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Articoli e note

n. 2/2004 - © copyright

ALFONSO RICCARDO

Le progressioni verticali del personale degli
enti locali: stop and go tra legge, regolamenti,
contratti collettivi e giurisprudenza
della Corte Costituzionale (
*)

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Lo scenario normativo. – 3. Concorsi interni e progressioni verticali – La capacità «regolativa» dei contratti collettivi. – 4. Il criterio di «adeguatezza» dell’accesso dall’esterno. – 5. Il giudice competente alla cognizione delle controversie. – 6. Conclusioni.

1. Introduzione.

Una delle più rilevanti novità introdotte nell’ambito del corposo processo di riforma del lavoro all’interno delle amministrazioni pubbliche registratosi negli ultimi anni, è certamente individuabile nell’istituto delle c.d. «progressioni verticali» nel sistema di classificazione del personale, siccome scaturito dal CCNL 31.03.1999 del comparto Regioni-Enti Locali.

Si tratta di uno strumento di progressione nella carriera del personale non dirigente, inserito in un più ampio quadro di modernizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze degli enti territoriali, che tuttavia risente nella sua pratica attuazione di un contesto normativo ed applicativo di sostanziale transizione.

In particolare sull’istituto in argomento si riflettono, in forma di contrasto, alcuni compromessi tipici della contrattualizzazione unitamente alla difficoltà per gli operatori (compresa la giurisprudenza) di comprendere appieno e nella sua globalità la portata d’innovazione, anche sotto il profilo strettamente culturale, che le riforme del pubblico impiego hanno determinato nella seconda metà degli anni ‘90.

Di recente l’argomento ha assunto particolare attualità, a seguito di alcune decisioni della Corte costituzionale, che sembrerebbero destinate a frenare il ricorso a tale strumento, in ragione della necessità di osservare la regola generale del concorso pubblico per l’accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione.

Il presente articolo ha l’obiettivo di tracciare una ricostruzione dell’istituto, con specifico riguardo al quadro normativo ed organizzativo degli enti locali, al fine di sottolinearne le potenzialità ed allo stesso tempo delineare spunti ed argomenti convincenti per la prassi applicativa, anche per porre al riparo gli operatori dal contenzioso, per certi versi inevitabile, che il ricorso a detto istituto comporta.

2. Lo scenario normativo.

Il punto di partenza della nostra analisi non può che essere costituito dalla ricognizione delle disposizioni legislative generali sull’ordinamento del lavoro all’interno delle amministrazioni pubbliche, oggi raccolte nel d.l.vo 30 marzo 2001, n. 165.

Tali disposizioni esprimono l’esercizio della discrezionalità legislativa in rapporto all’evoluzione economico-sociale ed alle istanze di modernizzazione dell’amministrazione pubblica, nell’ambito della riserva di legge contenuta nell’art. 97 della Costituzione.

Con riguardo al richiamato d.l.vo 165/01, le disposizioni di maggiore interesse ai fini del presente lavoro sono:

a)    l’art. 2, relativo al riparto tra fonti pubblicistiche e fonti contrattuali per la regolazione rispettivamente degli aspetti organizzativi e del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti;

b)   l’art. 35, in materia di reclutamento del personale, con specifico riferimento al comma 7, ove si attribuisce al Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi degli enti locali, la disciplina dell’assunzione, dei requisiti di accesso e delle procedure concorsuali e/o selettive;

c)    l’art. 52, relativo alla disciplina delle mansioni, ove si fa espresso riferimento all’accesso alla qualifica superiore a seguito di sviluppo professionale e procedure concorsuali o selettive;

d)   l’art. 63, concernente la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie concernenti i rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, incluse quelle relative all’assunzione.

Poiché il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali, giusto il disposto dell’art. 70, comma 3, del d.l.vo 165/01, è disciplinato anche dal Testo Unico d.l.vo 267/00, nonché dai contratti collettivi, vanno altresì segnalati:

a)    l’art. 91 del Tuel, il quale attribuisce agli enti locali la facoltà di ricorrere a concorsi interamente riservati al personale dipendente, solo in relazione a particolari profili e figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all’interno dell’ente;

b)   l’art. 4 del CCNL 31.03.1999, ove è riportata la disciplina delle progressioni verticali, secondo la prospettiva propria dei contratti collettivi.

In rapporto a tale complesso quadro normativo, a tutt’oggi non oggetto di scrutinio di legittimità costituzionale, il sistema delle autonomie è tenuto ad interrogarsi sulla portata di due significative sentenze della Corte costituzionale [1] (1/99 e 194/02) che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni di legge dello Stato [2] relative al personale dipendente dall’amministrazione finanziaria, in virtù del fatto che queste consentivano uno «scivolamento» generalizzato verso le qualifiche superiori, in violazione della regola generale del pubblico concorso, ritenuta più conforme al dettato costituzionale di cui all’art. 97 Cost.

Fermo restando il fatto che le citate sentenze della Corte costituzionale non producono alcun effetto sul quadro normativo che regola le progressioni verticali siccome disciplinate nell’ambito degli enti locali dalla normativa surrichiamata, vi sono alcuni argomenti utilizzati dalla giurisprudenza costituzionale a sostegno delle proprie decisioni, che indubbiamente muovono in rotta di collisione con la ratio che è posta a fondamento delle progressioni verticali.

In particolare suscita riflessioni problematiche la «stretta» interpretazione della nozione di accesso ai pubblici impieghi che la Corte fa propria.

In buona sostanza, mentre il sistema discendente dalla privatizzazione sembrava avviarsi verso una nozione unica di accesso riferibile a quello iniziale, per cui i successivi passaggi di categoria e/o qualifica si configuravano come sviluppo della professionalità all’interno di una visione monistica [3] della carriera del lavoratore pubblico, la Corte sembra propendere per un’interpretazione «parcellare» dell’accesso, per cui ad ogni impiego pubblico corrisponderebbe un autonomo percorso di accesso, cui dovrebbe quindi riconnettersi un’autonoma procedura concorsuale di norma aperta all’esterno, tranne il caso di deroghe legislativamente consentite nel rispetto del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione [4].

Il problema è quindi essenzialmente culturale ed interpretativo, poiché il dettato costituzionale consente sicuramente un approccio «storicizzato», attraverso la mediazione della discrezionalità legislativa, allorquando testualmente stabilisce all’art. 97 Cost., comma 3, che: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge» [5].

Orbene non può sfuggire il fatto che le argomentazioni poste in essere dalla Corte costituzionale, in ordine alla declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni di legge dello Stato relative al personale dell’amministrazione finanziaria (queste ultime oggettivamente abnormi sotto il profilo di un’estensione generalizzata ed incontrollata di incrementi di carriera), ove non ricontestualizzate con specifico riferimento all’assetto normativo dello sviluppo professionale siccome disciplinato precipuamente nel d.l.vo 165/01 e nei contratti collettivi, si configuri come lesivo di altri e, se vogliamo, più rilevanti principi costituzionali.

Il riferimento deve svolgersi alle conseguenze pratiche che una rigida esclusione delle potenzialità di sviluppo professionale comporterebbe relativamente alla sfera della personalità del lavoratore, secondo i parametri costituzionali dell’art. 2 Cost., in riferimento ai diritti inviolabili della persona, e dell’art. 35 Cost., segnatamente laddove il lavoro è costituzionalmente tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni (compreso ovviamente il lavoro pubblico), e relativamente alla cura della formazione e dell’elevazione professionale dei lavoratori.

Il diritto inviolabile alla crescita della persona, sotto il peculiare aspetto dello sviluppo della professione intesa anche come svolgimento della personalità del lavoratore, non può essere quindi talmente compresso dalle regole sull’accesso agli impieghi fino a determinare la mancanza di stimoli al miglioramento della quantità e qualità del proprio lavoro, su cui svolge certamente carattere di strumentalità essenziale la prospettiva di avanzamento di carriera.

Accedendo a tale prospettiva si determinerebbe una precostituzione di vincoli normativi allo sviluppo della personalità del lavoratore, non compatibili con le dinamiche di crescita ed elevazione della persona che il quadro costituzionale impone.

Per altro verso l’ipotizzata restrizione, sarebbe contraria anche allo stesso principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, essenzialmente per due ordini di ragioni.

In primo luogo la mancanza di prospettive di crescita e sviluppo professionale, determinerebbe una sostanziale impossibilità di condurre il sistema pubblico, verso quelle condizioni di concorrenzialità positiva, anche interna, che tramite il ricorso a modelli di tipo «privatistico» si è voluto ricercare per accrescere i livelli di efficienza dell’azione amministrativa [6].

Per altro verso, il sistema sarebbe intrappolato all’interno di una neo-immobilità, ed alle amministrazioni pubbliche, assimilate ormai in misura prevalente ai privati datori di lavoro, non sarebbe consentito rispettivamente incentivare e disincentivare i dipendenti più capaci e meritevoli in confronto a quelli che per una pluralità di ragioni lo sono di meno o non lo sono per nulla.

Inoltre, pur nella ricorrenza di ordinate e precise condizioni, deve riconoscersi il carattere di «valore aggiunto» che la maturazione e l’esperienza acquisita all’interno dell’ente di appartenenza assumono. Un patrimonio di conoscenze e di esperienza che sistematicamente andrebbe disperso, inibendo l’accesso alle categorie (o qualifiche) superiori [7].

Il complesso di ragioni che sopra abbiamo evidenziato, porta a concludere per l’assoluta irragionevolezza di qualunque posizione tesa a ritenere le progressioni verticali non conformi sotto il profilo della legittimità costituzionale.

Si tratta al contrario di mettere ordine e di applicare, in modo intrinsecamente coerente, un affastellato quadro normativo, tenendo presente la delicatezza delle azioni poste in essere dalle pubbliche amministrazioni allorquando procedono alla pianificazione dei propri fabbisogni di personale ed attivano una pluralità di strumenti (legalmente previsti) per la copertura dei posti previsti nelle rispettive dotazioni organiche.

3. Concorsi interni e progressioni verticali - La capacità «regolativa» dei contratti collettivi.

Un elemento decisivo per risolvere in modo convincente la questione in esame, è probabilmente quello connesso alla possibilità di individuare un effettivo discrimine, tra l’uso sostanzialmente indifferenziato che è fatto dei termini concorsi interni, procedure selettive, progressioni verticali, nel quadro normativo che sopra abbiamo descritto [8].

Va subito precisato che la nozione di «progressioni verticali» è propria del nuovo ordinamento professionale del personale del Comparto Regioni-EE-LL scaturito dal CCNL 31.03.1999, e risulta, secondo il disposto dell’art. 4 del contratto medesimo, direttamente collegata al passaggio alla categoria immediatamente superiore del sistema di classificazione [9].

Tuttavia, all’interno di tale istituto, lo stesso art. 4 del CCNL 31.03.1999, distingue due diverse tipologie di progressioni verticali.

La prima, più esplicitamente riconducibile al tradizionale istituto del concorso interno, concerne le progressioni verticali «… finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria immediatamente superiore … nel limite dei posti vacanti della dotazione organica di tale categoria che non siano destinati all’accesso dall’esterno …».

La seconda, concerne «… la copertura dei posti vacanti dei profili caratterizzati da una professionalità acquisibile esclusivamente all’interno degli stessi enti …».

Per entrambe le tipologie di progressione, la disciplina è integralmente attribuita ai regolamenti di organizzazione degli enti, i quali nel rispetto della propria autonomia normativa, debbono garantire il ricorso a procedure selettive e tenere conto dei requisiti professionali connessi al sistema di classificazione contrattualmente stabilito.

Le disposizioni contrattuali sopra richiamate vanno lette insieme al disposto dell’art. 52 del d.l.vo 165/01, laddove in tema di disciplina delle mansioni del prestatore di lavoro di una pubblica amministrazione, si stabilisce il principio della classificazione contrattuale delle categorie [10] (o qualifiche), e soprattutto si distingue nitidamente il mutamento delle mansioni e la progressione nel sistema di classificazione, attraverso le diverse ed autonome forme dello sviluppo professionale, e delle procedure concorsuali o selettive.

È quindi in tale contesto che si colloca la compatibilità di un intervento «contrattuale» per la regolazione delle progressioni verticali, che vanno configurate quindi al di fuori delle procedure di accesso disciplinate dai regolamenti degli enti (fonte di tipo pubblicistico) secondo il disposto dell’art. 35, comma 7, del d.l.vo 165/01.

Tuttavia sul punto un qualche effetto di antinomia tra le fonti richiamate, effettivamente si realizza allorquando, relativamente alle progressioni verticali, la disciplina è attribuita dall’art. 4 del CCNL 31.03.1999, ai regolamenti di organizzazione dei singoli enti in ordine alle procedure selettive, poiché in realtà seguendo l’impostazione sopra delineata, il CCNL 31.03.1999 non riesce a portare alle estreme conseguenze il principio della contrattualizzazione del sistema di classificazione e la disciplina dello sviluppo professionale all’interno delle medesime (in ciò abbiamo all’inizio indicato il compromesso tipico della contrattualizzazione) [11].

Si deve quindi concludere per la sussistenza di uno specifico istituto costituito dalle progressioni verticali nel sistema di classificazione il quale, nell’ambito di una nozione monistica del rapporto di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, contempla lo sviluppo professionale dei lavoratori da realizzarsi all’interno di procedure selettive disciplinate dai regolamenti di organizzazione dei singoli enti.

Tale fattispecie si distingue dal c.d. concorso interamente o parzialmente riservato all’interno, che in realtà potrebbe anche permanere nella disciplina regolamentare degli enti, e peraltro non essere vincolato al requisito della collocazione nella categoria immediatamente inferiore come invece obbligatoriamente prevede l’art. 4 del CCNL 31.03.1999.

Le progressioni verticali vanno quindi intese come qualcosa di fondamentalmente diverso ed originale, nel senso che esse costituiscono lo strumento attraverso il quale realizzare lo sviluppo e la crescita professionale dei lavoratori, nell’ambito del sistema di classificazione disciplinato contrattualmente.

4. Il criterio di «adeguatezza» dell’accesso dall’esterno.

Delineata la peculiarità dell’istituto delle progressioni verticali, occorre stabilire fino a che punto gli enti possono farvi ricorso, ed in che termini si possa ragionevolmente articolare la deroga al concorso pubblico con accesso dall’esterno.

Invero il criterio che l’art. 35, comma 1, lett. a), del d.l.vo 165/01, individua è quello della «adeguatezza» dell’accesso dall’esterno.

La disposizione obbliga a garantire una misura adeguata all’accesso dall’esterno, ma occorre capire con quale finalità.

Vi è da registrare immediatamente la circostanza in forza della quale il legislatore declina in favore dell’autonomia organizzativa dei singoli enti, sulla base ovviamente della rispettiva pianificazione dei fabbisogni di personale (da svolgersi con cadenza triennale ai sensi dell’art. 39 della L. 449/97) ed in rapporto alle disponibilità di bilancio, la misura adeguata mediante la quale assicurare che i posti disponibili nella dotazione organica siano ricoperti mediante accesso dall’esterno.

Tale criterio di adeguatezza, coniugato rigidamente con i principi desunti dalle sentenze della Corte costituzionale più volte citate, ha spesso spinto a ritenere illegittimi gli atti di pianificazione dei fabbisogni che indicano esclusivamente nel ricorso a procedure selettive interne le modalità di copertura dei posti disponibili, in un determinato arco temporale [12].

Tale posizione non è condivisibile per una serie di ragioni, che di seguito si descrivono.

In primo luogo deve osservarsi che le condizioni in cui ciascun ente può storicamente venirsi a trovare possono essere le più disparate, proprio in rapporto alla mutevolezza dei fabbisogni di personale.

In altri termini, in un dato periodo ed in coerenza con un’autonoma valutazione svolta dagli enti in sede di redazione del piano della manodopera, le professionalità richieste possono essere collocate in ambiti di professionalità acquisite o acquisibili interamente all’interno dell’ente, ovvero altrimenti richiedere necessario l’integrale ricorso all’accesso esterno.

Inoltre sulla scelta effettuata dalle singole amministrazioni può incidere in modo significativo il profilo della capacità di spesa, sopratutto allorquando si prevede, una volta perfezionato l’iter della progressione verticale, che i posti di provenienza siano soppressi.

È chiaro in quest’ultimo caso che utilizzando lo strumento della progressione verticale, si consente anche un consistente risparmio di risorse, perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi di riallocazione del personale a seguito di mutamenti organizzativi.

Infine appare decisivo, al fine di delineare il concreto applicarsi del criterio di adeguatezza, guardare alle dimensioni dell’ente e della programmazione del personale di cui lo stesso si dota.

È di tutta evidenza che non possono essere posti sullo stesso piano enti di piccole dimensioni, che pianificano il proprio fabbisogno di personale sulla base di esigue movimentazioni, rispetto ad enti di grandi dimensioni che coinvolgono numerosi posti di organico nella propria programmazione.

Sicché il rispetto del principio di adeguatezza, potrebbe ritenersi assicurato nel caso in cui, motivatamente, un ente di piccole dimensioni facesse ricorso esclusivo alle progressioni verticali per ricoprire i propri fabbisogni; al contrario lo stesso principio potrebbe ritenersi non osservato qualora un ente di grandi dimensioni destinasse la copertura del 50% dei posti disponibili alle procedure selettive interne, senza dimostrare la congruità delle ragioni organizzative poste a fondamento di tale scelta.

Si tratta di verificare caso per caso, e quindi in sede giurisprudenziale ed in ragione di un approccio anche sostanzialistico, secondo una valutazione che è rimessa al giudice amministrativo (da ritenere competente relativamente ai programmi di fabbisogno di personale), la legittimità degli atti posti in essere dalle singole amministrazioni, per quanto attiene alla concreta osservanza del principio di adeguatezza del ricorso all’accesso dall’esterno e delle eventuali ragioni che hanno determinato le amministrazioni a provvedere diversamente.

5. Il giudice competente alla cognizione delle controversie [13].

A seconda dell’approccio teorico con cui si accede all’istituto delle progressioni verticali, si perviene alla conclusione in ordine all’individuazione del giudice competente alla cognizione delle relative controversie.

In questa sede abbiamo privilegiato e segnalato una concezione monistica del rapporto di lavoro all’interno delle amministrazioni pubbliche, per cui concependo le progressioni verticali prevalentemente come forma di sviluppo professionale all’interno del sistema di classificazione contrattualmente regolato, ne segue l’attribuzione al giudice ordinario delle relative controversie [14].

Sul punto non può condividersi la diversa posizione, pur registrata in talune pronunce giurisprudenziali [15] poiché essa rompe l’unità logica del criterio di riparto relativo alle controversie sul rapporto di lavoro, che già dalla fase relativa all’assunzione è devoluta alla cognizione del giudice ordinario.

Seppure i criteri e le procedure per lo svolgimento delle selezioni siano disciplinate da atti amministrativi (regolamenti), questi non possono determinare la riconduzione in capo al giudice amministrativo della relativa competenza giurisdizionale, fermo restando che il giudice ordinario in sede di assunzione delle proprie decisioni può disapplicare gli atti amministrativi posti a fondamento delle procedura, ove li ritenga illegittimi.

6. Conclusioni.

Si deve concludere in ragione delle riflessioni sopra svolte, che le perplessità sorte negli operatori a seguito delle sentenze della Corte costituzionale, possono essere superate purché si comprenda fino in fondo il quadro normativo di riferimento e si proceda in sede applicativa seguendo un approccio allo stesso tempo moderno e rigoroso.

Indubbiamente è riscontrabile un diffuso difetto di comprensione dei sistemi introdotti dal legislatore nella seconda metà degli anni ’90, e ciò si traduce in un limite culturale alla concreta realizzazione dei processi di innovazione delle amministrazioni pubbliche.

In ogni caso, aldilà delle dichiarazioni di incostituzionalità di disposizioni di legge palesemente abnormi sotto il profilo degli effetti che erano destinate a porre in essere, ciò che deve meglio sedimentarsi nella prassi giurisprudenziale ordinaria (atteso che il quadro legislativo non sembra difettare di costituzionalità) è un approccio sostanzialistico per quanto attiene alle concrete decisioni assunte dai vari enti in sede di pianificazione dei propri fabbisogni.

Allo stesso tempo appare estremamente approssimativo in taluni casi un approccio non legato all’analisi compiuta ed attenta dello scenario, quasi a volere determinare una contrazione delle azioni delle amministrazioni pubbliche sul punto, che al contrario vanno aiutate nell’adeguare i propri ordinamenti e la propria prassi ai modelli innovativi della contrattualizzazione.

È ragionevole quindi concludere nel senso che le progressioni verticali nel sistema di classificazione del personale degli enti locali, costituiscono un istituto assolutamente conforme alle disposizioni di legge vigenti, non intaccato dalle sentenze della Corte costituzionale (attinenti a disposizioni legislative del tutto diverse), precisando che in ogni caso la opportunità  del ricorso alle dette procedure per la copertura di posti vacanti in organico, è rimessa alle autonome determinazioni delle singole amministrazioni, le quali hanno l’obbligo di porre a fondamento delle proprie scelte di pianificazione l’interesse pubblico generale al buon andamento dell’attività amministrativa, senza tuttavia perdere di vista che la crescita e lo sviluppo professionale dei lavoratori sono valori egualmente tutelati dalla Costituzione della Repubblica.


 

(*) Il presente contributo è stato pubblicato nella Rivista “Nuove autonomie”, n. 4-6/2003 - Quattrosoli Editore.

[1] Si veda per un approfondimento sulla sentenza della Corte costituzionale n. 1/99, g. ciaravino, La progressione verticale nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni: questioni di costituzionalità e di giurisdizione, in www.lexitalia.it.

[2] Si trattava, per entrambe le decisioni, dell’art. 3, commi 205, 206 e 207, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), oggetto di successive modifiche, prima con l’art. 6, comma 6-bis, del decreto-legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in legge 28 febbraio 1997, n. 30, nonché, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 1/99, dall’art. 22, comma 1, lettere a), b) e c) della legge 13 maggio 1999, n. 133.

[4] La Corte costituzionale così si esprime: «secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta “… l'accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso” (cfr. per tutte: sentenza n. 320 del 1997, sentenza n. 1 del 1999), in quanto proprio questo metodo offre le migliori garanzie di selezione dei soggetti più capaci …» (cfr. sentenza 16 maggio 2002, n. 194).

[5] Peraltro il dato testuale della disposizione costituzionale riportata non aggiunge al termine «concorso» la locuzione «pubblico», per cui è difficile desumere dall’impianto costituzionale la necessità indiscriminata di procedere all’accesso agli impieghi mediante pubblico concorso aperto anche all’esterno, e ciò anche nella considerazione che il carattere concorrenziale e meritocratico della procedura di accesso potrebbe in ogni caso essere assicurato ancorché si verta in ipotesi di concorsualità ristretta all’interno di dipendenti già in servizio presso una determinata pubblica amministrazione. Sul punto, la stessa Corte costituzionale, ha sostenuto che: «… il sistema preferibile per la prima ammissione in carriera … sia quello del pubblico concorso …» riconoscendo tuttavia che l’art. 97, comma 3, Cost. «… non lo eleva a regola assoluta, lasciando libero il legislatore di adottare sistemi diversi, purché anch’essi congrui e ragionevoli in rapporto al fine da raggiungere ed all’interesse da soddisfare» (cfr. sentenza 7 aprile 1983, n. 81).

[6] In realtà la Corte costituzionale, nella sentenza n. 1/99, entra in una certa contraddizione, allorquando argomenta a sostegno della illegittimità costituzionale delle norme statali in discussione, proprio … la privatizzazione del pubblico impiego operata dal legislatore nel corso degli anni ‘90. Sul punto si veda, m. montini, Il nuovo ordinamento professionale dei pubblici dipendenti alla luce della sentenza della Corte cost. n. 1/1999, in Lavoro nelle p.a., 1999, p. 119 e ss.

[7] Questo non significa in alcun modo giustificare avanzamenti di carriera in ragione della sola anzianità di servizio, circostanza peraltro confermata dai contratti collettivi di comparto che non fanno alcun riferimento a detto requisito relativamente all’istituto delle progressioni verticali.

Al contrario è attraverso un moderno, efficace e puntuale sistema di valutazione delle prestazioni dei dipendenti che si può pervenire alla individuazione di criteri oggettivi e meritocratici in forza dei quali creare un «patrimonio» professionale che possa costituire il presupposto per lo sviluppo verso l’alto della carriera dei dipendenti.

[8] Per una ricostruzione dell’istituto che assimila anche sotto il profilo sostanziale le differenze terminologiche registrabili a livello normativo, si veda, m. martinelli, Le procedure di selezione per la progressione verticale negli enti locali, in Azienditalia-Il Personale, Supplemento ad Azienditalia n. 7 - Luglio 2003, p. 317 e ss.

[9] Le parti della contrattazione del Comparto Regioni-EE.LL., hanno vigorosamente difeso il principio in forza del quale le progressioni verticali sono direttamente connesse al sistema di classificazione, per cui l’intervento dei contratti comporta la deroga ad eventuali disposizioni di legge, con contestuale inapplicabilità di queste ultime, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.l.vo 165/00.

Illuminante sul punto è la vicenda relativa all’art. 6, comma 12, della L. 127/97, relativo ai concorsi interamente riservati a personale degli enti locali per figure professionali acquisite esclusivamente all’interno dell’ente. L’art. 4, comma 2, del CCNL 31.03.1999, in evidente deroga alla detta disposizione di legge, consentiva (e consente) il ricorso alle progressioni verticali per professionalità acquisibili all’interno dell’ente. Tuttavia, in sede di refusione nel Tuel d.l.vo 267/00, della disposizione citata, l’art. 91, comma 3, riprodusse il termine legislativo acquisita. Al riguardo il CCNL 05.10.2001, all’art. 9, testualmente recita: «In materia di progressione verticale del personale nel sistema di classificazione, è integralmente ed esclusivamente confermata la disciplina dell’art. 4 del CCNL del 31.3.1999, relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni-Autonomie Locali, anche nella vigenza dell’art. 91, comma 3, del T.u.e.l. n. 267/2000».

[10] Si tratta di uno degli aspetti più significativi del processo di privatizzazione, già vissuto seppur in modo diverso a partire dagli anni ‘70 nel sistema aziendale ed industriale.

In buona sostanza con la disciplina contrattuale delle categorie, si porta avanti il concetto di inquadramento unico, nell’ambito del quale si rivedono contrattualmente da un lato i sistemi di classificazione (mediante accorpamenti e riduzioni in fasce omogenee) e dall’altro si impegna l’imprenditore a valorizzare lo sviluppo professionale dei lavoratori più capaci. Sul punto, f. carinci, r. de luca tamaio, p. tosi, t. treu, Diritto del Lavoro - Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1992, p. 201 e ss. Per una posizione non coincidente a quanto ora sostenuto, si veda, l. oliveri, La ricostruzione costituzionalmente legittima delle progressioni verticali, in www.lexitalia.it.

[11] Poiché comporta un’aporia di ordine logico-giuridico l’attribuzione contrattuale (fonte tipicamente privatistica) della competenza di una determinata disciplina ad una fonte regolamentare (fonte tipicamente pubblicistica), è ragionevole sostenere che in questo caso l’art. 4 del CCNL 31.03.1999, allorquando rinvia agli «atti previsti dai rispettivi ordinamenti» altro non fa che individuare, sempre in sede «contrattuale» e come frutto di un accordo negoziale, nell’autonomia datoriale la fonte di regolazione delle procedure selettive, fermo restando il fatto che in sede di contenzioso il giudice ordinario over ritenga illegittima la clausola regolamentare può disapplicarla, senza pregiudizio della posizione delle amministrazioni pubbliche sotto il profilo formale.

[12] In tal senso, v. p. virga, Progressione verticale mediante procedure selettive, in www.lexitalia.it, secondo il quale (pur riconoscendo che i principi discendenti dalle pronunce costituzionali non precludono in via assoluta il ricorso alle progressioni verticali) in ogni caso vi sarebbe l’inapplicabilità della progressione verticale nel caso in cui riguardi la totalità dei posti vacanti, ovvero nell’ipotesi di posto unico vacante.

[13] Sulle questioni connesse alla giurisdizione competente in materia di progressioni verticali si veda, l. oliveri, Riflessioni sulla giurisdizione relativa alle vertenze per le «progressioni verticali», in www.lexitalia.it.

[14] Per la declinazione in favore del giudice ordinario della competenza relativa alle progressioni verticali è la giurisprudenza prevalente. Si veda, con decisioni sostanzialmente conformi, T.A.R. Sicilia-Palermo, sezione I, sentenza 11 dicembre 2003; T.A.R. Lazio-Roma, sezione III ter, sentenza 8 aprile 2003, n. 3202; T.A.R. Sicilia-Palermo, sezione I, sentenza 24 gennaio 2003, n. 92; Consiglio di Giustizia Amministrativa, sezione giurisdizionale, sentenza 22 aprile 2002, n. 213; T.A.R. Veneto, sezione III, sentenza 3 settembre 2001, n. 2509; Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza 11 giugno 2001, n. 7859.

[15] V. T.A.R. Calabria-Catanzaro, sentenza 11 marzo 2002, n. 567; Tribunale di Lucca, sentenza 5 marzo 2002, n. 210, e di recente con un mutamento significativo di indirizzo in materia di giurisdizione sul punto Cassazione, Sezioni Unite, 15 Ottobre 2003, n. 15403.


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