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LUIGI OLIVERI

La conformità costituzionale della concezione monistica 
della carriera alle dipendenze della pubblica amministrazione

(note a margine di Corte costituzionale, sentenza 16 maggio 2002, n. 194*)

La sentenza della Corte costituzionale 16 maggio 2002, n. 194* rappresenta un fondamentale punto di riferimento ai fini delle riflessioni relativi all'applicazione degli istituti normativi e contrattuali, finalizzati a disciplinare la "carriera" alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Sebbene, infatti, la sentenza non faccia altro che ribadire per l'ennesima volta un indirizzo storicamente sempre seguito dalla Consulta, da ultimo sottolineato con la celeberrima sentenza 1/1999 (della quale la 194/2002 non è che la "conferma"), è di notevole rilievo il dato temporale.

Si sarebbe potuto pensare che le riflessioni proposte nel '99 dalla Consulta rispetto all'istituto dei concorsi interni, oggi sostituito con le progressioni verticali, fossero influenzate dalla considerazione che la "privatizzazione" del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione non era ancora giunta a regime. Era lecito dubitare che la Corte, una volta affermatasi e radicatasi la riforma condotta con il D.lgs 80/1998, avrebbe potuto cambiare il suo indirizzo, in considerazione:

1) dell'iniziale affermazione della giurisdizione ordinaria (da parte anche dei giudici amministrativi) in merito alle controversie relative alle progressioni verticali;

2) dell'entrata in vigore dei contratti collettivi nazionali di lavoro, i quali hanno disciplinato in maniera estesa l'istituto della progressione verticale come strumento per lo sviluppo della carriera dei dipendenti pubblici.

In effetti, non sono mancati interpreti (1) che hanno visto nelle disposizioni di cui all'articolo 35, comma 1, del D.lgs 165/2001* e nelle disposizioni contrattuali sulla progressione verticale l'estensione anche al comparto pubblico della concezione monistica del rapporto di lavoro o, più correttamente, l'istituto dell'inquadramento unico, secondo il quale in base all'applicazione dello ius variandi del datore di lavoro, l'assegnazione a mansioni proprie di profili superiori, nel rispetto delle previsioni contrattuali, consente al dipendente privato di assurgere progressivamente a tutte le qualifiche della carriera (2).

Sta di fatto che nei tre anni intercorsi tra la sentenza 1/1999 e la pronuncia 194/2002 non solo la Consulta non ha affatto modificato il proprio orientamento rispetto ai concorsi interni, ma sono anche avvenuti alcuni altri fatti:

1) i giudici amministrativi stanno progressivamente tornando ad affermare la propria giurisdizione sulle progressioni verticali, considerando che dette procedure non sono di natura negoziale, ma sono assimilabili a quelle concorsuali (3);

2) sempre i giudici amministrativi (vedi Tar Calabria Catanzaro, Sez. II, 11 marzo 2002, n. 567 e 568) hanno espressamente sancito l'illegittimità delle programmazioni delle assunzioni effettuate utilizzando esclusivamente l'istituto della progressione verticale;

3) si è assistito, nel corso di questi ultimi anni, ad un chiarissimo fenomeno di riduzione delle procedure concorsuali pubbliche (basta guardare le serie concorsi della Gazzetta Ufficiale), cui ha fatto fronte l'esponenziale incremento delle procedure di progressione verticale o di riqualificazione dei dipendenti, che, insieme con le procedure per la progressione orizzontale e la valutazione ai fini dell'erogazione del salario accessorio, sono divenute o stanno per divenire uno dei fondamentali "carichi" di lavoro delle pubbliche amministrazioni, a detrimento del compito di erogazione di funzioni e servizi ai cittadini. Il tutto, per altro, aggravato dalle fortissime e prolungate tensioni interne tra dipendenti, che dette procedure comportano inevitabilmente.

La sentenza 194/2002 nella sua stringatezza e lucidità appare, per questo, dirompente, pur nella sua sostanziale assenza di "novità". Non fa altro, in effetti, che ribadire alcuni concetti assolutamente fondamentali (cioè posti a fondamento) dell'ordinamento dell'amministrazione pubblica, ovvero:

1) secondo i principi costituzionali in materia di organizzazione dei pubblici uffici, l'accesso agli impieghi avviene per concorso pubblico;

2) poiché i passaggi da una categoria professionale ad un'altra comporta l'assunzione ad un nuovo impiego, di regola detti passaggi debbono soggiacere ai principi concorsuali, ed essere effettuati tramite concorso pubblico

3) il concorso pubblico è considerato dalla Costituzione il sistema migliore per selezionare i soggetti potenzialmente più capaci di svolgere le funzioni relative ai posti vacanti;

4) il concorso pubblico rappresenta il sistema di selezione che meglio può garantire il rispetto dell'efficienza dell'amministrazione, in quanto vieta arbitrarie restrizioni alla partecipazione a soggetti potenzialmente in grado di assurgere agli impieghi pubblici;

5) il sistema delle carriere, nell'ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, non esiste;

6) il ricorso a sistemi di selezione di soggetti già alle dipendenze della pubblica amministrazione attraverso procedure che riservino loro i posti è ammissibile a patto che sia ristretto a significative ipotesi nelle quali si dia conto delle motivazioni che inducono a considerare tale forma di selezione, da considerare eccezionale, preferibile a quella ordinaria del concorso pubblico;

7) in ogni caso, la valutazione dell'anzianità come elemento per la progressione di carriera non può assumere un valore tale da stravolgere il significato della selezione, sì da attribuire maggiore, se non esclusivo, rilievo ad un dato oggettivo, la permanenza in servizio, che di per sé non può garantire una verifica dei requisiti attitudinali allo svolgimento di funzioni differenti da quelle svolte per anni.

Nulla di nuovo sotto il sole. Proprio per questo, però, la sentenza in pieno 2002 non può non essere vista come un secco, duro monito a teorie "moderniste" che si fondano su un ossimoro: la privatizzazione del pubblico impiego.

E' vero che il legislatore degli ultimi anni ha innovato il sistema organizzativo del pubblico impiego, avvicinandolo a quello dell'impiego privato (anche se è tutto da dimostrare che ciò solo basti a rendere più efficiente la gestione della cosa pubblica, considerando che manca la "vendita" dei prodotti e dunque il raffronto di una "produzione" come parametro dell'efficienza, così come manca il "fatturato", mentre restano le influenze proprie delle scelte politiche, non sempre in linea con criteri gestionali aziendalistici).

Ma è anche vero che non si è assistito ad una totale e completa assimilazione delle regole pubbliche a quelle private. Il D.lgs 165/2001 ed i contratti collettivi rappresentano un sistema di disciplina del rapporto di lavoro largamente derogatorio al diritto comune, che, pur essendo considerato espressamente fonte della disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, nella sostanza occupa spazi francamente residuali se non proprio marginali di detta disciplina. L'esempio sotto gli occhi di tutti è la peculiare regolamentazione delle mansioni superiori, assolutamente derogatorio all'articolo 2103 del codice civile.

Ancora più vistosa è la differenza tra la peculiare disciplina della "carriera" nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico, rispetto a quella privata, trattata esplicitamente in modo completamente diverso dall'ambito privato sia dalla Costituzione, sia dal D.lgs 165/2001, sia dai contratti collettivi, eppure ritenuta da molti coincidente con quella privata, in base a considerazioni interpretative comunque non legate al dato testuale del vigente ordinamento. E la sentenza 194/2002 della Consulta sta a dimostrarlo.

Discorso del tutto diverso è considerare se la legislazione vigente, se la Costituzione vigente, siano adeguate ad un'organizzazione dei pubblici uffici efficiente. E' assolutamente legittimo ritenere che ciò non sia, spingendo per un'ulteriore passo riformatore che assimili in modo ancor più marcato il lavoro pubblico a quello privato, in modo che si elimini l'istituto del concorso pubblico e si introducano sistemi selettivi differenti. Pare meno corretto, però, desumere detta conclusione dal dato normativo vigente. Il quale, letto alla luce delle pronunce della Corte costituzionale, mette in rilievo alcuni punti.

Il concorso pubblico è e resta la regola (4) per la disciplina della "carriera" nella p.a. e per l'accesso alla medesima. Lo si desume dall'articolo 97, comma 3, della Costituzione, nonché dall'articolo 35, comma 1, lettera a), del D.lgs 165/2001 che per essere interpretato in modo conforme a Costituzione non può che essere letto nel senso che l'accesso mediante procedure selettive che garantiscano in misura adeguata l'accesso dall'esterno è il metodo prioritario ed ordinario di reclutamento. Sicchè l'accesso attraverso procedure non selettive che non garantiscano in misura adeguata l'accesso dall'esterno non è legittimo e non è conforme a Costituzione.

E l'accesso dall'esterno in misura adeguata non pare, alla luce della sentenza 194/2002, possa essere considerato tale se detta misura sia ristretta ad una soglia del 30%. Se la Costituzione prevede all'articolo 97, comma 3, che l'accesso agli impieghi pubblici avvenga per concorso pubblico, si ha una piuttosto chiara traccia che il principio desumibile è quello della prevalenza del concorso pubblico, sicchè la misura per essere adeguata dovrebbe sempre e comunque essere superiore alla soglia del 50%.

Ancora, se la modalità di reclutamento deve prioritariamente essere di natura selettiva, per verificare l'attitudine del candidato a rivestire una funzione lavorativa di un certo tipo, l'anzianità non può essere né il criterio valutativo esclusivo, né quello prevalente.

Posto che non si applica al rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione l'istituto dell'inquadramento unico, come attesta inequivocabilmente il fatto che per accedere da una qualifica ad un'altra occorre una procedura selettiva, allora il sistema selettivo deve discostarsi il più possibile dall'anzianità.

Non solo perché se così non fosse il ricorso all'anzianità sarebbe "abnorme", come lo ha dichiarato la Consulta con la sentenza 194/2002. Ma anche per una serie di considerazioni di natura normativa.

Infatti, nessuna disposizione normativa o contrattuale considera l'anzianità come elemento che dimostra l'attitudine allo svolgimento di funzioni e mansioni diverse da quelle attuali.

Per assurdo, nel CCNL del comparto enti locali in data 31.3.1999 l'anzianità non è presa in considerazione nemmeno ai fini della progressione orizzontale, strumento volto a compensare la maggiore abilità conseguita nello svolgimento delle mansioni attinenti alla categoria di appartenenza e non al "salto" di categoria. L'articolo 5 del citato contratto si riferisce alla valutazione dei risultati ottenuti, alle prestazioni rese con più elevato arricchimento professionale, anche conseguenti ad interventi formativi e di aggiornamento, all'impegno ed alla qualità della prestazione individuale, nonché, per le progressioni nell'ambito della categoria D e per i passaggi alle posizioni B6 e C4, al particolare impegno e qualità delle prestazioni svolte, con riferimento ai rapporti con l'utenza, al grado di coinvolgimento nei processi lavorativi, alla capacità di adattamento ai cambiamenti, alla flessibilità, all'iniziativa personale e capacità di proporre soluzioni innovative o migliorative dell'organizzazione del lavoro. Nessun cenno all'anzianità. Solo una considerazione dell'esperienza acquisita, ma esclusivamente per i passaggi in B2 e C2 e per la categoria A. Ma l'esperienza acquisita non è coincidente con l'anzianità, giacché è una valutazione di qualità dell'esperienza professionale, rispetto alla quale l'anzianità è solo una componente, non necessariamente decisiva.

Non si vede, dunque, quale fondamento possa avere la tesi secondo la quale l'anzianità debba trovare rilievo ai fini dei concorsi interni o progressioni verticali, posto che si tratta di procedure volte al futuro, rispetto alle quali gli elementi per la progressione orizzontale e l'anzianità non possono avere che un rilievo limitato all'eventuale valutazione di titoli di servizio. Il diverso giudizio sull'idoneità alla copertura del posto messo a concorso deve riguardare, invece, l'indagine relativa al possesso delle cognizioni necessarie a svolgere i nuovi compiti nel migliore dei modi. E' un'analisi del potenziale, non una valutazione dell'attività svolta.

Inoltre, che la progressione verticale sia alternativa ma subordinata al concorso pubblico lo dimostra anche l'articolo 4, comma 4, del CCNL in data 31.3.1999, norma che troppo spesso viene lasciata nell'oblio. Tale disposizione prevede che "anche i posti messi a selezione ai sensi del comma 1 sono coperti mediante accesso dall'esterno se la selezione stessa ha avuto esito negativo o se mancano del tutto all'interno le professionalità da selezionare".

Pertanto, a mente del citato articolo 4, comma 4:

1) non esiste alcun obbligo da parte delle amministrazioni di attivare la progressione verticale prima del pubblico concorso. Infatti, la progressione è subordinata all'esistenza di professionalità tali da mostrare una potenziale capacità di assumere le nuove funzioni nella categoria superiore. In caso contrario, la progressione verticale non può essere attivata;

2) in conseguenza di quanto sopra, prima di stabilire nel piano occupazionale che un certo posto vacante debba essere coperto mediante progressione verticale, occorre accertare l'esistenza di professionalità potenzialmente idonee;

3) a questo fine occorre avere ed aggiornare una banca dati del personale, nella quale confluiscano elementi valutativi ulteriori e diversi rispetto a quelli utili per la progressione verticale. In particolare, il titolo di studio (anche se la progressione verticale non lo richiede come elemento presupposto), la maturazione di esperienze concrete nell'espletamento di parte delle mansioni della categoria superiore legittimamente assegnate, crediti formativi finalizzati all'acquisizione di una conoscenza approfondita delle cognizioni necessarie all'esercizio delle maggiori e diverse competenze previste per la categoria superiore, la comparazione tra detti elementi curriculari ed i posti effettivamente vacanti;

4) le progressioni verticali, pertanto, dovrebbero essere comunque ristrette solo alle professionalità effettivamente esistenti e rilevate e non aperte all'intero personale;

5) in ogni caso, si deve trattare di una selezione "seria", tranciante, tanto da potersi concludere con un nulla di fatto, sicché si proceda per la strada maestra del concorso.

Un'ultima considerazione fa da corollario. A monte di tutto sta anche l'articolo 3 della Costituzione, che accompagnato ai principi del buon andamento e dell'accesso per concorsi dovrebbe rendere evidente che con questa carta costituzionale il reclutamento aperto al pubblico è elemento non solo di efficienza dell'amministrazione, in quanto consente di selezionare i più abili, ma mette anche in condizioni di tendenziale parità i cittadini, in quanto limita la rendita di posizione di coloro che già sono alle dipendenze dell'amministrazione pubblica. I quali possono, è vero, trovare nel pubblico concorso un "tappo" al loro percorso di carriera, ma tuttavia possono comunque concorrere pur sempre ai pubblici concorsi, mentre i cittadini sono radicalmente esclusi dalle procedure selettive interne, a prescindere dal loro curriculum.

Non si dica che il sistema concorsuale non ha sempre dato buona prova di sé. Occorre, infatti, allo scopo dimostrare che la modalità selettiva interna sia scevra da interferenze (raccomandazioni), scelte arbitrarie, risultati non soddisfacenti. Ma tale dimostrazione appare molto difficile.

La strada per superare, comunque, il concorso, qualora lo si voglia considerare il lavacro, la "forma" che nasconde ipocritamente una "sostanza" di abusi o scelte arbitrarie, c'è: abrogare l'articolo 97 della Costituzione e consentire anche alle amministrazioni pubbliche di scegliere il personale in base a valutazioni assolutamente di diritto comune. La nomina come senatore del famoso cavallo di Caligola fece scalpore soprattutto perché operata dall'imperatore, nell'ambito dell'esercizio delle sue funzioni, non tanto come fatto in sé. Qualsiasi soggetto privato può, evidentemente, scegliere di affidare la propria organizzazione del lavoro a cavalli o soggetti validi, visto che rischia il proprio denaro. Dall'amministrazione pubblica, che invece utilizza risorse non proprie, sarebbe lecito aspettarsi almeno una selezione di cavalli "di razza". Ma questa è politica.

 

 

(1) G. Ciaravino, La progressione verticale nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni: questioni di costituzionalità e di giurisdizione; L. Tamassia, La valorizzazione delle professionalità nel sistema contrattuale tra sviluppo professionale e progressioni verticali: l'evoluzione del sistema, in Riv. del personale dell'ente locale, n. 5/2000, pag. 516; per una meditata riconduzione dei concorsi interni al quadro costituzionale, P. Virga, Progressione verticale mediante procedure selettive, in www.lexitalia.it.

(2) In merito all'inapplicabilità dell'istituto dell'inquadramento unico nell'ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, vedasi L. Oliveri, Riflessioni sulla giurisdizione relativa alle vertenze per le "progressioni verticali", in www.lexitalia.it.

(3) L. Oliveri, op. cit.

(4) Contra G. Ciaravino, op. cit.


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