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Articoli e note

n. 3/2006 - © copyright

LUIGI OLIVERI

L’esternalizzazione di funzioni alle istituzioni
ai fini del computo delle spese di personale,
ai sensi dell’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005

Molti enti locali, a seguito dell’irrigidimento della disciplina che impone di contenere le spese di personale, contenuta nell’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005, (legge finanziaria 2006), stanno prendendo in seria considerazione l’opportunità di esternalizzare i propri servizi.

L’indicazione di conseguire risparmi sulle spese di personale attraverso la dismissione di funzioni e l’utilizzo di soggetti esterni non è, comunque, una novità. Proprio una legge finanziaria, la legge 448/2001, aveva già all’articolo 29 espressamente indicato lo strumento delle esternalizzazioni come una tra le metodologie fondamentali per ottenere i risparmi di personale, prevedendo quanto segue: “Le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a:

a) acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione;

b) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di cui alla lettera a), soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza;

c) attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti, attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle convenzioni stipulate ai sensi dell'articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni, e dell'articolo 59 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, lo svolgimento dei servizi di cui alla lettera b)”.

L’ipotesi di esternalizzazione per effetto di revisione dell’organizzazione interna è quella contemplata nella lettera b). Pertanto, qualora un ente locale intenda non produrre più direttamente (si direbbe in economia) servizi per il tramite delle proprie strutture, può costituire un soggetto di diritto privato, al quale attribuire la gestione dei servizi o delle funzioni dimessi. Il tutto, a condizione che l’operazione comporto un’economia di gestione, dunque una riduzione della spesa.

Nell’ordinamento locale da tempo, a prescindere dalla norma citata prima, sono previste forme di gestione dei servizi pubblici locali, fondate sul principio dell’esternalizzazione.

Possibili forme di esternalizzazione. Tra queste forme, ve ne sono alcune per le quali l’effetto di dismissione delle competenze e contestuale attribuzione definitiva ad un soggetto terzo di diritto privato sono molto evidenti: si tratta delle società di capitali, utilizzabili per la gestione sia dei servizi pubblici aventi rilevanza economica, sia per i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica [1].

Vi sono, nell’ordinamento locale, ancora, forme di esternalizzazione meno spiccate: le aziende speciali e le istituzioni.

Le aziende speciali, sono, nella sostanza, enti pubblici economici, dotati personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e regolamentare (non statutaria, perché lo statuto è approvato dall’ente locale che le costituisce). Non si tratta, però, di soggetti di diritto privato, in quanto dispongono di una personalità di diritto pubblico ed agiscono nel pieno rispetto delle disposizioni normative di diritto pubblico, anche per quanto concerne la gestione del personale.

Le istituzioni danno luogo ad una forma di esternalizzazione ancora meno spiccata. Infatti, sono qualificate come organismi strumentali dell’ente locale, dotati solo di autonomia gestionale, prive, dunque, di personalità giuridica ed autonomia normativa. Si tratta, in sostanza, di veri e propri organi specializzati nella gestione dei servizi sociali, che per la peculiarità della competenza loro assegnata dalla legge, possono agire secondo regole organizzative disciplinate in modo particolare, grazie alla propria autonomia gestionale. Ma, nella sostanza, le istituzioni sono un organo dell’ente proprietario, dal quale non si distinguono, se non organizzativamente, proprio perché mancano della personalità giuridica.

L’esternalizzazione mediante istituzioni ai fini delle spese di personale – la tesi estensiva. La circolare 17.2.2002, n. 8/2006 della Ragioneria Generale dello Stato indica espressamente le istituzioni comunali e provinciali, previste dall’articolo 114, comma 2, del d.lgs 267/2000, tra le “amministrazioni pubbliche” nei confronti delle quali i trasferimenti effettuati dagli enti locali non incidono sui limiti di spesa imposti dal patto di stabilità interno.

Si può, dunque, ritenere che le spese per trasferimenti di risorse alle istituzioni di per sé rientrino nelle esclusioni di cui all’articolo 1, comma 142, lettera c), della medesima legge 266/2005.

Il problema, tuttavia, consiste nel capire se la costituzione di un’istituzione ed il passaggio di personale comunale o provinciale all’istituzione stessa consenta di ridurre le spese di personale dell’ente locale dominus, ai fini dell’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005.

In particolare, occorre verificare le conseguenze dei trasferimenti di risorse, ai fini del computo delle spese di personale.

Come visto prima, secondo la Ragioneria Generale dello Stato, i trasferimenti alle istituzioni, in quanto spese per trasferimenti destinati alle amministrazioni pubbliche, non rientrano nelle misure previste dal patto di stabilità. Poiché, però, le istituzioni si caratterizzano per essere soggetti giuridici che espletano proprie attività ad altissimo tasso di impiego di prestazioni lavorative di personale dipendente, con basso impiego di risorse tecnologiche, i trasferimenti che ricevono in misura molto ampia compensano le spese di personale affrontate dalle istituzioni stesse.

La domanda, allora, è se la costituzione di un’istituzione, comportando la riqualificazione della spesa del personale, prima impiegato direttamente presso l’ente locale e poi trasferito all’istituzione, dall’intervento 01 all’intervento 05 determini una riduzione dei costi del personale, ai fini anche dell’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005, visto che le istituzioni non sono tenute al rispetto del patto di stabilità a nessun titolo.

Una prima risposta che si può fornire, basata prevalentemente sul punto b.3, lettera c), della circolare 17.2.2006, n. 8/2006 della Ragioneria Generale dello Stato, sembra essere affermativa.

Poiché i trasferimenti alle istituzioni non rientrano nel patto di stabilità; poiché detti trasferimenti contemplano le spese del personale, necessario perché l’istituzione espleti le sue funzioni; poiché l’istituzione ha autonomia gestionale e, dunque, il personale viene da essa direttamente remunerato e gestito (anche ai fini del controllo delle presenze e delle assenze, della previsione dei turni di servizio e dell’emanazione delle disposizioni del datore di lavoro), si può ritenere che si sia in presenza di una vera e propria esternalizzazione. Dunque, le spese del personale dell’ente locale assegnato all’istituzione debbono essere sottratte all’ammontare delle spese di personale, ai fini del comma 198.

Infatti, sia nel caso di distacco, comando o assegnazione, sia nel caso di trasferimento di attività, il trasferimento corrente al pertinente intervento 05 sarebbe comprensivo del capitale di dotazione e del sostegno alle spese di funzionamento, comprensive del personale; il che significa che i pertinenti capitoli dell’intervento 01, afferenti al personale trasferito, verrebbero ridotti in misura direttamente corrispondente alla quota parte del trasferimento relativo alle spese di funzionamento connesse al personale.

Dal punto di vista esclusivamente finanziario, la riduzione delle somme appostate all’intervento 01 si può ritenere comporti un’esclusione del computo della quota parte delle spese di funzionamento trasferite all’istituzione, riferite al personale dall’ammontare di cui all’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005.

La circolare 8/2006 della Ragioneria Generale dello Stato, del resto, pone in modo molto chiaro il principio dell’alternatività della tipologia di spese: da un lato occorre considerare le spese correnti soggette alle specifiche regole di contenimento della spesa ai fini del patto di stabilità; dall’altro lato occorre considerare le diverse spese soggette alle regole di contenimento della spesa di personale. Una tipologia di spesa non può contemporaneamente essere considerata due volte, sia ai fini delle regole sul patto, sia ai fini delle regole sul personale.

Pertanto, si ritiene che, una volta che le spese di personale riferite al personale in qualsiasi modo trasferito all’istituzione confluiscano nel trasferimento corrente, dal punto di vista finanziario prevalga la natura finanziaria del contributo di esercizio come spesa da riportare alla regola di cui all’articolo 142, comma 1, lettera c), della legge 266/2005, con necessaria esclusione dell’applicazione dell’articolo 1, comma 198, della medesima legge.

L’esternalizzazione mediante istituzioni ai fini delle spese di personale – la tesi restrittiva. La complessità della materia, tuttavia, non esclude spazi per l’enunciazione di una tesi opposta a quella esposta sopra, prendendo le mosse proprio dalla configurazione giuridica delle istituzioni.

Per meglio delineare quanto detto sopra in merito alla strutturazione delle istituzioni, esse schematicamente si caratterizzano nel seguente modo:

1)     sono un organismo strumentale dell’ente locale;

2)     dispongono di sola autonomia gestionale;

3)     non hanno personalità giuridica;

4)     non hanno autonomia normativa, tanto è vero che l’ordinamento ed il funzionamento delle istituzioni sono disciplinati dallo statuto e dal regolamento dell’ente locale da cui dipende;

L’ente di appartenenza deve conferire il capitale di dotazione ed assicurare il funzionamento mediante trasferimenti correnti corrispondenti agli obiettivi fissati dal piano-programma e dal contratto di servizio (art. 114, comma 8, del d.lgs 267/2000). Come visto prima detti trasferimenti non possono che essere comprensivi della quota necessaria all’istituzione per retribuire il proprio personale.

Ora, la mancanza di personalità giuridica deve considerarsi come un impedimento, perché le istituzioni instaurino autonomamente rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Non è un caso che la maggior parte dei regolamenti disciplinanti le istituzioni comunali e provinciali prevedono che esse, per l’espletamento dei servizi di cui sono affidatarie, si avvalgano del personale messo a disposizione da parte degli enti locali di appartenenza, secondo formule denominate come “comando” o “distacco” o “assegnazione”.

In sostanza, dunque, il personale dell’istituzione resta personale comunale o provinciale. Dunque, la dotazione organica, sia di diritto, sia di fatto, dell’ente locale non si riduce in corrispondenza alla quantità di personale assegnato all’istituzione, perché il rapporto di lavoro di detto personale resta ascritto all’ente locale di appartenenza dell’istituzione.

L’istituzione dispone non di una sua dotazione organica, ma di un funzionigramma, nel quale sono inseriti i dipendenti comunali o provinciali assegnati, allo scopo di fissare organizzativamente le funzioni che debbono svolgere.

Nella sostanza, la creazione di un’istituzione è un po’ come se nel diritto privato un’azienda costituisse una propria filiale. Questa sarebbe certamente dotata di un certo quantitativo di autonomia gestionale ed anche di bilancio, ma non sarebbe qualcosa di diverso rispetto alla casa madre. I dipendenti della filiale sono dipendenti dell’azienda nel suo complesso: il fatto di appartenere organizzativamente ad una filiale non incide evidentemente sulla loro posizione lavorativa nel suo complesso. Né sulla natura delle spese di personale dell’azienda.

Le cose nel rapporto ente locale – istituzione non sono poi così diverse. L’istituzione, essendo un organismo dell’ente in realtà altro non è che una struttura che invece di essere inserita nel funzionigramma dell’ente e denominarsi come area, settore, servizio o altra nomenclatura stabilita dalle norme organizzative, è inserita in un funzionigramma a parte, sia pure collegato con l’ente stesso.

La gestione delle funzioni dell’istituzione non avviene utilizzando competenze e strumenti ordinari dell’ente: l’istituzione, dunque, non risponde agli organi di governo e gestionali del comune o della provincia, ma ai propri organi di governo (consiglio di amministrazione, presidente e direttore), ancora, l’istituzione non gestisce (direttamente) in base al bilancio ed al piano esecutivo di gestione dell’ente, ma nel rispetto del piano-programma, del contratto di servizio, del proprio bilancio economico, della propria programmazione gestionale.

Tuttavia, l’istituzione non è una persona giuridica diversa dall’ente. Proprio il fatto che il suo funzionamento dipenda in tutto e per tutto dai trasferimenti dell’ente (o, anche, in qualche misura dall’acquisizione diretta di entrate, alle quali l’ente locale rinunci), e che non disponga di personalità giuridica comporta due conseguenze:

1)     l’impossibilità di effettuare il trasferimento di personale dall’ente locale all’istituzione, ai sensi dell’articolo 31 del d.lgs 165/2001;

2)     l’impossibilità di assumere a tempo indeterminato.

Quanto al punto 1), risulta evidente che il personale dipendente del comune o della provincia non può essere oggetto di un passaggio diretto in applicazione dell’articolo 31 del d.lgs 165/2001, che regolamenta il passaggio diretto di dipendenti di amministrazioni pubbliche presso altri soggetti (pubblici o privati) per effetto di trasferimento di attività, in quanto manca un presupposto essenziale: il trasferimento deve essere effettuato dalle p.a. in favori di “altri soggetti, pubblici o privati”.

Dunque, il soggetto pubblico o privato, destinatario del trasferimento, deve essere “altro”, diverso dall’ente che trasferisce.

Il che, nel caso dell’istituzione (diversamente da quello dell’azienda speciale) non avviene, perché l’istituzione non è un soggetto giuridico diverso dall’ente locale, del quale costituisce solo organismo, meglio dire organo specialistico.

L’istituzione, dunque, non può assumere i dipendenti assegnati dal comune o dalla provincia all’istituzione. Non si dà luogo a nessuna novazione soggettiva del rapporto di lavoro. L’assegnazione dei dipendenti comunali o provinciali all’istituzione non è costitutiva di innovazioni del rapporto di lavoro, ma è semplicemente un atto di organizzazione e gestione del rapporto di lavoro, col quale il comune o la provincia effettua una sorta di mobilità interna, attribuendo all’istituzione la competenza alla gestione funzionale del personale individuato.

Quanto al punto 2), poiché l’istituzione non è soggetto diverso dall’ente locale di appartenenza, essa non potrebbe mai effettuare in proprio assunzioni a tempo indeterminato, allo scopo di acquisire ulteriori forze lavorative.

Si è visto prima, infatti, che l’istituzione non dispone di una propria dotazione organica: la sua dotazione è il riflesso di quella dell’ente. Se si ammettesse che l’istituzione può assumere in proprio a tempo indeterminato, si ammetterebbe, conseguentemente, che essa può incidere sulla dotazione organica dell’ente di appartenenza. Infatti, al momento dello scioglimento, i dipendenti assunti dall’istituzione a tempo indeterminato finirebbero per essere necessariamente assorbiti nei ruoli dell’ente di appartenenza. Ma, ovviamente, è da escludere che l’istituzione possa incidere di propria iniziativa sui rapporti di lavoro a tempo indeterminato dell’ente.

D’altra parte, la maggior parte dei regolamenti di disciplina del funzionamento delle istituzioni prevedono che i concorsi per l’assunzione di personale a tempo indeterminato siano direttamente gestiti dall’ente di appartenenza, in modo che poi il dipendente assunto sia assegnato (distaccato) all’istituzione; oppure, si prevedono complessi meccanismi di autorizzazione dell’ente all’istituzione di procedere in proprio, previa modifica della dotazione organica e della programmazione dell’ente stesso.

L’unico sistema per consentire alle istituzioni di assumere a tempo indeterminato senza poi incidere sull’organizzazione dell’ente di appartenenza è ammettere il licenziamento dei dipendenti così assunti, per cessazione di attività.

Solo così si avrebbe una piena esternalizzazione, solo, ovvero, se l’istituzione funzionasse come ente del tutto autonomo, che acquisisce personale e risorse e con piena esplicazione della propria capacità di agire scinde ogni rapporto giuridico con l’ente di appartenenza, in modo che nel caso di uno scioglimento dell’istituzione, i servizi da questa gestiti ritornino in capo all’ente, ma senza il personale, che dovrebbe andare, dunque, nelle liste di disponibilità, come personale eccedentario.

Tuttavia, poiché l’ente di appartenenza nel riacquisire le competenze alla gestione dei servizi sociali certamente sarebbe coinvolto nel tentativo di ricollocazione del personale eccedentario previsto dall’articolo 33 del d.lgs 165/2001, molto probabilmente il personale dell’istituzione disciolta finirebbe per ritransitare comunque presso l’ente locale di appartenenza.

In realtà, comunque, poiché l’istituzione è in tutto e per tutto un organismo proprio dell’ente, non differenziato da questo, l’ipotesi fin qui svolta del licenziamento per cessazione di attività non è plausibile. Se l’ente scioglie l’istituzione, ciò non incide sul rapporto di lavoro dei dipendenti dell’istituzione stessa, che hanno continuato a mantenere una dipendenza giuridica dall’ente locale, e solo funzionale con l’istituzione. Dunque, il rapporto di lavoro prosegue con l’ente locale, il quale potrà porre in essere i propri poteri organizzativi per rassegnare il personale ai servizi interni o decidere, magari, di costituire nuovi e diversi sistemi di esternalizzazione.

Ciò, allora, dimostra che le spese sostenute dall’ente locale per il funzionamento dell’istituzione, consentono comunque il prosieguo del rispetto dell’obbligazione contrattuale in capo all’ente locale, nei confronti de personale assegnato all’istituzione: cioè, la retribuzione. Infatti, l’istituzione, dal quale il personale dipende funzionalmente, potrà erogare le retribuzioni dei dipendenti assegnati, solo nella misura in cui trae dall’ente di appartenenza i già visti trasferimenti di esercizio.

Pertanto, dal punto di vista contabile, la quota parte dei trasferimenti di esercizio che l’ente locale eroga all’istituzione finalizzati a consentire il pagamento delle retribuzioni, non ha natura diversa dai rimborsi che un ente locale trasferisce ad un altro ente locale dal quale provenga personale distaccato. Rimborsi, questi, anch’essi classificati all’intervento 5, che, non a caso, la circolare 17.2.2006 9/2006 della Ragioneria Generale dello Stato ritiene vadano inclusi nell’ammontare di cui all’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005.

Per altro, poiché il bilancio dell’istituzione è approvato dall’ente locale di appartenenza, esso costituisce, in fondo, un tutt’uno col bilancio dell’ente medesimo. Pertanto, i trasferimenti alle istituzioni, per la parte relativa al personale, potrebbero essere inquadrati come giri contabili, ma ai fini delle spese dell’ente locale non costituiscono una fuoriuscita di risorse dal sistema enti locali, per andare verso un altro sistema pubblico o privato, non soggetto alle regole del patto di stabilità.

La controprova dell’impossibilità di configurare le spese del trasferimento alle istituzioni, relative alla parte necessaria per le retribuzioni, al di fuori dell’ammontare di cui al citato articolo 1, comma 198, si ricava da due elementi.

In via principale, proprio dalle conseguenze dello scioglimento di un’istituzione. Se si ammette, infatti, che la costituzione di un’istituzione, con contestuale assegnazione di personale, consente di non considerare la spesa di detto personale ai fini del comma 198, coerentemente si deve concludere per il caso inverso. Cioè, se un comune o una provincia scioglie un’istituzione, o l’abbia già sciolta nel 2005, si ritrova il maggior onere di personale che prima non aveva.

Ma tale conseguenza appare aberrante, perché la mancanza di personalità giuridica dell’istituzione, l’impossibilità di un vero e proprio trasferimento di funzioni, la dipendenza solo funzionale dall’istituzione da parte dei dipendenti dell’ente locale dominus ed il loro permanere di rapporti lavorativi con l’ente dominus stesso, rivelano che in realtà le spese per quel personale sono sempre state in carico all’ente locale stesso. Sicchè apparirebbe inammissibile caricare di dette spese l’ente locale, allo scopo di peggiorare la situazione ai fini del comma 198.

In realtà, per le spese di personale l’istituzione è neutra: non può né migliorare, né peggiorare la situazione dell’ente.

Ciò differenzia, di molto, la situazione delle istituzioni dalle convenzioni o dai distacchi. Infatti, nel momento in cui si conclude il distacco o termina la convenzione, l’ente che si è avvalso del personale in distacco non sosterrà più spese classificate all’intervento 5 ed otterrà un vero risparmio di spese di personale, mentre l’ente distaccante subirebbe un vero e proprio aggravio di costi, che prima non sosteneva.

In secondo luogo, si osserva che proprio il principio dell’alternatività tra regole per il contenimento delle spese correnti e regole per il contenimento delle spese di personale, enunciato nella circolare 17.2.2006, n. 8/2006 della Ragioneria Generale dello Stato, impedisce di considerare le spese di personale delle istituzioni al di fuori dell’articolo 1, comma 198, della finanziaria.

Infatti, l’ente locale se beneficia una volta del meccanismo dei trasferimenti, ai fini del rispetto dei limiti della spesa corrente nel suo complesso, non può evidentemente beneficiarne una seconda volta, sottraendo il giro contabile che consente la remunerazione del personale delle istituzioni dal computo di cui all’articolo 1, comma 198.

Conclusioni. La questione appare estremamente delicata, in quanto le esternalizzazioni non possono essere configurate esclusivamente come un sistema per eludere la normativa contenuta nelle leggi finanziarie.

La tesi maggiormente restrittiva, tra le due esposte, appare quella più rispettosa delle intenzioni del legislatore rispetto alle politiche di contenimento delle spese di personale: ottenere, ovvero, risparmi effettivi nel sistema delle pubbliche amministrazioni.

Nel caso del rapporto ente locale – istituzioni a ben vedere le spese di personale tornano sempre a gravare sulle risorse dell’ente locale stesso, sebbene con classificazioni contabili differenti.

Oltre tutto, se la logica delle esternalizzazioni è quella prevista dall’articolo 29 della legge 448/2001, nella costituzione delle istituzioni mancano due presupposti essenziali, per poter affermare che si sia in presenza di vera esternalizzazione:

a)       la costituzione di un “soggetto”: poiché l’istituzione è priva di personalità giuridica, non è un soggetto giuridico, ma un organo dell’ente locale;

b)       l’ottenimento di economie di gestione: l’istituzione è solo una forma organizzativa, tendente a creare una modalità specialistica di erogazione dei servizi sociali, ma non è idonea di per sé a creare economie di gestione, visto che, per altro, deve gestire spese nei confronti delle quali l’applicazione di criteri imprenditoriali (riduzione dei costi ed incremento degli introiti) non appare pienamente realizzabile.

Sicchè, se vi deve, come sembrerebbe, essere coerenza tra il complesso delle varie manovre finanziarie di questi anni, l’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005, ai fini della possibilità di non computare spese per personale destinato ad enti costituiti in virtù di esternalizzazioni, non può che essere letto in combinazione con l’articolo 29 della legge 448/2001. Allora, poiché l’istituzione non potrebbe essere considerata come strumento effettivo di esternalizzazione, la sua costituzione non dovrebbe poter valere ai fini dell’articolo 1, comma 198, della legge 266/2005.

La tesi più favorevole potrebbe essere accettata, a condizione che vi sia coerenza complessiva col sistema normativo in tema di patto di stabilità.

Si vuole, in altre parole, sottolineare che quando la circolare 17.2.2006, n. 8/2006 della Ragioneria Generale dello Stato afferma che i trasferimenti alle istituzioni non sono da computare ai fini del patto di stabilità, solo in apparenza introduce un elemento favorevole per gli enti locali.

Questo perché le spese oggetto dell’attività delle istituzioni sono, per loro natura, già al di fuori del patto. Infatti, le istituzioni sono costituite allo scopo di gestire i servizi sociali. Ma le spese per servizi sociali sono esenti ex lege. Infatti, ai sensi dell’articolo 1, coma 142, lettera d), della legge 266/2005, non debbono essere computate nella massa delle spese correnti da contenere ai fini del patto di stabilità le spese di carattere sociale, classificate alla funzione 10 per i comuni, alla funzione 08 per le province ed alla funzione 05 per le comunità montane.

Far, dunque, ricadere, come propone la circolare, l’esenzione da patto per le spese trasferite alle istituzioni nella lettera h), dell’articolo 1, comma 142, della legge finanziaria, invece che nella lettera d), contabilmente non cambia nulla.

A meno che, la circolare 8/2006, che, come la 9/2006, però non dice nulla espressamente in tal senso, non abbia realmente inteso ricomprendere nei trasferimenti alle istituzioni anche la quota parte relativa alle retribuzioni del personale, in modo da non computarla ai fini dell’articolo 1, comma 198. Coerentemente con questo, però, allora anche le spese di personale degli enti locali afferenti alla classificazione finanziaria pertinente alle funzioni per le spese sociali dovrebbero risultare “attratte” dalla destinazione sociale che le caratterizza e, dunque, essere neutralizzate anche dal computo delle spese di personale previsto dall’articolo 1, comma 198.

Solo così si darebbe coerenza ad un sistema che, se ammettesse la neutralizzazione delle spese di personale trasferite all’istituzione, nonostante queste gravino certamente sul bilancio dell’ente, creerebbe una disparità di trattamento tra enti a seconda che questi abbiano o meno creato un’istituzione.

Di fatto, comunque, la circostanza che il personale destinato all’istituzione rimane necessariamente personale dell’ente locale, non suscettibile di passaggio diretto ai sensi dell’articolo 31 del d.lgs 165/2001, nonché necessariamente rassegnato ai ruoli dell’ente in caso di scioglimento dell’istituzione, lascia convincere che la costituzione dell’istituzione di per sé non possa creare benefici diretti ai fini dell’articolo 1, comma 198.

Solo l’interpretazione secondo la quale nella neutralizzazione delle spese sociali sia possibile ricomprendere anche le spese del personale destinato a detta funzione, anche se non assegnato ad un’istituzione, creerebbe un sistema coerente ed eviterebbe una corsa alla costituzione di istituzioni forse motivata solo dall’esigenza di eludere, per qualche tempo, le regole in merito alle restrizioni delle assunzioni.


 

[1] Anche se l’articolo 113-bis del d.lgs 267/2000 è stato abrogato per effetto della citata sentenza 272/2004 della Corte costituzionale, non pare che gli enti locali siano privi della possibilità di gestire mediante esternalizzazioni i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.

Sempre la sentenza 272/2004 della Consulta, in proposito, contiene una forte apertura alla possibilità che gli enti locali organizzino i servizi privi di rilevanza economica anche attraverso la propria potestà normativa, quando afferma che per la disciplina di tali servizi debba esservi “spazio per una specifica ed adeguata disciplina di fonte regionale ed anche locale”. Pertanto, disposizioni statutarie non in contrasto e, pertanto, coerenti con le disposizioni normative settoriali sui servizi sociali e, comunque, con l’articolo 29 della legge 448/2001, possono comporre un unicum normativo, che consente da subito di gestire i servizi privi di rilevanza economica.

Rileva, inoltre l’articolo 117, comma 6, ultimo periodo, della Costituzione, a mente del quale i comuni e le province hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Tali disposizioni possono essere lette in combinazione con l’articolo 3, comma 5, secondo periodo, del d.lgs 267/2000, secondo cui comuni e province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dall’autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.


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