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Articoli e note

n. 1/2006 - © copyright

LUIGI OLIVERI

La nuova figura dell’incarico dirigenziale a contratto
a tempo determinato-indeterminato; note semiserie al d.l. 4/2006

In tempi di spasmodica ricerca degli strumenti per trasformare in contratti a tempo indeterminato gli incarichi dirigenziali “a contratto”, la fantasia del legislatore tocca vette ancora inesplorate.

Poiché l’approvazione degli emendamenti vari finalizzati a stabilizzare i contratti per i dirigenti di staff agli organi di governo appare solo questione di tempo, ci si avvicina al risultato con la politica dei piccoli passi.

Ne è esempio l’articolo 15 del decreto legge 4/2006, norma di specialissima e sottile originalità.

Si modifica il secondo periodo dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 (quello che, appunto, prevede gli incarichi a contratto ad esterni, o anche interni alle amministrazioni conferenti, previamente posti in aspettativa ed anche se non abbiano lo status di dirigenti) stabilendo che “la durata di tali incarichi, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”.

Chapeau. Norma più innovativa non poteva essere prevista. Soprattutto, se inquadrata nell’ambito di un decreto legge il cui fine dichiarato consiste nel porre un forte limite agli istituti di lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni, in particolare collaborazioni e tempi determinati.

Infatti, il decreto legge intende certamente:

1)     porre un – condivisibile – freno alle collaborazioni coordinate e continuative;

2)     porre un – altrettanto condivisibile – limite al ricorso ai contratti a tempo determinato, come surrogato dei contratti a tempo indeterminato non attivabili causa blocchi delle assunzioni;

3)     allo scopo – condivisibilissimo – di non creare un “precariato endemico” nella pubblica amministrazione.

Le forme flessibili di lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione, pur espressamente ammesse dall’articolo 36, comma 1, del d.lgs 165/2001 e dalla contrattazione collettiva, indubitabilmente costituiscono una “cattiva” forma di lavoro, per la semplice ragione che, con l’eccezione dei contratti di formazione e lavoro, non possono mai (finchè sia vigente l’articolo 97 della Costituzione) sboccare in lavoro a tempo indeterminato, come, invece, avviene nel lavoro privato.

Appare, però, evidente il seguente paradosso. Complessivamente, il numero di contratti a tempo determinato e di collaborazioni che il decreto-legge tende a limitare è molto ampio e, certamente, la lotta alla “cattiva flessibilizzazione” del lavoro pubblico porta, teoricamente, anche al risultato di un consistente risparmio di risorse. Singolarmente, tuttavia, i contratti a tempo determinato e le co.co.co. difficilmente hanno costi troppo elevati.

Inoltre, per quanto leggendo le sentenze della Corte dei conti non sia raro incappare in contratti di collaborazione “a vita”, tuttavia generalmente le co.co.co. hanno una vita (per singolo contratto ) breve, inferiore all’anno.

I contratti a tempo determinato, per loro verso, in applicazione del d.lgs 368/2001, generalmente hanno una durata iniziale piuttosto contenuta (sei mesi, un anno) ed eventualmente, se prorogati, possono giungere nel massimo ai 3 anni.

Questo è il dato paradossale. Un contratto a tempo determinato di un bidello di un centro di formazione professionale pubblico, se va bene, può durare, proroga compresa, tre anni.

Un contratto dirigenziale “flessibile”, invece, deve avere, per legge, una durata “minima” di un triennio.

Per altro, sembra di essere in presenza della prima volta che una norma fissa un termine “minimo” di durata di un contratto a termine.

Sin qui, era dato conoscere contratti che, appunto, in quanto a tempo determinato, trovassero un limite nel termine finale, dunque massimo.

Altro dato paradossale: gli incarichi dirigenziali ai dirigenti di ruolo (che non sono rapporti di lavoro a tempo determinato, ma l’assegnazione a tempo determinato di funzioni dirigenziali) hanno una durata massima di tre o cinque anni. Non si prevede neanche quel minimo, che appare necessario, di un anno, tempo indispensabile per una gestione completa di un bilancio e, dunque, per una consapevole e non solo formale valutazione.

Difficile comprendere la ratio della fissazione di una durata minima di un contratto a tempo determinato, per giunta di ben tre anni.

Si potrebbe obiettare che trattandosi di un “incarico” allora non si è in presenza di un rapporto di lavoro.

Questo equivoco deve essere risolto una volta e per sempre. Gli incarichi di cui all’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e di cui all’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 sono contestualmente:

a)     un’assunzione a tempo determinato, in base alla quale si instaura il rapporto organico;

b)     un incarico dirigenziale, che determina l’insorgere del rapporto di servizio.

Un'unica fattispecie, l’incarico a contratto, racchiude elementi molto ben distinti nel caso dei dirigenti di ruolo, per i quali è evidente la distinzione del rapporto organico, scaturente dal concorso, e il rapporto di servizio, frutto, di volta in volta, dell’incarico di funzioni dirigenziali a tempo determinato.

Pertanto, gli incarichi a contratto, sono contratti a tempo determinato. E qui si pongono, da anni, seri problemi di costituzionalità, in quanto la deroga al concorso pubblico è evidente e occorrerebbe una ragione molto convincente dal punto di vista della sua razionalità ed opportunità per individuarne una compatibilità con la Costituzione.

Per esemplificare, mentre un incarico a contratto dirigenziale:

1)     è retribuito con stipendi, ovviamente, di livelli dirigenziali;

2)     comporta che il destinatario eserciti rilevanti funzioni e poteri pubblici;

3)     avviene senza concorso;

4)     dura come minimo tre anni;

il contratto a termine del bidello di cui sopra:

1)     è retribuito con stipendio, ovviamente, di livello esecutivo;

2)     non attribuisce al destinatario l’esercizio di poteri pubblici;

3)     eppure, richiede il concorso o, a seconda del livello, la selezione a seguito della formazione di liste da parte dei Centri per l’impiego;

4)     dura come massimo tre anni.

Per utilizzare termini meno giuridici e più di cronaca, appare evidente che l’articolo 15 del decreto legge 4/2006 è l’apertura della porta verso la cooptazione dei dirigenti “di fiducia” a tempo indeterminato.

Il passo ormai è breve. Prima del d.lgs 80/1998, tali incarichi, pur preesistenti, erano comunque realmente un’eccezione.

Con il d.lgs 80/1998, v’è stata l’estensione a figure molto qualificate e, dunque, un contenimento di fatto, di carattere tecnico.

Dal 2004 in avanti, dopo alcune aperture delle sezioni di controllo della Corte dei conti, v’è stata l’apertura agli incarichi a dipendenti degli enti incaricanti, privi di qualifica dirigenziale, poi assurta a norma di legge grazie alla legge 168/2005, di conversione del d.l. 115/2005.

Ora, si assicura agli incaricati un periodo “aureo” di almeno tre anni. Nell’attesa dell’agognata norma che consenta la trasformazione di detti incarichi in rapporti a tempo indeterminato per cooptazione.

L’originalità del legislatore va approvata ed assecondata. Ci si chiede, per risolvere ogni problema, perché non si adotti una soluzione tutto sommato semplice e coerente con le norme.

Invece di insistere sulle conversioni degli incarichi a contratto in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, basta proseguire l’opera avviata col decreto legge 4/2006 e mantenere gli incarichi a contratto come contratti a tempo determinato. A questo punto, è opportuno prevedere come termine minimo del contratto, l’esistenza in vita dell’incaricato.

Nessuno potrebbe negare che si tratti comunque di contratto a tempo determinato (salvi improbabili casi di immortalità). Contestualmente, non vi sarebbero più gli “scabrosi” problemi della trasformazione dei rapporti, che, pur a termine, dovrebbero così avere la durata sufficiente all’occorrenza.


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