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Articoli e note

n. 3/2004 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Differenze tra rinnovo e proroga dei contratti, nonché tra il rinnovo di cui alla legge 537/1993 ed i nuovi servizi di cui al d.lgs. 157/1995

 

La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 31 dicembre 2003, n. 9302 (in questa Rivista, n. 1/2004, pag. http://www.lexitalia.it/p/cds/cds5_2003-12-31-9.htm) dovrebbe aver posto la parole fine agli equivoci che riguardano la questione relativa alla proroga o al rinnovo dei contratti che regolano le forniture e le prestazioni di servizi presso gli enti locali.

In primo luogo, occorre prendere atto che il Consiglio di Stato ha definitivamente abbandonato la tesi espressa con la sentenza della Sezione V, 19 febbraio 2003 n. 921 (in questa Rivista, n. 2/2003, pag. http://www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2003-02-19-1.htm), secondo la quale vi sarebbe stata l’abrogazione tacita delle disposizioni relative al rinnovo dei contratti in questione.

La sentenza 9302 mostra un chiaro e, probabilmente, definitivo ripensamento da parte del Consiglio di Stato, il quale non solo afferma apertamente l’applicabilità dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993, come modificato dall’articolo 44 della legge 724/1994, ma riforma una precedente decisione del Tar Puglia-Lecce, Sezione II, 18 dicembre 2002, n. 8416, ritenendo legittima la proroga di un contratto di prestazioni di servizi, in quanto la proroga non è vietata dall’articolo 6, comma 2, citato. Il che dimostra, senza alcuna ombra di dubbio, che i giudici di Palazzo Spada ritengono certamente applicabile e vigente la disciplina relativa al rinnovo dei contratti.

La sentenza 9302 non si limita a questo, ma interviene per chiarire importanti aspetti interpretativi della disciplina sui rinnovi, chiarendo in sintesi che:

1)      il rinnovo è cosa diversa dalla proroga;

2)      la proroga, anche tacita, non ricade nel divieto di cui all’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993;

3)      il termine di tre mesi per procedere al rinnovo decorre dalla scadenza del contratto, non dai tre mesi antecedenti tale scadenza;

4)      il rinnovo di cui all’articolo 6, comma 2, citato, è fattispecie differente dalla “ripetizione di servizi analoghi”, prevista dall’articolo 7, comma 2, lettera f), del d.lgs 157/1995.

Le luci, tuttavia, di questi chiarimenti, sono in parte oscurate dalle ombre che caratterizzano, invece, le tesi espresse in merito all’individuazione dell’organo competente ad adottare il provvedimento di rinnovo o proroga.

Seguendo l’ordine dei chiarimenti interpretativi indicato sopra, è opportuno approfondire le indicazioni del Consiglio di Stato, estremamente utili anche dal punto di vista puramente operativo.

Differenze tra rinnovo e proroga. I giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato la difformità profonda che caratterizza il rinnovo rispetto alla proroga.

All’origine delle incertezze che operatori e interpreti affrontano con riferimento alla disciplina dei contratti, sta, in effetti, proprio la confusione che generalmente si fa tra il concetto di rinnovo e quello di proroga, considerati, non correttamente, come sinonimi di un medesimo fenomeno.

In effetti, a ben vedere, i due istituti hanno un solo elemento in comune: il fatto che l’amministrazione, sia nel caso del rinnovo, sia nel caso della proroga, contratti con una medesima impresa con la quale intercorreva un precedente rapporto contrattuale.

La rilevante differenza tra i due istituti concerne, allora, la modalità con la quale questa contrattazione avviene.

Nel caso del rinnovo, chiarisce il Consiglio di Stato, si ha una vera e propria nuova negoziazione con un medesimo soggetto, cioè “un rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale”.

Nel caso della proroga, invece, si assiste esclusivamente al differimento della scadenza del medesimo rapporto contrattuale: la nuova scadenza, con l’eventuale rideterminazione dell’importo a carico dell’ente, se connesso strettamente alla durata del rapporto, viene fissata in un contratto accessorio a quello originale. Tale atto, però, non è un “nuovo” contratto, ma solo la necessaria formalizzazione per iscritto tra le parti del nuovo termine di scadenza del rapporto.

Per utilizzare immagini maggiormente chiare, si potrebbe paragonare la proroga di un contratto ad un “invecchiamento” del rapporto contrattuale preesistente, mentre si può considerare il rinnovo come corrispondente alla “clonazione” del contratto.

Dunque, nel caso della proroga, non viene in essere un nuovo rapporto contrattuale, ma il medesimo contratto viene parzialmente rideterminato in uno o più degli elementi che determinato l’accordo delle parti, cioè la durata. Dunque un medesimo contratto dura più di quanto inizialmente stabilito dalle parti, per il verificarsi di circostanze e di ragioni che permettono all’ente appaltante di rivedere tale durata.

Qualora si proceda al rinnovo del contratto, invece, le parti stipulano un altro e diverso contratto, rispetto a quello precedentemente intercorso. Questo nuovo contratto non può contenere clausole differenti rispetto al precedente, del quale riproduce integralmente il medesimo contenuto, con la sola eccezione dell’eventuale rideterminazione del prezzo, in base agli indici Istat.

Ma pur sempre di nuovo contratto si tratta, perché il rapporto precedente è scaduto e, pertanto, l’ente appaltante si determina ad attivare nuovamente la propria autonomia negoziale, scegliendo di stipulare il nuovo contratto alle medesime condizioni di quello scaduto, avendo evidenziato le ragioni di interesse pubblico e la convenienza economica che consentono di non ricorrere ad una procedura ad evidenza pubblica per l’individuazione del contraente del nuovo rapporto contrattuale.

Ancora, mentre la proroga può essere di durata inferiore (anzi, dovrebbe essere questa la regola) alla durata complessiva inizialmente prevista, la durata del contratto rinnovato deve necessariamente essere la medesima del contratto scaduto, proprio perché, come detto sopra, il rinnovo è una “clonazione”, una fedele riproduzione dell’intero schema negoziale precedente.

Gli elementi distintivi, dunque, del rinnovo rispetto alla proroga sono sufficientemente chiari ed evidenti, per non incorrere nell’errore di applicare alla prima le regole riguardanti il secondo.

Inapplicabilità dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 alla fattispecie della proroga. Proprio la differenza fin qui evidenziata tra rinnovo e proroga, induce il Consiglio di Stato ad una conclusione coerente e condivisibile: poiché l’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 pone esclusivamente il divieto del rinnovo tacito dei contratti, esso non estende la sua operatività ad una fattispecie differente, qual è la proroga.

Il legislatore, al fine di garantire che la nuova negoziazione contrattuale sottostante al rinnovo del contratto non sfugga alle regole di pubblicità e trasparenza sottostanti all’azione amministrativa, sì da permettere quanto meno la cosiddetta “piccola evidenza pubblica” anche in una procedura di trattativa privata come è il rinnovo, ha non consente di rinnovare i contratti in modo tacito. Infatti, se le amministrazioni potessero rinnovare tacitamente i contratti, giungerebbero in modo implicito a tale decisione, senza pubblicizzare il provvedimento e senza, dunque, rendere note le ragioni di interesse generale e convenienza economica legittimanti tale decisione. Si impedirebbe, dunque, ogni possibile controllo proprio su un procedimento tendente, comunque sia, a limitare fortemente il principio della concorrenza e della parità di trattamento degli imprenditori.

Questo, evidentemente, non sarebbe ammissibile, anche alla luce della legge 241/1990, che impone di esercitare l’azione amministrativa nel rispetto dell’obbligo di adottare provvedimenti espressi e sempre motivati. Il rinnovo tacito di un contratto si pone, con assoluta evidenza, agli antipodi di una gestione amministrativa rispettosa dei principi di pubblicità e trasparenza.

Ora, poiché la proroga consiste esclusivamente nel prolungare la scadenza di un contratto precedente e poiché, evidentemente, la decisione di prorogare il contratto non solo deve essere condivisa da entrambe le parti, ma richiede a sua volta un pronunciamento espresso e motivato da parte dell’ente, essa sfugge alla disciplina dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993, riferito letteralmente in via esclusiva alla sola ipotesi del rinnovo.

Per tale ragione, non è possibile in via interpretativa estendere alla proroga le particolari regole concernenti il rinnovo, come erroneamente ha disposto il giudice di prime cure, nell’ambito della controversia decisa dalla Sezione V, con la sentenza 9302/203.

Il rinnovo va disposto nei tre mesi successivi alla scadenza del contratto precedente. Il passaggio della sentenza secondo il quale nell’articolo 6, comma 2, della legge 357/1993 “è dato chiaramente evincere che il termine di tre mesi va inteso come successivo ala scadenza del contratto”, specificando che anche per ragioni logiche non potrebbe che essere questa l’interpretazione corretta, dovrebbe contribuire a fare luce, una volta e per sempre, su un aspetto da sempre controverso.

In effetti, nel passato non sono mancate interpretazioni anche dottrinali, oltre che giurisprudenziali, secondo le quali le amministrazioni pubbliche sarebbero tenute ad avviare la procedura per il rinnovo del contratto tre mesi prima della scadenza.

Ora, è del tutto evidente che rimane nella discrezionalità di ogni amministrazione agire con buon anticipo, per evitare il più possibile soluzioni di continuità nelle prestazioni contrattuali. Nulla vieta, dunque, di chiedere la disponibilità della ditta al rinnovo e di verificare ragioni di convenienza economica e di interesse pubblico ancor prima che il contratto scada, sempre che il “mercato” sia sufficientemente statico, per consentire di effettuare rilevazioni economiche in anticipo rispetto ala successiva scadenza del termine contrattuale, senza correre il rischio di trovarsi con analisi di convenienza economica superate dall’andamento della dinamica dei prezzi.

Tuttavia, a fondamento della tesi secondo cui si debba necessariamente procedere all’avvio dell’iter per il rinnovo tre mesi prima della scadenza, probabilmente sta la confusione tra rinnovo e proroga.

E’ assolutamente evidente che la proroga di un contratto debba necessariamente intervenire prima che il rapporto contrattuale si risolva, altrimenti essendo venuta a mancare la relazione negoziale tra le parti, esse non potrebbero rideterminare le condizioni del contratto stesso, ma si ritroverebbero nella situazione di doverlo, eventualmente, rinnovare, dando luogo ad un nuovo e diverso rapporto negoziale.

Poiché il rinnovo, invece, opera necessariamente a condizione che il contratto precedente sia scaduto, è perfettamente possibile che l’amministrazione accerti le ragioni di pubblico interesse e convenienza economica che consentono il rinnovo del contratto, comunicando l’intenzione di rinnovare il rapporto contrattuale all’impresa contraente successivamente alla scadenza del rapporto.

Ciò che il legislatore impone, allora, è esclusivamente un termine massimo entro il quale l’amministrazione può determinarsi al rinnovo, invece di procedere con una gara. L’ente non potrebbe attivare la procedura di rinnovo trascorsi tre mesi dalla scadenza del contratto, perché oltre questo termine le condizioni di mercato potrebbero essere mutate e, soprattutto, perché se vi sono particolari ragioni di pubblico interesse per il rinnovo, esse impongono necessariamente una decisione rapida e non procrastinabile.

Differenza tra rinnovo e ripetizione dei servizi. Ultimo importante punto della sentenza, seppure trattato un po’ di sfuggita, è quello nel quale si sottolinea la diversità della fattispecie disciplinata dall’articolo 6, comma 2, della legge 537/193, rispetto alla previsione contenuta nell’articolo 7, comma 2, lettera f), del d.lgs 157/1995[1].

Anche in questo caso, i giudici di Palazzo Spada dovrebbero aver contribuito ad eliminare una volta e per sempre un altro equivoco: non sono in pochi quelli che confondono il rinnovo contrattuale, con il complesso istituto trattato dalla normativa di recepimento delle direttive europee in tema di appalti di servizi [2].

Si sostiene, infatti, che il rinnovo di cui all’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 sia ammissibile esclusivamente se nel bando o capitolato di gara sia stato espressamente previsto e nel rispetto dell’ulteriore presupposto che il rinnovo operi nei successivi tre anni.

Ma in tal modo, in sostanza, si estende alla disciplina del rinnovo di diritto interno, una specifica normativa comunitaria, avente un’altra finalità ed applicabile in base a diverse condizioni.

Il Consiglio di Stato, in modo tranciante, afferma che l’articolo 7, comma 2, lettera f), semplicemente non è applicabile alla disciplina del rinnovo, in quanto tale norma riguarda una fattispecie diversa, in quanto si riferisce all’affidamento, per trattativa privata, al medesimo aggiudicatario di un precedente appalto, di nuovi servizi, conformi ad un progetto base, posto a disciplinare l’intero appalto.

In effetti, le fattispecie trattate dall’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 e dall’articolo 7, comma 2, lettera f), del d.lgs 157/1995 sono analoghe ma non coincidenti.

La normativa comunitaria non si riferisce, specificamente, al rinnovo del contratto, bensì alla ripetizione di servizi analoghi col medesimo contraente, come esecuzione di un unico disegno progettuale, che preveda sin dal primo affidamento la possibilità di tale ripetizione. Ciò impone all’amministrazione aggiudicatrice, per determinare il valore globale dell’appalto, di prendere in considerazione il costo complessivo stimato anche dei servizi successivi da ripetere eventualmente.

La volontà di ripetere i servizi, in questo caso, va necessariamente espressa a chiare lettere nei documenti di gara, nonché nel contratto stipulato con l’aggiudicatario della prima procedura. L’ente appare obbligato a tenere conto del costo complessivo dell’appalto nel bilancio pluriennale e a vincolare pattiziamente l’appaltatore, mettendolo al corrente da subito che alla scadenza della prima esecuzione del servizio potrà chiedergli l’esecuzione a trattativa diretta di un servizio analogo, evidentemente con costi determinati anni prima, quando venne redatto il progetto posto alla base della ripetizione del servizio. L’accettazione da parte dell’appaltatore delle condizioni contrattuali implica, pertanto, anche l’acquiscenza al progetto ed al prezzo predeterminato, da applicare, dunque, salvo varianti comunque contemplate dal progetto, nel nuovo servizio ripetuto.

La fattispecie trattata dall’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 è, tuttavia, diversa. Il rinnovo consiste nella riproduzione identica della prestazione contrattuale; la ripetizione di un servizio analogo, invece, ammette anche che l’esecuzione della seconda prestazione avvenga con qualche variante tecnica.

Ma, in ogni caso l’articolo 6, comma 2, ha un oggetto specifico: il rinnovo ivi contemplato non è, infatti, frutto di un disegno precostituito. Non v’è un progetto di base complessivo, che abbia preso sin dall’origine in considerazione la possibilità della ripetizione di servizi analoghi.

Le condizioni poste dal legislatore nazionale per il rinnovo sono altre e non v’è il presupposto di un disegno progettuale alla base. In particolare il legislatore chiede che entro tre mesi dalla conclusione del contratto:

a)      le amministrazioni accertino la sussistenza di ragioni di convenienza al rinnovo;

b)      le amministrazione verifichino, altresì, la sussistenza di ragioni di pubblico interesse;

c)      rilevata la sussistenza di tali ragioni, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione.

Appare evidente che l’articolo 6, comma 2, esclude che al momento del primo affidamento del servizio vi sia l’esplicitazione dell’intenzione di procedere al rinnovo (o alla ripetizione di servizi analoghi, affidati per trattativa privata).

Infatti, detto rinnovo è subordinato, in primo luogo, alla volontà autonoma dell’ente a farvi ricorso. Tale volontà, però, conduce al rinnovo solo qualora entro tre mesi dalla conclusione del contratto l’ente, per il tramite dei propri uffici, dimostri la sussistenza di ragioni di convenienza. Ciò significa che occorre effettuare rilevazioni di mercato, per mettere a confronto il complesso dei costi e benefici del servizio, come definiti al tempo della prima aggiudicazione, con le condizioni offerte dalle imprese poco prima della scadenza del contratto, cioè diverso tempo dopo la prima aggiudicazione.

Ma questa valutazione, di carattere economico, non è sufficiente. Occorre, infatti, dimostrare che vi siano ragioni di interesse pubblico al rinnovo, superiori, ovviamente, alle ragioni di interesse pubblico al ricorso alla gara. Solo una volta che in via istruttoria l’amministrazione abbia riscontrato di poter soddisfare i presupposti richiesti dalla legge, essa può determinarsi al rinnovo.

Ma tale rinnovo non può essere unilateralmente disposto, non essendo, come visto prima, attuazione di un disegno progettuale predeterminato.

L’ente non può che comunicare la volontà di provvedere al rinnovo al contraente. Tale comunicazione è l’avvio del procedimento negoziale che può condurre alla stipulazione del contratto di rinnovo, rispetto al quale l’appaltatore non può, in effetti, chiedere modifiche tecniche o del corrispettivo.

L’appaltatore può scegliere se accettare di rinnovare o meno il contratto. Qualora l’impresa accetti la proposta, l’ente può approvare gli atti gestionali finalizzati alla nuova stipulazione.

Si nota, per altro, che le modalità per il rinnovo dell’articolo 6 della legge 573/1993 sono più rigorose e restrittive di quelle previste dalla normativa comunitaria.

Questo perché, in effetti, l’amministrazione non attiva il primo servizio già con l’idea di innovarlo, ma deve costruire a posteriori (con maggiori difficoltà operative) le condizioni per provvedere; inoltre, l’amministrazione non costruisce dei vincoli finanziari a monte, ma deve verificare a valle la sussistenza delle risorse; ancora, l’amministrazione non precostituisce una condizione per il rinnovo, ma può solo invitare il contraente ad accettare la risposta. Non v’è, dunque, la necessità di prevedere nel contratto un’espressa clausola di rinnovo, come condizione di legittimità per il rinnovo stesso.

Tale supposta necessità è frutto solo della confusione tra il sistema del rinnovo di diritto interno, e quello della ripetizione del servizio in esecuzione di un disegno progettuale, di matrice comunitaria.

Certo, come rilevato nella circolare del Dipartimento delle politiche comunitarie, nulla vieta che gli enti estendano alla regolamentazione patrizia norme e principi comunitari. Ma la mancanza della clausola del rinnovo espresso, non può essere considerata causa di annullabilità del rinnovo, posto che la sua presenza modifica radicalmente il rapporto.

Occorrerebbe dimostrare, semmai, un’incompatibilità assoluta tra l’articolo 6, comma 2, della legge 573/1993 e l’articolo 7, comma 2, lettera f), del D.lgs 157/1995, per rilevare l’abrogazione tacita del primo. Tale conclusione per la verità, appare difficile da accogliere, visto che l’articolo 6, comma 2, non appare in contrasto con i principi dell’apertura delle gare alla concorrenza, talmente restrittivi sono i presupposti per la sua applicazione.

Un accenno, infine, merita il passaggio della sentenza, secondo il quale è da considerare legittima la convalida (rectius: ratifica) da parte del consiglio comunale, della deliberazione con la quale la giunta aveva disposto il rinnovo del contratto.

Il Consiglio di Stato ha, in sostanza, confermato l’avviso espresso con la sentenza della medesima sezione, sempre in data 31 dicembre 2003, n. 9301, nel quale ha ritenuto che la competenza all’indizione di gare d’appalto (così come di procedere al rinnovo dei contratti) appartenga al consiglio comunale. Il Consiglio di Stato, nella sentenza da ultimo citata, in particolare ha così sancito: “va innanzi tutto ricordato che il secondo comma, lett. l) del suddetto art. 42, dispone che il Consiglio ha competenza per "…appalti e concessioni che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del Consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nell’ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della Giunta …".

La norma attribuisce, quindi, espressamente al Consiglio comunale la competenza in materia di appalti - a meno che non siano previsti in atti fondamentali del Consiglio (ma trattasi di ipotesi che non è stata oggetto di discussione nella presente fattispecie) - lasciando il concreto affidamento dell’appalto alla competenza della Giunta, in quanto attività meramente esecutiva o di ordinaria amministrazione.

Pertanto, sia la decisione con la quale è stato prorogato il contratto sino al 31.12.2002 (lesiva per l’appellante, in quanto le è stata implicitamente negata la rinnovazione del contratto per un altro triennio, dalla stessa richiesta per le ragioni e alle condizioni di cui all’istanza del 23.7.2002), sia la decisione di indire una licitazione privata per l’affidamento del servizio non potevano che spettare al Consiglio comunale”.

L’avviso così espresso dal Consiglio di Stato non è condivisibile per una serie di ragioni. Esso sembra essere espressione di un orientamento sempre latente, sia tra gli interpreti, sia tra i giudici, incline a riprodurre logiche interpretative proprie del regime giuridico precedente, nel quale le competenze gestionali erano in gran parte assegnate agli organi di governo (orientamento che ancora non accoglie la tesi dell’assegnazione alla dirigenza della competenza alla costituzione in giudizio).

Il consiglio comunale non ha affatto la competenza in materia di appalti; tanto meno, poi, potrebbe essere la giunta comunale a provvedere al concreto affidamento di un appalto previsto dal consiglio, quale espressione di un’attività meramente esecutiva o di ordinaria amministrazione.

Il consiglio, occorre specificarlo, è organo di governo, che esercita le funzioni proprie di tale ambito soggettivo, nel rispetto di quanto stabilisce la legge. L’articolo 42 del d.lgs 267/2000 esordisce stabilendo che il consiglio è organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo. Tale affermazione deve essere necessariamente tenuta presente, quando si leggono le attribuzioni di competenza, contenute nel successivo comma 2. Inoltre, occorre guardare tale elencazione di competenze in relazione col complessivo sistema delle competenze, tenendo presente che le competenze gestionali sono assegnate, salvo espressa deroga legislativa, in via esclusiva alla dirigenza.

Allora, la lettera l) del comma 2 dell’articolo 42 del testo unico, nel prevedere che il consiglio sia competente per “appalti […] che non siano previsti espressamente in atti fondamentali del consiglio o che non ne costituiscano mera esecuzione e che, comunque, non rientrino nella ordinaria amministrazione di funzioni e servizi di competenza della giunta, del segretario o di altri funzionari” deve essere letto alla luce delle disposizioni indicate prima.

La norma, pur essendo scritta in modo involuto, criptico, sconnesso, in violazione di ogni regola di chiarezza e trasparenza, deve essere interpretata secondo una chiave di lettura compatibile col sistema complessivo delle competenze nell’ente locale.

Sicchè, appare sufficientemente chiaro che il consiglio non ha voce in capitolo:

1)          per gli atti che costituiscano mera esecuzione di appalti previsti in atti fondamentali del consiglio: se, pertanto, un atto fondamentale, quale il bilancio di previsione o un progetto preliminare in variante del Prg, o il Prg medesimo, o una convenzione, prevedano la realizzazione di un appalto (di opere pubbliche, servizi o forniture), è evidente che non sarà necessario più alcun intervento del consiglio, che ha già espresso il suo indirizzo nell’atto fondamentale;

2)          per gli appalti che rientrino nell’ordinaria amministrazione di funzioni e servizi. In questo caso, occorre specificare che il concetto di ordinaria amministrazione non coincide con quello civilistico. Per ordinaria amministrazione si deve intendere lo svolgimento di quelle funzioni di carattere strettamente gestionali, finalizzate al corretto svolgimento dell’azione amministrativa, che di per sé non abbisognano di un indirizzo politico. Così appalti di forniture o servizi necessari per l’ordinaria attività dell’ente (fornitura di cancelleria, utenze, servizio di pulizia degli uffici) non presuppongono un indirizzo consiliare). Come si sottolineerà meglio di seguito, il riferimento della lettera l) alla giunta ed al segretario comunale è il retaggio di una vecchia normativa, che il testo unico non ha, purtroppo, coordinato col nuovo assetto delle competenze locali.

Dunque, alla luce di quanto visto prima, il consiglio deve essere chiamato ad esprimersi per fornire l’indirizzo di procedere ad appalti che non afferiscano alla gestione delle attività essenziali per il buon andamento dell’ente e che non siano già previsti negli atti fondamentali, esemplificati in particolare nella lettera b), dell’articolo 42, comma 2, del testo unico [3].

Ma, in questo caso, il consiglio deve esprimersi esclusivamente esplicando la propria competenza, che consiste nel fornire indirizzi, non nell’entrare nel merito della gestione. Il consiglio, dunque, interverrà con un atto di programmazione generale, come la variazione di bilancio necessaria per includere nella programmazione l’appalto non previsto ad inizio anno. Non certo con l’approvazione del capitolato o degli atti di gara, demandando ad altri solo la concreta gestione della gara, ad esempio con la semplice approvazione del bando e la sua indizione.

Né, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza 9301/2003, tale attività di mera gestione della procedura di gara potrebbe essere considerata di competenza della giunta. Anch’essa è organo di governo, ed anch’essa è priva del potere di porre in essere atti amministrativi gestionali. L’articolo 48 del d.lgs 267/2000 conferisce alla giunta esclusivamente competenze di indirizzo e controllo specificative degli indirizzi più generali del consiglio. Restando all’esempio dell’appalto, il consiglio con la variazione di bilancio di cui sopra, darebbe vita alla programmazione generale prima mancante. La giunta specificherebbe tale indirizzo consiliare con una variazione al Piano Esecutivo di Gestione, con la quale assegnare ad un certo dirigente o responsabile di servizio le risorse reperite dal consiglio, determinando i criteri di valutazione dell’azione gestionale poi posta in essere dal dirigente medesimo.

La concreta gestione dell’appalto, dall’approvazione del capitolato a quella del bando, all’impegno di spesa, sarebbe, poi, di esclusiva spettanza del dirigente o responsabile di servizio, non certo del consiglio e tanto meno della giunta. Basti a dimostrare ciò la circostanza che il testo unico ha definitivamente abrogato la deliberazione a contrattare, per sostituirla con la determinazione a contrattare, a voler sottolineare come tale competenza sia di esclusiva pertinenza della dirigenza e, dunque, sottratta alla competenza degli organi di governo.


 

[1] V. in tal senso già L. Oliveri, L’inestricabile nodo dei rinnovi dei contratti, in www.halley.it.

[2] Il Consiglio di Stato smentisce parzialmente quanto sancito dal T.A.R. Lombardia, sezione Brescia, 5 agosto 2003, n. 1185.

[3] Si veda, in merito, T. Tessaro, disamina dell’articolo 42 del d.lgs 267/2000 in Commenti al T.U. sull’ordinamento delle autonomie locali, vol. 2, Organi e sistema elettorale, ed. Maggioli, Rimini, 2001, pagg. 156 e segg.


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