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n. 2/2007 - ©
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LUIGI OLIVERI
La previsione dell’anzianità di servizio
triennale,
ai fini della stabilizzazione dei precari della P.A.
E’ convinzione diffusa [1] che il requisito dei tre anni di servizi, ai fini della stabilizzazione dei “precari” nella pubblica amministrazione, trovi il suo fondamento nell’articolo 4, comma 1, del d.lgs 368/2001.
Tale disposizione, infatti, secondo le analisi interpretative, prevede una durata generale di tre anni, per i contratti a tempo determinato. Sicchè, la scelta del legislatore di considerare quale presupposto per la stabilizzazione un periodo di servizio con contratto a tempo determinato è coerente con il dato normativo e, dunque, da considerare razionale.
L’assunto interpretativo è finalizzato ad individuare una razionalità nella decisione del legislatore. In effetti, l’interprete deve sempre compiere lo sforzo di trovare agganci per considerare le norme coerenti con un ordinamento armonioso.
Nel caso di specie, tuttavia, l’operazione interpretativa non appare soddisfacente. Infatti, l’encomiabile e condivisibile intento di dare razionalità alla scelta del legislatore è frutto di una forzatura. Come forzata è, a meglio vedere, proprio la scelta del legislatore.
Il d.lgs 368/2001 non prevede affatto una durata generale dei contratti a tempo determinato, né tanto meno la fissa in tre anni.
L’articolo 4, comma 1, della citata disposizione contiene la disciplina della proroga del contratto a termine e recita: “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
Si tratta di una disposizione di tutela del lavoratore, simmetrica a quella contenuta nell’articolo 5, sempre del d.lgs 368/2001.
Lo scopo di entrambe le norme è evitare un’eccessiva soggezione del lavoratore subordinato alle esigenze organizzative del datore di lavoro, che viene privato, dunque, della possibilità di decidere a suo piacimento di creare la situazione paradossale di rendere indeterminata la apposizione del termine al contratto, attraverso il “sotterfugio” di prorogare o rinnovare ad libitum il contratto a termine.
Pertanto, sia l’articolo 4, sia l’articolo 5, del d.lgs 368/2001 pongono limiti precisi alla possibilità di prorogare e rinnovare i contratti a tempo determinato.
In particolare, l’articolo 4 stabilisce condizioni e vincoli ai fini della proroga e prevede che:
1) è possibile prorogare il contratto a termine, se la durata iniziale sia inferiore ai 3 anni;
2) è possibile prorogare il contratto a termine solo una volta;
3) è prorogabile il contratto solo in presenza di ragioni oggettive;
4) la proroga deve riguardare la medesima attività lavorativa oggetto della stipulazione originaria;
5) la proroga non può essere infinita, né determinata a piacimento: essa dura, al massimo, quanto la differenza tra un periodo di tre anni e la durata inizialmente prevista al momento della stipulazione originaria del contratto.
In sostanza, il legislatore con la disciplina della proroga inibisce al datore di lavoro di tenere in piedi un medesimo rapporto a termine (la proroga riguarda sempre lo stesso contratto, a differenza del rinnovo che determina una vera e propria nuova negoziazione) per un periodo maggiore di tre anni.
Ma, tale inibizione non impedisce per nulla di stabilire una durata anche maggiore del contratto a termine. I tre anni non sono, dunque, una durata “standard” massima del contratto a termine. Sono il riferimento per impedire di estendere eccessivamente un contratto al quale sia stato apposto inizialmente un termine di durata inferiore.
La prova che il termine di tre anni non sia affatto generale è fornita dallo stesso articolo 4, comma 1, del d.lgs 368/2001, il cui ultimi periodo dispone: “con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
Cioè, solo con riguardo alla disciplina della proroga, il rapporto non può superare i tre anni. Al di fuori di tale disciplina, pertanto, la durata può essere certamente diversa, anche maggiore.
Non è convincente sostenere che la ratio del comma 558 della legge 296/2006 stia nell’articolo 4 del d.lgs 368/2001.
In particolare, non è sufficiente fondare sull’articolo 4 del d.lgs 368/2001 l’opinione secondo la quale la durata superiore al triennio dei contratti a termine è di per sè indizio di un abuso da parte della pubblica amministrazione.
La disciplina di tutela del contratto a termine non può essere legata ad una predefinita durata del rapporto di lavoro.
L’articolo 5 appresta due forme di tutela equivalenti: al comma 2 prevede che se il rapporto di lavoro continua oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini. Tale disciplina si applica sia alla continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine inizialmente fissato, sia alla continuazione dopo la scadenza del termine successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4. Ma, da nessuna parte sta scritto che la tutela scatti solo se il contratto abbia superato il termine triennale. Basta solo che il rapporto sia rimasto in piedi oltre il consentito, anche se, pur prorogato, il termine sia molto breve. Lo dimostra il fatto che l’applicazione dell’articolo 5, comma 2, riguarda anche contratti di durata inferiore a sei mesi.
Allo stesso modo, i commi 3 e 4 dell’articolo 5 tutelano il lavoratore con contratto a tempo determinato dalla “precarizzazione” derivante dal concatenamento di contratti a termine, prescindendo del tutto, anche in questo caso, dalla durata complessiva del rapporto.
Il d.lgs 368/2001 appresta, quindi, una tutela oggettivamente connessa alla situazione di abuso, derivante non già dal superamento di una certa durata del rapporto a termine, ma dal semplice fatto che il datore “non è stato ai patti”. Se, cioè, il datore di lavoro estende oltre il tollerato la durata iniziale o prorogata del contratto o incatena una serie di contratti a termine, in ogni caso lede la posizione del lavoratore. Che può chiedere tutela, senza dover dimostrare di aver effettivamente prestato attività lavorativa oltre una certa durata.
Del resto, se vi fosse una connessione effettiva tra la stabilizzazione prevista dalla legge finanziaria e l’articolo 4 del d.lgs 368/2001, allora le ipotesi della stabilizzazione per periodo di lavoro anche non continuativi non avrebbero senso. Infatti, la disciplina dell’articolo 4 è esclusivamente riferita ad una durata consecutiva del rapporto di lavoro, senza soluzioni di continuità.
La realtà è un’altra. La stabilizzazione è un rimedio nuovo, connesso ad una scelta politica, non fondato su alcuna disciplina normativa, non coerente con le previsioni ordinamentali di diritto comune, in tema di lavoro a tempo determinato. E’ un rimedio speciale, se si vuole una sorta di “sanatoria”.
Il termine triennale è stato discrezionalmente stabilito dal legislatore, ma non trova basi normative alle quali appigliarsi. Per questo, è suscettibile di generare situazioni di discriminazione tra lavoratori posti in situazioni analoghe, ma diverse solo perché la durata complessiva del rapporto di uno è inferiore a quella dell’altro.
La stabilizzazione dei “precari” pubblici, cioè, non segue il criterio della tutela oggettiva contro l’abuso del contratto a termine, previsto dal d.lgs 368/2001. Ma riguarda solo chi, per avventura, si ritrovi in alcune condizioni, previste dal legislatore senza un disegno coerente col sistema. Altrimenti, il legislatore non avrebbe esteso la stabilizzazione ai lavoratori socialmente utili, trattati alla stregua dei dipendenti a tempo determinato, nonostante i medesimi lavoratori socialmente utili non conducano con le amministrazioni locali veri e propri rapporti di lavoro subordinato.
Giusto lo sforzo di dare razionalità alle manovre del legislatore. Tuttavia, appare evidente che nel caso della stabilizzazione la guida è stata data non tanto dalla ricerca di armonia e coerenza con l’ordinamento, ma dalla necessità di dare risposte ad esigenze contingenti.
[1] R. Nobile, La stabilizzazione del personale a tempo determinato negli enti locali territoriali: l’art. 1, comma 558 della legge 27 dicembre 2006 n. 296 e le relative questioni interpretativo-applicative, in questa Rivista, n. 1/2007; G. Crepaldi, La stabilizzazione nel pubblico impiego secondo la legge finanziaria per il 2007, in www.ilpersonale.it 7/2/2007.