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Articoli e note

n. 1/2004  - © copyright

LUIGI OLIVERI

Brevi note alla circolare sul lavoro a progetto – il lavoro para autonomo

 

E’ da apprezzare il fatto che, per una volta, una circolare ministeriale tesa ad esplicitare meglio il senso di una norma di legge abbia, effettivamente, cercato di chiarire operativamente alcuni elementi normativi, senza introdurne di nuovi.

Questo è il principale dei meriti della circolare 8 gennaio 2004, n. 1, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e, contemporaneamente, anche il principale limite. La circolare, in effetti, non riesce ad aggiungere elementi cognitivi particolarmente apprezzabili alla fattispecie del lavoro a progetto, anche perché i contenuti del d.lgs 276/2003, in merito, sono sufficientemente chiari e approfonditi.

Uno degli elementi, tuttavia, di maggiore pregio della circolare ne è l’oggetto, rubricato “disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative nella modalità c.d. a progetto” e nel consequenziale passaggio, con il quale la circolare chiarisce che l’articolo 61 del d.lgs 276/2003 non abroga, né modifica, l’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile, ma, invece, individua lo modalità di svolgimento delle collaborazioni, al fine di comprendere se esse siano riconducibili al lavoro autonomo o a quello subordinato.

Questo è, in effetti, un meritorio chiarimento. A ben vedere, gli articoli 61 e seguenti del d.lgs 276/2003 non hanno introdotto una nuova fattispecie lavorativa, il lavoro a progetto, al posto delle collaborazioni coordinate e continuative.

Il contenuto innovativo del decreto attuativo della legge c.d. Biagi, per quanto qui ci interessa, non è, dunque, nell’introduzione di un istituto, prima inesistente, quanto, invece, nella enunciazione espressa di una regolamentazione normativa di un istituto che, in precedenza, era regolamentato quasi esclusivamente dall’autonomia contrattuale delle parti. Per questo si consideravano le collaborazioni coordinate e continuative come contratti “atipici”, per la loro caratteristica di rapporti insorti di fatto in esplicazione dell’autonomia delle parti, in assenza di un modulo legislativo.

La circolare, in questo senso, è correttamente in linea con quanto stabilisce l’articolo 61 del d.lgs 276/2003, il quale, infatti, si riferisce espressamente proprio ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevedendo che debbono ricondursi, per dare luogo effettivamente ad un rapporto autonomo e non subordinato, a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, nel rispetto dell’autonomia del collaboratore, del coordinamento del committente e dell’irrilevanza del tempo di lavoro rispetto all’esecuzione delle attività lavorative poste in essere [1].

Dunque, il lavoro a progetto non è uno schema contrattuale diverso dalle collaborazioni coordinate e continuative. E’, invece, la modalità con le quali dette collaborazioni debbono essere realizzate. L’articolo 61 del d.lgs detta i presupposti essenziali che caratterizzano le collaborazioni; gli articoli seguenti definiscono meglio, tipicizzando la fattispecie, forma e contenuto dei contratti, modalità di definizione del corrispettivo, obblighi reciproci delle parti e le sanzioni, nel caso in cui si violino i presupposti previsti dall’articolo 61 stesso.

Proprio perché le norme sul lavoro a progetto non hanno modificato né sostituito la disciplina contenuta nel codice di procedura civile, né quella sulla prestazione d’opera, restano al di fuori dalla fattispecie delle collaborazioni non solo i tipi di attività elencati dal comma 3 dell’articolo 61 (ed esplicitate dalla circolare), ma tutti quei tipi di lavoro realmente autonomo che rientrino nella categoria del contratto d’opera di cui all’articolo 2222 e seguenti del codice civile.

La circolare, per tale ragione, ritiene possibile che il superamento dei limiti di durata e di importo del compenso previsti dall’articolo 61, comma 2, del d.lgs 276/2003 per definire quando si sia in presenza di prestazione occasionale, non necessariamente conduce il rapporto tra committente e prestatore allo schema del lavoro a progetto, potendosi anche configurarlo come prestazione d’opera.

Questo passaggio della circolare appare particolarmente delicato, in quanto se letto in maniera non corretta potrebbe aprire delle crepe nel sistema di tipicizzazione delle collaborazioni che il d.lgs 276/2003 ha voluto creare.

In effetti, per superare i presupposti per la validità delle collaborazioni nelle modalità a progetto, basterebbe qualificare il rapporto tra le parti come prestazione d’opera: si ricreerebbe quella zona “grigia” di regolamentazione che la riforma “Biagi” ha, invece, voluto superare al fine, come scrive la circolare, di “impedire l’utilizzo improprio o fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative”. Una lettura malevola del riferimento all’articolo 2222 potrebbe condurre, dunque, a mistificare il lavoro subordinato invece che con le collaborazioni a progetto, mediante prestazioni d’opera, in modo da superare i nuovi vincoli imposti dal legislatore.

E’ evidente, tuttavia, che della circolare occorre dare una lettura restrittiva e diversa. Le collaborazioni coordinate e continuative nella modalità a progetto non sono in rapporto di alternatività con il contratto d’opera, nel senso che se non si applica l’articolo 61 del d.lgs 276/2003, allora si ricade nella fattispecie dell’articolo 2222 del codice civile.

Entrambe le prestazioni lavorative considerate condividono l’assenza del vincolo di subordinazione nei confronti del committente. Ma, il contratto d’opera è caratteristico di un soggetto che svolge un’attività lavorativa del tutto autonoma rispetto al committente, tanto, da un lato, da poter essere resa indipendentemente dall’attività lavorativa del committente, dall’altro da poter essere resa senza alcun coordinamento del committente e con utilizzo anche prevalente di materiali e mezzi forniti dal prestatore stesso. Inoltre, il contratto d’opera, per lo più, anche se comporti un’attività che si prolunghi nel tempo, non implica continuatività di rapporto col committente.

La collaborazione coordinata e continuativa, al contrario, prevede necessariamente un rapporto continuativo tra committente e collaboratore, perché quest’ultimo rende una prestazione che, invece, è accessoria al ciclo produttivo, pur non facendo parte dello stesso. Tale prestazione viene resa in via continuativa, sinchè il ciclo ne abbia bisogno (in altre parole, finchè il progetto non sia conseguito), sulla base di un sistema di lavoro che impone un coordinamento attivo del committente ed esclude quasi del tutto la possibilità che il collaboratore fornisca materia, macchinari e beni.

Dunque, se un rapporto di collaborazione non rientra nella fattispecie delle prestazioni occasionali, sarà configurabile come contratto d’opera solo in presenza dei precisi requisiti che caratterizzano tale tipo di prestazione, evidenziati sopra. Il contratto d’opera, in sostanza, non è altro che l’archetipo di quel lavoro autonomo vero e proprio di cui parla la circolare, che lo caratterizza proprio per la mancanza del coordinamento e della continuità delle prestazioni, nonché per l’assoggettamento ad obblighi contributivi del tutto diversi da quelli previsti per le collaborazioni coordinate e continuative.

Pertanto, ove un committente dissimuli una prestazione di lavoro subordinato attraverso un contratto d’opera, certamente in via giudiziale sarebbe possibile ottenere il riconoscimento del rapporto subordinato.

Un altro elemento di particolare interesse della circolare è riferito al tempo ed alla remunerazione del collaboratore. Utile è la sottolineatura che il tempo di lavoro è irrilevante ai fini dell’esecuzione della prestazione. Il collaboratore, in altre parole, effettua la sua prestazione al di fuori di uno schema rigido ed unilateralmente determinato dal committente di impiego del tempo. La sua autonomia consiste anche in questo: nell’utilizzare, ovvero, il tempo che la prestazione richiede senza vincoli fissati dall’esterno. Il committente ha la possibilità di incidere sul tempo di lavoro attraverso le forme di coordinamento oggetto del contratto, ad esempio prevedendo stati di avanzamento dei lavori, come momento di verifica dell’andamento dell’attività. La circolare indica con efficacia che “l’interesse del creditore è relativo al perfezionamento del risultato convenuto e non, come avviene nel lavoro subordinato, alla disponibilità di una prestazione di lavoro eterodiretta”. Uno degli elementi che qualificano le collaborazioni rispetto al lavoro subordinato è proprio questo: nel lavoro subordinato il tempo di lavoro è del datore di lavoro e il lavoratore è comunque obbligato a rendere una prestazione di mezzi, operare in quell’ambito orario fissato dal datore. Nell’ambito delle collaborazioni il tempo di lavoro è rimesso all’autonomia del collaboratore, fermo restando che il committente potrà utilizzare gli strumenti pattizi finalizzati a verificare come la prestazione proceda.

Così stando le cose, è evidente che la retribuzione non può e non deve essere connessa al tempo materialmente impiegato per rendere la prestazione. Il collaboratore deve essere remunerato per la sua capacità di raggiungere il risultato previsto dal contratto. Ecco, dunque, che il corrispettivo deve essere connesso alla natura e alla durata del progetto ed al risultato previsto, sicchè, sottolinea condivisibilmente la circolare, le parti potranno prevedere nel contratto criteri che escludano del tutto o parzialmente la corresponsione del corrispettivo, qualora il risultato non sia stato raggiunto in tutto, o in parte.

Pertanto, non sarà ammissibile o corretto commisurare la remunerazione del collaboratore rispetto alla quantità di ore dedotta in contratto, né, tanto meno, riferirsi alle retribuzioni previste dalla contrattazione collettiva per i lavoratori subordinati.

Allo stesso modo, se il contratto di collaborazione prevede espressamente un termine finale, la retribuzione prevista va attribuita per intero al collaboratore, anche nell’ipotesi in cui questo abbia concluso il progetto prima dello scadere del termine (ipotesi che, anzi, dovrebbe essere auspicata dal committente).

Inoltre, il tempo risulta un elemento accessorio recessivo rispetto al risultato, nel senso che qualora le parti non abbiano qualificato come essenziale il termine finale di resa della prestazione, è la conclusione effettiva del progetto che determina, ex post, la durata del contratto. Allo stesso modo, le parti possono anche non predeterminare il termine finale, in quanto decidano di individuarlo appunto in via successiva, in coincidenza con la conclusione del progetto.

Proprio rispetto al progetto e/o programma, la circolare pare denunciare un altro suo punto debole. Infatti, le definizioni offerte dell’uno e, soprattutto, del programma, appaiono poco diffuse e persuasive.

Se è condivisibile l’osservazione che il progetto “consiste in un'attività produttiva ben identificabile e funzionalmente collegata ad un determinato risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione”, meno efficace appare l’affermazione che “il progetto può essere connesso all’attività principale o accessoria dell’impresa”. In effetti il progetto deve essere connesso alle attività dell’impresa. Può essere connesso a quella principale, oppure a quella accessoria, ma non può essere esterno all’attività di impresa, altrimenti non vi sarebbe l’elemento del coordinamento con l’organizzazione del committente.

Sarebbe stato, tuttavia, più utile definire meglio i requisiti dei progetti, anche per dare modo agli operatori di stilarli in maniera corretta. In ogni caso, è noto che un progetto è un insieme di azioni coordinate, ideate per ottenere un determinato obiettivo, usando un budget specifico, in un intervallo temporale definito.

Elementi caratterizzanti la presenza di un progetto aziendale potranno essere la verifica dell’esistenza di studi di pre fattibilità e di fattibilità miranti ad evidenziare il bisogno da soddisfare (cioè l’obiettivo da raggiungere), di elaborati progettuali veri e propri corredati da previsioni di spesa, valutazioni costi/benefici, nonchà da azioni di monitoraggio e valutazione, intermedi e finali.

Ancora meno efficace appare la definizione che la circolare fornisce del “programma”, caratterizzato per il fatto di essere preposto alla produzione di un risultato solo parziale, destinato ad essere integrato da altri risultati o lavorazioni.

In effetti, il criterio della parzialità del risultato pare correttamente riferibile alla “fase” del programma, intesa come segmento di attività che conduce ad un risultato di per sé non esaustivo di un’attività imprenditoriale completa, ma accessoria a questa, come suo necessario presupposto.

Il programma, a ben vedere, non può essere privo del fine rivolto alla produzione di un preciso risultato, perché se così fosse, allora sarebbe troppo semplice aggirare la disciplina del lavoro a progetto per porre in essere rapporti subordinati sotto mentite spoglie.

Il programma, in realtà, consiste in un insieme aggregato di progetti, finalizzati tutti ad un obiettivo di carattere più ampio di quello previsto da ciascuno di loro.

Pertanto, il programma si presenta per il minore dettaglio operativo, ma deve sempre aver chiaro il suo obiettivo, la sua stretta connessione con un’utilità per l’impresa, il suo budget di massima, le fasi attuative che, in fondo, altro non sono che progetti di dettaglio operativo.

In relazione alle caratteristiche delle collaborazioni nella modalità a progetto evidenziate dalla circolare, appare, forse, opportuno abbandonare il concetto classicamente utilizzato di “lavoro parasubordinato” per definire le collaborazioni. Tale accezione, infatti, enfatizza eccessivamente i punti di contatto tra le collaborazioni ed il lavoro dipendente.

La tipicizzazione, invece, delle collaborazioni nella modalità a progetto, operata con la riforma “Biagi” ha l’opposto scopo di tracciare con maggiore chiarezza le linee di confine che separano questa forma di lavoro, dal lavoro subordinato. Parlare, allora, di lavoro “para autonomo” renderebbe, probabilmente, meglio l’idea di un tipo di prestazione lavorativa che deve svolgersi con i parametri dell’autonomia operativa e retributiva ed in funzione del risultato e che con il lavoro subordinato sta solo in rapporto di piena antiteticità. Tanto che se la collaborazione non ha in sé i requisiti di autonomia previsti dalla legge, ricade, per via sanzionatoria, nel lavoro subordinato.

 


 

[1] Da questo punto di vista, la considerazione contenuta nella circolare secondo cui la pubblica amministrazione può continuare a stipulare contratti di collaborazione mantenendo il riferimento all’articolo 409, numero 3, del codice di procedura civile mostra tutta la sua debolezza interpretativa. Si tratta di un approccio solo formale ad un problema che ha, invece, caratteri sostanziali ben più pregnanti. Se, infatti, il lavoro a progetto è una modalità esplicativa delle collaborazioni, il riferimento all’articolo 403, numero 3, del codice civile non esclude per nulla le amministrazioni pubbliche dal rispetto dei presupposti propri del lavoro a progetto, ricavabili da norme di stampo pubblicistico, che determinano una confluenza della disciplina privatistica nel campo pubblico. Infatti, non è possibile immaginare, a pena di violare la disciplina sulla contrattualistica e contabilità pubbliche, contratti di collaborazione privi di un progetto, in quanto mancherebbe la motivazione alla base dell’incarico, la determinazione dell’obiettivo e la quantificazione della spesa, con gravi conseguenze di legittimità per carenza dell’impegno contabile; allo stesso modo, non sarebbe possibile immaginare un contratto di collaborazione privo della forma scritta e dei criteri per coordinare il lavoro del collaboratore; ancora, la fissazione del corrispettivo in relazione al risultato è essenziale ai fini della quantificazione del compenso e dell’impegno di spesa. Dunque, i requisiti del lavoro a progetto debbono essere presenti anche nelle collaborazioni disposte dalle amministrazioni pubbliche, pur se non direttamente tratti dal d.lgs 276/2003, ma da altre disposizioni, prime tra tutte l’articolo 7, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e, per gli enti locali, l’articolo 110, comma 6, del d.lgs. 267/2000.


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