizzare che l’applicazione della disposizione in questione possa determinare tensioni finanziarie per le società interessate, che devono comunque sostenere un esborso che, in precedenza, non era previsto (e che, eventualmente, potrebbe comportare, nelle situazioni più critiche, la messa in liquidazione).
Nel complesso, quindi, un’opportunità a disposizione degli enti locali con luci ed ombre che questi ultimi dovranno utilizzare attentamente ed applicare rigorosamente nei termini e secondo le modalità puntualmente individuate dalla normativa (anche per evitare possibili contestazioni in ordine alla stessa cessazione della partecipazione).
In particolare, risulta necessario ribadire (richiamando le deliberazioni di ricognizione già adottate) la circostanza, supportata da adeguata motivazione, che la partecipazione non si presenta strettamente necessaria al conseguimento delle finalità istituzionali dell’ente.
Successivamente, sembra indispensabile esperire una procedura di alienazione ad evidenza pubblica, che sarebbe opportuno notificare e rendere nota alla società interessata, anche per gli effetti che scaturiscono dall’eventuale conseguente insuccesso.
In caso di risultato infruttuoso, poi, occorrerebbe comunicare alla società in questione l’operatività del meccanismo (cessazione della partecipazione) previsto dal comma 569 dell’art. 1 della L. 147/2013, ossia la cessazione del rapporto di partecipazione e il conseguente obbligo, per la società, di procedere alla liquidazione entro 12 mesi.
(*) Dottore commercialista in Genova; professore a.c. all’Università di Genova; consulente, revisore e componente di organismi indipendenti di valutazione e nuclei di valutazione di enti locali; esperto in materia di servizi pubblici e società a partecipazione pubblica.