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Articoli e note

n. 6/2005 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Ambito di applicazione del silenzio assenso
nella nuova legge 241/1990

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Gli effetti deleteri di una riforma della Costituzione affrettata, come quella compiuta con la legge costituzionale 3/2001, si esplicano in pieno nell’esame della riforma della legge n. 241/1990.

Poiché, infatti, manca nella definizione delle potestà legislative di competenza statale e regionale, fissata dall’articolo 117 della Costituzione, qualsiasi riferimento alla materia dell’attività amministrativa o del procedimento amministrativo, si pone il problema dell’ambito di applicazione della legge n. 241/1990 in generale, ed in particolare dell’istituto del silenzio assenso.

La soluzione al problema non può, purtroppo. essere rinvenuta nella disposizione contenuta nell’articolo 29, comma 2, novellato, della legge n. 241/1990, per almeno due ragioni:

1)  si tratta di una norma “perplessa”, nella quale sono maggiori le omissioni, le intenzioni, i sottintesi, rispetto al precetto;

2) non può certamente una legge ordinaria dettare le regole per il riparto delle competenze legislative in una certa materia, essendo questo compito della Costituzione.

Pertanto, l’articolo 29, comma 2, più che rivelarsi corretta regola per la definizione dell’ambito di applicazione della riforma della normativa sul procedimento amministrativo, appare una excusatio non petita, e, dunque, una accusatio manifesta: il legislatore statale, in sostanza, confessa di non essere certo di aver esercitato la propria potestà legislativa in modo corretto dal punto di vista costituzionale e cerca un appiglio consentendo alla normativa locale e regionale di esplicarsi (così assolvendo ad un compito non suo), per altro legandola ad una serie di vincoli. Derivanti dal rispetto della Costituzione, ma anche dei principi relativi alla garanzia del cittadino rispetto all’attività dell’amministrazione, enunciati dalla legge 241/1990: con ciò, qualificando comunque la riforma come norma di principi generali ed attribuendole, impropriamente, quanto meno un ruolo di legge di principi nell’ambito di una competenza concorrente, oppure, negando totalmente l’affermazione iniziale, autoconfigurando la riforma della legge 241/1990 come legge adottata nel pieno e legittimo esercizio di una potestà legislativa esclusiva dello stato, talmente piena da consentire l’esplicazione di un minimo di autonomia normativa regionale e locale non per concessione, ma per autolimitazione. In sostanza, in realtà l’articolo 29, comma 2, pare possa essere letto come norma con la quale la legge statale dispone di se stessa e permette alla legislazione regionale e alla regolamentazione locale di diversificare in parte la disciplina di dettaglio, nel rispetto dei vincoli costituzionali e dei principi fissati nella legge 241/1990.

Per dare, a ben vedere, coerenza all’intervento del legislatore statale, sembra necessario considerare corretto proprio l’ultimo approccio descritto poco sopra e ritenere che il legislatore statale abbia esercitato una potestà legislativa esclusiva, rinvenendo la competenza a normare l’attività amministrativa dal combinato disposto dell’articolo 117, comma 2, lettera m), e dell’articolo 120, comma 2, della Costituzione.

Si darà dimostrazione di questa affermazione nella parte conclusiva del presente lavoro. Nel frattempo, è necessario sottolineare che se non si accede a questa interpretazione, le conseguenze consistono nell’adozione di tesi, quali quelle formulare da parte della dottrina [1], secondo le quali la nuova disciplina del silenzio assenso si applicherebbe solo alle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali, ma non alle restanti amministrazioni.

Tale tesi si fonda sulle seguenti considerazioni:

1) l’articolo 20 novellato della legge 241/1990 fa espresso riferimento alla definizione dei termini del procedimento, stabiliti dall’articolo 2, commi 2 e 3, novellato; poiché tali commi si riferiscono ai termini procedimentali fissati esclusivamente per le amministrazioni dello Stato, allora il silenzio assenso dovrebbe intendersi come rimedio all’inerzia relativo solo alle amministrazioni dello Stato;

2) i casi di esclusione di applicazione del silenzio assenso contemplati dall’articolo 20 si riferiscono con ogni evidenza a procedimenti gestiti dalle amministrazioni statali: se, allora, si escludono dal campo di applicazione del silenzio assenso procedimenti gestiti dallo Stato, ciò è conseguenza della ristretta applicabilità del silenzio assenso ai soli procedimenti statali.

Del resto, osserva la medesima dottrina [2], che l’articolo 2, commi 2 e 3 non si applica alle amministrazioni diverse da quelle statali, sicchè:

a) il termine massimo per concludere il procedimento non è di 90 giorni, ma quello fissato dalla disciplina normativa autonoma delle amministrazioni non statali;

b) laddove tali amministrazioni non avessero fissato tale disciplina autonoma, vi sarebbe un vuoto normativo: verrebbe a mancare del tutto un termine obbligatorio procedimentale, giacchè quello previgente di 30 giorni è stato abrogato dalla legge 80/2005 e quello nuovo di 90 giorni è esclusivamente riferibile alle amministrazioni statali.

L’interpretazione letterale delle norme contenute nella riforma, da un lato, ed una visione fortemente improntata alla valorizzazione dell’autonomia normativa desumibile proprio dalla legge costituzionale 3/2001, tali affermazioni potrebbero essere considerate accettabili.

Tuttavia, non si può fare a meno di sottolineare le implicazioni fortemente negative di tali tesi, che la stessa dottrina ammette:

1)  l’ammissibilità di un vuoto normativo, nel caso in cui gli enti non statali non avessero regolato i termini procedimentali;

2) l’arretramento della disciplina del silenzio assenso, rispetto al precedente regime, nel quale pur essendo l’istituto di carattere speciale, era applicabile certamente a tutte le amministrazioni considerate dalle norme speciali che lo disciplinavano;

3) l’asimmetria della disciplina del procedimento amministrativo, che, legato ad un’attività di “recepimento” o “adeguamento” della disciplina generale valevole solo per lo Stato del procedimento amministrativo da parte di regioni ed enti locali, determinerebbe un sistema di garanzie procedimentali a “macchia di leopardo”;

4)  la situazione di incertezza dei cittadini, i quali non sarebbero in condizione di valutare, utilizzando il semplice senso comune, di capire se l’istituto del silenzio assenso (ma lo stesso potrebbe dirsi per altri istituti di semplificazione) sia applicabile di volta in volta, a questa o quella amministrazione.

Tali punti di incertezza, connessi ad una tesi tendente a considerare effettiva e corretta la definizione dell’ambito di applicazione dell’articolo 29, comma 2, nel senso consolatorio di riconoscimento dell’autonomia normativa di regioni ed enti locali, appaiono, tuttavia, talmente rilevanti da fornire la comprova che l’ambito di applicazione della legge 241/1990 novellata debba ritenersi necessariamente di portata molto più ampia, nonché, come rilevato prima, che il legislatore statale abbia (a questo punto, inconsapevolmente) correttamente esercitato una potestà legislativa esclusiva, tale da rendere applicabile la riforma per intero, salvo elementi derogatori, connessi agli aspetti di dettaglio.

Non è, infatti, possibile ammettere che nell’ordinamento esistano vuoti normativi. Del resto l’istituto dell’analogia ha proprio lo scopo di rimediare a situazioni di carente o assente presidio normativo di una certa fattispecie ed è uno strumento da utilizzare obbligatoriamente, per dare copertura normativa ad una situazione giuridica priva di disciplina diretta.

Ammettere che certe amministrazioni non siano obbligate a concludere il procedimento amministrativo entro un termine predefinito, sol perché siano prive della norma autonoma che lo prevede e quella generale vigente valga solo per lo Stato, porta alle seguenti inaccettabili conseguenze:

1) un arretramento gigantesco lungo il percorso delle riforme sul procedimento amministrativo: una fondamentale applicazione del principio della trasparenza amministrativa è consistita proprio nell’obbligo di determinare i tempi obbligatori del procedimento;

2) la creazione di situazioni di disparità clamorosa tra i cittadini che godono di un’amministrazione ligia nel fissare i termini, potendo, dunque, contare su una gestione trasparente del procedimento e sui rimedi del silenzio-rifiuto oppure del silenzio-assenso avverso l’inerzia; e cittadini, invece, che ripiombano nel buio di un’amministrazione autolegittimantesi, che non rivela all’esterno il primo indice di qualità della sua azione, il tempo, e non fornisce alcuna garanzia avverso la propria inerzia, riacquisendo una posizione di supremazia antidemocratica, propria della vecchia e superata concezione dell’attività amministrativa.

In sostanza, ammettere una gestione differenziata del procedimento amministrativo, significa prevedere livelli di garanzie altrettanto differenziate per il cittadino, nei confronti dell’attività amministrativa.

L’unità giuridica dell’ordinamento ed il livello dei diritti della popolazione nei riguardo delle istituzioni che l’amministrano, ne risulterebbero fortemente compromessi.

Non pare possa essere questa la conseguenza della riforma. Dunque, l’unica strada per rimediare ai problemi che l’interpretazione “autonomista” pone, ma non risolve, è ammettere che il campo di applicazione della legge 241/1990 sia nettamente diverso da come appare delineato nell’articolo 29, comma 2, della legge medesima, ed anche nell’articolo 22 della legge 15/2005.

In realtà, tutte le norme della legge sono immediatamente e direttamente applicabili, anche per i procedimenti amministrativi delle amministrazioni non statali, perché solo in tal modo si riesce a garantire un livello minimo di diritti civili (il diritto di ottenere dall’amministrazione risposte entro tempi certi e di poter contare su strumenti di rimedio diretto all’inerzia dell’amministrazione, come il silenzio assenso) uguale su tutto il territorio nazionale, come previsto dall’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione; inoltre, solo in tal modo si può ottenere una unità giuridica della disciplina dell’attività amministrativa, che non può, nei suoi istituti fondanti e generali, avere applicazioni parziali nel territorio, ma deve poter contare su una normativa generale univoca. Normativa che lo Stato può porre in essere anche in applicazione dell’articolo 120, comma 2, della Costituzione, allo scopo di garantire in via preventiva, e non solo di rimedio successivo, l’unità giuridica, che fonda, del resto, la potestà legislativa esclusiva di cui all’articolo 117, comma 2, lettera m).

Se così stanno le cose, allora l’articolo 2 della legge 241/1990 deve ritenersi certamente applicabile in ogni sua parte a tutte le amministrazioni. Con la precisazione che i termini di dettaglio in esso contenuti, valgono in modo immediato e diretto solo per le amministrazioni statali. Per le altre amministrazioni si applicano i diversi termini da loro stabiliti; e per quelle prive di regolamentazione dei termini procedurali, in via analogica si applica la normativa valevole per lo Stato, finchè fonti regolamentari non la sostituiscano.

Ciò, allora, permette di considerare direttamente applicabile anche l’istituto del silenzio assenso. Con la precisazione che le amministrazioni non statali non sono, ovviamente, vincolate alla descrizione dei procedimenti esplicitamente esclusi dall’articolo 20 al campo di applicazione del silenzio assenso, essendo, invece, in grado di disciplinare con propri provvedimenti legislativi o regolamentari l’ambito di esclusione del silenzio assenso, relativo ai procedimenti di propria competenza.

In questo modo, il sistema della legge 241/1990 mantiene la configurazione di insieme di garanzie procedimentali minime, che pacificamente dottrina e giurisprudenza gli riconoscevano nel previdente regime, senza:

1)  porre problemi di legittimità costituzionale dell’intervento normativo statale;

2) comprimere eccessivamente la potestà normativa di regioni ed enti locali, che conservano margini di intervento nella definizione dei dettagli procedimentali.

Con specifico riferimento, infine, al silenzio assenso, ma anche alla dichiarazione di inizio attività, si deve necessariamente sottolineare che la riforma di tali istituti è parte del pacchetto legislativo finalizzato all’aumento della competitività del Paese, che, a giudizio del legislatore, deve passare attraverso strumenti di liberalizzazione parziale o totale dell’attività amministrativa, per agevolare l’avvio delle attività dei privati, senza subordinarli ad attività provvedimentali pubbliche.

Se così è, le armi per incrementare la competitività risulterebbero spuntate, qualora gli strumenti della Dia e del silenzio assenso si ritenessero applicabili solo per i provvedimenti amministrativi statali, posto che la maggior parte delle attività imprenditoriali e, comunque, delle attività soggette ad atti di assenso, sono gestite da regioni ed enti locali, per effetto dell’attuazione del d.lgs 112/1998.

 

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[1] O. FORLENZA, Ampliata l’applicazione del silenzio-assenso, in Guida al Diritto, n. 22 dell’11 giugno 2005, pagg. 138-140.

[2] O. FORLENZA, Riscritta la semplificazione amministrativa, ibidem, pag. 136.


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