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Articoli e note

n. 5/2007 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Dal blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, al blocco delle assunzioni a tempo determinato, tra stabilizzazioni, sanatorie e schizofrenie legislative

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La direttiva del Ministero della Funzione Pubblica 30 aprile 2007, n. 7, in merito al processo di stabilizzazione dei dipendenti “precari” dello Stato, conferma la situazione di schizofrenia del legislatore. Che passa, disinvoltamente, da un momento all’altro a regimi giuridici antitetici e, nella sostanza, talvolta incompatibili tra loro.

In particolare, la direttiva sembra marcare la linea di confine tra un regime imperniato sul blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, causa indiretta dell’eccessivo ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato e alle co.co.co., ad un regime opposto. Nel quale si intravede una sorta di “blocco”, o comunque di profondo disfavore, nei confronti dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Confermato, del resto, dal “Memorandum” sul lavoro pubblico.

E’ evidente e lodevole l’intento di frenare un ricorso eccessivamente disinvolto al lavoro “precario”, specie nelle amministrazioni pubbliche. Infatti, le forme di lavoro flessibili alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche costituiscono un “cattivo precariato”, dato il divieto immanente (a meno che non intervengano norme per la stabilizzazione, come accaduto con la legge 296/2006) alla trasformazione in rapporti a tempo indeterminato, come invece avviene nell’ambito privatistico.

Probabilmente, però, le misure di salvaguardia che stanno adottando legislatore e governo appaiono eccessive. Non tali da ricondurre il fenomeno del lavoro flessibile nel suo giusto alveo, delimitato dal d.lgs 368/2001, ma, invece, da portare ad una deviazione del flusso normativo, mediante una diga che tracci una secca distinzione del percorso normativo e porti il lavoro flessibile pubblico verso una direzione tutta diversa. Con un allontanamento della disciplina pubblicistica da quella privatistica, per altro in aperto ed evidente contrasto con l’intera filosofia della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, partita col d.lgs 421/1992, passata per il d.lgs 29/1993 e il d.lgs 80/1998 e confluita nel d.lgs 165/2001.

Sembra, in sostanza, di essere di fronte ad un riflusso, un potente ripensamento delle riforme degli ultimi 3 lustri. Forse, l’ammissione dell’impossibilità dell’ossimoro “privatizzare il pubblico”.

Ma, forse, si è anche in presenza di un “laboratorio”. Introdurre vincoli al lavoro flessibile appare certamente più semplice nell’ambito del lavoro pubblico. Immaginare di rivedere la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato, reintroducendo le restrizioni della legge 230/1962, come, di fatto, indica la Direttiva di Palazzo Vidoni, apparirebbe impossibile.

Si è parlato, prima, di schizofrenia normativa. Occorre, allora, individuarne le tracce, per non lasciare l’affermazione priva di fondamento.

Ebbene, nel punto 7 della Direttiva si legge: “Le disposizioni contenute nella legge finanziaria per l'anno 2007 sono finalizzate a sanare situazioni non in linea con le normative sopra richiamate, e con la normativa previgente, in quanto molte amministrazioni hanno stipulato diversi contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, peraltro spesso con i medesimi lavoratori, per far fronte ad esigenze durature che potevano essere soddisfatte, ad esempio, con processi di riqualificazione o riconversione”.

In primo luogo, si rileva che con sincerità la direttiva conferma che la “stabilizzazione” è una sanatoria. In quanto tale, dunque, si tratta di una disposizione straordinaria ed eccezionale, finalizzata non a sanzionare comportamenti illegittimi, ma a sanarne gli effetti. Pertanto, con la stabilizzazione non vi sarà sanzione per gli enti che abbiano inteso fare fronte alle richiamate esigenze lavorative durature. Vi sarà, come contraltare, l’assunzione con contratti a tempo indeterminato, del personale assunto con contratti a termine a fronte dell’elusione dell’obbligo di utilizzare contratti flessibili sono in presenza di esigenze limitate nel tempo.

Si può rilevare qui una prima contraddizione. Nel lavoro privato, da sempre la giurisprudenza considera illegittima l’apposizione del termine al rapporto di lavoro subordinato, quando con contratti a tempo determinato si intenda fare fronte ad esigenze lavorative stabili [1].

Tuttavia, nel lavoro privato è acclarato il carattere sanzionatorio nei confronti del datore di lavoro della conversione giudiziale del rapporto di lavoro. A fronte, cioè, di un’elusione dei vincoli normativi, che obbligano pur sempre a considerare come “ordinario” lo schema del rapporto di lavoro a tempo indeterminato [2], il legislatore ha approntato una serie di misure che sanzionano il datore privato, con la conversione retrodata dal rapporto a termine in lavoro a tempo indeterminato. Il che, ad esempio, potrebbe comportare conseguenze all’interno dell’organizzazione imprenditoriale, in termini di rivalsa nei confronti di chi, in violazione delle leggi, abbia determinato il danno operativo eventualmente scaturente dalla non corretta configurazione dei rapporti di lavoro.

Nel caso della “sanatoria” operata dalla legge 296/2006 nell’ambito pubblico, non si è in presenza di alcun provvedimento sanzionatorio. Il comportamento illecito delle amministrazioni, dunque, non trova alcun simmetrico rimedio.

Eppure, la direttiva prosegue affermando che “Le scelte organizzative compiute in violazione delle disposizioni dell'articolo 36 citato non corrispondono ai principi di buon andamento cui deve uniformarsi l'azione amministrativa e comportano un danno all'amministrazione non solo in termini di costi …

Ma, altri punti di contraddizione non mancano. Si è visto prima che la Direttiva, riprendendo un concetto espresso dalla circolare 4/2004 della Funzione Pubblica, afferma che alle esigenze stabili, non correttamente assolte mediante contratti flessibili, si poteva fare fronte con processi di riqualificazione o di conversione. Non si deve, però, dimenticare che il processo di espansione del ricorso ai contratti a termine è stato causato e favorito dal blocco delle assunzioni a tempo indeterminato. Nel quale rientrava anche il blocco proprio delle riqualificazioni o progressioni verticali. Stigmatizzare, allora, il mancato utilizzo di tali strumenti per rimediare alle carenze di organico proprio nell’ambito di una manovra complessiva che vuole sanare il fenomeno del precariato, cagionato dai blocchi delle assunzioni, appare una contraddizione in termini. Senza considerare, poi, che le progressioni verticali coprono posti vacanti della dotazione organica, ma non incrementano il numero dei posti, sicchè non potevano certo sopperire in pieno ai vuoti di organico creati dai limiti percentuali al turn-over posto dalle leggi finanziarie degli anni 2002-2006.

La Direttiva della Funzione Pubblica prosegue affermando che le assunzioni con contratti a termine al di fuori delle previsioni dell’articolo 36 del d.lgs 265/2001 hanno creato “un danno all'amministrazione non solo in termini di costi ma anche di immagine, in quanto generano aspettative nei lavoratori assunti con contratti a tempo determinato che difficilmente possono avere riscontro, considerata la necessità di contenere i costi della pubblica amministrazione affermata costantemente dalle leggi finanziarie”.

Questa considerazione appare, tuttavia, realmente in evidente antinomia con la disciplina normativa sul rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e la strategia seguita dal Governo nelle vertenze C-53/04 e C-180/04 avanti alla Corte di Giustizia Europea.

Non si vede, infatti, dove possa risiedere il danno di immagine (evidentemente enfatizzato dal mondo sindacale), se il sistema del lavoro pubblico, come ha chiarito a suo tempo la Corte costituzionale con la sentenza 89/2003, esclude in via ordinaria alcuna possibilità che i rapporti di lavoro a termine possano convertirsi in rapporti a tempo indeterminato.

In realtà, le amministrazioni pubbliche quando assumono apponendo il termine al rapporto di lavoro, non ingenerano alcuna aspettativa nei confronti dei dipendenti. Al contrario di quanto avviene nel rapporto privato, nel quale il contratto a termine e la somministrazione di lavoro sono reali porte di ingresso verso un posto di lavoro stabile.

In quanto, poi, alla corretta sottolineatura della necessità di contenere i costi, contenuti nella Direttiva, non si può sottacere il fatto che la possibilità di stabilizzare i dipendenti “flessibili” implica per sua stessa natura un incremento dei costi della pubblica amministrazione; ciò, per altro, in particolare negli enti locali, presso i quali è possibile anche la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili, cosa che determina senz’altro un incremento immediato ed oggettivo delle spese.

Per evitare danni di immagine e la delusione di aspettative, sarebbe bastato sostenere, nei procedimenti di fronte alla Cge le perplessità del giudice del lavoro di Genova, che aveva manifestato un contrasto tra l’articolo 36 del d.lgs 165/2001 e le direttive europee sul lavoro a termine, recepite in Italia col d.lgs 165/2001.

Invece, correttamente, si è fatto in modo che la Cge rilevasse la sostanziale conformità all’ordinamento europeo della disciplina del lavoro a tempo determinato alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

Tanto che la sentenza nel procedimento C-180/04 ai punti 38 e 40 afferma: “Ne consegue che, quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono «prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti da [detta] direttiva». […] Al riguardo, si deve rilevare che una normativa nazionale, come quella controversa nella causa principale, che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato sembra, prima facie, soddisfare gli obblighi ricordati ai punti 36-38 della presente sentenza”.

L’esistenza, cioè, della possibilità per il lavoratore illegittimamente assunto a tempo determinato (oltre che illegittimamente soggetto ad un concatenamento di contratti a tempo determinato) di ottenere il risarcimento del danno, previsto dall’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001, ha costituito per la Cge la ragione della non difformità della disciplina in esame, rispetto alle direttive europee.

Ciò contribuisce a rendere poco comprensibile il riferimento al “danno di immagine” e alla delusione delle “aspettative”.

La misura della “sanatoria”, del resto, non incide sulla disciplina del lavoro a termine nella pubblica amministrazione. Infatti, resta l’impossibilità di applicare la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, anche per via giudiziale.

Sicchè, sfugge un’altra affermazione della Direttiva, la quale prevede che “Gli organi di controllo interno vigilano sulla corretta applicazione della normativa richiamata nel presente paragrafo e segnalano alle sezioni competenti della Corte dei Conti la violazione delle norme in materia di ricorso ai contratti di lavoro flessibile”.

Intanto, la disposizione appare criticabile, perché si attribuiscono poteri di ingerenza nel merito amministrativo agli organi di controllo, quando, nella materia dell’organizzazione delle risorse umane, i poteri gestionali sono attribuiti, invece, in via esclusiva alla dirigenza, per effetto dell’articolo 5 del d.lgs 165/2001. La direttiva, in questo senso, appare porsi in contrasto con la legge.

In ogni caso, non si capisce quali sarebbero le “sezioni competenti” della Corte dei conti alle quali segnalare le violazioni delle norme in materia di ricorso ai contratti di lavoro flessibile. Quelle di controllo, o quelle giurisdizionali?

Ma, in ogni caso, occorre chiedersi perché si sta procedendo all’immane sanatoria, e contemporaneamente di chiede l’intervento della Corte dei conti solo sulle successive violazioni delle norme in materia di ricorso ai contratti di lavoro flessibile. Forse perché, in presenza dei blocchi delle assunzioni, l’utilizzo disinvolto delle assunzioni a termine era inevitabile. E, dunque, i dirigenti pubblici che le hanno attivate, sia pure in violazione delle disposizioni di cui all’articolo 36, commi 1 e 1-bis (operativo, quest’ultimo, solo però dal 2006), non hanno, in realtà, tenuto un comportamento illegittimo. Il che, però, non giustificherebbe la sanatoria.

Le contraddizioni sono realmente tante. La Direttiva ricorda che l’articolo 36, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001, novellato dal d.l. 4/2006, convertito in legge 80/2006 “dispone che i datori di lavoro pubblici possono ricorrere, in particolare, ai contratti a tempo determinato solo per esigenze «temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti assegnazione di personale anche temporanea»”.

Nella circolare 3/2006, il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva rilevato: “Come chiarito dalla circolare n. 42 del 1° agosto 2002 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali le disposizioni sulle causali si caratterizzano per essere una “norma aperta, individuativa per grandi linee dei casi in cui la ricorrenza di esigenze oggettive dell’organizzazione di impresa determina l’ammissibilità del ricorso a rapporti a tempo.” Inoltre nella medesima circolare si afferma che “alla stregua della nuova disciplina legale la temporaneità della prestazione è, semplicemente, la dimensione in cui deve essere misurata la ragionevolezza delle esigenze (…) Il contratto a termine dovrà, pertanto, essere considerato lecito in tutte le circostanze, individuate dal datore di lavoro sulla base di criteri di normalità tecnico-organizzativa, ovvero per ipotesi sostitutive, nelle quali non si può esigere necessariamente una assunzione a tempo indeterminato. Pertanto le causali individuate dal decreto legislativo n. 368 del 2001 sono perfettamente compatibili con le citate esigenze temporanee ed eccezionali previste dal decreto legge n. 4 del 2006 con riferimento alle pubbliche amministrazioni. Queste ultime, quindi, potranno ricorrere al contratto a tempo determinato per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di natura temporanea. […] In conclusione, anche con l’adozione del decreto legge n. 4 del 2006, il legislatore conferma la propria intenzione a prevedere l’utilizzo dei rapporti di lavoro flessibili nell’ottica del risparmio della spesa, al fine di non incrementare il numero dei dipendenti in servizio a tempo indeterminato in attuazione degli obiettivi di snellimento delle strutture, e di operare nel rispetto della finalità di cui all’art. 1, comma 1, lett. c), del d.lgs. 165/2001 diretta a realizzare innanzi tutto la migliore utilizzazione delle risorse umane già presenti nelle pubbliche amministrazioni”.

Sembra evidente che la Direttiva 7/2007 costituisca, per il Dipartimento, un’occasione di ripensamento. Lungi, infatti, dal ritenere pienamente applicabile l’articolo 1 del d.lgs 368/2001 al lavoro pubblico, come, pure, imporrebbe l’articolo 2, comma 2, del d.lgs 165/2001, esplicita un’interpretazione solo letterale e restrittiva del comma 1-bis dell’articolo 36. Ciò, in linea col Memorandum sul lavoro pubblico, nel quale si parla esplicitamente di reintrodurre un elenco tassativo di casi al ricorrere dei quali sia possibile apporre il termine ai contratti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione. Un ritorno al regime della legge 230/1962, che, però, configgerebbe con le direttive europee. Altra schizofrenia in fieri.

Per superare tali incongruenze, in dottrina [3] si propone di introdurre sistemi che incentivino le assunzioni a tempo determinato, attraverso il riconoscimento di titoli di servizio, nei concorsi.

Per la verità, nella contrattazione collettiva simili strumenti sono già previsti. L’articolo 7, comma 14, del Ccnl 14.9.2000 del Comparto regioni-autonomie locali, ad esempio, stabilisce che “i periodi di assunzione con contratto di lavoro a termine presso un ente, per un periodo di almeno 12 mesi, anche non continuativi, possono essere adeguatamente valutati nell'ambito delle selezioni pubbliche disposte dallo stesso ente per la copertura di posti vacanti di profilo e categoria identici a quelli per i quali è stato sottoscritto il contratto a termine”.

Strumenti, dunque, per valorizzare l’esperienza acquisita con rapporti “precari”, senza dare corso a “sanatorie” sempre discutibili, ve ne sarebbero già.

Probabilmente, però, il vero rimedio a possibilità di abusi nel ricorso a forme flessibili (nelle quali far rientrare anche le collaborazioni coordinate e continuative e le somministrazioni) non sta nella creazione di una disciplina speciale di tipo amministrativo, posta di fatto ad impedire la costituzione di tali rapporti. Cosa, oggettivamente, spiazzante nei confronti di amministrazioni pubbliche sempre più portate alla flessibilizzazione dell’organizzazione, al famoso “amministrare per progetti” che negli anni passati è divenuto uno slogan ossessivo.

Al contrario, occorrerebbe fare un passo ulteriore verso la confluenza col rapporto di lavoro privato ed estendere le tutele ai rapporti flessibili pubblici le tutele apprestate dal d.lgs 368/2001 e dal d.lgs 276/2003. In questo caso, realmente, allora, i dirigenti-datori di lavoro andrebbero incontro a concrete responsabilità erariali, laddove violassero quelle norme e determinassero l’instaurazione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato come conseguenza di una mala gestio.

Certo, occorrerebbe intervenire sull’articolo 97 della Costituzione. Certo, il pericolo che così facendo le ingerenze politiche potrebbero fortemente condizionare l’operato amministrativo. Ma, almeno, il quadro diverrebbe meno schizofrenico e i diritti dei lavoratori omogenei.

L’impressione è che, invece, apporre vincoli forti alle assunzioni a termine potrebbe determinare la conseguenza dell’adattamento para-elusivo, proprio delle amministrazioni pubbliche, analogo a quello posto in essere in presenza dei blocchi delle assunzioni. E’ piuttosto facile intravedere all’orizzonte un accrescersi dei rapporti mediante somministrazioni o appalti di servizio simulati, che in realtà si trasformano in vere e proprie somministrazioni o intermediazioni di manodopera simulate. Alle quali magari porre, tra qualche anno, rimedio con altre sanatorie.


 

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[1] Cassazione civile, sez. lav., 3 gennaio 1984, n. 12: un'impresa cantieristica che debba fronteggiare aumenti di produzione connessi a richieste straordinarie di riparazioni navali, può integrare la sua capacità produttiva con altre forze di lavoro, in aggiunta a quelle stabili, per periodi ricorrenti più o meno lunghi, ricorrendo allo strumento del contratto di lavoro a tempo determinato, ove si accerti che l'attività di riparazione di navi è soggetta a fluttuazioni imprevedibili, che non consentono la preventiva organizzazione delle forze di lavoro da impiegarvi; Cassazione civile, sez. lav., 24 giugno 1983, n. 4325: Nel caso di successione di una pluralità di rapporti di lavoro a termine stipulati fra gli stessi soggetti, la mancanza dell'intento del datore di lavoro di eludere le disposizioni della legge n. 230 del 1962 non può essere affermata sulla base della mera constatazione dell'effettiva volontà del datore di lavoro di porre realmente termine, ad ogni scadenza, ai vari rapporti instaurati a tempo determinato, dovendo la sussistenza dell'intento elusivo in questione accertarsi con riferimento alle reali intenzioni del datore di lavoro, anche se in accordo con il lavoratore, al tempo dell'assunzione a termine, di provvedere ad una propria permanente e normale esigenza di lavoro attraverso rapporti non stabili; Tribunale Milano, 27 aprile 2002: È illegittima l'apposizione del termine da parte di un'impresa di pulizia al contratto stipulato con il lavoratore, la cui opera o servizio non rivestano il carattere della specialità, in relazione alla durata prevista dell'appalto cui lo stesso è stato adibito, in quanto ciò non è giustificato dalla l. 18 aprile 1962 n. 230;

[2] Tribunale Firenze: Considerato che con la nuova disciplina del d.lg. 6 settembre 2001 n. 368 non è venuto meno il principio generale per cui il contratto a termine rimane possibilità ammessa in via di eccezione rispetto alla regola del rapporto a tempo indeterminato, occorre che in concreto siano dal datore di lavoro esplicitate (e provate in giudizio) le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo astrattamente indicate dalla disposizione dell'art. 1 d.lg. 6 settembre 2001 n. 368; 5 febbraio 2004: Tribunale Milano, 17 ottobre 2003: Con la nuova disciplina dettata dal d.lg. n. 368/2001 per il contratto a tempo determinato, il legislatore ha eliminato la tassatività delle ipotesi legittimanti l'apposizione del termine, senza tuttavia liberalizzare il ricorso al contratto a tempo determinato che costituisce pur sempre una deroga generale del contratto a tempo indeterminato. In sede giudiziale, pertanto, dovrà essere accertata l'effettiva ricollegabilità della singola assunzione a termine alla causa espressa e dichiarata in contratto con conseguente prova - a carico del datore di lavoro - della sussistenza di specifiche esigenze per ogni singola posizione lavorativa, escludendosi la possibilità di generiche indicazioni di sussistenza di indifferenziate esigenze generali.


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