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Articoli e note

n. 6/2006 - © copyright

LUIGI OLIVERI

L’equivoca figura del direttore generale del Comune

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L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. Unite civili 12 giugno 2006, n. 13538 (in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/61/casssu_2006-06-12o.htm), è l’ulteriore conferma dell’equivocità del ruolo, delle funzioni e della stessa fonte di legittimazione del direttore generale dei Comuni.

Si tratta di un’ordinanza relativa alla giurisdizione. Non era, probabilmente, la sede corretta per approfondire i temi riguardanti il direttore generale. In effetti, la Cassazione dice e non dice, afferma di sfuggita, paragona ma non conclude, il tutto nell’esclusivo intento di trovare il bandolo della matassa in merito alla sussistenza della giurisdizione ordinaria relativamente alla revoca dell’incarico.

Oggettivamente, il corretto inquadramento del direttore generale appare operazione complicata, dato il carattere omissivo e confusionario dell’articolo 108 del d.lgs 267/2000.

Si tratta di una norma evidentemente piuttosto pasticciata, figlia del momento storico nel quale essa venne in essere, con la legge 127/1997.

Come è noto, la legge Bassanini-2 tra i suoi obiettivi ebbe un riordino della figura del segretario comunale, allo scopo, da un lato, di evitare che si tenesse il referendum che ne aveva chiesto l’eliminazione. Dall’altro, “salvata” la figura del segretario, allo scopo di garantire una flessibilizzazione delle figure di vertice degli enti locali, allo scopo di permettere ai sindaci di creare una dirigenza omogenea agli intenti politici, si introdusse la figura del direttore generale e dei dirigenti a contratto.

In particolare, la previsione del direttore generale ha avuto alcune finalità:

1)                             fare da “ombrello” protettivo rispetto alla legittimità di scelte organizzative di alcuni grandi enti (ad esempio, Bologna e Udine) che avevano già introdotto la funzione di un “direttore operativo”, molto simile al direttore generale, senza che nessuna norma lo consentisse;

2)                             limitare l’operatività del segretario comunale, che, infatti, quando risulta nominato un direttore generale esterno si vede di molto diminuito lo spettro di attività;

3)                           condizionare lo svolgimento delle funzioni, sempre del segretario comunale, in quanto detto funzionario risulta sostanzialmente il primo della lista dei possibili candidati al conferimento dell’incarico di direttore generale. Ed è evidente che la richiesta/prospettazione dell’incarico innesca tra sindaco e segretario un rapporto para-negoziale, che ha, nei fatti, di molto indebolito il ruolo di autonomia e garanzia proprio della figura del segretario comunale, nel precedente regime.

L’articolo 108 del d.lgs 267/2000 appare un capolavoro di norma omissiva: brilla soprattutto per la mancanza di indicazioni specifiche su competenze e funzioni del direttore.

Sembra si sia trattato di un intento preciso, in modo da lasciare, poi, a statuti e regolamenti locali una funzione di precisazione e dettaglio, che ha portato, nei fatti, a storture e disallineamenti dalla stessa fonte normativa piuttosto evidenti.

Appare chiaro che quando l’articolo 108 prevede che il direttore generale “provvede ad attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, e che sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia e di efficienza”, dice veramente poco, o, forse, tutto e il contrario di tutto.

L’unica funzione che emerge chiaramente è quella della sovrintendenza della dirigenza (per altro, interpretata nei modi più disparati in ciascun ente). Il raggiungimento degli obiettivi è petizione di principio di scarsa utilità, dal momento che non qualifica in maniera particolare la funzione del direttore generale, essendo un obbligo proprio di tutti i dirigenti, ma anche dei dipendenti privi di qualifica dirigenziale.

Molto si è insistito sull’enfatizzazione dei livelli ottimali di efficacia e di efficienza, considerata come traccia delineante un profilo professionale del direttore generale particolarmente orientato verso l’aziendalizzazione. Salvo, poi, reperire rilevanti smentite: infatti, la maggior parte dei direttori generali sono i segretari comunali, la cui formazione professionale di base è certamente diversa, ma la cui cognizione ampia e completa dei meccanismo operativi propri della pubblica amministrazione, oltre alle tecniche gestionali acquisite negli anni, ne hanno fatto il soggetto più idoneo, a ben vedere, a svolgere la funzione.

Ulteriore smentita alla presunta valorizzazione del profilo professionale aziendalista del direttore generale è derivata, poi, dai fatti: molti direttori generali esterni, non coincidenti col segretario comunale, sono stati spesso incaricati prescindendo quasi del tutto dalla valutazione delle competenze proprie richieste per la figura, puntando molto, invece, sul ruolo politico.

Lo si evince dalla stessa questione della quale si è occupata l’ordinanza della Cassazione. Il comune interessato, Erba, allo scopo di difendere il proprio provvedimento di revoca e sostenere la giurisdizione amministrativa afferma:

1)                             che la nomina, come la revoca, “ha natura di atto ampiamente discrezionale, di alta amministrazione, caratterizzato da fiducia politica”;

2)                             detto atto “non costituisce un rapporto di impiego […], ma determina la stipulazione di un contratto dì lavoro autonomo professionale all’esito di un procedimento amministrativo nell’ambito del quale la situazione dell’aspirante è di interesse legittimo, così come lo è rispetto all’atto di revoca della nomina (in proposito, sono richiamati i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di rapporto di lavoro del direttore generale di azienda sanitaria locale);

3)                             l’incarico avrebbe potuto essere conferito anche ad un assessore, o comunque ad un soggetto non avente la qualità di dipendente pubblico.

Il comune interessato ammette di aver configurato il direttore generale come grande parte di altre amministrazioni locali: un incarico sostanzialmente politico, connotato da un legame fiduciario molto forte tra amministrazione ed incaricato, tanto da non richiedere, appunto, valutazioni sulla professionalità, quanto, piuttosto, sulla “coesione” [1] con l’orientamento politico dell’amministrazione in carica.

Ora, la Cassazione agevolmente smentisce l’approccio del comune, argomentando che appare vano il tentativo di dimostrare che quello del direttore generale non è un rapporto di lavoro subordinato, ma autonomo.

Altrettanto semplice è anche dimostrare che il direttore generale non è un organo politico, poiché il d.lgs 267/2000 menziona tra gli organi politici, in un’elencazione chiusa, solo sindaco, giunta e consiglio.

E’ opportuno soffermarsi su queste considerazioni. Per quanto la Cassazione, come anche il giudice amministrativo [2], correttamente sottolinei che il direttore generale non è un organo politico, sembra poco utile ammettere che nei fatti le funzioni del direttore generale sono vissute come incarico politico. E, non di rado, i meccanismi di nomina, controllo e revoca, si fondano non tanto sulla valutazione dell’efficacia ed efficienza che il direttore generale dovrebbe assicurare al perseguimento dei risultati dell’azione amministrativa, quanto sulla conferma del rapporto di fiducia politica, non sempre legato a serie valutazioni di risultato.

Continuare a fare finta di ignorare che la figura del direttore generale ha una veste giuridica formalmente tecnica, che però viene trasfigurata nella operatività di ogni giorno in funzione politica, può essere utile a superare problemi tecnici quali l’individuazione della giurisdizione. Ma non fornisce alcun beneficio all’organizzazione degli enti, alla correttezza della gestione dei rapporti tra organi di governo e tecnici e tra direttore generale e dirigenti.

L’ordinanza della Cassazione mette in evidenza che il direttore generale non è organo politico; è esso stesso un dirigente; ma è investito di compiti e funzioni che valgono a conferirgli una posizione differenziata rispetto a quella degli altri dirigenti.

Nel pensiero filosofico razionale simile affermazione apparirebbe di difficile comprensione. Parmenide affermò che solo “l’essere è”, mentre “il non essere non è”: in altre parole, occorre piena coerenza nell’affermare l’esistenza o meno di qualcosa.

Se si afferma che il direttore generale non è un organo politico, si dovrebbe affermare che è un dirigente e non contestualmente ritenere che sia qualcosa di diverso da un dirigente, pur, contestualmente, essendo un dirigente.

Ovviamente, la confusione definitoria del ruolo, della configurazione, delle funzioni del direttore generale sono conseguenza della vaghezza dell’articolo 108 del d.lgs 267/2000.

Sembra, comunque, un passo rilevante l’aver preso, sia pure solo incidentalmente, atto della posizione differenziata del direttore generale rispetto ai dirigenti. Tra le due figure professionali intercorre un regime di differenziazione di funzioni e responsabilità, desumibile dal combinato disposto dei commi 2 e 5 dell’articolo 107 del de.lgs 267/2000, tendente ad assicurare che, reciprocamente, i dirigenti non possano ingerirsi nelle competenze del direttore generale, e viceversa.

Resta l’ultimo elemento dell’ordinanza: la constatazione che poiché l’incarico al direttore generale viene attribuito al di fuori di una procedura di evidenza pubblica, per questa ragione è un incarico interamente privatistico.

La Cassazione ha, però, liquidato con troppa fretta la questione. Un conto è che il direttore generale nel caso concreto sia stato scelto senza procedura di evidenza pubblica. Diversa circostanza è verificare se l’assenza di tale procedura sia legittima e, dunque, prevista dalla legge.

A ben vedere, l’articolo 108 prevede che il direttore generale sia nominato “secondo criteri stabiliti dal regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi”. La legge, pertanto, non esclude per nulla, ma anzi sembra imporre, che all’assunzione del direttore generale esterno si giunga necessariamente in base ad una procedura, conforme ai criteri.

La legge non stabilisce quali debbano essere detti criteri, lasciando ai regolamenti il compito di dettagliarli, ma impone che dei criteri vi siano. Allora, non si può negare che, laddove il regolamento preveda i criteri, debba scaturire una procedura più o meno “pesante” e di evidenza pubblica per l’individuazione del contraente. Se, invece, il regolamento non recasse criteri o questi fossero solo l’intutus personae, probabilmente si dovrebbe accertare la mancata conformità a legge, anche se la Cassazione ritiene si sia in presenza di una deroga al pubblico concorso previsto dall’articolo 97, comma 3, della Costituzione.

Che si possa derogare al concorso pare plausibile, anche se andrebbe meglio dimostrato l’assunto. Che si neghi l’esistenza di una procedura ad evidenza pubblica, anche semplificata rispetto al concorso, appare affermazione eccessiva, giustificabile laddove si riconosca che effettivamente il direttore generale fonda il suo incarico su condivisioni politiche, piuttosto che per le affermate, solo in via di principio, qualità professionali previste dall’articolo 108 del d.lgs 267/2000.

 

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[1] Vedi sentenza della Corte Costituzionale 233/2006, in questa Rivista, pag.  http://www.lexitalia.it/p/61/ccost_2006-06-16.htm

[2] T.A.R. Lazio, Sez. II bis, sent. 14 marzo 2001, n. 1896, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/tar1/tarlazio2bis_2001-1896.htm


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