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LUIGI OLIVERI

Prime riflessioni sulle influenze della riforma costituzionale sull'ordinamento degli enti locali

La riforma della Costituzione determina immediate conseguenze sull'autonomia normativa degli enti locali. La nuova formulazione dell'articolo 114 ed il rilievo assegnato alla competenza regolamentare di comuni e province, infatti, induce a ripensare sia la portata, sia la stessa posizione nelle fonti che, per effetto della legge costituzionale 3/2001, assumono statuti e regolamenti locali.

Partendo dall'analisi degli statuti, occorre valutare nel corretto modo la disposizione contenuta nell'articolo 114, comma 2, della Costituzione a mente del quale "i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione".

Per la prima volta la carta costituzionale riconosce espressamente agli enti locali un'autonomia statutaria, per altro nell'ambito di una norma che pone, con ogni evidenza, sullo stesso piano istituzionale tutti gli enti territoriali in essa menzionati (G. Pastori in Problemi del federalismo, Milano, 2001, pag. 222), conferendo a ciascuno pari dignità, sia pure nella diversità dei ruoli ricoperti, quali componenti essenziali insieme con lo Stato, della Repubblica.

Si nota, allora, che nel nuovo testo costituzionale si è inteso dare rilievo e sostegno ad un indirizzo interpretativo che anche nel precedente assetto costituzionale riteneva di estrapolare dal combinato disposto degli articoli 5 e 128 della Costituzionale il fondamento dell'autonomia statutaria e, in particolare, della collocazione dello statuto come fonte sub-primaria tra la legge ed i regolamenti.

Che l'indirizzo dottrinale qui sintetizzato non fosse, nel concreto, fondato su norme di diritto positivo lo dimostra, in realtà, proprio il fatto che solo con la legge costituzionale 3/2001 si assiste ad una costituzionalizzazione della potestà statutaria degli enti locali.

Nel precedente regime, infatti, è stata non la Costituzione, bensì la legge ordinaria (la legge 142/1990, prima, il D.lgs 267/2000, poi) ad assegnare a comuni e province l'autonomia statutaria e a fissare l'ambito dell'autonomia medesima.

Paradossalmente, la costituzionalizzazione degli statuti locali adesso pone, da un lato, il problema dell'inadeguatezza a Costituzione della disciplina degli statuti contenuta nel testo unico sull'ordinamento degli enti locali; dall'altro, l'ulteriore necessità di capire quale sarà la fonte che, nel futuro, potrà, se potrà, intervenire ad aggiornare e modificare la disciplina degli statuti.

Entrambi i problemi sin qui citati traggono lo spunto (e, probabilmente anche la soluzione) dall'evidente antinomia tra la previsione dell'articolo 114, comma 2, della Costituzione e l'articolo 1, commi 3 e 4, del D.lgs 267/2000, a mente dei quali "la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa. L'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano tali principi abroga le norme statutarie con essi incompatibili. Gli enti locali adeguano gli statuti entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette. Ai sensi dell'articolo 128 della Costituzione le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni".

Le incongruenze delle disposizioni citate con il disegno costituzionale appaiono evidentissime.

In primo luogo, risulta pianamente che l'impostazione dei citati commi 3 e 4 risente dei limiti imposti all'autonomia normativa degli enti locali dall'articolo 128 della Costituzione, abrogato dalla legge 3/2001, il quale stabiliva che "le provincie e i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica che ne determinano le funzioni".

La stessa abrogazione dell'articolo 128 impone una riconsiderazione dell'autonomia normativa degli enti locali. Ma la reale antinomia è conseguenza dell'esplicito superamento del concetto secondo il quale gli statuti sono soggetti ai principi delle leggi ordinarie, operato dall'articolo 114, comma 2, della Costituzione. Il quale, come rilevato sopra, prevede che gli statuti di comuni, province e città metropolitane (con esclusione, quindi, degli statuti degli altri enti locali indicati dall'articolo 2 del D.lgs 267/2000) siano soggetti solo ai principi fissati dalla Costituzione.

Il cambiamento appare una sorta di rivoluzione copernicana. Da un lato, infatti, cade la norma costituzionale che imponeva all'autonomia normativa di comuni e province il rispetto dei principi delle leggi generali della Repubblica; a completamento di ciò, l'articolo 114, comma 2, prevede che i limiti all'autonomia statutaria siano da ricercare nei principi fissati nella Costituzione e non nelle leggi ordinarie.

Questa constatazione, porta alla posizione di altri due problemi. L'individuazione, ovvero, dei principi fissati, dunque "posti" in modo positivo o implicito dalla Costituzione, nonché dell'eventualità che comunque le leggi ordinarie possano incidere sulla potestà statutaria.

Partendo dalla seconda delle questioni, si osserva che gli statuti di comuni e province sembrano avere concretamente assunto quella particolare posizione nella gerarchia delle fonti che già nel precedente regime molti autori attribuivano loro (per tutti, T. Groppi in L'ordinamento dei comuni e delle province, Milano 1999, pag. 124) assurgendo concretamente a fonte subprimaria, intesa come fonte che ha una forza di legge non completamente pariordinata a quella delle leggi ma certamente superiore a quella dei regolamenti concernenti la disciplina dell'organizzazione delle funzioni locali.

Nonostante ciò, la potestà normativa statutaria appare certamente fortemente influenzata dalla legge ed in questo senso lo statuto appare ancora fonte "subordinata", nel senso di meno forte della legge.

Ne è dimostrazione la constatazione che gli statuti locali non si pongono ancora, nonostante la riforma costituzionale, come vera e propria norma fondamentale di un ordinamento giuridico interno, idonea a regolamentarne per intero gli elementi costitutivi. Infatti, l'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione assegna addirittura alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la disciplina elettorale, nonché degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.

V'è, dunque, una chiara sottrazione alla potestà statutaria di materie che, invece, avrebbero potuto a ben ragione rientrare in una potestà ordinamentale completa, sottoposta solo ai principi della Costituzione.

Da questo punto di vista, la riforma costituzionale impedisce ancora o relativizza notevolmente la possibilità concreta di creare un ordinamento locale realmente differenziato, mediante la fonte statutaria.

Se si fosse lasciato alla potestà degli statuti il compito di individuare modalità di elezione degli organi e di definizione dei loro poteri, ma anche di individuazione delle funzioni, nel rispetto dei principi costituzionali, si sarebbe concretamente dato modo alle comunità locali di organizzarsi nel modo realmente più adeguato ai propri bisogni, ma anche alle proprie capacità operative.

Invece, sarà ancora la legge statale ad ordinare il nucleo fondamentale (o uno dei principali aspetti) dell'ordinamento locale.

L'unico modo, allora, per lasciare spazio più aperto agli statuti di incidere sull'ordinamento interno sarà, per il legislatore statale, dettare la disciplina elettorale, degli organi di governo e delle funzioni metropolitane mediante principi e non attraverso disposizioni concrete.

Sta di fatto, però, che la riserva alla potestà legislativa dello Stato di queste competenze normative fa integralmente salve, nelle more di una necessaria rivisitazione del testo unico sull'ordinamento locale, tutte le norme contenute nel D.lgs 267/2000 relative alla disciplina elettorale, alla determinazione delle competenze degli organi di governo ed all'individuazione delle funzioni fondamentali. Ed è osservazione comune che proprio relativamente alle due prime materie (elezioni ed organi di governo) il D.lgs 267/2000 stabilisca non una disciplina di principi, ma al contrario una normazione dispositiva di estremo dettaglio.

Basti considerare che gli articoli da 55 a 76 dettano integralmente, senza lasciare spazio alcuno alla disciplina statutaria, le norme sulle elezioni, sulla procedura e sull'elettorato attivo e passivo.

Con riferimento agli organi di governo, la disciplina contenuta negli articoli da 36 a 54, nonché nell'articolo 107, del testo unico appare del tutto esaustiva e caratterizzata da un contenuto ampiamente dispositivo, che consente agli statuti solo di disporre ulteriori contenuti di carattere "facoltativo", in quanto ammesso in via facoltativa dalla legge, ma esclude, sostanzialmente, qualsiasi contenuto praeter legem, tanto specifico è il dettaglio del funzionamento e delle competenze degli organi, tale da esaurire completamente la regolamentazione della materia.

Né la riforma costituzionale apparirebbe idonea a consentire la modifica, per via statutaria, del principio di separazione delle funzioni politiche da quelle di gestione, dato che detto principio appare diretta applicazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, come ha riconosciuto anche la giurisprudenza più recente (Tar Sardegna, 22.6.2001, n. 727). Se, allora, gli statuti debbono rispettare i principi fissati dalla Costituzione, non potrebbero, allora, derogare alla separazione delle competenze degli organi di governo e gestionali, senza violare i principi fissati dagli articoli 97 e 98 della carta costituzionale.

Ancora, del tutto sottratto alla disciplina statutaria resterebbe lo status degli amministratori, integralmente regolato dagli articoli da 78 a 87 del testo unico, così come attuato dal DM 119/2000.

Come si nota, dunque, alcuni dei nuclei fondamentali dell'ordinamento locale restano sostanzialmente nelle mani del legislatore e, per altro, del legislatore statale.

C'è, però, da osservare che l'ordinamento locale non è, dall'8 novembre 2001 in poi, fissato solo dalla legge statale e dagli statuti locali. Indubbiamente, infatti, si pone, per le materie non previste dall'articolo 117, comma 2, lettera p), anche la potestà legislativa regionale, per altro di natura esclusiva.

Il che significa che l'ordinamento locale appare composto (o componibile):

1) dalla legge statale; appare qui opportuna l'abrogazione dell'articolo 128 della Costituzione che si riferiva alle leggi generali della Repubblica in una concezione in cui lo Stato e la Repubblica tendevano ad essere la stessa cosa, mentre l'articolo 114 novellato differenzia la Repubblica, come composizione dei vari enti territoriali che la formano, e lo Stato che è uno tra gli enti territoriali (quello, però, dotato di sovranità) componenti;

2) dalla legge regionale, per tutte le materie non riservate alla legge statale;

3) dagli statuti locali, che operano, dunque, con norme di completamento e di differenziazione rispetto alla disciplina di principio fissata dalla Costituzione e disposta dalle leggi, in modo che, comunque, l'ordinamento locale sia compatibile con la prima.

Si tratta di un ordinamento, dunque, estremamente composito ed al limite della frammentarietà, che probabilmente non gioverà alla chiarezza ed alla funzionalità del sistema.

Con riferimento alle funzioni, infine, anche in questo caso pare possano continuare ad applicarsi senza problemi gli articoli 13, 19 e 23 del testo unico, i quali, per altro, presentano il pregio di disporre per lo più principi e non disposizioni. Il che consente agli statuti una diversificazione della disciplina delle funzioni, in un ambito più ampio di quello disegnato dall'articolo 1, commi 3 e 4, del D.lgs 267/2000, in quanto relativamente alla materia delle funzioni gli statuti dall'8 novembre 2001 in poi incontrano solo i limiti dei principi fissati dalla Costituzione.

A questo punto, allora, bisogna chiedersi se le previsioni di cui all'articolo 1, commi 3 e 4, del testo unico possano ancora esplicare i propri effetti, all'indomani dell'entrata in vigore della riforma costituzionale. Anche in questo caso, la questione va affrontata distinguendo due distinti profili: le conseguenze sulla legge regionale e le conseguenze sugli statuti. Rispetto alla legge statale si è detto sopra che vi è, tutto sommato, armonia tra la nuova Costituzione ed il testo unico, anche se è evidente il difetto del testo unico medesimo di sottrarre spazio agli statuti a causa della disciplina dispositiva in esso contenuta.

Quali, dunque, le conseguenze della legge 3/2001, rispetto ai rapporti tra articoli 1, commi 3 e 4, e leggi regionali?

Le citate disposizioni vincolano, come è noto, il legislatore ad intervenire sull'ordinamento locale attraverso due precisi limiti:

1) in primo luogo, con la previsione (che tuttavia è solo un autolimite non certamente assurto a regola inviolabile) che il legislatore intervenga per lo più mediante una legislazione di principio, che enunci, renda cioè espliciti, quali principi siano inderogabili per l'autonomia statutaria;

2) in secondo luogo, con la previsione che eventuali deroghe e modifiche all'ordinamento locale possano essere disposte solo in via espressa.

Orbene, appare che dette limitazioni alla potestà normativa non possano immediatamente produrre effetti nei riguardi della legge regionale.

Infatti, si tratta di limitazioni che la legge statale ha posto a se stessa (sia pure nell'ambito del precedente regime costituzionale) e che non pare siano in grado di incidere sulle leggi regionali, a meno che non siano le stesse regioni ad introdurre, con proprie leggi, dette limitazioni. Infatti, l'ordinamento regionale, nell'ambito soprattutto della potestà legislativa esclusiva, appare autonomo (C. E. Gallo, in Problemi del federalismo cit., pag. 43) e non influenzabile dall'ordinamento dell'ente-Stato.

Come rilevato sopra, infatti, la disciplina dell'ordinamento locale, ad eccezione delle sia pure rilevanti materie indicate dall'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione è assegnata alla potestà legislativa residuale ed esclusiva delle regioni. Detta potestà, a mente del comma 1 del medesimo articolo 117, è soggetta esclusivamente al rispetto della Costituzione e dei vincoli dell'ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. La legge statale ordinaria non può che determinare i principi fondamentali posti a delimitare la potestà legislativa regionale concorrente, ma non quella esclusiva.

Dunque, difficilmente appare sostenibile che i commi 3 e 4 dell'articolo 1 del D.lgs. 267/2000 siano principi ai quali la legge regionale, nelle materie di esclusiva potestà legislativa, debba necessariamente adeguarsi.

Per converso, allora, una legge regionale sull'ordinamento degli enti locali potrebbe certamente dettare un rapporto tra statuti e legge regionale medesima del tutto diverso da quello dettato dalle norme citate.

Ovviamente, tuttavia, questa possibilità appare più astratta che concreta. Infatti, la valorizzazione delle autonomie locali ed il ruolo che lo statuto di comuni e province assume nella Costituzione, letto in combinato disposto con l'articolo 5 della carta fondamentale, dovrebbe comunque indurre a ritenere che le autonomie locali debbono essere tutelate soprattutto consentendo loro di determinare in via autonoma il proprio assetto. Pertanto, una legislazione regionale dell'ordinamento locale che ammettesse in linea generale una disciplina dispositiva di dettaglio, anziché una normativa di principi, e la possibilità di una continua modifica implicita dell'ordinamento, apparirebbe difficilmente conciliabile col nuovo assetto delle autonomie locali nella Costituzione.

Ne consegue, allora, che gli statuti locali, proprio per essere espressamente previsti dalla Costituzione come elemento fondamentale e fondante delle autonomie locali debbono poter contribuire in maniera ampia e decisiva a porre l'ordinamento locale, nel rispetto della Costituzione (nello stesso senso, F. Romano, La riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione in L'ordinamento degli enti locali nel testo unico, Milano, 2001, pagg. 157-186).

Da questo punto di vista, allora, appare, semmai, incongruente proprio il D.lgs 267/2000 (del resto sortito da un regime costituzionale molto diverso), in quanto contiene una regolamentazione dell'ordinamento locale così dettagliata da lasciare poco spazio all'ingegneria istituzionale statutaria, come ammette anche la dottrina da sempre propensa ad assegnare agli statuti un ruolo quasi pariordinato alla legge (L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini, 2000, pag. 145).

Il legislatore statale dovrebbe intervenire sull'ordinamento locale per lasciare più ampi spazi agli statuti di fondare l'ordinamento interno degli enti. Il limite del rispetto dei principi fissati dalla Costituzione impedirebbe scelte limitative del principio della rappresentanza democratica o la creazione di un assetto organizzativo non adeguato alle leggi (per altro, gli statuti dovrebbero comunque dettare una normazione dell'apparato organizzativo conforme, adeguata alle disposizioni normative, giacchè, l'articolo 97, comma 1, della Costituzione riserva alla legge l'organizzazione degli uffici pubblici). Lo stesso dovrebbe accadere anche per il legislatore regionale.

A questo punto, l'indagine deve spostarsi sull'individuazione delle materie nelle quali la legge regionale può legiferare in merito alle autonomie locali.

In sostanza, si tratta di tutte le materie già previste dal D.lgs 267/2000, con l'eccezione di tutte le disposizioni ricadenti nelle materie di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione.

Andando, allora, a guardare gli istituti fondamentali trattati dal D.lgs 267/2000, la legge regionale potrebbe disciplinare, nell'ambito della potestà esclusiva:

1) le disposizioni generali relative alle fonti dell'autonomia locale ed i loro rapporti con la legge e la Costituzione (artt. da 1 a 7);

2) il diritto d'accesso e la partecipazione (artt. da 8 a 12);

3) i soggetti e le funzioni da essi svolte, tenendo presente il rilievo che hanno comuni, province e città metropolitane, quali enti a rilevanza costituzionale (artt. da 13 a 26), con l'esclusione della regolamentazione delle funzioni svolte dai comuni per conto dello Stato (cittadinanza, stato civile ed anagrafe), materie assegnate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dall'articolo 117, comma 2, lettera i), della Costituzione;

4) le forme associative (artt. da 27 a 35);

5) l'organizzazione ed il personale, nel rispetto delle disposizioni del Codice civile, che non può essere soggetto a modifiche o deroghe da parte della legge regionale e dei principi in materia desumibili dalla Costituzione (artt. da 88 a 96);

6) i segretari comunali e provinciali (artt. da 97 a 106);

7) la dirigenza (artt. da 107 a 111);

8) i servizi pubblici locali, con la specificazione che relativamente alla produzione, trasporto e distribuzione a livello nazionale dell'energia, la potestà legislativa regionale è di tipo concorrente;

9) i controlli non tanto sugli atti, la cui disciplina appare preclusa alla legge regionale dall'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione, quanto sugli organi;

10) l'ordinamento finanziario e contabile.

Si nota che l'ambito di intervento della legislazione regionale sull'ordinamento locale esclusiva ma anche concorrente è realmente vastissimo, tanto da poter concretamente realizzare comunque un ordinamento locale fortemente differenziato da regione a regione e da comune a comune, se la legislazione sarà realmente di soli principi.

Tra le materie sopra elencate, due sembrano di notevole portata: l'ordinamento del personale e l'ordinamento finanziario e contabile.

Anche se qualche voce sta sollevando dubbi in merito, dalla lettura sistematica della legge 3/2001 non sembra si possa negare che l'ordinamento del personale locale e regionale potrà fortemente differenziarsi da quello dello Stato, soprattutto perché la legislazione regionale, in questo campo, è esclusiva.

L'articolo 117, comma 2, lettera g), infatti, assegna alla potestà legislativa esclusiva dello Stato solo l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa dello Stato medesimo e degli enti pubblici nazionali. Ma poiché lo Stato non coincide più con la Repubblica, essendone solo uno degli enti componenti, è da escludere che la legge statale possa intervenire sull'ordinamento e l'organizzazione amministrativa delle regioni e degli enti locali.

Poiché l'ordinamento del personale e dell'organizzazione degli enti territoriali non è compresa né nell'elencazione della potestà legislativa esclusiva statale, né nell'elencazione tassativa delle materie in cui la legislazione regionale è concorrente, occorre concludere che le regioni possano disciplinare l'ordinamento del personale e l'organizzazione amministrativa con proprie leggi, nell'esercizio della potestà legislativa esclusiva.

Ciò comporta la perdita del primato che il D.lgs 165/2001 ha fin qui esercitato sull'organizzazione di tutto il personale alle dipendenze da pubbliche amministrazioni, non appena ciascuna regione avrà approvato una propria legge di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti territoriali.

E' difficile, qui, immaginare quali possano essere gli scenari potenzialmente presentabili. Si può, ad esempio, constatare che il principio della contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti presso amministrazioni pubbliche non sia di matrice costituzionale, ma posto dalla legge ordinaria. Pertanto, detto principio potrebbe, in linea teorica, essere abbandonato e modificato dalla legge regionale, che non incontrerebbe alcun ostacolo nelle previsioni del D.lgs 165/2001.

Infatti, è da considerare caducata la previsione contenuta nell'articolo 1, comma 3, del citato decreto legislativo, che considera espressamente le sue disposizioni quali "principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione" quale limite alla potestà legislativa delle regioni a statuto ordinario ed, altresì, quali norme fondamentali di riforma economico sociale, come limite per la potestà legislativa delle regioni a statuto speciale.

L'articolo 1, comma 3, del D.lgs 165/2001 appare assolutamente incompatibile col nuovo assetto costituzionale che subordina la legge regionale, ed in particolare la legge emanata nell'esercizio della potestà esclusiva, esclusivamente alla Costituzione. Dunque, va considerato come tamquam non esset: il che significa che le regioni, a partire dall'8 novembre 2001, potranno dettare le proprie norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

Ciò vuol dire, allora, che teoricamente ciascuna regione potrebbe modificare l'articolo 2, commi 2 e 3, del D.lgs 165/2001, la norma, ovvero, che pone il principio della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, sia nel senso di estendere ulteriormente l'applicabilità delle norme di diritto comune, sia nel senso opposto, praticamente senza incontrare alcun vincolo.

Si porrà, semmai, il problema (che qui ci si limita ad accennare nei suoi contorni) del rapporto tra la legge regionale ed i contratti di lavoro.

In questa fase, il rapporto di lavoro alle dipendenze da amministrazioni pubbliche è regolamentato da una serie di fonti distinte: il D.lgs 165/2001, le norme del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa non derogate dalla disciplina pubblicistica, le leggi regionali, le specifiche disposizioni del D.lgs 267/2000, nonché i contratti collettivi nazionali di lavoro. I quali, a mente dell'articolo 2, comma 2, possono anche disapplicare temporaneamente eventuali disposizioni di legge nuove e diverse rispetto al nucleo normativo indicato sopra.

Pertanto, esiste un rapporto particolare tra legge e contratto collettivo, nel senso che le nuove leggi di completamento della disciplina del rapporto di lavoro possono, in ogni momento, subire disapplicazioni dalla fonte contrattuale.

Ma tutto questo vale, però, solo per la legge statale. Il sistema sin qui sintetizzato potrebbe operare nell'ambito degli ordinamenti regionali solo a patto che le regioni non esercitino la propria potestà legislativa esclusiva (il che pare poco credibile, anche se è da immaginare che un intervento normativo delle regioni vedrebbe la luce solo tra qualche tempo), oppure che decidano di approvare una legge che rispetti integralmente il meccanismo fissato dal D.lgs 165/2001.

La legge regionale, però, potrebbe, al contrario, porre un contenuto molto diverso: il che potrebbe anche creare seri problemi di coordinamento con la disciplina contrattuale collettiva di livello nazionale vigente al momento dell'emanazione della legge regionale.

Per altro, si riscontra che nella Costituzione manca un momento di coordinamento tra regioni e tra Stato e regioni relativamente alla disciplina dell'organizzazione amministrativa (così, come del resto, per qualsiasi altra materia). Sembra, insomma, altamente probabile che proprio la riforma costituzionale possa costituire la spinta ulteriore verso il superamento della contrattazione collettiva di livello nazionale da parte della contrattazione collettiva regionale, obiettivo non celato dell'attuale coalizione di governo.

Ciò potrebbe avere dei riflessi notevoli sull'ordinamento locale. In particolare sulla figura del segretario comunale, il cui ordinamento appare decisamente per intero nella disponibilità del legislatore regionale. Simmetricamente, l'attuale assetto del rapporto di lavoro del segretario comunale, sebbene possa continuare a vigere nelle more dell'entrata in vigore di una legge regionale di riforma, appare sin da subito inadeguato alla "regionalizzazione del rapporto di lavoro" dei dipendenti degli enti locali. In particolare, la presenza di un'Agenzia nazionale per la gestione dei segretari e di una Scuola superiore di formazione, anch'essa a livello nazionale, cozza con la disciplina di un'organizzazione del personale a livello regionale.

Così come pare sin da subito inadeguata una contrattazione collettiva improntata sull'esistenza di comitati di settore espressione degli organismi associativi anche degli enti locali (Anci, Upi, Uncem…) che abbia il compito fornire gli indirizzi all'Aran per la contrattazione collettiva. La nuova struttura che potenzialmente può assumere l'assetto del rapporto di lavoro all'interno delle regioni, infatti, potrebbe oggettivamente rendere priva di senso la stessa presenza nei comitati di settore di rappresentanti, ad esempio, dell'Anci nazionale, dal momento che ciascuna sezione regionale delle forme associative degli enti locali potrebbe avere come base di confronto una sua specifica legge regionale e, dunque, una peculiare realtà normativa, finanziaria e territoriale da tenere in conto, diversa da quella delle altre 19 regioni.

Particolarmente complesso, inoltre, appare il sistema finanziario e dei tributi, così come emerge dal nuovo disegno costituzionale.

Infatti, in primo luogo appare difficile stabilire quali potestà legislative operino e con quali modalità, in concreto.

L'articolo 117 non menziona l'ordinamento finanziario degli enti locali (e delle regioni) tra le materie riservate alla potestà normativa esclusiva statale.

Il comma 3, tuttavia, menziona tra le materie della legislazione concorrente l'armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

L'articolo 119, comma 2, dispone, inoltre, che comuni, province, città metropolitane e regioni hanno risorse proprie e stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

Sembra, dunque, che la legge regionale non possa disporre nell'ambito della potestà legislativa esclusiva dell'ordinamento finanziario degli enti locali.

Il combinato disposto tra l'articolo 117, comma 3, e l'articolo 119, comma 2, porta a ritenere che sia riservata ad una legge dello Stato la fissazione dei fondamentali principi di coordinamento della finanza, allo scopo di fare in modo che l'ordinamento tributario in particolare rimanga saldo ed omogeneo. Detta legge dello Stato sembra appartenere al genere delle leggi statali, previste appunto dall'articolo 117, comma 3, che nelle materie di legislazione concorrente hanno il compito di determinare i principi fondamentali, ai quali le regioni debbono attenersi. Anche se, per la verità, la forza limitante della potestà normativa regionale dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario di cui parla l'articolo 119, comma 2, della Costituzione appare più ampia. Mentre i principi generali relativi alla legislazione regionale concorrente possono essere, infatti, essenziali e generali, certamente la disposizione di cui all'articolo 119, comma 2, consente allo Stato di incidere in maniera molto rilevante sull'autonomia finanziaria e tributaria degli altri enti territoriali.

Non a caso i primi commentatori (A. Catelani, Problemi del federalismo cit., pagg. 238-250) hanno sottolineato la sostanziale incongruenza tra il primo ed il secondo comma dell'articolo 119. Da un lato, infatti, la Costituzione attribuisce agli enti territoriali una forte autonomia finanziaria e di spesa, riconnettendo strettamente, per altro, il volume delle risorse reperite sul territorio allo svolgimento dei servizi: il comma 4 dell'articolo 119, difatti, stabilisce esplicitamente che gli enti territoriali debbono finanziare integralmente lo svolgimento delle funzioni loro attribuite soprattutto mediante le entrate proprie.

Dall'altro lato, però, il principio della titolarità di tributi propri e, dunque, la potenziale capacità di autofinanziare completamente lo svolgimento delle attività e dei servizi sono pesantemente limitati appunto dalla limitazione all'autonomia tributaria scaturente dalla necessità, per gli enti territoriali, di rispettare non solo la Costituzione, ma anche i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.

In altre parole, la lettera del comma 1 dell'articolo 119 dovrebbe determinare una finanza assolutamente decentrata, nella quale ciascun ente territoriale dovrebbe reperire dalla propria popolazione amministrata le entrate adeguate all'esercizio delle funzioni e servizi erogati. Il che dovrebbe, conseguenzialmente, comportare una riduzione del gettito fiscale statale ed un incremento differenziato delle entrate fiscali locali (F. Romano, op. cit.). Lo Stato, insomma, dovrebbe rinunciare alla finanza accentrata tipica del precedente regime e consentire agli enti territoriali di gestire da sé i tributi propri, incentivando indirettamente le amministrazioni ad applicare concretamente i principi di economicità dell'azione amministrativa: infatti, solo gestioni efficienti ed economiche consentiranno l'erogazione di prestazioni di qualità che non pesino eccessivamente sulle tasche dei contribuenti, i quali avranno modo di valutare con maggiore cognizione di causa la capacità di governo degli organi politici.

Tuttavia, la presenza di leggi statali di coordinamento della finanza pubblica rende oggettivamente concreta l'eventualità che l'autonomia finanziaria degli enti territoriali resti più un'enunciazione di diritto e non si concretizzi in una realtà concreta.

Per altro, tra gli interpreti si riscontra una discordanza sulla stessa rilevanza dell'autonomia finanziaria e tributaria, in particolare di comuni e province. Infatti, da un lato si pongono coloro i quali ritengono che l'autonomia finanziaria di comuni e province sia piena ed attuabile immediatamente, senza l'interposizione delle leggi statali, le quali dovrebbero intervenire solo a posteriori nell'opera di coordinamento (A. Cerri, Problemi del federalismo cit.). Altri, su questo versante, ritengono che comuni e province, in base al comma 1 dell'articolo 119, possono effettivamente stabilire tributi propri, con propri atti generali (A. Catelani, e F. Romano, cit.).

Altri interpreti (L. Elia, intervento nel corso dell'indagine conoscitiva sugli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della parte II della Costituzione, audizione del 23 ottobre 2001; V. Caianello, intervento nel corso della medesima indagine, audizione pomeridiana del 24 ottobre 201) mettono in evidenza che l'articolo 119, comma 1, deve essere comunque letto in combinato disposto con l'articolo 23 della Costituzione, a mente del quale "nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge". La permanenza, allora, della riserva di legge in materia tributaria in realtà impedisce ai comuni di istituire tributi propri. Possono farlo le regioni, nell'esercizio della propria potestà legislativa, per istituire tributi regionali e locali. Ma comuni e province non hanno potestà legislativa: a loro, dunque, rimane comunque preclusa la possibilità di istituire tributi mediante fonti normative secondarie, quali i regolamenti. Potrebbero, come già previsto dalla normativa sull'Ici, intervenire con regolamenti attuativi ed integrativi delle disposizioni normative, le quali, dunque, avrebbero solo il compito di dettare una disciplina di tipo suppletiva, applicabile solo in quanto gli enti non esercitino la propria competenza regolamentare.

Questa seconda tesi appare preferibile, in quanto l'articolo 119, comma 1, novellato della Costituzione non basta, da solo, a fondare la potestà di comuni e province di istituire tributi propri mediante regolamenti. Occorre una legge. A questo punto, provvederanno le regioni ad approvare le leggi istitutive dei tributi locali, dettando i criteri generali di applicazione degli stessi, lasciando liberi gli enti di stabilire, col regolamento, quali siano le aliquote nell'ambito di minimi e massimi predeterminati e a quali condizioni e per quali finalità i tributi si applichino.

Le regioni, però, dovranno attenersi ai principi di coordinamento, che presumibilmente verranno dettati soprattutto con le leggi finanziarie. E detti principi dovrebbero essere enunciati non solo in via successiva e correttiva, ma, soprattutto, in via preventiva. La finanza pubblica deve consentire alla Repubblica il rispetto degli impegni internazionali assunti, soprattutto dei vincoli imposti dall'Unione Europea. Occorre, dunque, che il coordinamento sia attuato in modo tale da evitare pericolosi scantonamenti.

Resta da chiedersi se, come ipotizzato dalla dottrina (F. Romano, op. cit.), in realtà il rapporto tra statuti e leggi non sarà più da definire in termini di gerarchia, bensì di competenza. Si potrebbe, infatti, ammettere che la sottoposizione degli statuti ai soli principi fissati dalla Costituzione consentirebbe ai primi di dettare norme capaci di prevalere sulle leggi ordinarie di rango primario, con la sola eccezione delle leggi di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione.

Insomma, l'articolo 114, comma 2, della Costituzione potrebbe aver reso direttamente gli statuti una fonte speciale dell'ordinamento locale, idonea a disciplinare autonomamente tutti gli aspetti, né subordinata, né sovraordinata alla legge, ma unica fonte legittimata a dettare la disciplina ordinamentale locale nelle materie che la stessa Costituzione non abbia riservato al legislatore.

Questa conclusione, che porterebbe alla definitiva esaltazione dell'autonomia di comuni e province, tuttavia non appare condivisibile.

Perché due fonti possano stare tra loro in un rapporto di competenza, occorre che la fonte che a sua volta le disciplina (che in questo caso è la Costituzione) determini con esattezza le materie che ciascuna di essa è legittimata a disciplinare. Accorta dottrina (G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I – IL sistema delle fonti del diritto, Torino, 1996, pag. 67) sottolinea che perché vi sia effettivamente un rapporto di competenza tra fonti, occorre che le competenze dei due soggetti abilitati ad emanare le diverse fonti siano rispettivamente riservate. La normativa sulla competenza, in sostanza, deve delimitare i confini della competenza di ciascuno dei soggetti titolari della potestà ad emanare le fonti del diritto.

Ma se una delle due fonti è in grado di dettare una disciplina nell'ambito dell'operatività dell'altra fonte, non si è in presenza del rapporto di competenza. Si possono dare, allora, due casi: in primo luogo, quello della gerarchia, consistente nella preferenza per l'applicabilità della regola dettata dalla fonte che ha il potere di espandere la propria forza normativa; oppure, se anche l'altra fonte potesse sovrapporsi all'altra, se, insomma, ciascuna fonte fosse in grado di espandere la propria disciplina oltre i confini dell'altra, allora si tratterebbe di fonti equivalenti, sicchè i reciproci rapporti sarebbero regolamentati dal principio di abrogazione.

Ora, a ben guardare, la novella ala Costituzione non ha delimitato un ambito di intervento normativo esclusivo degli statuti di comuni, province e città metropolitane. Al contrario, ha impedito agli statuti di disciplinare le materie di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p) e, contestualmente, ha rimesso alla potestà legislativa regionale la possibilità di regolamentare tutte le restanti materie dell'ordinamento locale.

Non sembra, dunque, possibile sostenere che la legge costituzionale 3/2001 abbia posto statuti e leggi in una relazione di competenza.

Spetterà al legislatore ordinario (statale e regionale) autolimitare la portata del proprio spazio normativo. Ma tali limiti potranno sempre ed in ogni momento essere violati, in quanto la legge ordinaria conserva pienamente la possibilità di disciplinare gli aspetti dell'ordinamento locale.

Il che sta a significare che anche i regolamenti degli enti locali continuano ad essere soggetti alla legge.

 

 

V. in argomento in questa rivista:

LEGGE COSTITUZIONALE 18 ottobre 2001, n. 3 (in G.U. 24 ottobre 2001 n. 248) - Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.

 L. OLIVERI, L’abrogazione dei controlli sugli atti degli enti locali

G. VIRGA, I nuovi principi costituzionali non possono abrogare per implicito le disposizioni delle leggi previgenti.


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