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Articoli e note

n. 11/2005 - © copyright

VALENTINO PETERLE

Il problema della pregiudizialità amministrativa
e le possibili ricostruzioni interpretative

Non è passata inosservata la constatazione di come la sentenza 500/99 delle Sezioni Unite abbia  inevitabilmente alterato il tradizionale assetto sul quale riposava il riparto delle giurisdizioni fra giudice ordinario e giudice amministrativo con le ben note conseguenze sia sul piano normativo che su quello giurisprudenziale (anche se di un giudice del tutto speciale com’è da ritenere quello Costituzionale).

Bisogna tenere presente un punto sul quale vi era, almeno fino alla sentenza delle Sezioni Unite, una tendenziale convergenza di opinioni tra giurisprudenza  e dottrina (tanto di quella che tradizionalmente era portata a negare la “risarcibilità degli interessi legittimi” e quella considerata, per così dire “progressista”, tendente ad una, seppur cauta, affermazione degli stessi): si tratta della pregiudizialità dell’annullamento, ritenuta necessaria sia per ragioni di stretto diritto positivo, sia per ragioni di sistema [1].

Si è sempre sostenuto infatti che mancando l’annullamento, e permanendo per ciò in vita l’atto, il giudice ordinario, ove dovesse conoscere di questo al fine identificarvi il fatto causativo di un “danno ingiusto” ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., dovrebbe invero conoscere non incidenter, bensì principaliter, giacché in un giudizio di risarcimento il fatto causativo del danno si pone necessariamente come “titolo” del risarcimento, e cioè come causa petendi, e quindi come oggetto del giudizio, mentre, notoriamente, gli art. 2 e 3 l. cont. Ammin. e l’art. 26 del T.U. Cons. Stato [2], non consentono al giudice civile e riservano all’autorità amministrativa e al giudice amministrativo di conoscere principaliter della difettosità o meno di atti che tocchino immediatamente (e cioè che abbiano ad oggetto, secondo la dizione dell’art 26) interessi e non diritti.

Come si vede, prima della sentenza delle Sezioni Unite, una condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni per la lesione, a opera di un atto amministrativo (o di un comportamento equiparato), di interessi dei particolari, protetti mediante il riconoscimento di una posizione giuridica di interesse legittimo, non era dunque pensabile se non dopo che l’atto stesso fosse stato eliminato dal mondo del diritto e sul presupposto di tale eliminazione.

Come si legge nella sentenza delle Sezioni Unite, oggi, al contrario, “l’illegittimità dell’azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c. [3]”. L’illegittimità dell’atto amministrativo fa parte del thema decidendum, integra il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno.

Bisogna prestare particolare attenzione ai corollari ricavabili dall’assunto secondo il quale “va affermata la risarcibilità degli interessi legittimi quante volte risulti leso, per effetto dell’attività illegittima e colpevole della P.A. (con accertamento che, ove competa all’autorità giudiziaria ordinaria, prescinde da una previa decisione del giudice amministrativo), l’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo si correla, e sempre che detto interesse al bene della vita risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo”.

  Sul punto la dottrina si è trovata fatalmente discorde, tanto che è possibile ravvisare, a titolo esemplificativo e senza pretesa di esaustività,  la  presenza di due opzioni ricostruttive diametralmente opposte, facenti entrambe riferimento alla nozione di pregiudizialità. Il quesito di fondo riguarda ovviamente quale tipo di tutela possa essere richiesta dal privato ai rispettivi ambiti giurisdizionali, rispettivamente ordinario e amministrativo, e più specificatamente, il quesito concerne anche i limiti oggettivi del giudicato  in sede di tutela risarcitoria, per quanto riguarda l’illegittimità del provvedimento amministrativo.

E stato affermato che l’illegittimità del provvedimento, essendo uno degli elementi costitutivi della fattispecie del diritto considerato dall’art. 2043 c.c., “deve essere conosciuta e decisa dal giudice, per potere statuire sulla domanda di danni, ed integra, quindi, una questione di merito [4].”

Secondo un primo orientamento, apparso in nota alla sentenza 500/99 su un’accreditata rivista [5], l’illegittimità del provvedimento integrerebbe quindi una questione pregiudiziale in senso logico, “cioè un punto pregiudiziale che deve essere necessariamente conosciuto dal giudice, anche senza una espressa richiesta di parte, in quanto elemento del rapporto giuridico da cui nasce l’effetto dedotto in giudizio [6]”.

Si tratta di una distinzione (pregiudizialità logica-pregiudizialità tecnica) introdotta da autorevole dottrina [7], che attiene alla categoria superiore dei rapporti giuridici caratterizzati da un nesso di pregiudizialità-dipendenza. Nel primo caso si afferma che la dipendenza non lega distinti diritti e rapporti giuridici, ma il rapporto fondamentale ai singoli effetti giuridici che in esso si radicano e si fondano, nel secondo caso, viceversa, diritti fra di loro distinti sono tra essi collegati nel senso che il diritto pregiudiziale, si afferma, costituisce parte della fattispecie costitutiva dell’altro, definito come diritto dipendente [8].

Sulla scorta di tali distinzioni, si è cercato di sottrarre dalla sfera di applicabilità dell’art 34 c.p.c., i casi di c.d. pregiudizialità logica.

 Si afferma comunemente che nel primo caso (pregiudizialità logica) si formerebbe sul punto il cosiddetto giudicato implicito, mentre nel secondo caso (pregiudizialità tecnica) l’accertamento sarebbe solo incidentale.

La ricostruzione rileva, come è noto, anche per ricostruire concretamente l’ambito della  sospensione propria o necessaria (per pregiudizialità ex  art. 295 c.p.c.).

 Si riprende qui l’analisi del fenomeno della pregiudizialità così come affrontato da parte della dottrina processual-civilistica (alla quale ovviamente pertiene). In tal senso vi è chi insegna come la sospensione per pregiudizialità non vada “ascritta tanto ad uno svolgimento anomalo del processo, quanto all’esigenza di accantonare la decisione sul merito vuoi per esigenze di economia processuale vuoi per evitare il rischio di giudicati contradditori [9]”.

Secondo una prima ricostruzione del problema qui affrontato, bisogna considerare come ”la sospensione prevista dall’art. 295 c.p.c., coprendo la medesima area dell’art. 34 c.p.c., presuppone la pregiudiziale in senso tecnico e non quella logica: in questi termini vi si potrebbe giungere (alla sospensione) solo se, dovendo la questione pregiudiziale -in senso tecnico- essere decisa con efficacia di giudicato, per esservi in tal senso una esplicita domanda o la volontà di legge, non sia possibile, per ragioni di competenza, l’emanazione di un’unica decisione da parte di un solo giudice. Se si rientrasse nell’accertamento incidentale, non essendo applicabile l’art 34, si dovrebbe sospendere, ma le Sezioni Unite espressamente escludono questo esito, poiché porterebbe, di fatto, a cinque o sei gradi di giudizio, senza considerare che secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza, il processo civile va sospeso solo se la controversia amministrativa verta su di un diritto soggettivo, potendo in tal caso la pronuncia fare stato nel giudizio  civile, mentre qualora il giudice amministrativo sia chiamato a decidere su interessi legittimi, su situazioni cioè dalle quali, prima della loro tutela giurisdizionale, non possono derivare diritti soggettivi, non vi è necessità della sospensione [10]”.

In definitiva, come già emerge dalle considerazioni svolte, e dall’analisi degli orientamenti in materia della giurisprudenza [11], “fino alla sentenza 500/99 il sistema si basava su di un meccanismo in base al quale qualora l’atto amministrativo avesse integrato una pregiudiziale in senso tecnico, l’alternativa era tra la sospensione del processo e la disapplicazione: nel caso invece di pregiudiziale in senso logico, il problema era di giurisdizione: più precisamente la via del giudice ordinario nei casi di c.d. carenza di potere, del giudice amministrativo nei casi di non corretto esercizio del potere.

La sentenza delle Sezioni Unite invece ha determinato questa situazione: qualora venga introdotto un accertamento in via principale da parte della Autorità giurisdizionale ordinaria, dell’illegittimità dell’azione amministrativa, laddove cioè la questione di correttezza dell’esercizio del potere (e non di inesistenza) rivesta la posizione di pregiudiziale in senso logico, e non meramente tecnico, si deve concludere che con questa sentenza è stato reintrodotto il criterio del riparto di giurisdizione fondato sul petitum: al giudice amministrativo si chiede l’eliminazione dell’atto lesivo della posizione soggettiva del privato, al giudice ordinario la condanna la risarcimento del danno provocato dall’atto illegittimo [12]”.

Come affermato tale conclusione non ha trovato unanimità di consensi né in dottrina ne in giurisprudenza. Secondo un differente indirizzo, poichè “l’illegittimità del provvedimento, oltre a rilevare come fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria, può rappresentare anche l’oggetto di un autonomo giudizio di annullamento di fronte al giudice amministrativo, ricorre la figura della “pregiudizialità in senso tecnico”: il rapporto giuridico (obbligatorio) di risarcimento del danno è dipendente dal “fatto-effetto” atto illegittimo, che ha, dunque, natura “pregiudiziale”. Per l’esattezza, siamo in presenza di una tipica ipotesi di “pregiudizialità tecnica amministrativa” nel processo civile, la quale ricorre quando, come nel caso di specie, l’atto dell’autorità si atteggia come elemento della fattispecie del diritto soggettivo che funge da oggetto del processo civile, provocandone la nascita o l’estinzione [13]”.

E’ estremamente interessante osservare su quali posizioni si sia schierata, di conseguenza, la giurisprudenza civile in ordine alla tematica della pregiudizialità, con particolare riferimento al problema della natura della stessa per ciò che concerne i limiti del giudicato.

 Di questo tema si è occupata la sentenza della seconda sezione della Cassazione, 27 marzo 2003 n. 4538 [14].

La seconda sezione giunge al capovolgimento del precedente orientamento delle Sezioni Unite 500/99: mentre stabilisce che non è più necessario il previo annullamento dell’ atto illegittimo per poter proporre la domanda risarcitoria -poiché tale illegittimità costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.-, fissa alcuni importanti principi in merito alla natura della questione pregiudiziale [15].

In effetti la Seconda Sezione non ha mancato di sottolineare come le affermazioni contenute nella 500/99 costituiscano, nell’ambito di quella sentenza, un obiter dictum, ne d’altra parte, ha argomentato la Cassazione seconda sezione civile, tale decisione riveste l’autorità delle pronunce emesse a norma dell’art. 374 comma 2 c.p.c.; la conclusione alla quale invece è pervenuta si riassume nell’enunciato secondo il quale: “in assenza della rimozione dell’atto, il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell’ordinamento impedisce di valutare i termini di danno ingiusto gli effetti medesimi.”

La Suprema Corte ha rimarcato come fosse palese, nel caso portato in contestazione “l’immediata, diretta e non occasionale collegabilità del richiesto risarcimento all’asserita illegittimità della delibera di esclusione: la pretesa risarcitoria risulta infatti espressamente fondata sul presupposto della contestata legittimità dell’atto di esclusione”. Pertanto, a parere della corte “l’accertamento della illegittimità dell’atto “non investe […] una questione pregiudiziale da affrontare e risolvere incidenter tantum ma costituisce un elemento essenziale del thema decidendum”.

In altre parole la rimozione dell’atto amministrativo illegittimo è condizione necessaria per poter ritenere non conforme al diritto oggettivo la situazione giuridica prodotta da un atto amministrativo, poiché in caso contrario “il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell’ordinamento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto gli effetti dell’atto medesimo [16]”.

Continua la corte affermando che “il giudice ordinario può disapplicare l’atto amministrativo solo quando la valutazione della legittimità del medesimo debba avvenire in via incidentale, ossia quando l’atto non assume rilievo come causa  della lesione del diritto privato, ma come mero antecedente, sicchè la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale. Resta dunque escluso che l’indagine  sulla sussistenza di uno (il primo in ordine logico-giuridico) degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 c.c. sia inerente a questione pregiudiziale suscettibile di essere decisa incidentalmente e senza effetti di giudicato. Il principio fondamentale di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, a cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, subirebbe un notevole vulnus ove fosse consentito far valere, sia pure ad altri fini, l’illegittimità”.

Come si vede, dalla breve disamina della giurisprudenza successiva all’intervento delle Sezioni Unite, viene affermato che il momento di accertamento della illegittimità o meno di un provvedimento che si ritiene causa di un danno ingiusto è da inquadrare nella categoria della pregiudizialità logica e non quella tecnica, poiché su di essa, secondo le parole della seconda sezione, il giudice non potrebbe conoscere senza il formarsi del giudicato anche su quella porzione di domanda.

Rimangono da approfondire alcuni punti fondamentali dei quali si propone in questa sede un accenno, e che verranno sviluppati oltre con l’analisi della legge 205/2000. Ci si riferisce  alla tematica dei diversi termini previsti dall’ordinamento per far valere l’azione di annullamento derivante da illegittimità degli atti amministrativi, per i quali si parla di termine di decadenza (60 giorni) rispetto invece al termine di prescrizione (quinquennale) per far valere l’azione di risarcimento da illecito extracontrattuale [17], nonché della necessità sistematica di ricercare una qualche forma di coordinamento tra i due ambiti di giurisdizione.

Invero bisogna anche ricordare come non vi sia, in dottrina, una univoca presa di posizione per ciò che concerne la fonte del risarcimento del danno: in questo senso vi è chi  ipotizza che non di vero e proprio illecito extracontrattuale si dovrebbe in tali casi parlare, bensì di una peculiare forma di responsabilità precontrattuale della stessa P.A. [18], mentre per altro indirizzo, si dovrebbero inquadrare tali fenomeni sotto la generale categoria dell’illecito contrattuale [19]

 Uno degli interrogativi che costituiscono in questa prospettiva una sorta di “ostacolo” alla apertura della strada del rimedio risarcitorio di fronte al giudice ordinario riguarda infatti la possibilità (o meno) di azionare il diritto di credito al risarcimento senza che vi sia stato l’annullamento dell’atto presupposto da parte del giudice a ciò adibito; senza considerare poi l’entità [20] del danno che potrebbe essere risarcito in sede di giurisdizione ordinaria (nel caso si affermi la duplice sede per la proponibilità dei rimedi, ossia di annullamento, di fronte al complesso T.A.R. Consiglio di Stato, di risarcimento di fronte al giudice civile) senza che vi sia stata l’impugnazione dell’atto (o essendovi stata una impugnazione tardiva).

Bisogna subito chiarire e ribadire che secondo le parole spese, seppure in obiter, dai giudici delle Sezioni Unite, ciò che è risarcibile non è l’interesse legittimo in quanto tale, vale a dire la lesione di  quelle posizioni giuridiche che sono caratterizzate dalla connessione con un interesse soggettivo in ordine ad un bene della vita (interesse sostanziale, e non processuale secondo l’opinione tradizionale, ma che di fatto potrebbe ancora essere ritenuto, invece, esclusivamente processuale).

A ragione, quindi, una parte della dottrina, probabilmente la più attenta alle ragioni storico-sistematiche che governano il sistema della giustizia amministrativa in Italia, continua ad insegnare come “risarcimento del danno e interesse legittimo appaiano elementi incompatibili, addirittura ontologicamente. Perché la lesione di un interesse legittimo, in termini concettualmente corretti, può essere provocata solo da un provvedimento (illegittimo, ed in quanto lo sia). Mentre un danno può essere provocato solo da un comportamento di fatto, (o anche da un provvedimento, ma che però rilevi come fatto per la sua stessa emanazione, e non come causa dei suoi effetti tipici) [21]”.

 Come si vede Sezioni Unite non hanno affermato tutto questo, ponendo invece, al contrario, attenzione al concetto di spettanza del provvedimento richiesto, con un altro esito, per così dire, innovativo: la risarcibilità degli “interessi sostanziali, per i quali la legislazione tedesca, e precisamente l’art. 42, comma 2, VwGO, usa la denominazione di Rechte, e che noi potremmo chiamare “interessi-diritti” o “diritti in senso ampio”, corrispondenti alle utilità che possono essere ottenute, in relazione al potere amministrativo, con le azioni di annullamento e di adempimento [22]”.

Bisogna quindi prendere atto che a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite, una volta superato l’imbarazzo per la portata di tale sentenza, visto che presuppone un potere del giudice del risarcimento, in ordine alla legittimità degli atti amministrativi, molto più ampio e penetrante rispetto a quello garantito dall’ordinamento di fronte al giudice amministrativo, vale a dire il potere di annullamento degli atti illegittimi, viene accolta una nuova figura tutelabile con l’azione di risarcimento, che è da definire come “ l’interesse collegato  ad una normale o legale spettanza di una misura favorevole all’amministrato la cui (necessariamente illegittima) negazione da luogo all’azione di risarcimento [23]”.

La configurabilità di questo “interesse-diritto” al provvedimento è accompagnata inoltre da una duplice osservazione: da una parte vi è la constatazione che tale situazione ricorre automaticamente, ex se, nel caso di attività amministrativa vincolata. Un primo ragionamento quindi deve portare a concludere per la possibilità che al cittadino sia riconosciuta una vera e propria pretesa al provvedimento stesso. Il campo già ritenuto uniforme delle norme di azione si sdoppierebbe quindi nei due nuovi insiemi delle norme di azione la cui osservanza garantisce all’interessato utilità sostanziali, e delle norme di azione il cui rispetto invece riguarderebbe la sola legittimità del provvedimento.

Secondo queste osservazioni, in altre parole, “quando l’insieme delle norme di azione, correttamente applicate, portano alla emanazione del provvedimento richiesto all’interessato, esse risulterebbero doppiate da una sorta di norma di relazione di chiusura che impone il soddisfacimento dell’interesse privato, a pena del risarcimento del dann o[24]”. 

Superamento della pregiudizialità e risarcimento degli interessi oppositivi e pretensivi, possibili ricostruzioni.

Seguendo il ragionamento dei giudici della sentenza 500/99 non è quindi necessario, ai fini dell’ottenibilità per il privato della tutela risarcitoria, l’annullamento dell’atto amministrativo presupposto.

Una lettura in punto di pregiudizialità così innovativa, peraltro, non poteva non suscitare una fitta serie di interrogativi soprattutto per ciò che concerne le conseguenze da trarre in ordine ai profili di risarcibilità dei due diversi tipi di interessi legittimi conosciuti dall’ordinamento, vale a dire quelli oppositivi e quelli pretensivi.

Accogliendo la ricostruzione civilistica dell’articolo 2043 c.c. quale norma di rango primario, che fonda un diritto autonomo al risarcimento del danno quante volte ci sia stato un danno risarcibile, perché ingiusto, causato da un comportamento doloso o colposo di un terzo responsabile [25], si dovrebbe giungere alla conclusione che “finisce col non avere importanza se la situazione giuridica violata sia una situazione di diritto soggettivo o di interesse legittimo”, essendo invece decisivo che “si tratti di una situazione non irrilevante per l’ordinamento ossia che tale danno giustifichi la pretesa risarcitoria da far valere in un sistema costruito implicitamente come di doppia tutela [26]. In realtà un tipo di interpretazione così estrema non sembra completamente accettabile proprio se  si considera che il diritto al risarcimento, pur essendo un diritto autonomo rispetto alla situazione giuridica che si assume violata, resta pur sempre da affiancare ad un danno ingiusto. Ed il danno ingiusto, a sua volta, non può prescindere dalla considerazione della situazione soggettiva che si assume violata. La quale, a sua volta, per poterne affermare  la lesione, deve essere accertata tenendo in considerazione l’attività della pubblica amministrazione che eventualmente l’abbia scalfita.

 Come si comprende il momento che effettivamente è rilevante, è dato dall’ accertamento della attività illegittima della pubblica amministrazione, e dal conseguente problema dell’organo giurisdizionale competente ad accertare l’illegittimità dell’agire della pubblica amministrazione.

Come è stato detto in precedenza, il vero punto di rottura determinato dalla sentenza 500/99 consiste nel superamento della necessarietà del previo annullamento dell’atto per accedere alla tutela risarcitoria.

Si è posto il problema se tale superamento fosse applicabile ad entrambe le grandi categorie di interessi conosciuti nel nostro ordinamento, vale a dire gli interessi oppositivi, e gli interessi pretensivi.

Interessi del primo tipo entrerebbero in gioco ogni qualvolta nei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione  quest’ultima avesse ad incidere sulle posizioni giuridiche, gia esistenti in capo ai consociati, con atti o provvedimenti ablatori o modificativi in pejus, che, ove emessi attraverso un cattivo esercizio del potere o addirittura in assenza di esso, determinerebbero prima di tutto la possibilità di eliminazione del provvedimento e di tutte le conseguenze sul piano degli effetti giuridici che dallo stesso conseguono, e secondariamente, ove possibile, la sostituzione degli atti illegittimi “con provvedimenti risarcitori, per gli aspetti non suscettibili di reintegrazione e/o non coperti dalla reintegrazione stessa [27]”.

Com’è ben noto, infatti, la dottrina precedente maggioritaria aveva ricostruito abilmente la normale sequenza illegittimità-annullamento; illiceità-risarcimento facendo ricorso alla nozione di affievolimento del diritto (o degradazione), secondo la quale il carattere dell’imperatività [28] del provvedimento amministrativo, una volta emanato, degraderebbe tale situazione giuridica al rango di interesse legittimo; una volta degradato il diritto soggettivo altra via non poteva seguirsi, fino al 1999, se non quella data dalla tempestiva impugnazione dell’atto asseritamente illegittimo, per provocarne l’annullamento e far “rivivere” il diritto soggettivo indebitamente “compresso” e chiedere il risarcimento per l’eventuale lesione di tale posizione giuridica di vantaggio [29].

  Come si evince dalle considerazioni precedentemente svolte, siamo di fronte, in questi casi, ad interessi legittimi di natura oppositiva, quegli interessi cioè che stante la possibilità di modificazione in pejus a causa di provvedimenti della P.A., si caratterizzano per la possibilità riconosciuta ai portatori degli stessi di attivare il controllo del giudice dell’amministrazione che giunga eventualmente all’annullamento.

Uno degli interrogativi posti dalla sentenza 500/99 riguarda la  possibilità che l’interessato salti la fase dell’ annullamento, eviti cioè di agire per ottenere la tutela in forma specifica, chiedendo direttamente invece la tutela risarcitoria [30].

E’ ammissibile, sul piano dei principi, una ricostruzione di questo tipo?

La questione merita un’analisi che tenga conto della diversa natura dei due tipi di interesse (oppositivo e pretensivo) che potrebbero entrare in gioco [31].

Nel primo caso, affermando la possibilità in capo all’interessato di agire direttamente per ottenere la tutela in forma risarcitoria, si dovrebbe sostenere che “l’azione è immediatamente promuovibile, ed ha per presupposti una condotta illecita, una lesione ingiusta, ed un nesso causale. I problemi applicativi riguardano non tanto la condotta –la cui illiceità potrebbe essere misurata con riferimento alle norme di legge o regolamentari-, quanto la sussistenza del nesso causale, perché l’interessato dovrebbe provare che, senza l’illegittimità, l’assetto degli interessi sarebbe stato diverso e a lui favorevole [32]”.

L’analisi dell’altra grande categoria degli interessi pretensivi  non può prescindere dalla constatazione di come essi si presentino, in realtà, in modo non unitario. Vero è che, come già precedentemente affermato, la sentenza 500/99 aveva contribuito in modo penetrante all’affermazione della possibile risarcibilità non già degli interessi legittimi tout court, bensì, più specificatamente, proprio la risarcibilità degli interessi pretensivi intesi quali poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere amministrativo, con la funzione ulteriore di “rendere possibile la realizzazione della pretesa all’utilità [33]”.

La caratteristica che rende unitaria la figura dell’interesse legittimo pretensivo è data dal fatto che in essa vi sarebbero da annoverare tutte quelle ipotesi in cui l’aspettativa giuridicamente rilevante di un privato è da ricollegare alla necessità di un controllo giudiziale sulle scelte discrezionali compiute da chi è detentore di una posizione di potere, dal momento che la caratteristica degli interessi in discussione sarebbe data dal necessario collegamento con un correlato potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, che può condizionare l’evoluzione dell’aspettativa.

Se si passa all’analisi processuale delle modalità con le quali si dovrebbe realizzare il giudizio risarcitorio che abbia ad oggetto la violazione di una aspettativa rilevante, si dovrebbe sostenere, proprio come ha dimostrato la sentenza 500/99 delle Sezioni Unite della Cassazione, che “l’accertamento della illegittimità dell’azione amministrativa viene in rilievo non come presupposto della condotta (fatto), ma come elemento che qualifica (atto) la posizione soggettiva, sulla base di un giudizio riservato alla giurisdizione necessaria del giudice amministrativo. Di conseguenza, tale accertamento non può costituire oggetto di una questione pregiudiziale da decidere con efficacia endoprocessuale, ma riguarda un elemento della fattispecie da accertare con efficacia di giudicato [34]”.

Una volta chiarita la latitudine dell’incidenza della valutazione di illegittimità, ai fini della qualificazione della posizione soggettiva, bisogna rispondere all’interrogativo circa l’ambito giurisdizionale competente ad accertare l’illegittimità della Pubblica Amministrazione.

Qui le conclusioni sembrano meno sicure, ed inevitabilmente condizionate dalle premesse sistematiche, dalle scelte ideologiche, e da opzioni di valore di ciascuno.

La prima risposta potrebbe essere ricercata, forse, nella lettera (ma qualcuno potrebbe sostenere che quella risposta sia più semplice da ricercare  tenendo conto dello spirito) della legge 205/2000 che ha modificato il riparto della giurisdizione sul risarcimento del danno ingiusto “spostando” dal giudice ordinario al giudice amministrativo la cognizione di quelle domande.

Entro questi termini, quindi, nel caso di lesione di un interesse legittimo pretensivo, inteso quale aspettativa rilevante, chi affermi che l’azione amministrativa è stata illegittima, e perciò dannosa, dovrebbe proporre una tempestiva domanda d’annullamento, e chiedere contestualmente, o successivamente, la tutela per reintegra in forma specifica, ed eventualmente la residuale domanda di risarcimento di danni di fronte al giudice amministrativo, giacchè l’art. 7 comma 3 della legge T.A.R. consente oggi al giudice dell’annullamento di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno ingiusto.

Non essendo possibile però, nella maggior parte dei casi, una volta ottenuto l’annullamento, ottenere la tutela reintegratoria, si aprirebbe per il privato la strada della tutela risarcitoria per equivalente, previo annullamento dell’atto presupposto.

Ma non si potrebbe escludere, secondo una interpretazione risalente dell’art. 2 legge abolitiva del contenzioso amministrativo [35], che sia il giudice ordinario ad accertare l’illegittimità, seppure ai soli fini di accertare la sussistenza di un obbligo risarcimento dell’amministrazione, dell’operato della Pubblica Amministrazione.

La tesi infatti che afferma la risarcibilità di quei danni connessi alla illegittimità del provvedimento amministrativo, implica che l’illegittimità stessa sia il fatto costitutivo di una obbligazione dell’Amministrazione, qual è quella al risarcimento del danno, tale per cui il giudice civile potrebbe accertare tale illegittimità al solo fine di valutare la sussistenza di un obbligo al risarcimento che ne sia scaturito, con l’ulteriore precisazione che in tal caso tale accertamento non passerebbe  in giudicato, non avrebbe rilevanza ulteriore rispetto al singolo processo, e alla pronuncia sui danni che lo concluda; né, parimenti, sembrerebbe costituire la base per costringere l’Amministrazione a fare qualche cosa di diverso e di più del pagamento di una somma di danaro, sulla base di una condanna che intervenga in tal senso; con l’ulteriore precisazione che in questi casi, il privato sarebbe assoggettato alla “falcidia risarcitoria” dell’art. 1227 c.c. secondo comma secondo il quale va imputata al creditore quella parte di danno che avrebbe potuto essere evitata usando l’ordinaria diligenza nella difesa del proprio interesse, e tale potrebbe essere considerata la mancata proposizione del rimedio costitutivo ove questo avrebbe evitato o limitato il danno.

Per sostenere l’applicabilità, in questi casi, dell’art. 1227 c.c. secondo comma, si dovrebbe comunque in ogni caso considerare la particolare posizione che connota il debitore P.A. in queste vicende. Posizione che  se astrattamente può essere ricondotta, ed anzi deve essere ricondotta alle tradizionali categorie privatistiche che contraddistinguono le obbligazioni in generale, pur tuttavia non si può sottacere come mal si presti ad una totale sottoposizione alle regole poste per la regolamentazione delle vicende tra i privati. Una osservazione di tal genere, che potrebbe risolversi in una banalità, dovrebbe essere ritenuta sufficiente per dimostrare che in queste vicende che coinvolgono la Pubblica Amministrazione e l’eventuale illegittima azione della stessa, non ci si può porre in un’ottica panprivatistica;  proprio in questo senso non sembrano decisive le critiche mosse da quella parte della dottrina che nega che al creditore che abbia subito dei danni a causa di quella stessa illegittima attività possano essere assoggettato ad una attività abnorme e più onerosa di quel che comporta l’uso dell’ordinaria diligenza [36].

 

 

[1] Si tenga presente al proposito l’opinione di chi, come E. GUICCIARDI, affermava già nel 1963, il presupposto di questa convinzione comune: “Credo che nessuno possa lontanamente pensare alla possibilità di una domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi indipendentemente dall’impugnativa dell’atto amministrativo, che cioè il titolare dell’interesse legittimo possa accettare l’atto lesivo, chiedendo però la riparazione patrimoniale della lesione, così come può fare il titolare un diritto soggettivo”, in Risarcibilità degli interessi legittimi? Tentativo di impostazione del problema da parte di un suo negatore, in Convegno sulla ammissibilità del risarcimento degli interessi legittimi, Napoli, ottobre 1963, Varese, 1965, p. 219; Ancor più esplicitamente A. M. SANDULLI: “E’ necessario precisare a questo punto che l’eventuale giudizio per conseguire la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno, conseguente alla lesione, a opera di un atto amministrativo (o di un comportamento dell’Amministrazione ad esso equiparato), di un interesse protetto dall’ordinamento  attraverso il riconoscimento al soggetto, cui esso appartiene, di una posizione di interesse legittimo, non potrebbe comunque aver corso se non dopo che fosse intervenuto- d’ufficio, o a seguito di procedimento amministrativo contenzioso o di procedimento giurisdizionale amministrativo promosso dall’interessato- l’annullamento di quell’atto amministrativo. Non può pensarsi infatti in un caso simile a una condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni da parte del giudice civile, sulla base di una dichiarazione incidenter tantum, a opera del giudice stesso, della difettosità dell’atto, e di una disapplicazione dello stesso, indipendentemente da una pronuncia di annullamento da parte di un organo amministrativo o giurisdizionale a ciò qualificato”; in Note problematiche in tema di risarcibilità dei danni recati alla pubblica amministrazione ad interessi protetti a titolo di interessi legittimo, in Convegno, cit., pag. 289-290.

[2] E’ forse  utile richiamare la lettera dell’art. 26 del Regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (in Gazz. Uff., 7 luglio, n. 158). - Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato: ”Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un'autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse d'individui o di enti morali giuridici; quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali.
Il ricorso, che non implichi incompetenza od eccesso di potere, non è ammesso contro le decisioni le quali concernano controversie doganali oppure questioni sulla leva militare.”

[3]Corte di Cassazione; Sezioni Unite civili; sentenza 22 luglio 1999, n. 500/SU; in Foro It, 1999, I, pag 2487, con note di osservazioni e richiami di A. PALMIERI e R. PARDOLESI : “rispetto al giudizio che, nei termini suindicati, può svolgersi davanti al giudice ordinario, non sembra ravvisabile la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento. Questa è stata infatti in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi all'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., riservata ai soli diritti soggettivi, e non può quindi trovare conferma alla stregua del nuovo orientamento, che svincola la responsabilità aquiliana dal necessario riferimento alla lesione di un diritto soggettivo. E l'autonomia tra le due giurisdizioni risulta ancor più netta ove si consideri il diverso ambito dei giudizi, ed in particolare l'applicazione, da parte del giudice ordinario, ai fini di cui all'art. 2043 c.c., di un criterio di imputazione della responsabilità non correlato alla mera illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa all'accertamento della colpa, dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa (a differenza di quanto è avvenuto nel procedimento in esame) non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c. ”

[4] In questo senso S. MENCHINI, Il nuovo assetto delle tutele giurisdizionali avverso gli atti amministrativi illegittimi, Diritto Pubblico, 2000, pag. 103 ss.

[5] E. SCODITTI, Interesse legittimo e Costituzionalismo. Conseguenze della svolta giurisprudenziale in materia risarcitoria, Foro it., 1999, pag. 3228 ss.

[6] L’esempio classico che viene presentato in questi casi è quello del contratto di compravendita rispetto alla richiesta di pagamento del prezzo della cosa venduta; nel caso preso d’esame dalle Sezioni Unite sarebbe l’illegittimità dell’atto. Molto netta la differenza con l’altro tipo di pregiudizialità , quella tecnica, in base alla quale si richiede al giudice una valutazione incidenter tantum, perché costituente un semplice presupposto  del fatto costitutivo del diritto (l’esempio, in questo caso, potrebbe essere offerto dalla qualità di erede del creditore rispetto  alla domanda di pagamento del prezzo della compravendita  stipulata dal defunto). Si veda al proposito G. VERDE, Profili del processo civile, processo di cognizione, II edizione, Napoli, 2000, pag. 178 e ss.

[7] S. SATTA, Accertamenti incidentali, interventi e principi generali del diritto, in Foro it. 1947, I, col. 29 ss.; inoltre per una definizione generale si veda Diritto processuale civile,  Padova, 1987, pag. 48 ss.

[8] In questo senso C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Bologna, 1998, I, Le  tutele.

[9] G. VERDE, Profili, cit., pag. 176; si tenga presente quanto affermato dall’ autore a proposito del fenomeno della sospensione per pregiudizialità: “Oggi la drammatica lunghezza delle controversie pone in primo piano il rischio che la sospensione, provocando un rinvio sine die della decisione, possa risolversi in denegata giustizia.[…] E, dopo che è stato inserito nell’art. 111 Cost. il principio della “ragionevole” durata dei processi, possiamo aggiungere che la soluzione volta a privilegiare la celerità anche a  scapito della uniformità delle decisioni giudiziarie finisce con l’imporsi anche per questa ragione”.

[10] Cosi secondo E. SCODITTI, Interesse legittimo e costituzionalismo, cit., pag. 3227. Si vedano a riguardo Cass. 17 marzo 1999, n. 2398, id., Mass., 313; 29 ottobre 1998, n. 10785, id., Rep. 1998, voce Procedimento civile, n. 315).

[11] Per i quali si consiglia di considerare le principali pronunce riportate nel volume I fatti illeciti, a cura di G. VISINTINI, I, Ingiustizia del danno, Padova, 2004, pag. 493 ss.

[12] E. SCODITTI, Interesse legittimo e costituzionalismo, cit., pag. 3227 ss.

[13] S. MENCHINI, Il nuovo assetto delle tutele giurisdizionali  avverso gli atti amministrativi illegittimi, Dir. Pubbl., 2000, pag. 103.ss.; è di estremo interesse notare i poliedrici corollari che discendono dall’impostazione proposta dall’autore in tema di conseguenze dell’atto amministrativo conosciuto dal giudice ordinario in un processo orientato al risarcimento del danno:” A) Il magistrato civile verificà la validità del provvedimento e, se lo ritiene illegittimo, lo “disapplica”, ossia non lo applica, non tiene conto dei suoi effetti rispetto alla controversia (?). Poiché il provvedimento amministrativo integra non un mero presupposto della fattispecie del diritto controverso, ma un vero e proprio elemento di essa, avendo efficacia costitutiva della pretesa (risarcitoria) azionata, siamo in presenza di una figura di disapplicazione diretta o principale, consentita dall’art 5 legge 2248/1865.[…] B) La qualità del controllo sull’esercizio delle pubbliche attribuzioni è, oggettivamente, la stessa che avrebbe compiuto il giudice amministrativo e passa, quindi, per la verifica dei classici vizi dell’incompetenza, dell’eccesso di potere, e della violazione di legge, anche se il sindacato rischia di essere meno penetrante di quello che è compiuto in sede di legittimità, essendo il magistrato civile culturalmente meno attrezzato di quello amministrativo, soprattutto per la ricerca delle figure di sviamento di potere.[…] C) Il giudice, ove ritenga fondata la domanda, condanna l’amministrazione al risarcimento dei danni arrecati all’attore, senza revocare o modificare l’atto illegittimo, il quale quindi sopravvive e continua a produrre i suoi effetti […] D) La questione di conformità a legge dell’atto, avendo natura e consistenza di elemento pregiudiziale rispetto all’oggetto del giudizio, è risolta incidenter tantum; l’illiceità della condotta dell’amministrazione è accertata non con efficacia di giudicato, ma incidentalmente, con valor limitato al giudizio in corso (art. 4, comma 1, legge 1865) […] E) L’accertamento (incidentale) dell’illegittimità del provvedimento non fa sorgere in capo all’amministrazione l’obbligo di conformarsi al giudicato, rimuovendo l’atto lesivo (art. 4, co.2, legge 1865), né in capo al giudice il dovere di assicurare l’adempimento di esso con lo strumento dell’ottemperanza. L’obbligo della pubblica autorità di eliminare il provvedimento sorge dal giudicato (o meglio dalla sua efficacia), che cade sulla declaratoria dell’illegittimità di esso; l’atto amministrativo deve perciò, assumere una particolare posizione nel giudizio, in quanto deve entrare a far parte, in modo diretto, dell’oggetto di esso. Però, come si è visto, non è questa la situazione che è dato riscontrare nella vicenda  di cui ci si sta occupando: infatti, oggetto del processo è esclusivamentela pretesa al risarcimento del danno, mentre l’illegittimità dell’atto, al pari degli altri elementi della fattispecie costitutiva (colpa o dolo; nesso di causalità, ecc.) assume il ruolo di “questione pregiudiziale in senso tecnico” ed è decisa, dunque, incidenter tantum, e senza efficacia di giudicato.” Cfr. S. MENCHINI, L’assetto, cit., pag. 111 ss.

[14] In Urb. e app., 2003, 684, con nota di P. GALLO, Pregiudiziale e disapplicazione al vaglio della Plenaria  e della corte di Cassazione, inoltre si veda in Foro it., I, 2073, con nota di Travi; nella fattispecie veniva in considerazione una domanda risarcitoria proposta anteriormente all’innovazione del riparto della giurisdizione attuata con il d.lgs. n. 80/98: il ricorrente,socio di una cooperativa edilizia a contributo erariale, che non aveva presentato tempestivamente ricorso contro l’atto di esclusione dalla cooperativa, conveniva di fronte al giudice ordinario la cooperativa e gli amministratori, per sentirli condannare, previo accertamento dell’illegittimità dell’esclusione, al risarcimento dei danni subiti. Il socio non aveva proposto tempestivamente ricorso contro l’atto di esclusione della cooperativa ( il ricorso all’epoca, ai sensi dell’art. 131 T.U. 28 aprile 1948, n. 1165, doveva essere proposto alla commissione di vigilanza per l’edilizia economica e popolare, di cui all’art. 53 d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112). Successivamente aveva chiesto al giudice ordinario l’accertamento della illegittimità dell’esclusione e la condanna della cooperativa e dei suoi amministratori al risarcimento del danno.

In primo grado, il Tribunale adito dichiarava il difetto di giurisdizione circa l’accertamento della illegittimità della delibera di esclusione e l’inammissibilità della conseguente domanda risarcitoria.

La corte di appello, adita in sede di gravame, in parziale riforma della sentenza di primo grado rigettava la domanda risarcitoria. Osservava la corte che sulla domanda di risarcimento del danno sussisteva invece la giurisdizione del giudice ordinario; tale domanda, diversamente da quanto affermato dal tribunale, era, quindi, ammissibile ma doveva essere rigettata in quanto infondata; infatti, il Consiglio di  Stato aveva constatato, con efficacia di giudicato, la decadenza del diritto del socio ad impugnare la delibera di esclusione, per cui doveva ritenersi vietato al ricorrente di chiedere il risarcimento del danno, connesso all’esclusione, presupponendo il relativo diritto la tempestività dell’impugnazione.

[15] Alle stesse conclusioni è giunto anche il T.A.R. Umbria con sentenza 21 marzo 2003, n. 192, in www.lexitalia.it: “Con questo, si intende dire che l'azione proposta è ammissibile, ma ciò non significa che essa sia fondata. Infatti, può darsi per pacifico che si agisca qui in sede aquiliana (art. 2043 C.C.) ed è noto che il presupposto di tale responsabilità è costituito dall'ingiustizia dell'evento dannoso. Orbene, nel caso di specie, detto evento si identifica con un provvedimento (quello di disattivazione dell'istituto già diretto da ricorrente) non impugnato. Ne deriva che la presunzione di legittimità che assiste l'atto amministrativo, una volta che questo sia consolidato per essere divenuto inoppugnabile, non ammette più prova contraria. Di qui ulteriormente discende l'insussistenza dell'ingiustizia del provvedimento e, quindi, la non risarcibilità degli eventuali danni ad esso conseguenti. Lo stesso è a dirsi ove si consideri fonte del danno, come pure si prospetta, una condotta omissiva dell'amministrazione (la mancata assegnazione ad un dipartimento) giacché l'illegittimità dell'omissione, dalla quale deriva la sua ingiustizia, deve accertarsi, come non si nasconde nemmeno la parte ricorrente (memoria del 30 gennaio 2003 pag. 4, 3° cpv.), attraverso la costituzione e l'impugnazione vittoriosa del silenzio rifiuto. Da ultimo, si rileva come il ricorrente non abbia provato quale sia esattamente il danno subito, nè a quali parametri debba essere correlato il suo risarcimento. Ciò, soprattutto, ove si consideri che il pregiudizio dedotto si profila essenzialmente come un danno morale risarcibile, come è noto, solo se conseguente a reato, in forza del combinato disposto degli artt. 2059 C.C. e 185 C.P. (e pluribus: Cass. Sez. Unite, 22 maggio 2002 n. 7470; Cass. Civ. Sez. III 14 marzo 2002 n. 3728).”

[16] Osserva la Corte di Cassazione che “vero che l'inoppugnabilità dell'atto è nozione solo processuale in quanto esclude l'annullamento giurisdizionale, senza incidere sulla condizione giuridica dell'atto stesso, il quale, permanendo la sua non conformità alla legge, può essere per tale ragione rimosso dal suo autore ad ogni effetto (autotutela decisoria della p.a.), ovvero rimosso dal giudice ai fini della decisione di una controversia, con valutazione incidentale, senza effetti di giudicato, della sua illegittimità (disapplicazione ex art. 5 l. 2248/1865, all. E).

Ma è altrettanto certo che, in assenza della rimozione dell'atto, il permanere della produzione degli effetti è conforme alla volontà della legge, e la necessaria coerenza dell'ordinamento impedisce di valutare in termini di danno ingiusto gli effetti medesimi. Altrimenti, dovrebbero essere possibili rimedi atti ad eliminarli o a farli cessare, ma così non è, in quanto il giudice del risarcimento del danno non è abilitato ad incidervi (per definizione, la controversia risarcitoria non ha ad oggetto l'esercizio della funzione amministrativa in quanto tale), restando così sicuramente esclusa l'applicazione dell'art. 2058 c.c. L'amministrazione, da parte sua, non è obbligata ad annullare di ufficio gli atti definitivi (non suscettibili, cioè, di ricorso amministrativo ordinario) di esercizio del potere non conformi a legge e può farlo solo per soddisfare uno specifico interesse pubblico, per definizione non coincidente con quello del soggetto danneggiato dall'atto.

[17] Su questi problemi si consideri la posizione di F. VOLPE, Norme di relazione norme di azione e sistema italiano di Giustizia Amministrativa, Padova, 2003, pag. 419, secondo cui: “se, poi, a preoccupare, fosse il fatto che la domanda risarcitoria, una volta svincolata dall’annullamento, potrebbe essere esperita anche a distanza di lungo tempo, nel rispetto dell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 cod. civ.) previsto per i rapporti obbligatori, ancora non si capirebbe perché l’Amministrazione dovrebbe porsi su un piano diverso da quello di un qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento, allorché questi sia chiamato a rispondere dei propri inadempimenti. A ben vedere è un problema di scelte legislative quello che una tale obiezione viene a sollevare. A tutti è noto, infatti, che il codice prevede, con riguardo a molti specifici rapporti obbligatori, termini di prescrizione assai brevi. Sarà, dunque, compito del legislatore, ove ciò si ritenesse conforme alla volontà politica, ridurre i termini per la presentazione delle domande risarcitorie da lesione di crediti provvedimentali. Ma di questo compito non può evidentemente, farsi portatore, in via surrogatoria, l’interprete, attraverso la surrettizia fissazione di termini, brevi e di decadenza, anche ai fini dell’esperimento dell’azione risarcitoria. Giacchè proprio questa sarebbe un innegabile conseguenza della necessità di previamente esperire l’azione di annullamento.”

[18] Cfr. M.S.GIANNINI, Intervento, in Convegno sulla ammissibilità del risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi, cit., p. 518: “Ora io mi sono domandato se se qui non sarebbe il caso di distinguere fra quelle vicende nelle quali l’interesse legittimo e il procedimento amministrativo ad esso relativo tendono all’ottenimento di un bene della vita, da quelle altre nelle quali invece il procedimento si esaurisce nella creazione di un atto giuridico o di un fatto la cui realtà non è matrimonialmente valutabile in via diretta, ma semmai in via indiretta o addirittura non è mai matrimonialmente valutabile. Nel primo caso ci si può chiedere se non vi sia qui una singolare somiglianza tra questa fattispecie e la fattispecie della responsabilità precontrattuale. E mi spiego: se noi riteniamo che qui vi  è un rapporto giuridico in cui uno dei due soggetti è titolare di una situazione che non è di diritto soggettivo, ma di interesse legittimo patrimonialmente rilevante, non è questa la vicenda che troviamo proprio nel caso della responsabilità precontrattuale? Anche nella responsabilità precontrattuale infatti non esistono ancora diritti soggettivi dei contraenti, né si può dire, secondo quella meno recente dottrina privatistica che il diritto leso esiste sempre, ed è un diritto assoluto, della personalità o altro; da parte della dottrina privatistica più recente, si dice che c’è un dovere di comportarsi secondo buona fede, la cui violazione lede una situazione soggettiva dell’altra parte che non è di diritto soggettivo, e si aggiunge che il fondamento della responsabilità precontrattuale non sta tanto nel principio fondamentale del neminem laedere, bensì piuttosto in quello dell’uniusque suum tribuere, principio del quale  in diritto privato esistono molte altre applicazioni.

[19] In questo senso A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, pag. 292, secondo cui “la tesi che quei danni siano risarcibili implica l’affermazione che l’atto amministrativo illegittimo- o la illegittimità dell’atto amministrativo, sia il fatto costitutivo di una obbligazione dell’amministrazione, qual è quella al risarcimento del danno; obbligazione alla quale, è ovvio, corrisponderebbe un diritto soggettivo del soggetto leso.” Per una ricostruzione analoga si consideri F. VOLPE, Norme di relazione, cit., pag.434

[20] Entità che “se si ritiene di poter applicare l’art. 1227 c.c., apre tutto uno scenario di onere della prova, fatalmente in capo all’attore, stante l’art. 2697 del Codice Civile, del danno quale (e quanto minore) sarebbe stato in ipotesi se si fosse attivato anche lo strumento dell’azione cautelare amministrativa: quindi onere di dimostrare qual è il danno interinale, che avrei comunque sofferto nelle more del primo provvedimento amministrativo utile. Ma la tutela cautelare è stata molto potenziata ed era, comunque, già molto potente: per cui questo danno “interinale-residuale” assurge raramente ad un’effettiva gravità. Poi, in aggiunta, onere della prova di quale sarebbe stato il danno a fronte di un certo tipo di azione in sede rescissoria e prosecutoria ad opera della Pubblica amministrazione”. C. CONSOLO, Problemi del nuovo riparto di giurisdizione dopo la legge 205/2000, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, pag. 323; mentre, all’opposto, vi è chi insegna (ma con corollari difficilmente sostenibili) che l’art 1227 non sarebbe in questi casi applicabile, poiché proprio nella sentenza 500/99 “le sezioni unite non affrontano il problema se la mancata tempestiva proposizione dell’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa possa incidere sul quantum risarcibile ex art 1227, secondo comma, c.c.; La risposta pare in ogni caso dover essere negativa, potendosi applicare anche in questo caso l’insegnamento secondo il quale tale disposizione non impone al creditore di affrontare iniziative gravose quali azioni giudiziarie”. R. CARANTA, La pubblica amministrazione nell’età della responsabilità, in Foro it, 1999, I, pag. 3210.

[21] A. ROMANO, Sono risarcibili, ma perché devono essere interessi legittimi?, in Foro it., 1999, pag. 3222; in sintonia con le conclusioni espresse da ROMANO si veda anche F. VOLPE, Una falsa soluzione al problema del pregiudiziale annullamento dell’atto amministrativo illegittimo nelle azioni risarcitorie per lesione di interesse legittimo, Corr. Giur., III, 2004, pag. 351, secondo il quale: “l’atto annullato, infatti, non è e non è mai stato (in ragione dei c.d. “effetti retroattivi” dell’annullamento, né legittimo né illegittimo: semplicemente è (ed è sempre stato) un non-atto che, in quanto tale, sfugge a siffatte qualificazioni. Di talché l’illegittimità, rientrando nei presupposti di risarcibilità dell’interesse legittimo violato dall’atto amministrativo, ove venga, retroattivamente, a mancare, fa sì che, altrettanto retroattivamente, venga a mancare anche l’illiceità del comportamento tenuto dall’Amministrazione, almeno con riferimento all’interesse legittimo leso direttamente dal provvedimento”. Inoltre si consideri L. MONTESANO, I giudizi sulle responsabilità per danni e sulle illegittimità della Pubblica Amministrazione, Dir. Proc. Amm., 2001, pag. 592 ss., secondo cui: “lesione di interesse legittimo e illecito extracontrattuale appaiono a me entità incompatibili, non perché l'interesse legittimo non sia una situazione sostanziale attiva, ma perché qui il dovere della pubblica amministrazione cui corrisponde la pretesa del privato non consiste - per ripetere, com'è necessario, il discorso dell'art. 1174 c.c. - in una prestazione che sia destinata, dalla norma che la regola, a dare un vantaggio o ad evitare uno svantaggio economico al titolare di quella pretesa; né la sua violazione può vincolare la pubblica amministrazione ad una prestazione siffatta. Invero, contenuto di quel dovere è solo l'agire legittimamente là dove è consentito alla pubblica amministrazione di sacrificare un interesse privato che le norme sull'azione amministrativa prendono in specifica e «differenziata» considerazione e sanzionando l'inadempimento del detto dovere la legge conserva il potere della pubblica amministrazione di sacrificare quell'interesse privato, imponendole di esercitarlo, se ancora lo vorrà, nei modi e nei limiti fissati dalla sentenza amministrativa cui la stessa amministrazione dovrà obbedire. 

[22] Così secondo G. FALCON, Il giudice amministrativo fra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento, 2001, pag. 233. Continua osservando come ciò che è divenuto risarcibile sia “ qualche cosa di diverso da ciò che storicamente si è chiamato “interesse legittimo”, come situazione soggettiva che abilitava a promuovere il sindacato giurisdizionale sulla legittimità dell’atto, sulla base della sola lesione dell’interesse sostanziale ed a prescindere da una rivendicazione dell’effettiva spettanza del bene oggetto dell’interesse, ed anzi sulla premessa concettuale della sostanziale impossibilità di tale affermazione”.

[23] G. FALCON, Il giudice, cit., pag. 233-234

[24] G. FALCON, Il giudice, cit., pag. 234

[25] Secondo la ricostruzione della seconda sezione della Cassazione 10 gennaio 2003 n. 157, in G. VISINTINI, I fatti illeciti, cit., pag. 525 ss.:”La sentenza 500-99-SU - ad avviso dei giudici fiorentini - fa stato nel giudizio in ordine all'attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario, e inoltre sulla qualificazione della situazione giuridica che ne ha dato luogo. È inoltre da condividere la scelta di abbandonare il principio tradizionale dell'irrisarcibilità della lesione di interessi legittimi, e di attribuire all'art. 2043 c.c. il rango di norma primaria, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenti i caratteri dell'ingiustizia, in quanto lesivo di interessi cui l'ordinamento attribuisca rilevanza. L'interesse legittimo non è situazione meramente processuale, ma va inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione al bene della vita interessato da un provvedimento amministrativo, e consiste nell'attribuzione dei mezzi idonei ad influire sul corretto esercizio del patere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell'interesse al bene: e se anche l'interesse legittimo esprime un tipo di protezione caratterizzato dalla recedibilità rispetto all'eventuale corretto esercizio del potere pubblico incidente sul bene, si configura il diritto al risarcimento qualora la condotta antigiuridica dell'amministrazione abbia cagionato un danno al titolare dell'interesse legittimo. La tutela risarcitoria è autonoma rispetto a quella costituita dal giudizio di annullamento, considerato che il criterio di imputazione della responsabilità non è riducibile alla semplice illegittimità del provvedimento, ma va esteso all'accertamento della colpa dell'azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto, e che il giudice ordinario ben potrà compiere questa verifica indipendentemente dall'accertamento dell'illegittimità dell'azione amministrativa da parte del giudice amministrativo.”

[26] Così secondo G. VERDE, La pregiudizialità dell’ annullamento nel processo amministrativo per risarcimento del danno, in Dir. Proc. Amm., 2003, pag. 965

[27] G. VERDE, La pregiudizialità, cit., pag. 969

[28] Sul punto si vedano le osservazioni critiche di A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria ,pag. 220

[29] Secondo G. VERDE, La pregiudizialità, cit., “la dottrina e la giurisprudenza hanno per lungo tempo cercato la spiegazione teorica del fenomeno facendo ricorso alla figura della degradazione o dell’affievolimento del diritto soggettivo, con la conseguenza che la possibilità di ricorrere alla tutela reintegratoria e/o risarcitoria ha finito con l’essere condizionata al ripristino della situazione degradata o affievolita, e, quindi, al necessariamente pregiudiziale annullamento dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice amministrativo.”

[30] G. VERDE, La pregiudizialità, cit., pag. 974, : “agire per la tutela in forma specifica significa chiedere l’annullamento dell’atto e la ripristinazione della situazione giuridica anteriore. Tutela a cui può aggiungersi una tutela risarcitoria per equivalente o in forma specifica per i danni eventualmente subiti medio tempore. Se in sede di ottemperanza non è possibile ottenere la ripristinazione della situazione anteriore e se l’amministrazione ha consumato il potere di provvedere ex novo, sorge il diritto al risarcimento per equivalente o per reintegrazione in forma specifica. Questo diritto nasce dall’inottemperanza dell’amministrazione ed ha caratteristiche peculiari che lo avvicinano all’inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.) o, più ancora, all’inadempimento dell’obbligo di corrispondere il valore e di risarcire il danno che grava sul convenuto nell’azione di rivendicazione quante volte non sia in grado di recuperare il bene per restituirlo al titolare (art. 948, comma 1° c.c.)”.

[31] Si riprende la ricostruzione del problema così come riformulata da G. VERDE, La pregiudizialità, cit., il quale si avvale della distinzione introdotta da S. SATTA tra situazioni finali e situazioni strumentali.

[32] G. VERDE, La pregiudizialità, cit., pag. 975 “ E questa prova, a mio avviso, è difficile, se non impossibile, perché il vizio meramente formale (ad es. il difetto di motivazione), è sempre emendabile e perché l’istante neppure può chiedere il risarcimento per danni prodotti medio tempore, come potrebbe invece avvenire nel caso di annullamento dell’atto (formalmente) illegittimo e di successiva emanazione di un atto sanante”.

[33] M. NIGRO, Giustizia amministrativa, V ed., Bologna, 2000, pag. 102

[34] G. VERDE, La pregiudizialità, cit., pag. 978

[35] A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, MILANO, 1975, pag. 292-293

[36] Nel senso che sarebbe la stessa particolare posizione ricoperta dalla P.A. che costringerebbe il privato a ricercare soddisfazione della propria pretesa secondo la normale sequenza illegittimità-annullamento-risarcimento.


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