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Articoli e note

n. 3/2006 - © copyright

MAURIZIO RENZULLI*

Tutela dell'ambiente e proprietà privata

       1. L'individuazione dei limiti posti dalla tutela dell'ambiente alla proprietà privata postula da sempre la risoluzione di due questioni pregiudiziali.

       Occorre, in primo luogo, verificare se nel nostro Ordinamento sia possibile configurare una nozione unitaria d'ambiente dotata di una diretta rilevanza costituzionale o se, invece, l'espressione sia meramente descrittiva di una pluralità di beni - i beni ambientali, appunto - oggetto di distinti sistemi di protezione normativa affidati al legislatore ordinario

       Appare chiaro che, se si dovesse accedere a quest'ultima tesi [1], l'individuazione dei vincoli ambientali alla proprietà privata andrà effettuata valutando, di volta in volta, l'incidenza delle singole discipline di settore sul diritto di proprietà, e verificandone la legittimità costituzionale alla luce dei soli parametri indicati dall'art.42 Cost.

       L'assenza, infatti, di un valore omogeneo a quello espresso dal diritto dominicale sarebbe di per sé preclusiva della possibilità di individuare una limitazione della proprietà privata che non sia quella necessariamente frammentaria ed occasionale derivante dalle norme poste a tutela dei singoli beni ambientali.

       Ad opposta soluzione si perviene, invece, se si ritiene che al termine ambiente corrisponda in diritto un bene unitario direttamente tutelato dalla Carta costituzionale [2].

       In questo caso, l'indagine dovrà essere condotta verificando, già in via generale ed astratta, la reciproca interferenza dei due elementi (ambiente e proprietà privata) in cui si esprime la cennata relazione: attraverso, cioè, una comparazione dei valori che consenta di stabilire - sulla base della diversa rilevanza riconosciuta a ciascuno di essi - in che misura la tutela dell'uno importi un sacrificio dell'altro.

       Si potrà così delineare un originaria limitazione della proprietà privata, direttamente proporzionale all'estensione ed all'importanza riconosciuta al valore ambientale e, sulla base di tale determinazione, valutare la compatibilità costituzionale delle singole disposizioni di settore, che, per questa via, si presenteranno come meramente attuative di un valore giuridico già costituzionalmente definito e garantito [3].

       Ricostruito il contenuto giuridico del concetto di ambiente, appare, poi, necessario stabilire in che misura la tutela dell'ambiente possa comportare una limitazione della proprietà privata.

       Anticipando brevemente quanto si dirà in seguito, si può sin d'ora rilevare che -ammessa la possibilità (anzi la necessità) di un interpretazione evolutiva [4] delle norme costituzionali (che tenga cioè conto, nei limiti prefigurati dal costituente, delle continue trasformazioni sociali in atto) – una simile determinazione non potrà essere compiuta una volta per tutte e con pretesa di assoluta certezza, ma potranno essere solo individuati i meccanismi attraverso i quali, nel corso del tempo, con il mutare dei contesti sociali, il diritto di proprietà si presta ad essere conformato in funzione delle esigenze di tutela ambientale.

       2. L'ambiente (inteso nella sua massima espansione concettuale di spazio nel quale l'individuo svolge ogni atto della sua esistenza) sembra trovare nella Carta costituzionale un diretto ed unitario riconoscimento .

       Dal combinato disposto degli artt.9 e 32 Cost. è possibile derivare una nozione d'ambiente sostanzialmente omogenea e comprensiva non solo di quegli elementi di natura morfologica ed antropica, che già tradizionalmente si facevano rientrare nella locuzione costituzionale di paesaggio, ma anche di quei fattori fisici, biologici e chimici, riconducibili al concetto naturalistico d'ambiente, che soltanto gradualmente, attraverso la progressiva acquisizione delle istanze ambientali provenienti dalla società, sono stati assunti alla massima dignità giuridica.

       L'esegesi degli artt.9 e 32 Cost. appare invero intimamente legata all'evolversi ed al diverso modo di concepire le funzioni dell'Ordinamento in materia ambientale e sanitaria [5].

       Inizialmente configurate quali norme ricognitive di diritti già riconosciuti e garantiti da altri articoli della Costituzione, le disposizioni sulla tutela del paesaggio e della salute sono state investite di un reale contenuto precettivo solo con l'affermarsi della necessità di una protezione diretta (e non più riflessa ed occasionale in quanto meramente conseguenziale alla regolamentazione del diritto di proprietà) di quei fattori ambientali cui è indissolubilmente condizionata l'esistenza stessa della collettività.

       Rimasto per lungo tempo estraneo alla cultura giuridica e politica italiana, il concetto d'ambiente (e con esso la necessità di una normativa di tutela ambientale) trova un primo riconoscimento negli anni 70.

       In quel periodo l'improvvisa e cruenta espansione dei centri urbani e il processo di conversione industriale dell'apparato economico mettono in evidenza l'assoluta incapacità del sistema di soddisfare adeguatamente quelle esigenze ambientali che, accentuate dall'emergenza determinata dai nuovi fenomeni, appaiono, anche alla luce di una rinnovata coscienza sociale, come non più rinunciabili.

       Tale incapacità (denunciata dalle prime associazioni ambientaliste) si manifesta soprattutto nella limitata operatività degli strumenti urbanistici e nell'assenza di una disciplina giuridica contro gli inquinamenti.

       Gli strumenti urbanistici di quegli anni, se da un lato presentano un evidente eccesso dirigistico, tutto pretendendo di regolare e prefigurare, dall'altro, appaiono unilateralmente diretti ad un mera opera di contenimento e razionalizzazione dell'espansione edilizia.

       Secondo l'orientamento politico del tempo, funzione precipua di tali strumenti è, infatti, la riduzione dei margini di appropriazione privata della rendita urbana, da attuarsi attraverso una continua opera di conformazione del diritto di proprietà, basata, essenzialmente, sul controllo delle destinazioni d'uso e sulla riduzione degli insediamenti residenziali e delle densità edificatorie. Mentre sono ancora considerati estranei all'attività di pianificazione la tutela delle risorse naturali, la previsione di interventi di sistemazione idrogeologica e l'individuazione di aree verdi da destinare a riserve naturali e parchi [6].

       A questa manifesta carenza della disciplina urbanistica del tempo si contrappone, però, una crescente istanza sociale di una tutela globale dell'ambiente. Non più limitata, dunque, al mero contenimento dell'espansione edilizia, ma coinvolgente anche quei fattori ambientali la cui corretta gestione appare indispensabile ad un armonico sviluppo della società civile.

       Come spesso accade, nell'apparente vuoto normativo, una prima risposta dell'ordinamento alle nuove esigenze di tutela viene cercata e trovata direttamente nella Carta costituzionale.

       L'accesso ad un’interpretazione estensiva dell'art.9 Cost. - attuata attraverso la configurazione del paesaggio quale elemento costitutivo dell'ambiente, giuridicamente rilevante, quindi, non solo per la sua valenza estetico-culturale, ma anche e soprattutto per l'incidenza che inevitabilmente ha sulle condizioni di vita della comunità - consente, innanzitutto, di affermare la primaria ed insopprimibile necessità di un intervento programmatico sul territorio volto non più e non soltanto alla regolamentazione dello sviluppo degli agglomerati urbani ma dinamicamente proteso alla salvaguardia dell'habitat naturale.

       Gli strumenti urbanistici assumono, così, la configurazione di strumenti complessi in cui sono partecipi tutti gli elementi costitutivi e tutti gli operatori che intervengono a modificare l'assetto territoriale, consentendo, per la prima volta, una valutazione, in sede di pianificazione territoriale, che tenga conto dell'insieme degli interessi pubblici e privati che sul territorio convergono e rendendo, altresì, possibile una comparazione di tali interessi, volta anche, per quanto possibile, a dirimere in via preventiva eventuali conflitti [7].

       Ne consegue, evidentemente, una maggiore flessibilità operativa della disciplina urbanistica che muta il suo significato ed il suo contenuto a seconda del prevalere di determinati fenomeni territoriali, limitandosi ad un opera di regolamentazione, laddove il fenomeno territoriale più rilevante sia quello dell'espansione residenziale o industriale, svolgendo, invece, una funzione di incentivo e sviluppo nelle ed. aree depresse e prevedendo, infine, misure di salvaguardia nelle zone ritenute di particolare interesse ambientale [8].

       Alla medesima esigenza di un sistema di tutela globale dell'ambiente appare, poi, ispirata l'interpretazione evolutiva dell'art.32 Cost., cui viene ricondotta la protezione dell’ecosistema da quelle aggressioni esterne (inquinamenti) in parte dovute alla nuova realtà produttiva, in parte alla stessa mutata dinamica della società civile.

       Anche se su tale materia si manifestano spazi d'intervento per gli strumenti urbanistici - ai quali negli anni '80 viene comunque affidato il compito di individuare le caratteristiche ambientali del cd. sviluppo sostenibile, ovvero l'accertamento della rispondenza complessiva dei processi di trasformazione territoriale agli obiettivi di tutela fissati [9] - la notevole complessità dei nuovi fenomeni induce, tuttavia, ad affermare la necessità di autonomi strumenti di protezione.

       Tale autonomia sembra infatti soddisfare, in particolare, due diverse esigenze:

       a) l'esigenza di un intervento antinquinamento basato su elementi di carattere tecnico-scientifico non rinvenibili nella disciplina urbanistica : la complessità dei nuovi fenomeni impone un sistema di tutela che vada ben al di là della valutazione di carattere c.d. "igienico" dei piani urbanistici, richiedendo strumenti specifici di intervento in ragione della specificità dei problemi da affrontare;

       b) l'esigenza di evitare che la contemporaneità dell'attività di pianificazione e protezione possa sminuire, ponendola in secondo piano rispetto alla prima, l'opera di tutela: la distinzione degli strumenti di protezione permette una politica di intervento ambientale non più tendenzialmente orientata ad un'opera di mediazione di istanze in contrapposizione, ma volta ad assicurare le migliori condizioni di vita possibile per la comunità.

       In particolare, sotto questo secondo profilo, appare chiaro che la rappresentazione del diritto alla salute, oltre che come diritto all'esistenza ed alla integrità fisica, quale diritto alla salubrità dell'ambiente consente di affermare una pretesa diretta ad un intervento dello Stato in materia ambientale che non solo si estenda «alla vita associata dell'uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola» ma che, in quanto inerente ad un valore fondamentale, garantisca «la preservazione in quei luoghi delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie alla sua salute» [10].

       L'autonomia degli strumenti di protezione non viene, comunque, intesa in senso assoluto, ma ricondotta allo schema della «mutualità integrativa», per cui, nei limiti connessi alla loro specifica funzione, tali strumenti interagiscono, trovando una reciproca integrazione giustificata dall'identità dell'interesse tutelato (l'interesse ad una corretta gestione ed utilizzazione della risorsa ambientale) e teleologicamente orientata alla realizzazione di una protezione globale dell'ambiente.

       E' così possibile, infatti, articolare un sistema di tutela strutturalmente ordinato su due poli (art.9 e 32 Cost.), entrambi volti, però, quali "frammenti"di un unico precetto costituzionale, alla salvaguardia di quello che già naturalisticamente si presenta come un bene unitario: l'ambiente.

       3. Il diritto di proprietà configurato dalla Costituzione del '48 (art. 42) è strutturato -secondo uno schema comune a tutti i diritti pubblici economici [11]- con l'affermazione di una regola garantista per il privato, da un lato «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge», e la previsione di una disciplina pubblica della materia, dall'altro « che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

       La ricorrenza negli articoli della costituzione economica del duplice enunciato fu dichiaratamente voluta per realizzare un bilanciamento tra l'aspirazione ad un più frequente ed incisivo intervento sociale dello Stato in campo economico e l'esigenza di un formale riconoscimento di quelle posizioni soggettive che, pur non rivestendo il carattere di diritti fondamentali, si ritenevano essenziali alla costruzione di un ordinamento realmente democratico.

       Frutto di un compromesso storico tra forze politiche contrapposte [12], la Costituzione si inserì, in verità - per quel che concerne la proprietà privata - in un processo evolutivo già avanzato che, dalla rappresentazione del diritto di proprietà come diritto naturale «di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti» (art.436 cc. 1865), era giunto alla costruzione della proprietà privata quale «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico» (art.832 cc. 1942).

       Alla definizione civilistica del codice del '42 la Costituzione aggiunse però un elemento ulteriore: la «funzione sociale>> della proprietà [13].

       La formula adottata dall'Assemblea costituente aveva il chiaro intento di contemperare il riconoscimento del diritto dominicale, quale diritto assoluto avente un sicuro e diretto fondamento nella Carta costituzionale, e per questo sottratto alla libera determinazione dei pubblici poteri, con la possibilità di un orientamento sociale della proprietà privata. Il che avrebbe dovuto consentire di superare l'angusta concezione del diritto di proprietà quale spazio di libertà riservato ai possidentes, senza però approdare ad una determinazione collettivistica dell'istituto.

       Il richiamo alla funzione sociale avrebbe, infatti, reso possibile un collegamento diretto della norma sulla proprietà privata (art. 42 Cost.) con i principi di uguaglianza formale e sostanziale (artt. 2 e 3 Cost.), realizzando, così, quell'"attenuazione" e quell'"equità distributiva" della proprietà che nell'ottica transattiva della costituente rappresentavano il massimo risultato ottenibile.

       Nonostante l'intenzione manifestata dall'Assemblea, l'art. 42 Cost. non riuscì però ad operare una reale sintesi normativa delle diverse posizioni ideali che erano alla base della sua elaborazione, adagiandosi su una formulazione destinata, per la sua elevata elasticità, a rivelare una capacità innovativa ben maggiore di quella originariamente prefigurata [14].

       La previsione di un intervento conformativo del legislatore volto ad assicurare la funzione sociale della proprietà privata rappresenta, invero, un’innovazione per più aspetti rivoluzionaria, costituendo una vera e propria clausola d'accesso ad una serie di valori esterni al diritto di proprietà.

       E' evidente, infatti, che la funzione sociale di un istituto giuridico non si risolve in un' astratta predeterminazione di finalità, ma nel perseguimento di un interesse collettivo concreto [15] la cui definizione è sempre il risultato di un processo di comparazione e, quindi, di valutazione, di un insieme eterogeneo di valori.

       Valutazione che varia in ragione del mutare delle esigenze che nella società si esprimono, per definizione mai uguali a se stesse ma soggette ad un continuo processo evolutivo, inducendo, nel tempo, a riconoscere una diversa preminenza di un interesse rispetto all'altro, e determinando, altresì, un graduale mutamento degli stessi valori coinvolti.

       Se, infatti, la comparazione dei valori si risolve nell'affermazione di una gerarchia di interessi, il continuo mutare dei contesti sociali [16] induce, inevitabilmente, anche un evoluzione concettuale dei valori comparati. Con la conseguenza che la cd. funzione sociale, in quanto espressiva di un simile processo di valutazione, si esplica in un duplice senso: (verticalmente) attraverso il riconoscimento della priorità di un interesse rispetto all'altro e (orizzontalmente) in conseguenza del variare dell'ambito concettuale dei valori comparati.

       Per cui all’eventuale primazia riconosciuta al valore ambientale rispetto a quello espresso dal diritto dominicale potrà corrispondere una limitazione (recte:conformazione) della proprietà la cui entità varierà sia in ragione della misura in cui tale preminenza sarà avvertita e concretamente manifestata, sia in funzione della diversa ampiezza riconosciuta ai valori antagonisti.

       Limite che si tradurrà, in virtù della clausola d'accesso costituita dalla funzione sociale, secondo il meccanismo descritto, in una conformazione originaria del diritto di proprietà. Nell'affermazione, cioè, di una qualitas espressa nell'attitudine del diritto (diversa nel tempo) a soddisfare l'interesse pubblico cui è costituzionalmente e variabilmente preordinato [17].

       Si inverte così la prospettiva tradizionale che vede nell'imposizione del vincolo ambientale il riconoscimento di un attributo intrinseco alla stessa natura del bene tutelato.

       Riferendo, infatti, tale vincolo al diritto di proprietà (come elemento che ne esprime una limitazione originaria, operante, cioè, sulla stessa norma costituzionale di riconoscimento del diritto) si pone al centro dell'indagine non più il bene ma la situazione soggettiva privata che su di esso si esercita.

       Inversione di prospettiva che appare coerente con il risultato a cui l'indagine è mirata.

       Il problema, infatti, non sembra essere tanto quello di determinare se il vincolo costituisca un limite alla proprietà o designi, invece, il modo di essere di un bene, ma di definire la situazione che spetta, nell'ordinamento vigente, al titolare del diritto di fronte all'agire autoritativo dell'Amministrazione.

       Il rapporto può essere configurato in vari modi: quando si afferma che possono essere imposti dei vincoli alla proprietà privata ma che questi sono illegittimi se incidono su quello che viene ravvisato come il contenuto minimo del diritto di proprietà (comprensivo ad es. del diritto di edificare) si privilegia la libertà del singolo possidentes. Si configura, cioè, un rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione in cui le esigenze sociali sono recessive rispetto a quelle individuali.

       La misura di tale recessione varierà a seconda della ricostruzione che del contenuto essenziale del diritto di proprietà si faccia, ma non scenderà mai al di sotto del limite oltre il quale potrebbe essere messo in discussione il ruolo partecipativo del singolo proprietario ai processi della produzione sociale [18].

       Se, invece, si ritiene che sia comunque legittimo l'intervento conformativo del legislatore sul diritto di proprietà, laddove esso sia volto alla tutela di un valore avvertito come preminente rispetto a quello espresso da tale diritto, emerge, allora, l'aspetto sociale del rapporto con la Pubblica Amministrazione. Le libertà individuali cedono, cioè, al perseguimento di scopi di carattere sociale.

       La scelta tra le due opzioni (esemplificative dei due estremi tra cui si divide la discussione dogmatica in materia, ma certamente non esaustive delle diverse configurazioni possibili) si risolve, pertanto, nella decisione di privilegiare l'uno o l'altro termine del dialogo libertà individuali finalità sociali [19].

       Il che sembra confermare l'assunto iniziale, secondo cui i limiti posti dalla tutela dell'ambiente al diritto di proprietà non sono espressivi di un valore preesistente nella res, che ne rende possibile la qualificazione come bene ambientale, bensì, sono manifestazione di una scelta politica, socialmente orientata, operata dal Costituente.

       4. Alla luce delle considerazioni che precedono possono essere tratte alcune brevi conclusioni sull'indennizzabilità dei vincoli ambientali alla proprietà privata.

       Come si è visto, tali vincoli non determinano una diminuzione (ex post) del contenuto del diritto dominicale, potendo assumere per questa via carattere ablatorio, ma si presentano come meramente attuativi di una limitazione originaria della proprietà privata, così come risulterà concettualmente determinata per l'operare della funzione sociale[20].

       Invero, la clausola d'accesso contenuta nell'art. 42 Cost. fa si che i limiti ambientali alla proprietà incidano direttamente sul diritto, operandone, alla base, una conformazione funzionale alle concrete esigenze sociali del singolo periodo storico di riferimento.

       Il che porta ad escludere l'indennizzabilità dei vincoli ambientali alla proprietà privata, almeno quando abbiano carattere generale e non riguardino beni individui.

       In quest'ultima ipotesi, difatti, la limitazione non opera (secondo il meccanismo descritto) sulla norma attributiva del diritto di proprietà (art. 42 Cost.), ma direttamente sul diritto del singolo proprietario, potendo assumere in tal modo carattere espropriativo e facendo sorgere il diritto del soggetto ablato al giusto indennizzo.

       Così la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 55 del 1968, secondo cui vanno considerate limitazioni espropriative le «imposizioni a titolo particolare... con più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione» che vengano ad incidere sulla proprietà del bene <<oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico».

       Principio a fondamento del quale viene posta una duplice giustificazione.

       Innanzitutto, osserva la Corte che i vincoli a carattere generale sono immanenti alla stessa natura dei beni tutelati, ab origine interessati dalla concorrenza dell'interesse dominicale connesso alla loro utilità individuale e dell'interesse pubblico connesso alla loro concomitante utilità sociale. Laddove, invece, i vincoli particolari sembrano soddisfare esigenze specifiche, non riconducibili cioè a caratteristiche intrinseche della categoria cui appartiene il bene oggetto di tutela [21].

       Con la conseguenza che se i vincoli a carattere generale possono ritenersi espressione del potere conformativo riconosciuto al legislatore dall'art. 42 Cost., inteso in quest'ottica come ricognitivo di un attributo già esistente nel bene, e per questo non comportante una diminuzione del contenuto del diritto di proprietà (ab origine condizionato), i vincoli particolari determinano, invece, una restrizione delle facoltà del diritto del singolo proprietario, potendo assumere per questa via carattere espropriativo [22].

       Rileva, poi, la Corte che l’indennizzabilità dei vincoli particolari alla proprietà è imposta dal principio di uguaglianza sostanziale (art.3 Cost.) [23].

       L'imposizione particolare di vincoli ambientali realizza, infatti, una disparità di trattamento tra il proprietario del bene vincolato ed i proprietari degli altri beni rientranti nella stessa categoria del bene oggetto di pubblica tutela. Disparità che, invece, non sussiste quando il vincolo abbia carattere generale, riguardando tutti i beni dello stesso genere o beni omogenei, contrassegnati, cioè, da caratteristiche comuni e da un’identica rilevanza sotto il profilo ambientale [24].

       Da qui la previsione, nel primo caso (vincoli particolari) che la disparità di trattamento, sebbene giustificata da ragioni di pubblico interesse, sia compensata con la corresponsione di un equo indennizzo, ove, però, la limitazione abbia concretamente carattere espropriativo.

       Su quest’ultimo aspetto la Corte ribadisce - l'affermazione è contenuta già nella sentenza n. 6 del 1966 [25] - che hanno effetto espropriativo non soltanto quelle imposizioni che determinano il trasferimento della titolarità del diritto dal singolo proprietario al pubblico potere, ma anche quei vincoli che incadano sul godimento o sul potere di disposizione del bene in misura tale da svuotare di contenuto il diritto del proprietario.

       Contenuto, però, che nell’ottica della Corte, pur non rigorosamente predefinito, ma frutto di un giudizio di valore e come tale destinato a mutare nel tempo, presenta degli elementi “connaturati”, ossia un nucleo stabile ed invariabile di facoltà (di godimento e di disposizione) essenziali per l’esistenza stessa del diritto.

       Affermazione – come del resto quella che legittima i vincoli ambientali alla proprietà riconducendoli a caratteristiche intrinseche dei beni [26] - che evidentemente risente ancora della concezione classica del diritto dominicale, concepito come diritto naturale di cui l’Ordinamento si limita ad operare ex post il riconoscimento: diritto tendenzialmente assoluto, rispetto al quale vengono tollerate delle limitazioni, giustificate, di volta in volta, da attributi immanenti ai beni oggetto di protezione [27].

       Laddove, per l’operare della funzione sociale, la proprietà sembra aprirsi ad un processo di eterointegrazione, che ne determina ab origine il contenuto e l’estensione.

       Con la conseguenza che gli stessi vincoli ambientali, più che costituire dei limiti esterni alla proprietà [28], rappresentano in realtà elementi che in virtù del meccanismo contenuto nella Carta costituzionale concorrono a definirne dall’interno l’ambito concettuale [29].

       Così come è il risultato di un processo di interpretazione evolutiva delle disposizioni costituzionali il concetto stesso di ambiente, anch’esso destinato a modificarsi con il continuo mutare dei contesti sociali di riferimento.

       Di qui l'impossibilità di definire una volta per tutte il rapporto tra ambiente e proprietà privata, se non attraverso una descrizione dei meccanismi attraverso i quali i due valori possono interagire nel tempo.

 

(*) Avvocato del Foro di Napoli. Dottore di ricerca in “Diritto Pubblico dell’Economia” presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

[1] In tal senso M.S. Giannini, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15 ss., secondo cui l'ambiente può essere inteso in tre diversi significati: quale paesaggio, quale insieme degli spazi tutelati contro gli inquinimaneti e quale oggetto di disciplina del governo del territorio. L'impossibilità di configurare un bene ambiente unitario è sostenuta, altresì, da: E. Capaccioli, F. Dal Piaz, Ambiente (tutela dell'), Parte generale e diritto amministrativo, in Nss.D.I., Appendice, I, Torino, 1980, 257 ss.; G.Pericu, Ambiente (tutela dell') nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pub., I, 1987, 189 ss., il quale, pur negando l'esistenza attuale di una nozione unitaria di ambiente, rileva che la continua ricorrenza dell'espressione nella produzione legislativa è sicuro indizio di una tendenza verso un emersione giuridica del concetto in termini unitari. Afferma l'inesistenza di una nozione giuridica d'ambiente A.Predieri, Paesaggio, in Enc.dir., XXXI, Milano, 1981, 503 ss., che rinviene, comunque, negli artt. 9 e 32 Cost. un'unità di finalità. Rappresentano, invece, il concetto d'ambiente quale mera sintesi verbale di una pluralità di beni, G.Torregrossa, Profili della tutela dell'ambiente, Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, II, Roma, 1981, 869 ss.; A. Quaranta, Il coordinamento delle competenze statali e regionali in tema di tutela dell'ambiente, in I problemi giuridici ed economici della tutela dell’ambiente, Atti del Convegno di Como, Milano, 1978; S. Amorosino, La tutela dell'ambiente tra Stato e Regioni (a dieci anni dal d.p.r. n.616/77), in Seicentosedici dieci anni dopo, Roma, 1988, 426 ss; Id., Beni ambientali, culturali e territoriali, Padova, 1995, 106 ss.: dove vengono individuati tre distinti interessi pubblici: l'interesse territoriale, l'interesse paesistico e l'interesse ambientale. Sulla differenza tra beni culturali e beni ambientali T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 1995, 45-48, dove si afferma che, mentre per i beni culturali è possibile una formulazione concettuale unitaria, per i beni ambientali tale operazione di riconduzione ad un contesto unitario non appare possibile per l'eterogeneità dei referenti materiali.

[2] Ammettono l'esistenza di una nozione giuridica unitaria d'ambiente: G.Recchia, Osservazioni sui valori costituzionali della tutela ambientale, in Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, 1497 ss., secondo cui il diritto all'ambiente (così come il diritto all'informazione) rientra tra i valori costituzionali che godono di una tutela "implicita". A. Postiglione, Il diritto all'ambiente, Napoli, 1982; Id. Ambiente suo significato giuridico unitario, in Riv. trim. dir. pubbl.,1985, 32 ss., dove si identifica l'ambiente nella natura complessiva come risorsa. Sulla nozione comunitaria d'ambiente v: A.L. De Cesaris, Le politiche comunitarie in materia di ambiente, in Dirtto ambientale comunitario, Milano 1995, 58-62, secondo cui la nozione di ambiente accolta dalla Comunità Europea è una nozione unitaria, seppur aperta e mutevole in ragione dell'evolversi degli obiettivi comunitari in materia ambientale. L'esistenza di un concetto giuridico unitario d'ambiente è oggi costantemente ammessa dalla Corte Costituzionale, oltre alle note sentenze n.210, n.617, n.641 del 1987, v. anche 3 marzo 1986, n.39, in Giur. cost., 1986, 321; su tale pronuncia S. Labriola, Dal paesaggio all'ambiente: un caso di interpretazione evolutiva della norma costituzionale. Il concorso della Corte ed il problema delle garanzie, in Dir. Soc., 1987, 113 ss.; Corte cost. 10 marzo 1988, n. 302 in Giur.cost., 1988, 1240; Corte cost. 9 dicembre 1991, n.437, ivi, 1991, 3654, con nota di G.Morbidellli, Ancora dei tormentati rapporti tra Regioni e legge Galasso.

[3]  Il fondamento del diritto all'ambiente viene così rinvenuto non già nella legge (che pur funge da condicio sine qua non) ma immediatamente nella Costituzione (che si presenta, dunque, quale condicio per quam), cfr. F. Modugno, Nuovi diritti e principi supremi della Costituzione, relazione al V Convegno nazionale dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, dattiloscritto, 62 ss.

[4] A fondamento dell'interpretazione evolutiva vengono, generalmente, addotte tre ragioni: 1) i principi di “sovranità e democrazia”, che impongono il costante adeguamento del sistema al mutare delle esigenze della comunità. La delega di sovranità agli “organi governanti” non può, infatti, essere concepita in modo assoluto, tale che gli atti da essi posti in essere debbano sempre essere intesi, fino alla loro rimozione, nel senso originariamente attribuitogli. 2) la <<meccanica delle fonti>>. Si rileva che nella ricostruzione del significato giuridico della norma (intesa, non già quale entità avente una propria autonoma esistenza, ma quale prodotto dell'attività interpretativa) hanno un'influenza decisiva tutta una serie di concetti già esistenti nel patrimonio culturale dell'interprete e propri della società di cui è parte. Può così capitare, non solo che l'interprete accolga un significato diverso da quello attribuito dal legislatore alla norma, ma che il significato stesso venga a mutare tra il momento legislativo e querllo interpretativo in relazione al variare dell'interesse sociale e del modo d'intendere le cose (si consideri, ad es., l'evoluzione del significato da attribuire all'espressione <<interesse generale>> di cui all'art.42 Cost.). 3) la c.d. <<intenzione del legislatore>> indicata come fondamentale canone ermeneutica dall'art.12 disp.prel. cod.civ.. E' dato ormai acquisito alla scienza giuridica che la c.d. intenzione del legislatore non va intesa in senso soggettivo, quale volontà espressa al momento dell'emanazione della norma, bensì, in senso oggettivo, con riguardo, cioè, ai singoli periodi storici di riferimento e all'intero sistema normativo vigente al momento dell'interpretazione. Sull'interpretazione evolutiva, C. Lavagna, Costituzione e socialismo, Bologna, 1977, 35-66; id. Considerazioni sui caratteri degli ordinamenti democratici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 403 ss. Con specifica attenzione agli aspetti sociali della tematica v.: V. Ferrari, Funzioni del diritto, Roma-Bari, 1987.

[5] Si è osservato che i diritti sociali, a differenza dei diritti di libertà, anziché, comportare limiti all'intervento dello Stato impongono allo stesso una continua opera di promozione e tutela in “una forma istituzionale sempre più ricca e complessa in correlazione alla ricchezza e complessità della vita pubblica in tutti i suoi aspetti”, così C. Bottai, Principi costituzionali e assistenza sanitaria, Milano, 1991, 5. Sul tema dei diritti sociali in generale v. M Mazziotti, Diritti sociali, in Enc.dir., XII, Milano, 1962, 802 ss, e A. Baldassarre, Diritti sociali, Enc.giur., XI, Roma, 1989, 1 ss. Ad una interpretazione evolutiva degli artt. 9 e 32 Cost. fa, peraltro, esplicito riferimento la nota sentenza della Corte Costituzionale del 28 maggio 1987, n.210: “Va riconosciuto lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione. Si tende, cioè, ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali. Esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali, l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni. Ne deriva la repressione del danno ambientale, cioè, del pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali, che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che insostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.) alla stregua dei quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione”.

[6] Emblematica in tal senso è le sentenza della Corte Costituzionale n.141 del 1972, con la quale la Consulta, chiamata a pronunciarsi sull’appartenenza alla materia urbanistica delle funzioni relative alla tutela delle bellezze naturali, afferma: “l’urbanistica è un’attività che concerne l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati, senza che nell’ambito di essa possa rientrare l’assetto dell’intero territorio e, quindi, dell’ambiente in generale”. Ben diversa è la definizione successivamente accolta dal legislatore, secondo cui  “la materia urbanistica concerne tutti gli apetti dell’uso del territorio”, (art.7, legge 21.7.2000, n.205).

[7] Sull’influenza delle vicende politiche, sociali ed economiche degli anni ’70 sull’evoluzione degli strumenti urbanistci, v. V. Erba, Il piano urbanistico comunale, Roma, 1970.

[8] Nell’attenuarsi della gerarchia discendente tra piani e nella corrispondente affermazione del principio concorrente dei piani a funzione specializzata è, però, rinvenuta da parte della dottrina la causa prima dell’incoerenza della disciplina urbanistica. Così S. Amorosino, op. ult. cit., 48-49: “… spesso ci è incoerenza o – quanto meno – carenza di raccordi tra una disciplina e l’altra, affiancate come canne d’organo e non come vasi comunicanti. Esemplificando: nei rapporti tra disciplina urbanistica e tutela del paesaggio l’unico modulo operante su tutto il territorio nazionale è il rapporto di presupposizione tra il c.d. nulla osta paesistico e la concessione edilizia. Si tratta di relazioni puntiformi, riferite al caso singolo …”.

[9] Aspetto che risulta accentuato nella legge 8 agosto 1985, n.431 (c.d. legge Galasso), il cui significato peculiare sembra possa essere colto, più che nelle determinazione di un criterio ordinatore, nell’individuazine di ampie zone del territorio nazionale sottratte ad un uso incontrollato ed inserite in una strumentazione programmatica che attribuisce un rilievo specifico ai valori ambientale. Contra, M. Libertini, Tutela dell’ambiente. Legge 8 agosto 1985, n.431, in Nuove leggi civ. comm., 1986, 901 ss., secondo cui la pianificazione paesistica prevista dalla legge 431/85 non presenta reali aspetti innovativi collocandosi nella scia della pianificazione prevista dalla legge 1497/1939.

[10] Cass. civ., SS.UU., 6 ottobre 1979, n.5172, in Foro it., 1979, I, 2302.

[11] M. s. Giannini, Diritto Pubblico dell’economia, Bologna, 2000, 128 e segg..

[12] Così C. Lavagna, Costituzione e socialismo cit., che rinviene nel compromesso storico alla base della Costituzione, dunque, nella mancanza di un’univoca volontà normativa, un ulteriore argomento (oltre a quelli validi per ogni disposizione giuridica, di cui si è detto, v. retro nota 6) a favore dell’interpretazione evolutiva delle norme costituzionali.

[13] Osserva A. Di Majo, Difficoltà di individuare un chiaro modello socio/politico di proprietà nella Costituzione del ’48. Non modello ma criteri ispiratori, in La costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta fodamentale, Milano, 1990, 120 ss., l’aspetto innovativo della formula adottata dal legislatore costituente non va rinvenuto nell’utilizzzazione del concetto di “funzione sociale”, preesistente alla Costituzione, ma nella collocazione dello stesso all’interno della nozione di proprietà privata, come elemento, quindi, che non ne giustifica all’esterno i limiti, ma concorre al suo interno a determinarne il contenuto.

[14] Così C. Lavagna, op. cit., 44 ss., che osserva che il compromesso raggiunto dalle varie componenti dell’Assemblea costituente spesso non riuscì a tradursi nell’elaborazione di norme espressive di un intento comune, seppur determinato dal contemperamento di istanze opposte, ma diede origine alla sovrapposizone (“come ombre di oggetti diversi che un opportuno gioco di luci riesce a sovrapporre”) di diverse concezioni politiche, etiche, economiche e persino tecniche, affermando così, contemporaneamente, principi opposti destinati a dar vita a norme la cui esegesi sarebbe stata rimessa alle future generazioni.

[15] Il rinvio alla “realtà sociale” e al “comune sentire del momento storico” è rinvenibile già nell’uso nell’art.42 del verbo riconoscere, così A. M. Sandulli, Profili costituzionali della proprietà privata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 472.

[16] Al mutare dei contesti storici come causa di evoluzione dei concetti giuridici fa più volte espresso riferimento C. Lavagna, op. cit..

[17] In tal senso, L. Mengoni, Proprietà e libertà, in La costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta fondamentale, cit..

[18] M. Mengoni, op. cit., 33.

[19] Seguendo autorevole dottrina, può affermarsi che tale dialogo può essere riferito anche al rapporto libertà-autorità. Con l’avvertenza, però, che l’autorità, in quanto riferita ad un sistema democratico, non si identifica con il potere, quale astratta possibilità di esercizio di una forza impositiva, ma deve essere intesa come svolgimento di una funzione pubblica per il perseguimento di uno scopo sociale. Riconduce le problematiche relative all’interpretazione dell’art.42 Cost. alla scelta tra libertà ed autorità, A. Angeletti, Riflessioni in tema di vincoli urbanistici e diritto di proprietà, in Riv. amm., I, 1985, 23 ss., secondo cui le diverse impostazioni dell’indagine “si risolvono sostanzialmente in una tautologia: nulla dicono di più che non il menzionare l’esistenza di un principo costituzionale ed affermare che l’imposizione dei vincoli contraddice o non contraddice quest’ultimo. Laddove, invece, i due termini effettivi sono queli che si rinvengono nel dialogo autorità e libertà”.

[20] E’ chiaro il riferimento alla distinzione tradizionale tra limiti posti ad un diritto originariamente illimitato e limiti costituzionali al diritto. Per un’indicazione delle tesi che negano l’esistenza di una simile distinzione, v. L. Mengoni, op. cit., 16.

[21] Di qui la giurisprudenza formatasi sui vincoli paesistici della legge 431/85, secondo cui tali vincoli corrispondono ad una caratteristica intrinseca dei beni tutelati, interessati ab origine dalla concorrenza di due distinti interessi: l’interesse dominicale connesso alla loro utilità individuale e l’interesse pubblico connesso alla concomitante utilità sociale. Così, tra le altre, TAR Campania, sez. II, 28 settembre 1992, n.210; sez. V, 28 luglio 1992, n.249; Tar Lombardia, Brescia, 27 novembre 1989, n.1134; nonché Cons. Stato, VI, 6 aprile 1987, n.242, id. 21 ottobre 1994, n.1525.

[22] Diversa è, invece, la prospettiva da cui muovono le considerazioni che precedono. Si è detto, infatti, che l’imposizione del vincolo più che giustificata dalla natura del bene tutelato è attuativa di un limite originario del diritto dominicale, cfr. § 3.

[23] Che, come si è detto, costituisce uno dei paradgmi fondamentali alla luce dei quali va letto l’art.42 Cost.

[24] Il principio di uguaglianza sostanziale sembra imporre che l’omogeneità vada ricercata con riferimento alla corrispondenza tra caratteristiche comuni dei beni vincolati e finalità di tutela, potendosi in concreto affermare solo quando la previsione dei vincoli sia operata con riguardo a tali caratteristiche comuni.

[25] La sentenza della Corte Costituzionale n.6 del 1966, in Giur. Cost., 1996, 72, innovando all’orientamento seguito in alcune precedenti pronuncie, accolse la tesi ispirata da A.M. Sandulli, Natura ed effetti dell’imposizione dei vincoli paesistici, in Atti del convegno di studi giuridici sulla tutea del paesaggio, Milano, 1963, secondo cui il concetto di espropriazione deve essere esteso anche ai vincoli incidenti sul nucleo essenziale del diritto di proprietà. Tale principio è stato poi ripreso dalla sentenza n.55 del 1968 che affermò la non indennizzabilità dei vincoli a carattere generale. La tesi dell’espropriazione sostanziale è stata poi più volte ripresa e confermata dalla Corte, sent. n.92 del 1982; n.1166 del 1988, n.141 del 1992, n.185 e n.186 del 1993, n.379 del 1994.

[26] Nello stesso senso sembra possa essere letta la rilevanza che la Corte attribuisce alla potestà di edificare, ritenuta, nella concezione classica del diritto dominicale, elemento caratterizzante la proprietà fondiaria. Così la sentenza n.20 maggio 1999, n.179, sull’indennizzabilità della reiterazione dei vincoli espropriativi posti dagli strumenti urbanistici, dove si definiscono vincoli a contenuto sostanzialmente espropriativo quelli, “a titolo particolare”, che comportano, “su beni determinati”, “inedificabilità assoluta”. Non meno significative appaiono le espressioni usate dalla Corte in merito al “sacrificio imposto” al diritto di proprietà (così già la sent. n.6/1996) e alla “tollerabilità” dei limiti.

[27] Si è detto che nel concezione classica la proprietà è concepita come diritto naturale «di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi e dai regolamenti» (art.436 cc. 1865).

[28] V. L. Mengoni, Proprietà e libertà, in La costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta fondamentale, cit., secondo cui l’espressione “limiti della proprietà” è un retaggio terminologico della teoria classica, presentandosi tali limiti come determinazioni concettuali della proprietà, ossia, come elementi che determinano una variazione della conformazione tipologica del diritto.

[29] Si configura in tal modo una nozione di proprietà privata la cui determinazione è condizionata dall’interazione con la nozione di ambiente, così come entrambe risultano, a loro volta, definite per l’operare del processo di determinazione storica consentito dall’interpretazione evolutiva delle disposizioni costituzionali.


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