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n. 5/2009 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Gli standard valutativi nella legge 15/2009

Mancando i classici strumenti di valutazione della produttività propri delle imprese, la legge 15/2009 (e lo schema di decreto legislativo attuativo) punta sugli standard, ovvero su indicatori di prodotto o servizio valevoli per tutte le amministrazioni, che facciano da metro di paragone per verificare se il risultato delle attività poste in essere sia rispettoso dei livelli considerati soddisfacenti. La produttività, in sostanza, più che esito dei rapporti tra l’insieme dei costi della produzione e del ciclo produttivo (input) e l’insieme dei servizi e beni emanati, con i ricavi derivanti (output), sarà un insieme di controllo della capacità di svolgere l’attività amministrativa nel rispetto dei livelli considerati essenziali ed efficaci.

L’esempio che viene frequentemente proposto è quello dei costi delle prestazioni sanitarie: posto che esse non possono variare, nella loro consistenza, da territorio a territorio, un sistema di standard è finalizzato a stabilire che un livello efficace di una prestazione ospedaliera può essere fissato in un certo costo, sicchè sono rispettosi degli standard gli enti che assicurino la medesima prestazione a costi uguali o inferiori; sono inefficienti quegli enti che eroghino quella stessa prestazione a costi superiori.

Ma, il sistema degli standard non si limiterà solo alla valutazione dei costi, indicatore valido per servizi simili a quelli produttivi, propri di enti come, appunto, le aziende sanitarie oppure ospedaliere, gli enti di assistenza e ricovero, le mense, le biblioteche. Molte attività delle pubbliche amministrazioni non possono misurarsi – se non molto parzialmente – con lo strumento del rapporto costi-prodotto. Gli standard, come si evince dal "Piano industriale" della pubblica amministrazione elaborato dalla Funzione Pubblica saranno riferibili anche alla qualità, a sua volta riconducibile ad elementi non propriamente economici, ma di soddisfazione di alcuni indicatori produttivi: il tempo impiegato, il gradimento da parte degli utenti o altri strumenti.

L’utilizzo di standard valutativi può, inoltre, scongiurare i pericoli:

  1. dell’estrema differenziazione della valutazione: tendenzialmente, l’assenza di standard permette alle molte migliaia di amministrazioni di utilizzare, ciascuna, un sistema di valutazione (e controllo) differente;

  2. dell’autoreferenzialità; infatti, si può registrare la presenza di una pletora di sistemi tutti diversi, ma tutti simili, rispetto ai quali risulta difficile un confronto ai fini del bhenchmarking e la valutazione rischia di essere sostanzialmente autoreferenziale ed introspettiva, rivolta all’interno dell’organizzazione, invece che alla verifica degli effetti esterni dell’attività realizzata.

Il "Piano industriale", suggerisce di migliorare l’utilità dei sistemi di valutazione "promuovendo la gestione orientata al miglioramento continuo, la adozione di standard, la misurazione della soddisfazione ed il benchmarking.

Sarà incentivato il ricorso a modelli di eccellenza, basati su autovalutazione e miglioramento continuo, in linea con indirizzi europei (CAF-Common Assessment Framework) nelle amministrazioni statali e non; sarà data attuazione all’art.11 d.legs 286/99 per la definizione di standard di qualità nei servizi pubblici; sarà promossa la adozione di strumenti per la misurazione ed il miglioramento della soddisfazione dei servizi pubblici on line ed in presenza; saranno valorizzate e disseminate le pratiche di eccellenza anche attraverso premi di rilevanza nazionale, saranno attivate iniziative di benchmarking tra amministrazioni".

Dunque, la verifica della capacità delle strutture avverrà mediante:

  1. indicatori standard comuni, cui confrontare le attività svolte;

  2. confronto tra i risultati di amministrazioni del medesimo comparto;

  3. indagini di gradimento dei cittadini, singoli o associati;

  4. utilizzo di strumenti internazionali, mutuati dalle attività imprenditoriali ma adattati alle specificità pubbliche (come appunto il CAF), per un’autovalutazione mirata a:

    1. considerare l’attività produttiva interna, generalmente oggetto della valutazione da parte delle amministrazioni pubbliche, solo come una parte degli elementi da valutare, ciò che, insomma, abilita le pubbliche amministrazioni a porre in essere i servizi e ad erogare i beni che hanno per destinatari i cittadini;

    2. rilevare gli effetti dell’attività, come ricaduta diretta sulla cittadinanza;

    3. costruire un indice di valutazione che permetta alle amministrazioni inizialmente di fotografare il proprio livello, per permettere, poi, di pianificare un innalzamento progressivo e continuo di tale livello, incidendo principalmente sulle aree che la rilevazione indichi come maggiormente critiche.

Per rendere concrete le previsioni strategiche del "Piano industriale" sul tema della valutazione, l’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge 15/2009 prevede il criterio di "individuare sistemi di valutazione delle amministrazioni pubbliche diretti a rilevare, anche mediante ricognizione e utilizzo delle fonti informative anche interattive esistenti in materia, nonchè con il coinvolgimento degli utenti, la corrispondenza dei servizi e dei prodotti resi ad oggettivi standard di qualità, rilevati anche a livello internazionale".

Si conferma, dunque, che della produttività non si intende dare un’accezione propriamente rispondente al concetto definito (con molta fatica) dalle discipline economiche ed aziendalistiche.

Per evitare che nella pubblica amministrazione si ponga in essere la cosiddetta "parodia della produttività" occorre evitare di girare intorno al problema: la pubblica amministrazione è un settore radicalmente diverso da quello privato. Pertanto, non solo non è detto che strumenti di valutazione della produttività operanti nel privato funzionino anche nel pubblico, ma, in parte, stando alle esperienze di quasi 20 anni, si può affermare che l’applicazione di tali strumenti sia in buona parte fallita.

Le ragioni sono molteplici. Una prima è estremamente evidente: l’attività delle amministrazioni è fortemente influenzata dalla politica. Sicchè, una gestione efficiente e produttiva può non essere l’opzione primaria dell’organo di governo, laddove la scelta gestionale conduca a conseguenze negative in termini elettorali.

In secondo luogo, le amministrazioni non agiscono in un mercato concorrenziale. Per questa ragione, lo "scardinamento" alle regole gestionali derivante proprio dalle scelte politiche rende refrattaria la gestione pubblicistica a regole di produzione private.

In terzo luogo, è in parte anche giusto che sia così. Un servizio come quello della sanità pubblica deve obbedire solo a logiche di produttività, o deve anche rispondere al principio di universalità, diffusione territoriale, apertura massima possibile ad ogni tipo di patologia, ad ogni tipo di paziente, ad ogni prestazione sanitaria?

E’, dunque, il concetto di produttività in parte fuorviante, nel settore pubblico. E’, forse, opportuno soffermarsi su elementi di economia, per comprendere in cosa consista la produttività e capire se il concetto relativo possa in modo efficace essere utilizzato nel settore del lavoro pubblico.

La produttività, in termini estremamente generali, può essere definita come il rapporto tra la le quantità degli input utilizzati per la produzione e le quantità di output prodotti.

Pertanto, la produttività generale di un’azienda aumenta, quanto più elevato il quoziente della divisione tra quantità di input e quantità di output. Per esemplificare sempre in termini generali, la produttività aumenta se la quantità di prodotto aumenta rispetto all’anno precedente, a parità di quantità di input. Allo stesso modo, la produttività aumenta, se l’incremento degli output, rispetto all’anno precedente, è superiore, nonostante anche gli input siano cresciuti. La produttività decresce, nei casi inversi. Ma, la produttività cresce anche se il valore aggiunto dei prodotti cresce, grazie ad operazioni di marketing che rendono detto prodotto più competitivo ed appetibile sul mercato.

Per verificare l’incremento della produttività, tuttavia, non è opportuno aspettare gli esiti di una gestione annuale. Si fa riferimento, dunque, a sistemi di valutazione più immediati: l’unità di misura della produttività dell’industria è, per approssimazione, il valore aggiunto per lavoratore o ora lavorata. Cioè, si calcola quanto il singolo lavoratore è in grado di produrre in più, rispetto ad un determinato dato.

Per esemplificare, la produttività aumenta se per ogni singola ora lavorata, il lavoratore è in grado di produrre invece che 100 bottoni, 105 bottoni e il costo per il rinnovo del macchinario che consente di produrre più bottoni sia compensato dai maggiori introiti derivanti dall’aumento delle vendite.

Le aziende, però, operano nel mercato. Ciò significa che esse non sono autoreferenziali. Non solo debbono creare prodotti di qualità, graditi dal mercato, ma debbono anche individuare quale sia il livello ottimale della produzione, sapere, cioè, quanto produrre. Perché, come è noto, ogni imprenditore deve confrontarsi con la legge dei rendimenti decrescenti: infatti, l’incremento della produzione, superato un certo margine, comporta ad una riduzione della produttività marginale. Sicchè, per l’imprenditore non è sempre utile spingersi oltre quel margine, allo scopo di mantenere la capacità di raggiungere il massimo profitto possibile, cioè la differenza tra i ricavi derivanti dalla vendita dei prodotti e i costi relativi alla sua produzione.

Ovviamente, l’impresa privata conosce sia la quantità dei ricavi (il prodotto tra la quantità realizzata e il prezzo di vendita di ogni singolo prodotto), sia dei costi. Poiché la produttività si incrementa anche in relazione alla riduzione dei costi, che rappresentano un fattore certo, è fondamentale per l’impresa agire per il loro contenimento. L’imprenditore, dunque, è portato a tenere sotto controllo il "costo di produzione", connesso agli strumenti produttivi che utilizza (capitale, lavoro, macchinari) e tutti gli altri fattori di costi fissi e variabili che incidono sul risultato finale. La produttività media è il rapporto tra la quantità massimamente producibile (che è conveniente produrre), rispetto alla quantità complessivamente impiegata di lavoro e macchinari. La produttività marginale è l’incremento di produzione che si avrebbe, per ogni unità di servizio di lavoro, impiegato in più.

Ora, questi elementi di valutazione della produttività per le amministrazioni pubbliche o, meglio, per i servizi e le funzioni non gestite in forma imprenditoriale, non possono applicarsi nella loro integrità. Emergono con chiarezza, infatti, le profonde differenze tra l’azione pubblica e l’autonomia imprenditoriale privata.

Si è detto che l’imprenditore ha l’interesse a non spingere troppo sulla produzione, allo scopo di massimizzare il profitto. L’imprenditore, dunque, tende a tenere sotto stretto controllo sia output che input. Può, cioè, decidere di non estendere la clientela oltre un certo limite, allo scopo di limitare i costi di produzione e mantenere sopra un certo standard la produttività media.

Ma questo un’amministrazione pubblica non può farlo. Un comune, pur avendo diligentemente determinato il costo di produzione di un singolo prodotto, poniamo la carta di identità, non può certamente decidere di limitarne la produzione. Infatti, il comune non agisce sul mercato, nel senso che non è libero di decidere quanto vendere. E’, invece, obbligato a fornire ai cittadini tutte le carte di identità che essi chiedono, senza minimamente poter incidere sulla quantità di output. Dunque, anche laddove fosse evidente che produrre 1100 carte di identità determina una produttività inferire a quella che si avrebbe producendo 1000 carte di identità, in ogni caso l’ente deve rispondere alle richieste dei cittadini.

Al limite, il comune in questo modo è costretto a compiere una scelta che un imprenditore non farebbe mai: incrementare il costo della produzione, assumendo un impiegato addetto all’anagrafe in più, per garantire la produzione delle 100 carte di identità marginali, che l’altro addetto non è in grado di produrre, perché con le capacità lavorative di cui dispone, è capace di produrne non più di 1000.

Si vede, dunque, come un’amministrazione pubblica possa essere indotta a irrigidire la spesa, incrementando costi di produzione e andando incontro, senza difese, alla legge dei rendimenti decrescenti, proprio perché non agisce come e con gli strumenti dell’impresa privata.

Né sarebbe plausibile la previsione di un obiettivo gestionale di riduzione della quantità delle carte di identità. Non è assolutamente prevedibile, in modo serio, quante richieste di nuove carte di identità possano provenire dai cittadini, e non servirebbe un’indagine di mercato. Infatti, non è un mercato e semplici esigenze imprevedibili, quali lo smarrimento del documento, possono modificare i numeri.

Salta, dunque, ogni possibilità di costruire strumenti di valutazione dell’impiegato dell’anagrafe, legati a valutazioni di produttività realmente connessi a criteri privatistici. E questo è solo un esempio, ripetibile per centinaia di altre attività.

Oltre tutto, per il comune risulta fuori controllo o, meglio, non v’è alcun interesse al controllo anche degli input. In effetti, la produttività dell’ufficio anagrafe potrebbe restare entro un certo standard, sebbene non elevato, laddove le 1100 carte venissero prodotte dai due impiegati addetti. Ma, se il comune nel bilancio introduce nuove fonti di entrata, magari allo scopo di finanziare il costo del nuovo impiegato, l’incremento dei fattori di produzione e degli input deprimerebbe ancor di più la produttività, secondo i criteri di una misurazione "industriale".

La difficoltà di individuare indicatori oggettivi della produttività industrialmente intesa è evidente. Da qui due conseguenze. La prima è che l’affermazione secondo la quale l’amministrazione pubblica è improduttiva, sebbene possa sostenersi in base ad osservazioni empiriche, è di difficile dimostrazione, tanto quanto quella contraria.

In realtà, si ha una fondata sensazione che l’amministrazione pubblica sia poco produttiva. Oggettivamente, dovuta più alla consapevolezza delle influenze non sempre positive delle logiche politiche sulla gestione, che a verifiche di produttività, come visto prima non facili.

La seconda è che i sistemi di definizione degli obiettivi gestionali e della produttività finiscono per essere una finzione, l’applicazione acritica di strumenti non adeguati alla realtà pubblica, utilizzati allo scopo di modificare l’immagine, più della sostanza.

L’inadeguatezza di tali strumenti, inoltre, è accentuata da un fatto: enti come i comuni non possono comportarsi come un’azienda non solo per quanto visto prima, ma anche perché producono una gamma vasta e diversificatissima di "prodotti". Nessun’azienda privata produce o produrrebbe una gamma così ampia e diversificata di attività. Le diseconomie ed i problemi gestionali derivanti sarebbero tali da sconsigliare anche il più azzardato degli imprenditori. In ogni caso, un’azienda privata sarebbe portata a gestire le attività spezzettandole, creando, cioè, soggetti specializzati ed autonomi, gestendo i pacchetti azionari e le strategie mediante holding.

Ciò significa che anche la misurazione dei risultati complessivi, invece che quella del singolo settore produttivo, di un’amministrazione pubblica, per quanto possa essere considerata un’idea innovativa, perché supera le logiche industriali, non appare soddisfacente.

Infatti, varie cause, non necessariamente dipendenti dalla produttività dei singoli dipendenti pubblici possono distorcere i risultati: la carenza di formazione, difetti di direzione, fenomeni di sottoutilizzazione, direttive politiche incoerenti.

Occorre, allora, uscire dall’equivoco. La misurazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche deve essere connessa a fattori per lo più qualitativi, non quantitativi. Non si possono prendere di peso sistemi di valutazione della produttività dal privato e riproporli in ambiti non appropriati.

Ai problemi evidenziati sopra cerca di rispondere il criterio di delega contenuto nell’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge 15/2009 che punta decisamente su standard "qualitativi". Sostanzialmente, il legislatore decide di tralasciare o trascendere da valutazioni di carattere strettamente adiendalistico della produttività, per puntare su strumenti che assegnino agli enti valutazioni qualitative, sulla base di complessi elementi ed indicatori.

Il riferimento agli standard è, però, utile per:

  1. fare sì che gli indicatori della valutazione siano omogenei e comuni ai vari enti, in modo da garantire la confrontabilità della qualità dei servizi;

  2. consentire agli enti di connettere l’incremento della produttività non esclusivamente a risultati economico-aziendali, ma alla possibilità di misurare gli incrementi acquisiti in determinate unità di tempo, rispetto agli indici di qualità standard presi a riferimento.

Pertanto, strumenti complessi, che misurano la qualità sia dei fattori di produzione, sia dei servizi resi, come il CAF, permettono di dare della produttività una visione maggiormente aderente alla missione delle amministrazioni pubbliche: capacità di soddisfare i bisogni dei cittadini con l’impiego maggiormente razionale possibile delle risorse, tra le quali quelle dell’organizzazione dei lavoratori risultano decisive.

Trattandosi di una misurazione, dunque, di standard qualitativi, la confrontabilità risulta essere l’elemento irrinunciabile. Non a caso, l’articolo 4, comma 2, lettera a), della legge 15/2009 prevede che la rilevazione della corrispondenza dei servizi resi agli standard oggettivi di qualità avvenga anche mediante la ricognizione e l’utilizzo di fonti informative esistenti. Il legislatore delegato, dunque, è chiamato ad analizzare e, in un certo senso, accreditare fonti, siti internet, elaborazioni dalle quali ricavare gli elementi cognitivi ed operativi, necessari per porre in essere il processo valutativo. E, prima ancora, il processo di riorganizzazione dei sistemi di produzione, necessario per ottenere gli incrementi qualitativi cui puntare.

Il criterio di delega, inoltre, evidenzia anche l’intenzione di utilizzare il coinvolgimento degli utenti. In effetti, trasponendo la valutazione della produttività in una valutazione della qualità dei servizi, risulta decisivo conoscere come i destinatari dell’attività amministrativa percepiscano tale qualità. Conoscere l’opinione dei destinatari dei servizi sulla loro qualità è fondamentale per realizzare strumenti di valutazione veramente completi ed autoreferenziali.

Il riferimento agli standard non è casuale, né applicabile esclusivamente al lavoro pubblico. Al contrario, la standardizzazione dei risultati dell’attività esito del lavoro pubblico è la conseguenza e rispecchia un’organizzazione pubblica composta da enti ed uffici pubblici a loro volta impegnati a svolgere funzioni standardizzate, attraverso l’utilizzo di risorse anch’esse conformi a standard di varia natura.

Vi è, allora, una chiara simmetria tra la legge 15/2009 e la legge 42/2009 sul federalismo fiscale, che quale in più di un passaggio richiama standard cui la pubblica amministrazione deve puntare, per garantire che l’obiettivo – molto difficile da raggiungere – della diffusione dei centri di acquisizione e spesa delle risorse sia conseguito col risultato di ottenere una razionalizzazione della spesa ed un abbassamento della pressione fiscale.

La legge 42/2009 insiste in maniera particolare sulla standardizzazione. Si prevede, tra i criteri della delega legislativa ivi contenuta, ad esempio la "determinazione del costo e del fabbisogno standard quale costo o fabbisogno oggettivo che, valorizzando l’efficienza e l’efficacia, e tenendo conto anche del rapporto tra il numero dei dipendenti dell’ente territoriale e il numero dei residenti, costituisce l’indicatore rispetto al quale comparare e valutare l’azione pubblica nonché gli obiettivi di servizio cui devono tendere le amministrazioni regionali e locali nell’esercizio delle rispettive funzioni".

Non è chi non veda, dunque, la stretta correlazione tra gli standard relativi ai costi generali dell’azione amministrativa e gli standard di efficienza o produttività.

La legge 42/2009, anzi, introduce un primo indicatore: il fabbisogno oggettivo di prestazioni, al quale deve corrispondere un livello di erogazione dei servizi ed un certo costo. Questo va parametrato, tra l’altro, al rapporto tra la quantità dei dipendenti dell’ente ed il numero dei residenti. Tali parametri determineranno un indicatore del costo standard rispetto al fabbisogno, da utilizzare per confrontare il livello dei servizi e dei loro costi tra le varie amministrazioni.

In particolare, il fabbisogno standard è costituito dall’insieme dei finanziamenti posti a garantire alla cittadinanza i servizi e le funzioni utili per assicurare livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione. Dunque, il fabbisogno standard rappresenta un livello di servizi diffuso e comune su tutto il territorio, da considerare basilare e inderogabile.

La maggiore efficienza e produttività delle amministrazioni, pertanto, deriverà dal miglioramento del risultato dei rapporti tra gli standard, dai quali derivano gli indicatori. Ad esempio, se a parità di popolazione residente in un ente locale e a parità di servizi resi si riduce il numero del personale, l’indicatore dimostrerà una crescita dell’efficienza del servizio, sintomo di produttività superiore.

Il rischio, però, degli standard è di non tenere nel dovuto conto alcune peculiarità anche di natura storica delle amministrazioni, in particolare quelle locali. Il rapporto tra numero dei dipendenti e la popolazione non può essere né l’unico, né il principale per determinare il costo standard del fabbisogno. Infatti, la differenza, talvolta anche molto rilevante, del numero di dipendenti tra un ente ed un altro dipende da quanti servizi sono prodotti direttamente e quanti sono appaltati o, comunque, esternalizzati. Occorre considerare che storicamente in certi territori le amministrazioni hanno puntato di più ad una produzione interna delle funzioni e dei servizi, mentre in altri è vero il contrario.

Il costo standard dei servizi, corrispondente al fabbisogno, allora deve considerare un insieme economico composto non solo dal costo del personale, per quanto importante possa essere tale elemento, ma anche delle spese per approvvigionamento di servizi. Applicando parametri per depurare le differenze di costi sarà realmente possibile mirare a costi effettivamente paragonabili tra tutti gli enti.


 

[1] Sul tema: Il Common Assessment Framework (CAF) Migliorare un’organizzazione attraverso l’autovalutazione, in http://www.eipa.eu/files/File/CAF/Brochure2006/Italian_2006.pdf; http://www.qualitapa.gov.it/centro-risorse-caf/.

[2] T. Boeri e P. Garibaldi, La via burocratica alla produttività, in www.la voce.info.


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