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Articoli e note

n. 10/2005 - © copyright

VALENTINO PETERLE 

Il risarcimento del danno derivante da lesione
di interessi legittimi ed i profili del riparto di giurisdizione

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Già nel 1963 Enrico Guicciardi, intervenendo al “convegno sulla ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi” di Napoli, osservava, circa l’ammissibilità nel nostro ordinamento di una siffatta ricostruzione, tesa a conseguire il risultato di estendere una tutela patrimoniale anche all’ambito di tale situazione giuridica, che “la strada per perseguirlo ha a) un fondo quanto mai labile e scivoloso, costituito dall’interpretazione affatto gratuita, o dalla vera e propria forzatura, di alcune disposizioni di valore basilare, giacché si tratterebbe di intendere l’art. 2043 c.c. come se non dicesse questo, o l’art. 28 come se dicesse quest’altro; b) costeggia un precipizio, per l’imprevedibile aggravamento della responsabilità dell’Amministrazione che ne potrebbe derivare; c) e soprattutto, ad un certo punto, incontra un ostacolo, che potrebbe essere rimosso soltanto con lo “scardinamento” del sistema della discriminazione di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo [1]”.

Si potrebbe sostenere, rispetto almeno a due delle affermazioni dell’insigne autore, che oggi quella strada da percorrere sembra essere meno “ardua”, soprattutto se si tiene conto dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale più significativa, che ha caratterizzato questa materia: è osservazione comune e condivisa, in tal senso, quella che considera tramontata la vecchia lettura dell’art. 2043 cod. civ. quale norma sanzionatoria o di carattere secondario che prevede le conseguenze della lesione di posizione giuridica fondata da altra disposizione di legge, per aver preso piede, invece, la lettura dell’art. 2043 cod. civ. quale norma di carattere primario che costituisce, più semplicemente, clausola generale che opera in seguito alla “lesione di un interesse giuridicamente rilevante”.

Meno condiviso, ma non per questo meno certo, è invece l’assunto secondo il quale, tra le conclusioni poste dalla sentenza delle Sezioni Unite, dovrebbe essere annoverata anche quella che considera definitivamente superata la necessaria pregiudizialità dell’annullamento dell’atto rispetto alla pronuncia di risarcimento dei danni che dipendano dalla illegittimità dei provvedimenti amministrativi, convinzione che all’epoca di Guicciardi invece era pressoché condivisa da tutta la dottrina e che venne così enunciata dal Maestro valtellinese: “Credo che nessuno possa neppure lontanamente pensare alla possibilità di una domanda di risarcimento dei danni per lesione di interesse legittimo indipendentemente dall’impugnativa dell’atto amministrativo. Che, cioè, il titolare dell’interesse legittimo possa accettare l’atto lesivo, chiedendo la riparazione patrimoniale della lesione, così come può fare il titolare di un diritto soggettivo”.

Sappiamo che da allora l’assetto del sistema di giustizia amministrativa in Italia ha subito notevoli modificazioni, sia legislative che giurisprudenziali, tra le quali vanno senz’altro ricordate, per la loro notevole incidenza, la legge 1034/1971 istitutiva dei T.A.R., la legge 241/90 sul procedimento amministrativo, la recente legge 205/2000 che ha dettato nuove regole processuali per i relativi giudizi di fronte al plesso giurisdizionale T.A.R. Consiglio di Stato; mentre, sul fronte giurisprudenziale, è stata la sentenza delle Sezioni Unite 500/99 che ha determinato, con i principi in essa contenuti, uno dei più imponenti dibattiti dottrinali che si ricordino in Italia, ancor oggi molto lontano dall’essere portato a conclusione.

 Cercare di dare risposta ai molteplici interrogativi che circondano questa tematica, già paragonata da altri ad una equazione a tre incognite, risulta, forse, oggi, compito meno gravoso, rispetto al passato, proprio se si considerano gli sforzi compiuti in questo senso dalla dottrina civil-processualistica, da quella amministrativistica ed infine da quella civilistica.

Le prime considerazioni non possono non investire, allora, la “tormentata” nozione di interesse legittimo; la quale, pur con le numerose sfumature che la hanno contraddistinto, è stata da sempre ricondotta all’interno di due fondamentali visioni: una prima ricostruzione, più risalente nel tempo, faceva capo allo stesso Enrico Guicciardi, il quale, ponendo la ben nota distinzione [2] tra le norme poste a tutela dei diritti (reciproci) tra amministrazione e amministrato (norme di relazione) e le norme per la disciplina dei diritti-poteri dell’amministrazione (norme di azione), era giunto ad una definizione dell’interesse legittimo come interesse sostanziale si, ma di mero fatto, che acquistava rilevanza giuridica nel potere di iniziare il processo: un interesse legittimante [3].

Dall’altra, invece, si pose la ricostruzione dell’interesse legittimo quale situazione giuridica soggettiva [4], alla stessa stregua del diritto soggettivo: venne ritenuta decisiva, in questo senso, la codificazione dell’interesse legittimo nella Carta Costituzionale, in un contesto sostanzialmente incompatibile con la precedente ricostruzione di Guicciardi, giungendo alla enunciazione di un “diritto costituzionale del singolo alla tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo [5]”.

Entro questi termini il tema dell’interesse legittimo non è mai giunto, però, ad una effettiva e convincente spiegazione, dal momento che l’affermazione di principio secondo la quale l’interesse legittimo è una vera situazione giuridica soggettiva non si è mai tradotta nella conseguente ottenibilità del bene con esso garantito, rimanendo invece relegato tra la configurazione di un interesse protetto ma non garantito, e quella della garanzia della mera legalità del provvedimento.

Sul piano del processo amministrativo, conferme di quanto affermato sono da riscontrare nella invariata struttura dello stesso quale giudizio di legittimità, quale processo cassatorio sull’atto portato in contestazione da chi affermi di essere titolare di un interesse legittimo; anche se non mancano, soprattutto in giurisprudenza, notevoli difficoltà interpretative sul versante dei poteri decisionali del giudice, in caso di accoglimento del ricorso: se cioè la domanda debba essere di mero annullamento, ovvero possa anche contenere delle statuizioni vincolanti per l’Amministrazione; per altro verso, si sono avvertite difficoltà attorno al rilievo da attribuire a specifici istituti del processo amministrativo, tra cui si segnalano il peso da assegnare alle motivazioni, oltre che al dispositivo, della sentenza di accoglimento [6].

La sentenza 22 luglio 1999 n. 500 delle Sezioni Unite della Cassazione, si colloca, in questo quadro di evoluzione degli assetti della giustizia amministrativa, come sentenza che accelera i processi di cambiamento già in corso. Salutata da parte della dottrina come sentenza “liberatoria [7]”, non ha mancato di raccogliere i commenti preoccupati di molti interpreti, i quali hanno posto l’accento sui rischi connessi al nuovo corso [8].

Per quanto concerne la tematica della risarcibilità dei danni prodotti dall’illegittimità del provvedimento amministrativo, è indubbio come la sentenza 500/99 abbia posto nuovamente in primo piano il problema della spettanza del provvedimento.

Nel momento in cui decide di abbandonare “il principio della irrisarcibilità degli interessi legittimi”, infatti, la Cassazione non può che constatare che la figura dell’interesse legittimo, per come si è costruita a fondamento dell’azione di annullamento, quale “posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo, e consistente nella attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo di rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene, non è in grado di fondare l’azione risarcitoria[9]”.

Entro questo schema va interpretato anche l’insieme delle affermazioni cruciali della sentenza che si ritrovano al punto 9 della stessa, secondo cui “la lesione dell’interesse legittimo” considerato nella tradizionale accezione, “è condizione necessaria, ma non sufficiente, per accedere alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. poiché occorre altresì che risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della P.A., l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e che detto interesse al bene risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo.”

Com’ è evidente, nelle parole spese dai giudici delle Sezioni Unite si ravvisa la presenza della nozione Guicciardiana di interesse legittimo, soprattutto quando si legge che “la categoria dell’interesse legittimo si palesa unitaria solo con riferimento all’accesso alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, e cioè ai fini dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento illegittimo, mentre si diversifica ed assume varie forme se considerata a fini diversi, ivi compreso quello della tutela risarcitoria [10] “.

In altre parole, nella sentenza 500/99 l’interesse legittimo “si sdoppia, o piuttosto genera una nuova figura: nel senso che accanto al tradizionale interesse legittimo collegato al potere amministrativo mediante il nesso della legalità, che si suppone continui ad essere tutelabile con l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo, appare una nuova situazione, tutelabile con l’azione di risarcimento”, con la conclusione che, accanto all’interesse legittimo classicamente inteso si dovrebbe affermare la presenza di un “interesse collegato ad una legale o normale spettanza di una misura favorevole all’amministrato la cui (necessariamente illegittima) negazione da luogo a tutela risarcitoria [11]”.

Accanto al tema della c.d. giurisdizione di spettanza, è stato accostato dalla dottrina quello che attiene al risarcimento del danno da perdita di chances [12].

Si tratta di “una ricostruzione del sistema di giustizia amministrativa (massimamente adattabile al caso dell’impugnazione dei provvedimenti negativi e delle connesse istanze risarcitorie), concentrata sulla protezione degli interessi legittimi, solo, o soprattutto, in quanto essi siano espressione di figure di spettanza di un determinato bene della vita- che costituisce il frutto di un provvedimento amministrativo- o almeno di una chance di riceverlo [13]”.

Si tratta di una ricostruzione che ha inteso, quindi, saggiare la riconducibilità della figura della perdita di chances come referente per un giudizio di meritevolezza di tutela risarcitoria.

Cercando di delineare il punto attorno a questa configurazione del problema della c.d. risarcibilità degli interessi legittimi, utilizzando questa espressione in omaggio alla erronea vulgata che su tale tema si è formata, e le cui dimensioni sono ormai preoccupanti, si deve osservare come molti dei dubbi che riguardano il definitivo ingresso di questa tecnica di risarcimento siano molto lontani dall’essere fugati.

Anzitutto per la considerazione, per niente scontata, che dubbi sull’introduzione nel nostro ordinamento di tale tipo di tutela risarcitoria sono stati avanzati da parte di uno degli studiosi più attenti a tale tematica, in riferimento alla constatazione che in Italia non esiste, come in Francia, una norma paragonabile a quella dell’art. 1382 del Code Civil che, pure nella sua ampiezza, ha si fondato la costruzione del danno da perdita di chances, ma solo come costruzione dell’intelletto”; tanto che sulla perdita di chance è possibile affermare che essa “è venuta assumendo, nelle applicazioni che ne ha fatto la giurisprudenza sotto i profili più disparati (ingiustizia del danno, certezza del danno, nesso di causalità, inadempimento contrattuale), una fisionomia indecifrabile [14], tanto da indurre parte della dottrina ad individuare nella “tralatizia definizione della chance, una sorta di contraddizione tra il carattere futuro ed incerto dell’utilità perduta (o mai acquistata) ed il requisito dell’attualità che il danno deve soddisfare per essere risarcibile”, con la constatazione ulteriore che “ne seguirebbe che ciò che viene risarcito con le chances, non potrebbe essere la perdita di un risultato favorevole. Sarebbe piuttosto la perdita della possibilità di conseguire quel risultato. Ma poiché tale ultima perdita si riferirebbe ad un bene, la cui esistenza nel patrimonio del danneggiato deve essere certa e attuale, si dovrebbe concludere per l’autonomia di questo stesso, ipotetico, bene rispetto al bene della vita che potrebbe essere assicurato solo dal provvedimento amministrativo favorevole, ove reso [15]”.

Dall’altro perché, se pure è possibile che l’evoluzione della tematica della perdita di chance trovi, nella giurisprudenza del giudice ordinario, una qualche forma di ricomposizione –soprattutto per ciò che concerne le concrete modalità di liquidazione dei danni in questi casi- (argomento comunque distante dal raggiungimento di siffatto obbiettivo), è constatazione invece condivisa che un tale tipo di valutazione debba essere negato, nell’attuale stadio degli assetti della giustizia amministrativa in Italia, al plesso giurisdizionale formato dai T.A.R. e dal Consiglio di Stato e alle sezioni giurisdizionali dello stesso [16].

Il problema della spettanza del bene sostanziale della vita si profila, infatti, soprattutto nei casi in cui il privato richieda il rilascio di provvedimenti favorevoli, e non si opponga, invece, all’emanazione di atti diminutivi della propria sfera giuridica. Sarebbero cioè i casi in cui “la tutela giurisdizionale contro la pubblica Amministrazione si presenta massimamente ardua, proprio perché viene a difendersi non tanto un “bene” che apparteneva al privato già da prima dell’emanazione del provvedimento e che dunque varrebbe, più o meno automaticamente, restaurato nella pronuncia di annullamento del giudice amministrativo. Viene invece a difendersi un bene che non ha mai fatto parte della sfera giuridica di quegli e che la pronuncia giurisdzionale non sarebbe in grado di conferire in modo diretto[17].

Oltre a questo rilievo preliminare, che dovrebbe rimandare alla originaria e in ogni caso persistente configurazione del giudizio amministrativo quale giudizio di legittimità sugli atti amministrativi, si dovrebbe affiancare l’altra imponente obiezione, sulla quale probabilmente vale la pena di meditare ancora a lungo, che riguarda la possibile interferenza del sindacato giurisdizionale rispetto al merito dell’attività amministrativa, che, come è noto, è ancor oggi vietata al giudice amministrativo. Secondo autorevole dottrina, infatti, “nel giudizio amministrativo trova applicazione la regola secondo la quale il giudice può e deve conoscere direttamente, mediante gli strumenti probatori propri del tipo di processo, il fatto da cui scaturisce la controversia sottoposta al suo esame; solo che tale regola trova un limite particolare, rappresentato dalla sfera di discrezionalità della Pubblica Amministrazione, soggetta ad un sindacato che, anche nella sua forma più penetrante dell’eccesso di potere, conserva carattere meramente esterno[18].

E’proprio in questo quadro che viene delineandosi l’altro grande nodo irrisolto della sentenza 500/99: ossia quello determinato dai rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo nelle controversie risarcitorie.

Come notato in precedenza uno dei passaggi più dirompenti della sentenza delle Sezioni Unite riguardava il superamento della c.d. pregiudiziale amministrativa: vale a dire il superamento della regola che imponeva il necessario e tempestivo previo annullamento degli atti amministrativi asseritamente illegittimi ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria.

Conviene riportare il punto della sentenza emessa dalla Sezioni Unite in cui viene affermato, se pure in obiter, il passaggio motivazionale che sorregge quest’impostazione: “rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento […], qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa (a differenza di quanto è avvenuto nel procedimento in esame) non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. [19]”.

Come si comprende è questo uno dei punti che effettivamente, come di certo non poteva immaginare Guicciardi, ha portato allo “scardinamento” del sistema della discriminazione di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo [20]”.

Nel folto dibattito dottrinale che è seguito alla constatazione del superamento della regola, seppur giurisprudenziale, di riparto, che aveva resistito per circa una settantina d’anni, è però intervenuta una delle più importanti riforme, per l’incisività con la quale ha contribuito alla razionalizzazione del processo amministrativo, che abbia riguardato la Giustizia amministrativa del periodo repubblicano.

Si tratta, come è noto, della legge 205/2000; legge che accanto all’obbiettivo di fissare strumenti tecnico-processuali per cercare di rendere il processo amministrativo “meno arcaico e soprattutto meno lungo e cronicamente ritardatario [21]” ha posto al suo interno una rideterminazione, con una disposizione quanto mai ambigua, del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Ci si riferisce all’art 7 commi 4 e 5 della succitata legge che hanno riscritto il comma 3 dell’art. 7 della legge 1034/1971 determinando un contrasto di opinioni circa l’effettiva portata della disposizione stessa.

Forse non è questa la sede più adatta per indugiare su una riflessione che meriterebbe spazi ben più ampi per essere compiutamente svolta, e che forse potrebbe essere ritenuta da qualcuno un fuor d’opera, ciononostante chi scrive ritiene di dover condannare l’estrema vistosità della troppa sufficienza con la quale il legislatore ha, in quell’ occasione, cercato di risolvere il problema del riparto fra giudice ordinario e giudice amministrativo circa le domande risarcitorie [22].

Una prima riflessione che è scatenata dall’osservazione scientifica della tecnica legislativa utilizzata per regolare aspetti così rilevanti del funzionamento pratico del sistema giudiziario italiano non può non rimandare agli imponenti interrogativi, già posti da Adriano Cavanna nelle premesse introduttive della “Storia del diritto moderno in Europa”. In ordine allo stato attuale del sistema delle codificazioni l’autore osserva che: le dottrine e le idee che hanno presieduto alla codificazione si sono ormai tramutate in schemi mentali consolidati e irriflessi, che tendono a delineare un orizzonte necessariamente definito della organizzazione giuridica: solo la riflessione storica può dunque mostrarne il mobile gioco dei piani prospettici. Resiste ancor oggi questa chiusa linea circolare del diritto? Le categorie scientifiche storicamente costituitesi con il processo di imprigionamento del diritto nei codici risultano ancor valide di fronte alla rapida evoluzione spirituale, economica e culturale della società odierna, e soprattutto, di fronte alle ricorrenti crisi dei valori di certezza e di ordine giuridico delle quali siamo oggi testimoni? Può ancora l’ordinamento “legale” essere espressione del mondo dei rapporti reali? [23]”.

Se qualcuno tentasse di liquidare questo tipo di interrogativi come indicatori di un velleitario isterismo distruttivo nei confronti del sistema normativo presente in Italia si potrebbe rispondere ponendo una serie ulteriore di questioni, che riguardano la constatazione di alcuni dati di fatto su cui meditare:

-                                nel 2005 le norme che disciplinano direttamente questo specifico ambito dell’ordinamento giudiziario inteso in senso ampio sono da rinvenire, ancora, principalmente in alcuni articoli[24] della legge 2248 del 1865 all. E sull’abolizione del contenzioso amministrativo, in una legge cioè che per come è stata conosciuta intendeva operare un inversione di tendenza rispetto alla pluralità di giurisdizioni presenti nel territorio italiano non ancora unificato [25]; in una legge cioè, volendo ancora chiarire, che è stata sottoposta a ripetute interpretazioni “gratuite” se non addirittura “forzate” che se, almeno originariamente, furono intese come necessarie per salvaguardare le posizioni dei privati all’arbitrio dell’ingerenza Statale, con il tempo si sono risolte in attestazioni dogmatiche prive di valenza scientifica[26].

-                                non tenere in considerazione tutti i passaggi che hanno portato all’odierna configurazione del giudizio amministrativo può comportare il rischio, già paventato in dottrina [27], di distorsioni allo schema concettuale ed ideale che è alla base dello stesso, con inevitabili ripercussioni sugli equilibri istituzionali così come risultanti a Costituzione invariata [28].

-                                da questo punto di vista si può probabilmente affermare che il richiamo all’effettività della giustizia per il privato cittadino che si “imbatta” nella pubblica amministrazione quale motivo principale dei ripensamenti giurisprudenziali e normativi all’assetto della conformazione del giudizio di fronte al plesso giurisdizionale T.A.R.- Consiglio di Stato si sia risolto in una clamorosa mistificazione, se si considera che ad oggi, nessuna soluzione concreta è stata data al problema del risarcimento del danno di fronte al giudice amministrativo. La lettera dell’ art 7 comma 3 della legge T.A.R. così come riscritta dalla legge 205 del 2000, anche nella sua interpretazione più coerente[29], non vale infatti a risolvere sistematicamente la questione del riparto fra i due ordini di giurisdizione, che non possono essere considerati come perfettamente fungibili [30].

Non si richiameranno, in questa sede, le possibili interpretazioni ricostruttive [31] che sono seguite alla emanazione della legge 205 del 2000, ma si riprenderà invece quella interpretazione dell’art. 7 comma 3 che si ritiene l’unica possibile, in un quadro che tenga conto di tutte le implicazioni sistematiche che l’accoglimento di una, piuttosto che dell’altra teorica, comporta.

In questo senso bisogna constatare come lo scopo della riscrittura del comma terzo dell’art. 7 della legge istitutiva dei T.A.R., da parte del legislatore del 2000, sia quello di “garantire, per quanto possibile, il simultaneus processus fra azione caducatoria e azione risarcitoria, quando (e proprio perché, per quanto la sentenza n. 500 non abbia approfondito tale profilo), l’azione risarcitoria è una azione che deve fare i conti, talora per l’an e molto più spesso e pressoché quasi sempre per il quantum del danno, con la conoscenza previa della decisione sulla sopravvivenza o meno, del provvedimento impugnato, o del diniego di provvedimento [32]”.

 Vanno quindi respinte, come impossibili, quelle interpretazioni, che avevano ravvisato nella infelice formulazione dei commi 4 e 5 dell’art. 35 d. lgs. 80/98 così come modificati dall’art. 7 della legge 205/2000 uno spostamento dell’intera “materia” del risarcimento del ”danno ingiusto”, dal giudice ordinario al giudice amministrativo [33].

Le ragioni di una siffatta impossibilità sono soprattutto di carattere sistematico. Non si può infatti tacere delle numerose perplessità che caratterizzano il nuovo ambito di giurisdizione sul risarcimento del “danno ingiusto” soprattutto in ordine ai dubbi di costituzionalità che potrebbero ancora riguardare, anche a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale 204/2004, tale disposizione [34].

L’interrogativo che merita invece di trovare risposta può essere così definito: “affinché sussista la giurisdizione per “connessione” del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria, basta che le due domande siano cumulativamente proposte? Occorre che quella di annullamento sia decidibile nel merito? Oppure è addirittura necessaria che essa sia accolta?”; qui le risposte ovviamente non possono non essere condizionate dalle premesse sistematiche dalle quali si parte, da presupposti concettuali, ed infine da impostazioni ideologiche.

Si ritiene di condividere l’interpretazione di quella parte della dottrina che propende per la terza delle soluzioni, “analogamente a quanto accade in materia di azione civile proposta in sede penale: ove com’è noto, il giudice penale decide della domande civile risarcitoria o restitutoria solo ove condanni l’imputato [35]”.

La possibilità riconosciuta dalla legge 205 del 2000 di una giurisdizione del giudice amministrativo “prorogata” alla cognizione delle pretese risarcitorie dei privati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, non vale ad appianare ulteriori considerazioni che si cercherà di esplicitare in sede di conclusioni.

Resta in effetti sullo sfondo il più delicato tra tutti i quesiti che circondano questa materia, vale a dire il problema determinato dal rapporto fra la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa sulle domande risarcitorie.

Una volta escluso, come pure larga parte della dottrina sostiene, che la legge 205 del 2000 abbia sancito che la giurisdizione sul risarcimento del danno da illegittimità dell’atto amministrativo spetti al giudice amministrativo tout court[36], si tratta di delineare alcuni punti fondamentali che investono l’applicabilità dell’art 1227 [37] del c.c.

Le ipotesi ricostruttive riscontrabili in dottrina e giurisprudenza si muovono sostanzialmente tra due correnti: la prima ne afferma l’applicabilità, l’altra la nega.

Si ritiene di abbracciare la prima interpretazione, più precisamente quella che ritiene applicabile la lettera del primo comma dell’art 1227 c.c.

Se è vero, quindi, che, sul piano dei principi, non è affatto azzardato pensare all’autonoma proponibilità di una domanda risarcitoria nei confronti dell’attività illegittima della P.A., giacché questo potrebbe essere a ragione considerato il vero momento di innovazione della sentenza delle Sezioni Unite 500/99, bisogna anche interrogarsi sulla differente qualità nonché quantità che tale scelta del privato comporti in ordine alla determinazione del danno che egli venga patendo.

Secondo quanto disposto dall’art. 1227 c.c., (“se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”) si tratterebbe di individuare le ipotesi in cui il fatto del creditore interrompe il rapporto causale tra comportamento ed evento. Entro questo ordine di considerazioni, non sarebbe azzardato affermare che sia stata la legge 241/90 sul procedimento amministrativo, con la previsione della partecipazione degli interessati al procedimento, a codificare un onere di partecipazione allo stesso procedimento, una volta giunta la comunicazione di avvio dello stesso.

Se, pertanto, volendo esemplificare, chi è stato avvertito omette di comunicare all’amministrazione “gli elementi rilevanti per l’adozione del provvedimento finale, ed in conseguenza di ciò tale provvedimento produce un danno, oppure più in generale, si ha un ritardo dannoso nell’emanazione del provvedimento richiesto, ebbene in tal caso il creditore ha concorso a cagionare il danno, e dell’incidenza del suo comportamento sull’esistenza e sull’entità del danno si dovrà tener conto nel liquidare lo stesso [38]”.

Qui è necessario precisare fin da subito che il danno a cui ci si riferisce in questi casi non riguarda i danni che conseguono all’emanazione del provvedimento, bensì ai danni che possano comunque residuare dopo l’annullamento dello stesso.

 E’ stato notato che colui il quale ometta di partecipare al procedimento amministrativo, e soprattutto non tenti di porre rimedio a questa sua scelta di inerzia, attraverso l’impugnazione dell’atto asseritamente illegittimo, “avrà diritto soltanto al verosimilmente piccolo risarcimento interinale per il danno che comunque avrebbe subito nelle more del tempo in cui (virtualmente) avrebbe potuto adire il giudice amministrativo e questi impiegare per disporre i provvedimenti sommari e/o cautelari e portarli ad attuazione (se del caso forzosa) [39]”.

Merita, infine, qualche considerazione la sentenza della Corte Costituzionale 204/2004, che ha dichiarato incostituzionali i recenti ampliamenti della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In quell’occasione, peraltro, i giudici di Palazzo della consulta hanno colto l’occasione per chiarire i rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo nelle controversie risarcitorie che intervengono nel giudizio generale di legittimità.

La maggior parte dei commentatori ha interpretato il punto 3.4.1. della sentenza come passaggio in cui viene affermata la possibilità di condannare al risarcimento del “danno ingiusto” anche nella giurisdizione generale di legittimità, sostenendo addirittura qualcuno la doverosità costituzionale della soluzione; non sarebbe tuttavia eccessivamente azzardato ricordare come in realtà tale passaggio motivazionale sia stato inserito in un obiter dictum; conseguentemente non è altrettanto azzardato affermare che potrebbero in ogni caso permanere dei dubbi sulla reale ed effettiva portata di quell’assunto.

Infatti bisogna ricordare che, in questa vicenda che parte dal d. lgs 80/98 e dalla risposta delle Sezioni Unite della Cassazione con la celeberrima sentenza 500/99, se pure da una parte si può scorgere l’esigenza di un riordinamento-se non anche di una riforma vera e propria- dei criteri di attribuzione delle competenze tra Giudice Ordinario e Giudice Amministrativo, di per sé doverosa prima che encomiabile, dall’altra si potrebbe comunque affermare che tali risposte non siano state ricercate nelle sedi più opportune, con ciò riferendosi chiaramente all’intervento del legislatore, magari anche di rango costituzionale.

Entro quest’ottica gli interventi della Corte Costituzionale quando afferma (punto 3.4.1) che “il risarcimento del danno ingiusto” non costituisce sotto alcun profilo una “nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione”, potrebbero risultare quanto meno poco prudenti.

Linee interpretative di tal genere potrebbero ingenerare orientamenti dottrinali che tendono a sovrapporre ulteriormente la figura dell’interesse legittimo a quella del diritto soggettivo, con ciò rendendo sempre meno plausibili le argomentazioni di chi sostiene la necessità di una giurisdizione amministrativa (ed il paradosso è abbondantemente alimentato dalla stessa sentenza 204) basata sulla presunta differenza tra l’interesse legittimo e il diritto soggettivo stesso; la quale invece rimane ancor oggi, nel 2005, molto netta, anche se progressivamente se n’è persa la comprensione, come sostiene il prof. Alberto Romano, e si radica proprio sulla differenza di strumenti che l’ordinamento positivo concede per la tutela degli stessi: piena, nel senso di una cognizione estesa al rapporto che eventualmente fondi la pretesa della spettanza al bene, nel caso del diritto soggettivo; parziale, continuando nella contrapposizione col diritto soggettivo, nel senso che prevede necessariamente la presenza di un atto in quella amministrativa, ed in tal senso naturalmente orientata alla cassazione di possibili vizi di legittimità dello stesso, e solamente a ciò, ordinariamente, confinata.

E’ del tutto evidente che ancor oggi (se non altro seguendo le indicazioni stesse della pronuncia della Corte Costituzionale) questa distinzione (diritto soggettivo-interesse legittimo) ha un significato e una valenza innegabile, pur con gli inevitabili corollari che ne conseguono, fra cui, ovviamente, la non perfetta coincidenza fra tutela offerta al privato nel caso di lesione di un diritto soggettivo e la lesione differente di un interesse legittimo (poiché del resto la logica, prima ancora della legge, vuole che, quando la tutela sarà la stessa, non vi sia più ragione di due ambiti di giurisdizione).

Ma la via per smussare gli angoli e le imperfezioni della giurisdizione amministrativa (ed in particolare la soluzione della tutela dell’interesse al provvedimento) così come si presenta nel nostro ordinamento, non può rinvenirsi in affermazioni che contraddicono la realtà delle cose (risarcimento del danno ingiusto come misura riparatoria) senza peraltro dare risposta ai conseguenti corollari [40].


 

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[1] ENRICO GUICCIARDI, Risarcibilità degli interessi legittimi? Tentativo di impostazione del problema…da parte di un suo negatore, in Atti del convegno nazionale sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi, Milano, 1965, pag. 217-218

[2] Distinzione che sembra essere stata riproposta, con degli utili aggiornamenti, da una certa parte della dottrina; si veda a riguardo: F. VOLPE, Norme di relazione, norme di azione, e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004.

[3] Per questa ricostruzione vedi FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, pag. 219 ss.

[4] Su tutti, per questa ricostruzione, si consideri MIELE, Passato e presente nella giustizia amministrativa in Italia, in Riv. Dir. proc., 1966, in Scritti giuridici, II, pag. 1051.

[5] FALCON, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, pag. 222.

[6] Molti aspetti controversi hanno riguardato inoltre l’istituti della cessazione della materia del contendere e della partecipazione dei terzi al giudizio; quest’ ultimo problema investiva poi sia le forme di intervento sia l’applicazione dell’istituto dell’opposizione di terzo.

[7] Si consideri, tra tanti, M. BERTOLISSI, Osservazioni a Cass., Sez. un., n. 500/99, in Nuova. Giur. Civ. comm., 1999, I, p. 370 ss. che afferma: ”il pregio essenziale della sentenza sta nell’aver posto le basi per la eliminazione di idoli, e per aver indicato con i suoi criteri di giudizio una stella polare”.

[8] Si veda, per tutti, F. BILE, La sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in Resp. Civ. prev. 1999, pag 897 ss.

[9] FALCON, Il giudice, cit., pag. 229-230

[10] Cass. Sez. Un. Civ., sentenza 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487, con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI.

[11] FALCON, Il Giudice, cit., pag. 233-234

[12] Si ricordi infatti che nella sentenza delle Sezioni Unite non v’è nessuna traccia della tematica della perdita di chances; di tale problema invece si è fatto interprete da una parte la giurisprudenza amministrativa successiva alla sentenza delle sezioni unite (si consideri, fra molte, T.A.R. Lombardia, 23 dicembre 1999, in Danno e Resp., 2000, pag. 310 ss), dall’altra la dottrina, per un approfondimento della quale si rimanda al paragrafo 3 del secondo capitolo di questo studio.

[13] F. VOLPE, Norme, cit., pag. 309

[14] F. D. BUSNELLI, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il “muro” degli interessi legittimi, in Riv. Dir. civ., 2000, pag. 346.

[15] F. VOLPE, Norme, cit., pag. 318

[16] Secondo FALCON, Il giudice, cit., pag. 249, “La questione aperta è, tuttavia, se alla pressione esercitata dalla prospettiva del risarcimento sulla giurisdizione sugli interessi legittimi, affinchè diventi giurisdizione di spettanza anziché giurisdizione di legittimità del provvedimento nel suo specifico e concreto esserci, possa corrispondere un mutamento giuridico nella stessa direzione”.

[17] F. VOLPE, Norme, cit., pag. 312.

[18] STELLA RICHTER, L’aspettativa di provvedimento, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1981, 23 ss.

[19] Cass. Sez. Un. Civ., sentenza 22 luglio 1999 n. 500, in Foro it., 1999, I, 2487, con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI.

[20] ENRICO GUICCIARDI, Risarcibilità degli interessi legittimi? Tentativo di impostazione del problema…da parte di un suo negatore, in Atti del convegno nazionale sull’ammissibilità del risarcimento del danno patrimoniale derivante da lesione di interessi legittimi, Milano, 1965, pag. 217-218

[21] Così sembra valere, per quanto concerne la generalizzazione dei poteri di condanna, l’ampliamento dei mezzi istruttori e l’ampliamento dei poteri cautelari. Colma infine un vuoto normativo, dapprima davvero ingiustificabile, l’introduzione dell’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione, tendente anch’essa a terminare con una sorta di pronuncia di condanna, che tanto richiama quella che potrebbe essere chiesta a giudice ordinario nei rapporti tra privato.

[22] Senza tacere dell’iter legislativo che ha portato a quella formulazione dei due commi in esame, per un’analisi del quale si rinvia a GIOVANNI VERDE, La pregiudizialità dell’annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in Dir.Proc. Amm., 2003, pag. 965-966, nota 5.

[23] ADRIANO CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa, Milano,1982, pag. 3

[24] Si tratta degli art. 2, 4, e 5 della citata legge.

[25] Per una adeguata ricostruzione storica dei problemi della giustizia amministrativa in Italia, ed in particolar modo per una panoramica sulle motivazioni che indussero il legislatore del 1889 al ripensamento della giustizia amministrativa nel Regno, non si può non rimandare ancora a LEOPOLDO MAZZAROLLI, Ragioni e peculiarità del sistema italiano di Giustizia Amministrativa, in Diritto amministrativo, II, 1993, Bologna, pag. 1429 ss.

[26] Ci si riferisce al dogma dell’irrisarcibilità delle posizioni giuridiche qualificate come interessi legittimi, “sconfessato” dalla sentenza delle Sezioni Unite. Come già osservato nel corso dell’analisi della pronuncia delle Sezioni Unite, dietro questa “etichetta” data alla soluzione dei giudici della Suprema Corte si legge invece il mutamento di opinione (giurisprudenziale) che faceva capo al “compromesso giurisdizionale” fra l’allora presidente della Cassazione, Mariano d’Amelio, e il presidente del Consiglio di Stato Santi Romano con il quale venne sancito il criterio della causa petendi, orientamento definito più volte nel corso della vita repubblicana come pietrificato, e che oggi potrebbe essere ritenuto non  più cosi certo, se non addirittura superato.

[27] ALBERTO ROMANO, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge 205 del 2000, (epitaffio per un sistema), cit., pag 610 ss.

[28] Ed in questo senso non si può che riportare l’opinione ben più autorevole e ferma di GIOVANNI VERDE, L’unita della giurisdizione e la diversa scelta del Costituente, in Dir. Proc. Amm., 2003, pag. 343 ss., secondo il quale: “In questa chiave andavano e vanno letti gli istituti di giustizia, perché in uno Stato democratico di diritto non può essere posto in dubbio che anche i poteri pubblici e, quindi, le persone fisiche che li esercitano e i consequenziali atti di esercizio siano soggetti al controllo giudiziario. Nello stesso momento in cui la Costituzione riaffermava con fermezza tale principio, cercava anche di porre rimedio al rischio di una sopraesposizione del potere giudiziario o, peggio ancora, di una evoluzione in concreto del sistema verso un «governo dei giudici».
È questa la ragione per la quale qualsiasi modificazione della Costituzione che tocchi l'equilibrio del disegno costituzionale originario non può non avere conseguenze a catena di imprevedibile portata. È quanto è accaduto nel 1993 quando fu soppresso l'istituto dell'autorizzazione a procedere e fu reso praticamente impossibile o, comunque, assai difficile fare ricorso agli istituti dell'amnistia e dell'indulto. I frutti avvelenati delle scelte dettate da furori popolari o dal coinvolgimento passionale nelle vicende poco edificanti della c.d. prima Repubblica sono venuti a maturazione nel tempo presente con il rischio di riforme del sistema dettate anch'esse dagli istinti, se non dai rancori o dallo spirito di rivalsa, piuttosto che dai ragionamenti condotti a mente fredda.
 È questa la ragione per la quale sono istintivamente contrario, nel tempo presente, a qualsiasi intervento di modificazioni della nostra Carta fondamentale, che rischierebbe di inferire ulteriori colpi mortali al modello originario, che fu mirabile e che oggi comincia a vacillare, essendone state compromesse alcune strutture portanti”.

[29] Ci si riferisce alla lettura della norma già richiamata che intende ravvisare in questo articolo lo spostamento della giurisdizione ordinaria sul risarcimento del danno dal giudice ordinario al giudice amministrativo solo per ragioni di connessione.

[30] Con buona pace degli ancor molti convinti assertori della piena dignità di giudice al plesso formato dai T.A.R. e dal Consiglio di Stato. Risposta questa condivisibile se e solo se si tenga presente che il grado di indipendenza voluto dai costituenti per i due ordini giurisdizionali non sta sullo stesso piano, ma va definita come piena per l’A.G.O. poiché servirebbe una modifica Costituzionale per ritoccarla; va qualificata invece come sufficiente per ciò che concerne il giudice amministrativo, essendo sufficiente una legge ordinaria per modificare le guarentigie riservate agli organi di giustizia amministrativa. 

[31] Per una ricostruzione delle interpretazioni del comma 3 della legge 205/2000 si rimanda a CLAUDIO CONSOLO, Il processo amministrativo fra snellezza e civilizzazione, in Corr. Giur., 2000, pag. 1265 ss.

[32] CLAUDIO CONSOLO, Problemi del nuovo riparto di giurisdizione dopo la legge 205 del 2000, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, pag. 322.

[33] Tra tutti, si consideri CARBONE, Le nuove frontiere della giurisdizione sul risarcimento del danno da atto amministrativo illegittimo della P.A., in Corr. Giur. ,2000, pag. 1143;

[34]Secondo GIOVANNI VERDE, La pregiudizialità dell’annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in Dir.Proc. Amm., 2003, pag. 973 ss.: “il quarto comma (dell’art. 35 del d.lgs 80/98 cosi come modificato dalla legge 205/2000) contiene chiaramente una regola sulla giurisdizione, in quanto crea una giurisdizione esclusiva di nuovo conio e di incerta conformità alla Costituzione- perché relativa a un settore in cui per definizione sono individuabili soltanto questioni di diritto soggettivo- del giudice amministrativo, sulle controversie nascenti dal diritto soggettivo al risarcimento del danno, quando sia violata una situazione giuridica che rientri nella sua  generale giurisdizione di legittimità. Del che il legislatore finisce col fornire un interpretazione autentica, quando nel comma 5 dello stesso art. 35 si preoccupa di abrogare espressamente ogni disposizione “che prevedela devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento degli atti amministrativi”.  

[35] LUISO, Pretese risarcitorie verso la Pubblica Amministrazione fra giudice ordinario e amministrativo, in Riv. Dir. proc., 2001, pag. 43 ss.

[36] Per una serie di motivi che trovano tutti la loro ragione fondante nella nozione di interesse legittimo accolta nel corso della trattazione, tale per cui essa non sarebbe in grado, in modo difforme dal diritto soggettivo, di fondare l’azione risarcitoria, e che sono riscontrabili nell’analisi dei principali istituti che riguardano il processo amministrativo.

[37] “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza ai fini della determinazione dell’ammontare del danno”

[38] LUISO, Pretese risarcitorie verso la Pubblica Amministrazione fra giudice ordinario e amministrativo, in Riv. Dir. proc., 2001, pag. 43 ss.

[39] CLAUDIO CONSOLO, Il waltzer delle giurisdizioni rigira e ritorna a fine ottocento, in Corr.Giur., 9/2004, pag. 1333

[40] Che sia giunto il momento di aprire una fase di discussione, fatalmente politica, che tenda alla ricerca di soluzioni più radicali e sicure, nelle sedi più opportune, previste dall’ordinamento in Costituzione (con la speranza che vi sia ancora la buona volontà di rispettare quel dettato e sempre che quel rispetto ci sia mai stato)?

Si tenga sempre presente ai fini di questa tipologia di commento sulle tematiche afferenti alla Costituzione, della ben più autorevole e profonda opinione di un costituente, PIERO CALAMANDREI, in Costituzione di Antigone, scritti e discorsi politici, Milano, 2004, in particolare pag. 135 e ss.


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