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Articoli e note

n. 7-8/2004  - © copyright

LUIGI OLIVERI

Il rispetto del patto di stabilità non ha salvato gli enti locali dai tagli che la legge 289/2002 aveva riservato agli enti non virtuosi

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Peggiora la situazione finanziaria dello Stato e, puntualmente, tornano – con ancora maggior vigore – misure tendenti a ridurre drasticamente le spese degli enti locali.

A parte l’ormai consueto rifluire delle convenzioni Consip come parametro di prezzo, tornato nuovamente obbligatorio a pena di nullità dei contratti stipulati [1], si assiste ad una curiosa scelta.

Il decreto legge contenente le misure di aggiustamento della finanza pubblica prevede per i comuni superiori ai 5.000 abitanti e le province un taglio delle spese per consumi intermedi pari al 10% della spesa mediamente sostenuta negli anni 2001-2003. Unica eccezione, le spese dipendenti dalla prestazione di servizi correlati a diritti soggettivi degli utenti.

Questa misura ricorda molto da vicino quella, di tipo dichiaratamente sanzionatorio, contenuta nell’articolo 29, comma 15, della legge 289/2003, il cui testo è il seguente: “in caso di mancato conseguimento degli obiettivi di cui ai commi 4 e 6 da parte delle province e dei comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti, risultante dalla verifica di cui al comma 16, i predetti enti non possono procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e non possono avvalersi di eventuali deroghe in proposito disposte per il periodo di riferimento e, inoltre, non possono ricorrere all'indebitamento per gli investimenti. Gli enti sono, altresì, tenuti a ridurre almeno del 10 per cento, rispetto all'anno 2001, le spese per l'acquisto di beni e servizi. Tali misure operano per ciascun anno successivo a quello per il quale è stato accertato il mancato conseguimento degli obiettivi”.

Il decreto legge, nella sostanza, ha esteso a tutti gli enti locali, virtuosi o meno, quella che era una conseguenza sanzionatoria rigardante i soli enti locali non in linea col patto di stabilità.

Si può, certo, osservare che la norma del decreto legge è meno drastica di quella della finanziaria per il 2003, che prendeva in considerazione tutte le spese per beni e servizi, mentre oggi la scure si abbatte sulle spese per consumi intermedi. Ma conta poco. A ben vedere, il grosso delle spese sostenute dalle amministrazioni locali riguarda consumi intermedi, cioè spese finalizzate all’espletamento delle attività proprie degli enti, o, per maggiore chiarezza, per l’acquisto di beni e servizi necessari alla produzione delle attività e dei servizi rivolti all’esterno.

Si nota, allora, come la formulazione più “velata” del decreto legge nasconda una sostanza assolutamente assimilabile a quella contenuta nella legge 289/2002. E si conferma, ancora una volta, che il fine dell’abbattimento delle imposte non può che essere perseguito con l’innalzamento dei costi per le prestazioni di servizi. L’arretramento, infatti, delle spese sostenuti dagli enti locali per la produzione delle proprie attività non può che coincidere o con l’avanzamento di simmetriche attività fornite dai privati, con costi di mercato difficilmente meno elevati di quelli degli enti pubblici, o, peggio, con un abbassamento del livello qualitativo delle prestazioni.

Il decreto legge, proprio per questo, alleggerisce il taglio, prevedendo una salvaguardia delle spese dipendenti dalla prestazione di servizi correlati a diritti soggettivi degli utenti, le quali non sono soggette a limitazioni.

Ma, la formula normativa utilizzata è abbastanza generica per rendere difficilmente individuabili tali spese, posto che la gran parte di quelle affrontate dagli enti, in quanto amministrazioni pubbliche, non hanno a che vedere con diritti soggettivi, ma con posizioni di interesse legittimo. Forse il legislatore intende per diritti soggettivi le posizioni di fasce deboli della popolazione, che, in particolare, dalle prestazioni di servizi sociali prodotte dagli enti locali traggono la possibilità di un sostentamento e di una permanenza dignitosa nella vita sociale. Si ripete che, però, la formula normativa, consente interpretazioni molto più restrittive, che certamente prevarranno in attesa dell’immancabile chiarimento normativo, che altrettanto immancabilmente giungerà con estremo ritardo.

Dunque, per i cittadini, sostanzialmente che l’ente locale di appartenenza abbia o meno rispettato il patto di stabilità, da oggi non conta. Forse hanno fatto bene alcune amministrazioni che hanno deliberatamente scelto negli anni precedenti di non considerare prioritari gli obiettivi del patto?

E’ molto difficile dare una risposta alla domanda. Anche perché si potrà certamente osservare che un taglio del 10% alle spese è, prioritariamente, finalizzato al razionalizzare la spesa e, dunque, può essere considerato una salutare misura contro gli sprechi.

Questo ragionamento, in astratto ineccepibile, sarebbe inattaccabile se si fosse dimostrato che gli sprechi della spesa pubblica ammontano al 10% del volume complessivo. Ma, se si fosse prodotto tale calcolo, allora evidentemente si sarebbero individuati gli sprechi. Il che avrebbe permesso non un taglio onnicomprensivo come quello proposto dalla legge, ma ben calibrato e mirato, laddove tali sprechi si annidano.

Si è agito, invece, in maniera piuttosto frettolosa, mediante un taglio percentuale, tipico della tecnica ragionieristica, che prende in considerazione il volume complessivo delle spese, ed applica trasversalmente ad ogni voce il medesimo taglio. Il che, forse, permette di far quadrare i conti, ma, certo, non aiuta ad individuare sprechi. Né tiene conto della diversa qualificazione della spesa, in relazione all’entrata.

Ad esempio, il taglio concerne tutte le spese, oppure quelle collegate a finanziamenti comunitari o nazionali o, ancora regionali, in quanto ottenuti dagli enti locali in base alla partecipazione a bandi o, comunque, a norme attuative specifiche, indicanti precisi vincoli di destinazione della spesa, ne sono esenti? La logica dice di sì. Il testo del decreto, nuovamente, è sufficientemente ambiguo per consentire interpretazioni magari inizialmente restrittive – così da restringere il volume delle spese anche oltre il necessario – per poi trasformarsi in tesi più estensive e maggiormente conformi alla logica.

Non si può, comunque, negare che il decreto abbia cercato di prendere di mira alcune tipologie di spese ritenute comunque da tagliare.

L’elenco comprende le missioni all’estero, le spese di rappresentanza, le spese per relazioni pubbliche e convegni, nonché incarichi e consulenze esterne, ivi compresi gli incarichi di alta professionalità, di cui all’articolo 110, comma 6, del d.lgs 267/2000.

Non può che convenirsi con questa decisione del legislatore, il quale ha meritoriamente ritenuto necessario ridurre esborsi finanziari che, nell’attuale fase, possono concretamente considerarsi un “lusso”.

Tuttavia, non ci si può nascondere che l’elencazione, condivisibile in astratto, lascia l’amaro in bocca.

Infatti, il decreto non prevede che i tagli si applichino “in particolare” alle voci di spesa prima elencate, ma dispone che la riduzione del 10% si applica “anche” a dette spese. Si tratta di una formulazione che accomuna spese innegabilmente “voluttuarie” a spese essenziali, spesso, per il buon andamento dell’azione amministrativa.

Inoltre, mentre il taglio per le spese per i consumi intermedi non prevede eccezioni, al contrario, nel caso delle spese per missioni all’estero, relazioni pubbliche e convegni si ammette un superamento dei limiti di spesa in “casi eccezionali”, purchè l’organo di vertice motivi adeguatamente tale superamento dei limiti e comunichi il provvedimento (non si capisce se prima o dopo della sua approvazione, ma il sistema dei controlli è improntato sui controlli successivi) agli organi di controllo e revisione.

Francamente, riesce difficile da capire perché casi eccezionali consentano di andare oltre i limiti di spesa per organizzare un convegno, e non per acquistare beni e servizi necessari allo svolgimento delle funzioni dell’ente.

Ancora, se il legislatore ha colto nel segno nell’individuare le spese per incarichi e consulenze un possibile annidamento di sprechi, lascia quasi di stucco la formulazione della norma che ne prevede il contenimento.

Si prevede, infatti, che “l’affidamento di incarichi di studi o ricerca, ovvero di consulenze a soggetti estranei all’amministrazione in materie e per oggetti rientranti nelle competenze della struttura burocratica dell’ente deve essere adeguatamente motivato ed è possibile solo nei casi previsti dalla legge ovvero nell’ipotesi di eventi straordinari. […] Gli incarichi conferiti in violazione […] sono nulli”.

Un’osservazione appare doverosa e lecita. La Corte dei conti ha prodotto una giurisprudenza costante e pacifica, che da sempre considera illecito amministrativo, per le amministrazioni pubbliche, conferire incarichi e consulenze in materie ed oggetti rientranti nelle competenze della struttura burocratica. Anzi, tra le restrittive circostanza che, secondo il giudice contabile, possono rendere leciti tali incarichi, rientra senz’altro il presupposto della mancanza all’interno della struttura burocratica di una struttura o di dipendenti che possano rendere la consulenza, in quanto essa sia riferita, necessariamente, a materie ed oggetti non rientranti nelle competenze dell’ente. La Corte dei conti, per altro, ha sempre aggiunto che gli enti debbono operare sì da evitare di accrescere artatamente le proprie competenze, allo scopo di giustificare il ricorso ai consulenti.

Alla luce di tale giurisprudenza, la norma del decreto legge, per quanto rigorosa e corroborata dalla sanzione di nullità dei contratti in violazione del principio posto, sembrano addirittura prefigurare quello che la Corte dei conti non aveva mai consentito: incarichi a soggetti esterni, per materie ed oggetti di competenza della struttura burocratica.

All’apparenza restrittiva contro gli incarichi, letta sotto questa luce la disposizione appare, invece, maggiormente permissiva. Se non fosse che, però, consente il ricorso a detti incarichi solo “nei casi previsti dalla legge”. Qui, la norma torna restrittiva. Ma, se ammette il ricorso alle consulenze solo nei casi ammessi dalla legge, c’è da chiedersi quale sia lo scopo della disposizione, che pare avere un contenuto normativo sostanzialmente inesistente.

In effetti, il rimando ai casi in cui la legge ammette gli incarichi fa tornare ciclicamente alle condizioni richieste dalla Corte dei conti come presupposti necessari per il loro affidamento: tra tali presupposti ricorre, ovviamente, il rispetto della legge ed, in particolare, delle disposizioni di cui all’articolo 110, comma 6, del d.lgs 267/2000, norma simmetrica all’articolo 7, comma 6, del d.lgs 165/2001.

Il vero contenuto innovativo del decreto legge, allora, sta nell’apertura alla possibilità che gli incarichi riguardino competenze della struttura amministrativa, che possano essere comunque conferiti nell’indefinibile ipotesi di “eventi straordinari”; nonché nella declaratoria di nullità dei contratti (che nel regime fin qui vigente, in effetti mancava) stipulati in violazione delle norme preposte alla disciplina degli incarichi.

Il tenore della norma dovrebbe, in effetti, sortire l’effetto di un contenimento al dilagare della spesa per incarichi di consulenza registratosi negli ultimi anni. Tuttavia, data la problematicità interpretativa della disposizione ed anche la difficile percettibilità delle disposizioni la cui violazione possa determinare la nullità degli incarichi, lascia in piedi una domanda: è lecito chiedersi se non fosse stata più opportuna una nuova e diversa normativa sugli incarichi, realmente maggiormente restrittiva e basata su più chiari presupposti per il conferimento.

 

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[1] Ovviamente, con esclusiva responsabilità del dipendente, dal momento che quando si tratta di responsabilità il principio di separazione opera sempre, senza dubbi e infingimenti di nessun tipo.

 

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Documenti correlati:

 

DECRETO-LEGGE 12 luglio 2004, n. 168 (in G.U. n. 161 del 12 luglio 2004 - Suppl. Ord. n. 122) - Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica.


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