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Articoli e note

n. 11/2003  - © copyright

 SALVATORE PRISCO (*)

La solidarietà verticale: autonomie territoriali e coesione sociale (¨)

 

1.  Non è per semplice atto di omaggio verso il genius loci, non per agganciarsi ad ogni costo e con un richiamo esteriore e forzato ad un grande costituzionalista di questa terra proprio in una sala a Lui dedicata e nella quale si svolge il nostro convegno, ma certo non si potrebbe fare a meno di ricordare proprio qui che Serio Galeotti dedicò al “valore della solidarietà” uno dei Suoi ultimi saggi.

Chi scrive ha avuto occasione di analizzarlo grazie ad un precedente incontro di studio, tenuto appunto in questo medesimo luogo; i relativi atti sono ora disponibili e ad essi - in parte qua - rimando chi lo desideri. Basterà ora limitarsi ad indicare il leitmotiv di quel contributo galeottiano, perché ci consente di unire il presente al passato, provando poi a gettare lo sguardo (nani sulle spalle dei giganti…) un po’ più lontano, verso un orizzonte che pur ci era stato additato.

La solidarietà - si legge in sintesi - è un valore che deriva dalla centralità della persona nel disegno costituzionale. Le sue “due tipizzazioni” possibili sono rappresentate dalla “solidarietà doverosa o fraterna”, di cui all’articolo 2 - che “opera come modo doveroso e cooperante, da parte dei cittadini, nell’adempimento delle loro varie solidarietà” e che “è moto ascendente” - e dalla “solidarietà paterna”, scolpita nel capoverso dell’articolo 3, come “funzione attiva della Repubblica volta a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, limitanti di fatto la libertà e l’eguaglianza e perciò il pieno sviluppo della persona umana, al fine di realizzare l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita dell’ordinamento nei vari campi in cui essa si estrinseca” e in questo caso “il moto procede dall’alto verso il basso”.

Si nota anche -  citando Lombardi -  che, mentre “nel campo della vita politica già posta dalla Costituzione su basi democratiche di libertà e di eguaglianza” se ne sente meno il bisogno, “la solidarietà pubblica, che ho chiamato paterna …si volge precipuamente ai campi sociale ed economico”, dove “se ne avverte più acutamente la necessità”.

Segue, trascorrendo il discorso dal piano del “dover essere” a quello dell’“essere”, un rapido schizzo a luci ed ombre dell’esperienza del Welfare italiano, che accanto a grandi conquiste ha fatto registrare un “progresso, prodotto dallo Stato (ma)…alimentato con debiti”, per giungere tuttavia alla conclusione ottimistica, o quantomeno speranzosa, che i vincoli di compatibilità finanziaria introdotti dal Trattato di Maastricht segnano la via per il rilancio di una solidarietà coniugata alla responsabilità nell’impiego delle risorse e perciò di una possibile, nuova stagione per l’affermazione in vesti diverse di questo inesauribile - e sempre cangiante - valore.

Solidarietà orizzontale e verticale nel senso appena visto si implicano vicendevolmente, com’è ovvio. Con questa consapevolezza e conscio anche, però, dell’esigenza che - per fini di più approfondita analisi - le due dimensioni vanno studiate separatamente, prendo atto che l’actio finium regundorum che con altri colleghi abbiamo reciprocamente esercitata in vista di questo convegno prevede che la presente relazione si concentri sul secondo profilo. Aggiungo che - pur avendo accettato di dare ad essa il titolo ufficiale che ha oggi, per cercare un’euritmia con l’intitolazione dell’altra e avendo gli organizzatori inteso evidentemente dividere le diverse linee evolutive della tematica in guisa tale da  trasmettere un senso di chiarezza quasi cartesiano - mantengo idealmente il sottotitolo (una prospettiva meridionalista) che avevo originariamente concepito.

Lo scritto al quale mi sono riferito sopra venne elaborato nel 1995 e pubblicato l’anno successivo; rifletteva, sistemandole teoricamente con grande eleganza e perspicuità, le speranze innescate in molti, anche su questo punto, dal dibattito della Commissione Bicamerale D’Alema e andate presto deluse con la sua non fausta conclusione. Erano di là da venire le leggi Bassanini a Costituzione invariata, la riforma del titolo V, l’ulteriore tentativo di una riforma della riforma; ma in nuce il punto di principio era già stato individuato con acutezza.

Attribuire una posizione a chi non può più smentirla è esercizio arduo e in qualche modo sempre abusivo. Tuttavia, forse non è illecito supporre - sviluppando quanto è implicito nelle sue stesse parole - che il Maestro bergamasco, nutrito di giovanili esperienze di ricerca in Inghilterra e così british lui stesso nel tratto, avrebbe apprezzato - richiamandosi al self government - l’evoluzione verso un decentramento avanzato del nostro ordinamento, beninteso preferendone, tra le tante varianti possibili e proprio in nome della solidarietà, una modalità strutturale e funzionale di tipo cooperativo; e che avrebbe quindi deprecato l’eclissi dell’“interesse nazionale” (pur tuttora richiamato in via di principio nell’art. 5 e sotteso, peraltro, evidentemente alla “tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” della Repubblica, esplicitamente assunta come titolo abilitativo degli interventi sostitutivi ex art. 120, 2° comma) e salutato poi con adesione l’idea di reintrodurne la formale menzione, in nome di quella che egli esplicitamente chiama “l’unità morale della nazione, tra gli Italiani di ogni regione, ‘dalle Alpi al Lilibeo’”, come da ragazzo Gli era stato insegnato a dire.

2.  Dialettica tra unità e differenziazione; ricerca di un’omogeneità tuttavia non uniformatrice e che appiattisca le diversità territoriali; tensione tra libertà ed autonomia, da un lato ed eguaglianza sostanziale come portato della solidarietà e impegno verso la coesione sociale, dall’altro.

Riflettendo su pagine scritte appena ieri e grazie a Galeotti ci imbattiamo dunque in via del tutto naturale in un crocevia del nostro presente: quello della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, che - com’è noto - nel rapporto con le regioni tocca alla legge espressione di potestà esclusiva dello Stato fissare, perché gli stessi “devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ex art. 117, 2° comma, lettera m.

Il disegno costituzionale vigente si completa coerentemente, sul punto, considerando innanzitutto - ed è una valutazione fondamentale da compiere, prima di dare un giudizio complessivo sulla qualità della revisione costituzionale recente - che sempre “la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territorî con minore capacità fiscale per abitante” (119, 3° comma) e inoltre che “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibrî economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona” gli enti autonomi ad autonomia territoriale costituzionalmente garantita hanno diritto alla destinazione di risorse statali aggiuntive (ivi, 5° comma), profilo sul quale mi aspetto io stesso preziose indicazioni nella  giornata di domani, quando ascolteremo gli amici tributaristi.

È previsto infine, come si ricordava appena sopra, un potere sostitutivo del Governo rispetto ad organi di enti autonomi e prescindendo dai loro confini territoriali - anche se con la pure rammentata garanzia di procedure d’intervento rispettose dei principî di sussidiarietà e di leale collaborazione - tra l’altro e appunto a “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 120, 2° comma).

Il dibattito su che cosa essi siano e sugli strumenti per rendere effettivo il disposto costituzionale ferve e non proverò nemmeno a riassumerne gli esiti, appunto perché lo stato dell’arte lo mantiene ancora aperto.

Mi limito a proporre qualche (mi auguro ragionevole) valutazione personale sul sistema, qua e là saccheggiando anche le idee manifestate in materia da colleghi, nei cui confronti - nella versione per gli atti di questo mio intervento - pagherò doverosamente il debito della citazione puntuale.

Cerco altresì, per mero gusto estetico, di evitare il gergo delle sigle - LEP, LEA, nonché almeno LTC e DAP per la sanità - cui (ormai irreparabilmente, temo) siamo sul punto ridotti da questo nostro tempo che va troppo in fretta. L’uso ne è stato mutuato, da parte dei giuristi puri, ricavandolo dagli economisti e dagli analisti economici del diritto; quanto a me - tenendomi al classico - continuo a ritenere (come si può notare) che la lingua delle formule compendiarie dei tecnici del diritto resti, se mai fossero necessarie, il latinorum.

Non sembra dubbio il fatto che la recezione costituzionale della formula, (rinvenuta dal legislatore di revisione appunto in esperienze di settori, quali la sanità e l’assistenza, impegnati da tempo - in virtù di dinamiche normative loro specificamente proprie - a far “quadrare il cerchio” tra bisogni e risorse disponibili, onde salvare il nocciolo del sistema universalistico di protezioni sociali, ma eliminandone sprechi e distorsioni clientelari) finisca per identificare “uno snodo decisivo nella configurazione del nuovo disegno autonomistico”, come dice ad esempio D’Aloia.

Questa è la trincea del nuovo Welfare ispirato alla gestione responsabile e partecipata - da parte di tutti gli attori istituzionali - delle risorse impiegabili, ricorda Luisa Torchia; scarse sempre, per definizione, giacché economicamente condizionate, lo sono con drammatica evidenza ancor più oggi.

Fuori e al di sotto della garanzia dei livelli essenziali, avverte Luciani, è a repentaglio la stessa idea di una cittadinanza comune. La logica del paradigma è l’attualizzazione e la prosecuzione legislativa e amministrativa del principio di cui al capoverso dell’art. 3, in mutate condizioni storiche, per la Poggi (in giurisprudenza, in termini, lo aveva affermato TAR Lazio, III ter, 6252/2002), ovvero - il che è dire lo stesso, preso da un altro verso - il problema di tutti gli Stati federali o tendenti ad esserlo è precisamente quello di “quanta diseguaglianza possiamo accettare” (secondo la domanda che è nel titolo del recentissimo contributo di Arnsperger e Van Parijs), al fine di “sauver la solidarité” (obiettivo che proprio il secondo si propone esplicitamente in un altro suo libro).

Ecco perché trovo legittimo che gli Statuti regionali e persino quelli comunali contengano oggi anche elenchi di diritti da assicurare effettivamente. Quella che in altri periodi è stata da taluno, a giusta ragione, considerata come un’inutile enfasi ed un’indebita invasione di campo è oggi una necessità istituzionale, visto che il contesto autonomistico contribuisce (in fase ascendente, per così dire) alla determinazione dei  predetti livelli essenziali e in ogni caso si carica (in fase erogativa) della gestione concreta delle prestazioni, per la riserva di principio ai Comuni - e salva la necessità di “assicurarne l’esercizio unitario”- delle “funzioni amministrative”, secondo il disposto dell’art. 118, 1° comma (Manfrellotti - Miranda), ond’è che “la decisione sui diritti sociali” (tema caro alla nostra ospite Barbara Pezzini) risulta in definitiva dalla composizione di molteplici apporti.

Né mi appassiona in quest’ottica il rilievo formalistico per cui il richiamo a livelli di prestazione mal si adatterebbe ai diritti civili - che a rigore non si definirebbero in rapporto ad erogazioni, come osserva Cerulli Irelli - per l’evidente ragione che a questo schema nessuno crede più, strettissime essendo la relazione e la coimplicazione tra i “diritti che costano” e quelli che solo in apparenza assai superficiale tali non sono (il rilievo è generale, ma vedi ancora e specificamente Luciani e inoltre Mazziotti, Cocco, D’Aloia; con lo spirito pragmatico tipico della loro cultura, anche gli statunitensi Holmes e Sunstein ricordano del resto, nel sottotitolo di un loro fortunato lavoro da poco tradotto, che “la libertà dipende dalle tasse”).

In sostanza, ci si trova di fronte ad un’endiadi e alla ricerca di un risultato: quello che importa infine al cittadino - o più largamente alla persona - è la posizione complessivamente ed in concreto goduta.

È invece più produttivo, ai nostri fini, rilevare che il legislatore nazionale non è comunque solo in quest’arduo compito di rilevazione di esigenze e fissazione di standard.

Ai poteri sostitutivi del Governo si è ripetutamente accennato; del coinvolgimento del segmento autonomistico della Repubblica in tutte le sue forme pure si è detto e del resto che tale meccanismo operi fisiologicamente è dimostrato a contrario dal rilievo che, perfino nel momento ed in occasione della rottura dell’ordine normale delle attribuzioni che determina lo scattare di meccanismi sostitutivi, è comunque salvaguardato il metodo per mantenere una dialettica corretta con questo versante istituzionale e perciò con la relativa comunità umana di riferimento.

Verso l’alto e in sede di controllo della tenuta complessiva del sistema, per così dire, anche la Corte Costituzionale non resta certo assente. Si rammenterà infatti che si è essa medesima già da tempo riservato il sindacato di ragionevolezza e di proficuità sulla misura almeno minima essenziale dei diritti (in termini sostanziali, si ricordi tra le altre la sentenza 27/1998, ma anche in quelli procedurali, vedi ad esempio la sentenza 42/2000; altrove l’organo di giustizia costituzionale ragiona di “nucleo irrinunciabile” del diritto soggettivo, sentenza 304/1994) e ciò tenendo in disparte il dubbio di taluno se il “minimo” sia sempre e comunque il “congruo”: chi scrive ritiene, ad esempio, realistico pensare che perlopiù tale coincidenza si dia, ma che sia altrettanto opportuno temperare quando occorresse il rigore di certe rigide affermazioni di principio, in forza delle quali - ad esempio - in tema di assistenza sanitaria il parametro dei livelli essenziali si correla alla quota limitata di risorse finanziarie disponibili, in relazione alle quali assicurare una possibilità di equo e proporzionato accesso alle medesime di ciascuno e non già alle esigenze personalmente avvertite, se e quando fossero, com’è ovvio, oggettivamente pregevoli.

Posto che in genere sia così e che quindi - per dirne una e perdipiù brutalmente - le signore che si sentono infelici se non si rimodellano il naso o se omettono di farsi rassodare altre parti del corpo (ma una gentile collega che ha letto in anteprima questa relazione mi ha fatto notare che a certe pratiche indulgono ormai pure gli uomini…) non sembrano poter vantare una pretesa accoglibile a che gli interventi  di chirurgia estetica loro necessarî siano posti a carico del servizio sanitario nazionale, la soluzione dovrà essere all’evidenza diversa per chi, afflitto da una cicatrice deturpante al viso, abbia bisogno di analoga misura per essere pienamente integrato nella vita sociale, in un ambiente culturale che del resto riconosce da tempo anche la risarcibilità del danno esistenziale o di quello alla vita di relazione.

Sempre la Corte conferma comunque con autorevolezza l’impressione che si trae già dalla prima lettura della disposizione: non ci troviamo di fronte ad una materia “classica”, ma ad una trasversale - ed apicale quanto all’oggetto - modalità di regolazione (sentenza 282/2002).

Ed è del resto una Corte che mostra di voler stare saldamente in campo, nel processo multifattoriale di attuazione del titolo V. Non direi, come secondo una opinione da altri invece espressa (in forma, del resto, dubitativa), che l’appena enunciata valorizzazione della sussidiarietà anche sul piano legislativo - declinata nel verso di una lettura essenzialmente procedimentale del principio e sottoposta al ricorrere di precisi presupposti, quale consegnata alla sentenza 303/2003, sulla quale è prevedibile che scorreranno fiumi di inchiostro, tanto essa è rilevante - lo abbia proprio “riscritto”. Certo, l’organo di giustizia costituzionale ha fatto sentire (e non flebilmente) la propria voce.

3.  Si sono sopra sinteticamente delineate le stazioni, cioè i luoghi istituzionali (se volessi acconciarmi ad un linguaggio francamente orribile, fuori del suo specifico campo disciplinare, direi “la filiera”) - del percorso “verticale” sul territorio, lungo il quale si ambienta la realizzazione del valore tematizzato dalla nostra discussione di oggi, o meglio l’approssimazione progressiva al suo nucleo, in realtà sempre inattingibile nell’interezza, come è proprio di ogni valore, che è luce collocata all’orizzonte e della quale sfruttiamo al più i raggi, senza mai coglierla appieno.

Solo ragioni di “taglio” della tematica assunto in questa circostanza consigliano di trascurare qui un piano ulteriore, rinviando semmai ad altro luogo un’indagine sulle politiche comunitarie di coesione, nell’orizzonte dell’allargamento dell’Europa, ma segnalando altresì che simili interrogativi si sono già affacciati alla meditazione scientifica (si legga in termini, ad esempio, uno studio fresco di stampa di Viesti e Prota).

Ove si osservi il nostro Paese nella concretezza dei processi storici che esso ha attraversato, non può peraltro ignorarsi che la questione dei livelli essenziali lo trova ancora disarticolato e fortemente diversificato, con tassi differenziati di sviluppo economico e civile. Gli economisti sono soliti parlare, al riguardo, di uno “sviluppo dualistico” ed è appena il caso di notare che deboli, in questo schema, sono anche alcune regioni del Centro e una - la Liguria - del Nord.

Da ciò i ripetuti ed opportuni richiami di certa dottrina (ho presente in special modo e in più sedi di intervento Chieffi, ma anche Ciriello) all’esigenza di una lettura del modello “non escludente” rispetto all’obbiettivo di innescare un processo virtuoso su  tutto il territorio nazionale.

I principî di perequazione finanziaria e di erogazione aggiuntiva di risorse in chiave esplicitamente solidaristica, che si sono in precedenza richiamati, agiscono in quest’ottica proprio come strumenti ai quali porre mano, affinché si creino le condizioni per eliminare (in luogo di semplicemente ridurre, come da altri si vorrebbe) il rilevato differenziale. Gli enti territoriali sovvenzionati a mezzo del fondo perequativo o da interventi speciali dovranno in conclusione, se non a mezzo di sole risorse proprie, supposte insufficienti, in virtù di quelle aliunde reperite - si sostiene così, giustamente, sulla base della Carta Costituzionale - vedersi finanziate integralmente le funzioni istituzionali.

I semi di autonomismo asimmetrico percorribile anche alla stregua della nostra Costituzione (ex art. 116, ultimo comma), nonché il progetto politico di una ulteriore revisione del titolo V sono in tale prospettiva soppesati con cautela e in ultima analisi con diffidenza, per il timore - non direi infondato - che venga per tal via impressa al sistema una torsione competitiva nella quale, oltretutto in assenza di una Camera costituzionale di composizione dei conflitti tra gli interessi regionali e di questi con quelli centrali, le aree più fragili sarebbero destinate a soccombere.

La Corte Costituzionale, in particolare, viene esplicitamente invitata ad un gioco di contenimento nei confronti di un legislatore nazionale che si mostrasse avaro nei trasferimenti perequativo-aggiuntivi, perché sensibile al fronte comune delle regioni più ricche o che forzasse in altro modo l’indisponibile nucleo dei livelli essenziali di prestazione dei diritti, con il pratico effetto di allargare le lame delle forbici tra zona e zona della Patria comune.

L’interesse (direi sentimental-razionale) di ricostruzioni siffatte agli occhi di un relatore napoletano è evidente; ma chiunque - ed ovunque residente, è il caso di dire - può comunque apprezzarne una implicazione tecnica: in questo modo non è più in questione, della solidarietà, un profilo garantistico-individualista, ma piuttosto l’aspetto di protezione/promozione collettiva dei territorî.

Vorrei essere chiaro fino in fondo e perfino un po’ provocatorio, se mi è consentito.

Con la particolare sensibilità che mi proviene dall’essere nato e residente in  un’area del Paese di antica civiltà, credo da tutti riconosciuta, debbo dire che la sfida federale (che vuol dire valorizzazione della cultura più profonda e radicata di un territorio; a noi la Storia ha finito col farla diventare orgogliosa, ma assieme tollerante, per quanti eserciti stranieri l’hanno battuto…) non può farmi paura ed è perfino utile - per aiutare i cittadini consapevoli della posta in gioco, che anche da noi esistono, ad innescare su scala più ampia che non in passato comportamenti di maggiore virtù civile e politica - il fatto che oggi si imponga giocoforza un uso più oculato delle risorse materiali e una selezione più attenta del ceto dirigente.

Però devo anche ribadire l’esigenza che la partita incominci dopo che i giocatori siano stati messi in grado di giocarsela fino in fondo; quanto al resto, non è che la fantasia e la creatività manchino. E se sono un po’ guardingo verso altri giocatori o nei confronti di chi li ispira e li allena, l’unico rimedio è puntare sull’arbitro e sulla sua fedeltà alle regole; da interpretare con la “flessibilità” e la “ragionevolezza” che si vogliano, ma che intanto ci sono.

Fuor di metafora e per tornare al punto: sarebbe fuorviante (ha ragione Pizzetti in una sua recentissima riflessione) minimizzare le novità di impianto del nuovo contesto costituzionale, proponendone una lettura in linea di eccessiva continuità con il clima che nel 1948 produsse la Costituzione repubblicana. Essa ha però un impianto di valori che occorre salvaguardare - anche perché gli articoli che li richiamano non mi risultano abrogati - senza barare svuotandoli in sede di attuazione.

Il legislatore, qualunque esso sia, sarà pure l’interprete di una maggioranza, ma non ha mai le mani del tutto libere. Sopra di lui, c’è un cielo di principî da osservare e, quando se ne sia reso interprete riluttante o infedele nella sostanza, c’è un giudice costituzionale a richiamarlo all’ordine. Non solo a Berlino, come nella favola del mugnaio, ma anche a Roma.

* * *

Siccome l’uomo pensa l’universale attraverso il concreto e il prossimo, questa ricognizione andava pur fatta. Ha però la sua parte di ragione chi (come oggi esplicitamente D’Aloia e per implicito Lombardi e Antonini, ma ieri con chiarezza proprio Galeotti) richiama - cito il primo - “il concetto di livelli essenziali dei diritti e delle prestazioni correlate” quale invito alla pratica di una solidarietà socio-centrata e responsabile, e perciò ritenendolo “un aspetto di quel valore della solidarietà intergenerazionale, che sembra proporsi in modo sempre più nitido come questione centrale nel quadro delle transizioni teoriche e normative del costituzionalismo”.

Il principio di solidarietà passa insomma hic et nunc ed in primo luogo attraverso la griglia della riorganizzazione dei poteri sul territorio e del loro dimagrimento complessivo, in quanto pubblici, per dare spazio al mondo self helping di cui all’altra relazione di base, ma eccede poi lo stesso luogo fisico della nostra situata esistenza, per aprirsi e articolarsi in problema di solidarietà coi lontani (per fede, per etnia) o coi posteri, sicché vive sì sempre in sua una definita dimensione materiale, ma assieme - quanto ad afflato - si dematerializza.

In tempi di globalizzazione dei mercati e di movimenti dei capitali esso è dunque il veicolo sul quale può procedere la ricerca impretermittibile (per ragioni di dignità universale della persona, di etica pubblica, ma perfino e almeno - se proprio si giudica ingenuo un simile proposito - in nome di un utilitarismo, che però sia intelligente e non miope) di una mondializzazione anche dei diritti.

(*) Straordinario di Istituzioni di diritto pubblico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II.

(¨) Schema della relazione alle Giornate europee di Diritto Costituzionale Tributario - V edizione, su “Il dovere di solidarietà” - Bergamo, Facoltà di Economia, 14/15 novembre 2003.


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