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LUIGI OLIVERI
SPOIL SYSTEM NEGLI ENTI LOCALI – SECONDO ATTO
Com'era da attendersi, non è tardata la seconda fase attuativa dello spoil system negli enti locali, introdotto dalla legge 127/97.
Conclusa l'ondata di nomine di segretari capo, privi di qualifica dirigenziale nelle sedi di segreteria generale, al fine di garantire il "ricambio" dirigenziale negli enti, le amministrazioni adesso stanno sempre più passando alla dirigenza.
Alcune stanno seguendo la linea più morbida, introducendo il principio delle delega delle funzioni dei dirigenti all'apparato amministrativo privo della qualifica dirigenziale.
Altre stanno adottando una via di mezzo: scorporano le funzioni dei dirigenti attribuendole al direttore generale, il quale a sua volta le delega, in parte, ai funzionari.
Altre ancora stanno procedendo all'affidamento ai dirigenti di compiti dirigenziali differenti, lasciando vacante l'area da essi precedentemente ricoperta ed assegnando la funzione dirigenziale ai funzionari incaricati delle posizioni organizzative, ai sensi del CCNL in data 31.3.1999.
La legittimità di queste operazioni è ampiamente dubbia. Non solo perché non paiono rispettose dell'articolo 97 della Costituzione, ma soprattutto poiché sembrano in netto contrasto con l'articolo 51, comma 3-bis, della legge 142/90, e con l'articolo 19 del D.lgs 29/93, oltre che con i principi, sanciti a più riprese dalla Corte Costituzionale sull'accesso alle carriere tramite concorsi.
Le tre strade intraprese con atti positivi da molti enti locali si fondano su alcuni punti basilari. In primo luogo, partono dalla considerazione che il rapporto di lavoro è stato privatizzato, sicchè possono essere liberamente applicati tutti i criteri di flessibilità gestionale propri delle aziende private.
Questa osservazione, corretta nel principio, porta ad un travisamento delle norme se applicata come se l'azienda fosse, appunto, privata. E' noto che l'imprenditore assegna attraverso le procure ai componenti dei consigli di amministrazione o ai propri institori o dirigenti poteri gestionali più o meno limitati per competenza o valore, in forma flessibile, compatibilmente, evidentemente, con i contratti collettivi di lavoro i quali pongono precisi limiti allo ius variandi dell'imprenditore anche nel campo privato, che è molto meno flessibile di quanto non si favoleggi, come confermano le decine di sentenze del giudice del lavoro in merito al mansionismo.
Nel mondo delle aziende private, tuttavia, l'attribuzione dei poteri decisionali e rappresentativi nell'azienda è quasi interamente lasciato all'autonomia privata dell'imprenditore.
Nel mondo degli enti pubblici, invece, l'organizzazione degli uffici deve essere regolata per legge, come prevede il già citato articolo 97 della Costituzione. Mentre coloro che agiscono per le amministrazioni non operano quali rappresentanti, ma quali organi. Non esplicano le loro funzioni in applicazione della procura, bensì immedesimano l'amministrazione stessa nel loro agire giuridico.
La ripartizione delle competenze degli organi è prevista analiticamente dalla legge, per far sì che l'amministrazione sia "personificata" da soggetti che ne abbiano l'autorità, scelti o attraverso la legittimazione degli elettori nel caso degli organi di governo, oppure mediante una selezione di capacità e professionalità, per garantire il principio di buona amministrazione. Tali selezioni debbono, almeno nel sistema ancora vigente, essere svolte mediante il concorso pubblico.
Il rispetto di tali competenze è tanto più accentuato oggi, in quanto i dirigenti, siccome dotati del potere di immedesimare l'amministrazione adottando tutti gli atti che la impegnano verso l'esterno, sono divenuti veri e propri organi, sia pure di natura tecnica e non elettiva.
Se, allora, un ente si è organizzato introducendo al suo interno le qualifiche dirigenziali per affidare loro le responsabilità gestionali, non può, evidentemente assegnare a funzionari privi di tali qualifica le medesime funzioni, per violazione dei principi fin ora brevemente ricordati.
Il secondo punto da cui si muovono queste recenti scelte organizzative che sempre più si estendono tra gli enti locali, è l'introduzione delle posizioni organizzative da parte del CCNL del 31.3.1999. Le quali posizioni vengono interpretate come incarichi di natura "subdirigenziale", tali per cui possono essere affidati a coloro che vi sono preposti compiti e responsabilità spettanti alle qualifiche dirigenziali, considerati equivalenti.
Anche tale interpretazione, però, alla luce del contratto medesimo e dell'attribuzione delle competenze ai dirigenti operata dalle già ricordate norme del D.lgs 29/93 e della legge 142/90, non pare sorretta da solide basi di legittimità.
Infatti, il contratto collettivo di lavoro non può in alcun modo stabilire le competenze degli organi, essendo tale compito riservato alla legge dall'articolo 97 della Costituzione, mentre il contratto è atto di natura privata. Il contratto può solo disciplinare lo status giuridico ed economico del lavoratore: e questo è quel che ha fatto il CCNL in data 31.3.99. Il quale, infatti, non afferma mai che le posizioni organizzative svolgono le funzioni dei dirigenti (se non con riferimento ai comuni privi di dirigenti che abbiano assegnato le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, ai sensi della legge 191/98). Al contrario, disciplina le funzioni di dette posizioni, assimilandole a quelle dei "quadri" privati. Ma proprio questa assimilazione esclude che esse posizioni organizzative possano svolgere le funzioni e competenze dei dirigenti, visto che anche nel mondo privato svolgono compiti gestionali di natura subordinata ai dirigenti.
L'attribuzione delle funzioni per vacanza del vertice non può superare gli ostacoli che qui si prospettano. Ribadita la rigida assegnazione delle competenze operata dall'articolo 51, commi 3 e 3-bis, della legge 142/90, è ammissibile l'assegnazione di funzioni dirigenziali ad un funzionario, per vacanza del dirigente, ma configurandola come attribuzione di mansioni superiori, dunque nel rispetto dell'articolo 56 del D.lgs 29/93 e delle condizioni ivi previste.
Un'attribuzione di funzioni dirigenziali sine die non è conforme alla normativa qui ricordata.
Occorre sottolineare, ancora, che l'assegnazione delle mansioni superiori è del tutto indipendente dalla precedente copertura della posizione organizzativa, la quale non prelude ad un incarico di tipo dirigenziale, ma sottende un diverso modo di organizzare un'unità amministrativa, con più marcate responsabilità appunto organizzative del soggetto investito.
E' vero che esistono enti locali nei quali è presente una sola qualifica dirigenziale, i quali tutti stanno pensando, per forza di cose, ad una delle soluzioni gestionali ricordate all'inizio.
Ma anche la presenza di un'unica figura non legittima tali scelte, in primo luogo perché adesso possono essere istituite le qualifiche dirigenziali in tutti gli enti, a prescindere dalla dimensione demografica, il che vale evidentemente a maggior ragione per gli enti nei quali già esistevano figure dirigenziali.
In ogni caso, questi enti possono sempre ricorrere agli incarichi ai sensi dell'articolo 51, commi 5 o 5-bis della legge 142/90, o all'assegnazione di funzioni al segretario, o ancora al convenzionamento.
La messa in moto di siffatti meccanismi di assegnazioni di funzioni dirigenziali a soggetti privi della qualifica, introduce un elemento di "spoil system" extra ordinem, che comporta il rischio di minare alla base l'autonomia dei dirigenti, i quali sottoposti al ricatto morale di un'estromissione dalle loro funzioni per essere sostituiti da "chiunque" possono essere messi nelle condizioni di non svolgere più serenamente e correttamente i propri compiti. Né il funzionario incaricato sarebbe posto in una posizione molto diversa.
Il secondo rischio non riguarda la sfera personale dei dirigenti, bensì la funzionalità complessiva del sistema. Se manovre di spoil system come quelle descritte venissero confermare come illegittime dalla magistratura di ogni ordine e grado, si avrebbe la conseguenza dell'annullabilità o nullità di un'enormità di atti amministrativi, ovvero tutti quelli adottati da funzionari facenti funzioni privi di titolo.
E' da chiedersi se questa è la volontà del legislatore, se, ovvero, la "flessibilizzazione" consista non nel gestire la cosa pubblica con criteri privatistici (il che ben venga), ma nel gestire la cosa pubblica come fosse privata, che è ben diverso.
Parallelamente, inoltre, l'opportunità prevista come detto sopra dalla legge 265/99 di istituire posizioni dirigenziali negli enti di minori dimensioni sta per essere attuata in modo da garantire ai funzionari apicali il passaggio alla qualifica dirigenziale.
Anche in questo caso, però, la corretta valorizzazione delle risorse interne, non pare sorretta da regole giuridiche, le quali, al contrario, sono tutte indirizzate all'obiettivo opposto: quello di assumere in posizioni dirigenziali solo attraverso concorso.
Appare del tutto chiaro che i concorsi interni (ormai sostituiti dalle progressioni verticali) non possono essere applicati al passaggio tra due aree contrattuali diverse, quella dirigenziale, da un lato, e quella delle "qualifiche", dall'altro. La progressione verticale, infatti, è istituto che riguarda appunto solo l'area impiegatizia e non può essere utilizzata per il passaggio a quella dirigenziale.
Sui concorsi interni, del resto, la Corte Costituzionale ha ribadito di recente i suoi insegnamenti con la sentenza 1/99. L'introduzione della dirigenza, allora, nei comuni non può essere disgiunta dalla copertura dei posti per concorso pubblico aperto a tutti (come del resto prevede l'articolo 28 del D.lgs 29/93).