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Articoli e note

n. 7-8/2006 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Natura giuridica della revoca
dell’assessore comunale e provinciale

horizontal rule

Nella mai risolta questione interpretativa riguardante la revoca dell’assessore, tra le diverse possibili teorie sulla natura del provvedimento, quella che propende per la natura provvedimentale tout court appare la meno persuasiva.

Le altre due tesi che vi si oppongono sono:

a)     la natura di atto politico;

b)     la natura di atto di alta amministrazione.

Ci si soffermerà in particolare sulle ragioni che ostano all’accoglimento della tesi della revoca dell’assessore come provvedimento amministrativo, per poi vagliare quale tra le altre due teorie appaia la più convincente.

La tesi della natura della revoca come provvedimento amministrativo vero e proprio presenta notevoli punti di debolezza, sia quando, in positivo, cerca di individuare elementi in suo favore, ma soprattutto quando – in via prevalente – si appoggia sulle critiche alle due opposte tesi.

Sul piano “positivo”, in via piuttosto tautologica, la tesi del provvedimento amministrativo afferma che alla revoca assessorile si applichino tutti gli istituti della legge 241/1990.

Il che significa, in particolare:

1)     che è operante l’obbligo della motivazione [1] del provvedimento;

2)     che occorre la comunicazione dell’avvio del procedimento;

3)     che si applica l’articolo 21-quinquies, norma disciplinante la revoca.

E’, tuttavia, necessario osservare che a termini dell’articolo 3, comma 1, della legge 241/1990 “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria”.

Ora, immaginare che a monte della revoca (così come della nomina) vi sia un’istruttoria amministrativa risulta quanto meno illusorio.

Effettuare l’istruttoria implica porre in essere, almeno, i seguenti adempimenti previsti proprio dalla legge 241/990:

a)     valutare le condizioni di ammissibilità: il responsabile del procedimento (ma chi?) dovrebbe verificare la tautologica ammissibilità del provvedimento di revoca, che la legge espressamente prevede in capo al sindaco o presidente della provincia; ma a quale scopo?;

b)     verificare i requisiti di legittimazione: anche in questo caso, occorrerebbe porre in essere un accertamento, assolutamente inutile, sulla legittimazione del sindaco e dell’assessore, quali soggetti attivi e passivi del procedimento di revoca;

c)     accertare di ufficio i fatti: è assai chiaro come l’accertamento d’ufficio si riferisce ad attività di amministrazione attiva, non certo riferita a situazioni al confine tra questa e la funzione politica pura;

d)     chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete: come se il provvedimento di revoca fosse a istanza di parte o il sindaco debba chiedere autorizzazioni o atti di assenso per procedere;

e)     esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali: non pare che ai fini della revoca siano da richiedere perizie tecniche, visure catastali o estrazioni di certificazioni di qualche particolare archivio:

f)      accertare i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento: questa potrebbe essere l’unica attività istruttoria effettivamente utile; ma, poiché alla base della revoca sta principalmente l’interruzione di un rapporto fiduciario, i presupposti non possono essere né giuridici, ma prevalentemente di fatto, connessi, però, non a “prestazioni”, bensì a comportamenti politici, come tali non soggetti a codici, contratti, norme giuridiche, ma solo a regole di coerenza politica.

In realtà, nessuna istruttoria, nel senso stretto del termine, può essere posta in essere; la revoca è solo conseguenza di un mutato assetto dei rapporti di fiducia politica, neanche tecnica, tra due soggetti politici. La fase preliminare all’adozione del provvedimento di revoca può evidenziare i “comportamenti” ritenuti occasione della revoca stessa, ma su basi assolutamente estranee alla funzione istruttoria amministrativa vera e propria.

Ad esempio, il passaggio dell’assessore Tizio dal partito A al partito B è forse vietato da qualche norma? Ma, il sindaco o il presidente della provincia che abbiano formato la giunta in base ad accordi di colazione, sulla cui esclusiva natura politica non si può certo dubitare, allo scopo di garantire un peso equilibrato tra i partiti, che verrebbe falsato dal cambio di tessera, risulterebbe privo del potere suo esclusivo di modificare gli assetti politici della giunta, per questo solo fatto?

Parrebbe proprio di no. Si può ribattere che l’esempio citato condurrebbe ad una sufficiente motivazione del provvedimento di revoca.

Se lo si inquadra, tuttavia, come provvedimento amministrativo vero e proprio, le cose non starebbero, tuttavia, così.

Infatti, ai sensi dell’articolo 21-quinquies, comma 1, della legge 241/1990 “Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. Le controversie in materia di determinazione e corresponsione dell'indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.

I presupposti per la revoca del provvedimento amministrativo vero e proprio, dunque, sono tre. Ora, nell’ambito della revoca dell’assessore due delle fattispecie previste dalla norma sulla revoca appaiono decisamente insuscettibili di poter mai operare: i sopravvenuto motivi di pubblico interesse e la nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

Se è pur corretto sostenere che la giunta, quale organo di governo degli enti locali, ha il compito di perseguire l’interesse pubblico, appare altrettanto esatto sostenere che il provvedimento di nomina, così come di revoca, dell’assessore non persegua alcun interesse pubblico specifico. L’unico interesse pubblico riguardante la costituzione dell’organo giuntale è che esso sia correttamente formato; ma ciò prescinde del tutto dall’individuazione dei nomi di chi sono chiamati allo scranno assessorile. Non viene perseguito nessun interesse particolare nell’incaricare come assessore Tizio o Caio, considerando che la legge non richiede requisiti particolari per rivestire tale carica. Tanto è vero che non casualmente il d.lgs 267/2000 non prevede assolutamente alcuna modalità procedurale. Lo stesso vale per la revoca: come è indifferente la persona fisica nominata, altrettanto lo è quella revocata dall’incarico di assessore, ai fini del perseguimento di un interesse pubblico.

Se si obietta a queste osservazioni che potrebbero vantare un interesse gli elettori al mantenimento in carica di Tizio quale esponente politico destinatario di voti di preferenza, è facile controdedurre che tali interessi non sarebbero generali, ma “di parte”. Infatti, sarebbe solo l’interesse di una parte politica e dei suoi elettori ad ottenere una rappresentatività politica commisurata al consenso politico.

L’unico presupposto previsto dall’articolo 21-quinquies compatibile con il peculiare provvedimento di revoca assessorile è il “caso di mutamento della situazione di fatto”.

Ma, anche in questo caso si tratterebbe di un’applicazione forzata di una norma tendente a regolare altre fattispecie, connesse all’amministrazione attiva e non a funzioni politico-amministrative.

Infatti, la valutazione della situazione di fatto è fondamentale per la ponderazione degli interessi contrapposti nell’adozione di provvedimenti di amministrazione attiva. Ma, quando il sindaco o il presidente della provincia nomina un assessore, che ponderazione di interessi pone in essere? In particolare, quali valutazioni “di fatto” incidono? La fiducia nella persona e la sua appartenenza politica, non certo titoli di studio, condizioni lavorative, censo, impegni contrattuali o eventi particolari. E se un sindaco, allo scopo di rafforzare la funzione decisionale della giunta, riducendo il numero degli assessori, stabilisse di revocare tutti gli assessori necessari al raggiungimento del numero minimo statutariamente previsto di componenti la giunta? C’è una ponderazione di interessi connessi ad una situazione di fatto? E’ evidente la risposta negativa. Cambiano solo situazioni fattuali politiche, non situazioni fattuali apprezzabili sul piano istruttorio tecnico, proprio dei procedimenti amministrativi.

Un’altra insanabile incongruenza conduce ad escludere che la revoca dell’incarico all’assessore dia un provvedimento amministrativo vero e proprio. Occorre, per dimostrarlo, tornare all’obbligo di motivazione. I provvedimenti amministrativi veri e propri debbono essere, come noto, corroborati da una motivazione che, ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lettera e), della legge 241/1990 si è chiarito una volta e per sempre è direttamente influenzata dalle risultanze dell’istruttoria.

La riforma dell’articolo 6, comma 1, lettera e), della legge 241/1990 crea un rapporto di presupposizione necessaria tra risultanze dell’istruttoria e provvedimento finale, che consente di applicare concretamente un controllo sul procedimento e sul provvedimento più ampio in via giurisdizionale. Si ritiene, infatti, che affinchè tra due provvedimenti amministrativi s'instauri il nesso di presupposizione necessaria, occorre che i rispettivi effetti giuridici siano a loro volta collegati, in modo da configurare il provvedimento presupposto quale atto idoneo ad incidere nella fase di formazione e di perfezione dell'efficacia del provvedimento consequenziale, con un collegamento non già meramente occasionale, bensì genetico, cioè tale da descrivere il primo atto come quello che giustifica e delimita la produzione degli effetti di quello che lo segue [2].

Appare a chiunque evidente, però, che la revoca dell’assessore non si gestisce su un piano dicotomico tra atto di iniziativa (istruttoria e conseguente relazione-proposta) di un responsabile del procedimento ed atto del sindaco, che interviene su impulso del primo. La revoca è un atto personalissimo del sindaco e del presidente della provincia, che agisce in prima persona, senza essere minimamente influenzato dalle risultanze istruttorie, vincolanti, invece, per qualsiasi procedimento e conseguente provvedimento attinente alla vera e propria funzione amministrativa.

Tantissimi sono, dunque, gli indizi che convincono della incollocabilità della revoca dell’assessore nel catalogo dei provvedimenti amministrativi.

Sempre sulla motivazione, secondo la dottrina della configurazione della revoca assessorile quale provvedimento amministrativo, essa assolve allo scopo sia agevolare la valutazione da parte dell’assessore revocato l’opportunità di un ricorso giurisdizionale, sia, soprattutto, permettere al giudice amministrativo di decidere sulla legittimità della revoca stessa [3].

La dottrina che propende per la natura di provvedimento amministrativo della revoca [4] ritiene, coerentemente, possibile un annullamento giurisdizionale da parte del giudice in particolare per il vizio di eccesso di potere, nelle sue svariate figure sintomatiche.

Tra esse, si evidenziano:

-          lo sviamento di potere;

-          il travisamento e l’erronea valutazione dei fatti;

-          l’illogicità o contraddittorietà dell’atto;

-          la contraddittorietà tra più atti;

-          l’ingiustizia manifesta;

-          la disparità di trattamento;

-          l’inosservanza di norme interne.

Ma quali tra le viste figure configuranti eccesso di potere possono concretamente attagliarsi alla revoca dell’assessore?

Lo sviamento ricorre quando l’amministrazione persegua un fine differente da quello per il quale il potere è conferito [5]. Classico esempio ne era il trasferimento del pubblico dipendente a fini di sanzione disciplinare.

C’è, però, da porsi l’irrisolvibile problema di quale sviamento possa porre in essere il vertice dell’ente locale, nel revocare un assessore. Per altro, si può imputare al sindaco l’intenzione di ricorrere alla revoca come rimedio ad un’interferenza eccessiva del partito A sull’azione del sindaco? Sì. E questo sarebbe sviamento di potere? Nel caso di specie, certamente no, perché al sindaco ed al presidente della provincia è dato un forte potere di nomina e revoca degli assessori, perché essendo l’organo politico monocratico eletto direttamente dal corpo elettorale, è dotato di piena autonomia nello volere e disvolere i collaboratori politici, chiamati a far parte di un organo, la giunta, formato in applicazione di suoi esclusivi poteri. La revoca come rimedio ad un’interferenza politica, anche se colpisce una persona precisa, non è sviamento, ma corretto esercizio del potere che la legge conferisce al sindaco o al presidente della provincia.

Travisamento ed erronea valutazione dei fatti? Si ha questa ipotesi allorché il provvedimento amministrativo sia adottato assumendo l’esistenza di determinati presupposti di fatto, che invece non esistono, oppure ritenendo l’inesistenza di fatti, in realtà esistenti [6]. Ovviamente, tale vizio può riscontrarsi quando i “fatti” consistano in “grandezze commensurabili”, cioè elementi tecnici oggetto di stime, prove, valutazioni. Ma, un atto o fatto dell’assessore che convinca il sindaco dell’interruzione del rapporto su basi fiduciarie, posto che il rapporto non può fondarsi su basi tecniche, come potrebbe essere valutato quale travisamento dei fatti dal giudice? Sostituendosi al sindaco nel valutare la portata politica dell’atteggiamento dell’assessore? Sono solo domande retoriche.

Illogicità o contraddittorietà dell’atto? La perplessità nella motivazione o l’incoerenza nella costruzione dell’atto nascondono spesso il perseguimento di un fine pubblico diverso da quello che si persegue con l’atto adottato. Ma, che vi sia un interesse pubblico da seguire con il provvedimento di nomina o revoca dell’assessore appare, come visto prima, seriamente da dubitare.

Contraddittorietà tra atti? Certo, il sindaco può nominare e revocare il singolo assessore, per ragioni politiche, adottando provvedimenti tra di loro non coerenti. Ma si richiede coerenza ad un’attività politica basata sul consenso elettorale, all’interno del partito ed all’interno della coalizione di governo? Si ponga l’ipotesi che in un atto programmatico fondamentale, il programma politico amministrativo di inizio mandato, il sindaco si impegni a non allargare giammai la coalizione di governo. Dopo di che, tempo dopo, un mutato clima politico induca parte della minoranza ad accordarsi con la maggioranza, che si impegna a rivedere la composizione della giunta, dando vita all’allargamento un tempo aborrito e che ciò costi l’incarico ad un assessore. Sarebbe ragione di eccesso di potere rilevabile dal giudice?

Che dire, poi, dell’ingiustizia manifesta, che emerge quando l’atto amministrativo impone un sacrificio esagerato in capo al destinatario, comunque sproporzionato rispetto al perseguimento del pubblico interesse. Ma se, come rilevato sopra, la nomina dell’assessore, come la revoca, è indifferente al perseguimento diretto di interessi pubblici, appare estremamente difficile e retorico ritenere possa verificarsi l’ingiustizia manifesta. A parte la constatazione che, talvolta, il provvedimento di revoca del sindaco o presidente della provincia vuole proprio caratterizzarsi come forte “sanzione”: ma non si tratta di una sanzione amministrativa, nell’ambito dell’esercizio di poteri di amministrazione attiva, solo di sanzione politica riguardante rapporti esclusivamente politici.

In quanto alla disparità di trattamento, non si vede come possa compararsi la posizione dell’assessore Tizio con quella dell’assessore Caio.

L’inosservanza di norme interne è, evidentemente, caso assolutamente non applicabile all’ipotesi della revoca dell’assessore.

Sembra, dunque, sostanziale la reale impossibilità di ottenere per via giurisdizionale una pronuncia sull’eccesso di potere. Il che rende l’onere motivazionale meno forte. Talmente meno forte, da giustificare la scelta del d.lgs 267/2000 che non richiede affatto di motivare la revoca, ma solo di esplicitare le ragioni della stessa al consiglio comunale e provinciale.

Occorre, a questo punto, la comunicazione di avvio del procedimento? E’ necessaria una formalizzazione nell’ambito di un processo nel quale non v’è istruttoria, non v’è proposta, la motivazione è sostanzialmente in re ipsa? C’è una concreta possibilità di partecipare al procedimento, esponendo documenti ed osservazioni, da valutare obbligatoriamente, si badi, da parte dell’assessore per convincere il sindaco del contrario avviso? Sul piano dell’opportunità, sì.

Difficile, tuttavia, è credere che un processo di ridisegno politico dello schieramento e della composizione della giunta sia svolto senza che l’assessore revocato nulla sappia comunque, in via di fatto. Di fronte a un procedimento amministrativo “attenuato” quale quello della revoca assessorile la comunicazione di avvio del procedimento appare atto comunque superfluo.

Ed infatti [7]:

-   nel precedente regime normativo “non esisteva possibilità di revoca o di voto di sfiducia; rientrava nella disponibilità del sindaco solo conferire deleghe agli assessori e revocarle, fermo restando che anche un assessore senza deleghe faceva parte a pieno titolo della giunta quale organo collegiale deliberante. E poiché ciascuno dei componenti della giunta era eletto dal consiglio a titolo individuale, le eventuali dimissioni del sindaco o della maggioranza degli assessori comportavano solo la necessità di sostituire i dimissionari, ma coloro che non avevano presentato le dimissioni rimanevano comunque in carica, anche se, di fatto, si trovavano ormai a far parte della minoranza consiliare;

-   Non era dunque estranea a questo sistema l'eventualità che in una giunta sedessero assessori in contrasto politico o personale col sindaco o con altri assessori, anche se di fatto si verificava solo in casi eccezionali. Era invece molto frequente, e costituiva il maggior inconveniente del sistema, che la continua necessità di mediazioni paralizzasse l’attività della giunta per lunghi periodi;

-   La disciplina vigente, introdotta nel 1993, affida invece esclusivamente al sindaco - non più eletto dal consiglio, ma investito direttamente dall'elezione popolare - la potestà di nominare e revocare gli assessori, imponendogli solo di "comunicare" tali atti al consiglio.

-   Si può ipotizzare […]che la comunicazione al consiglio sia necessaria per il perfezionamento dell'atto o quanto meno per la sua efficacia. In ogni caso, tuttavia, è certo che la legge non prevede un voto di ratifica, e ciò comprova che il conferimento e la revoca dell'incarico di assessore sono nella esclusiva disponibilità del sindaco e che il consiglio non può opporsi, salvo solo l'estremo rimedio del voto di sfiducia che però travolge insieme il sindaco, la giunta e lo stesso consiglio;

-   L'evoluzione della normativa dimostra che il legislatore con la riforma del 1990 e ancor più decisamente con quella del 1993 ha perseguito due obiettivi fra loro collegati: primo, assicurare la coesione e l'unità d'indirizzo della giunta; secondo, garantire al sindaco la possibilità di perseguire con piena efficienza ed operatività il programma politico sulla base del quale ha ottenuto l'investitura popolare. Questi due obiettivi congiunti rappresentano la funzione tipica del potere di nominare e revocare gli assessori. Atti come quello impugnato, che pure sono sindacabili sotto il profilo della legittimità, sono immuni dal vizio di eccesso di potere per sviamento quante volte risulti che, adottandoli, il sindaco ha inteso realizzare quegli obiettivi ed ha perciò esercitato il potere in modo coerente con la funzione tipica in vista della quale il potere stesso gli è stato conferito”.

Sul piano dei sostegni “in negativo” quali critiche alle tesi avverse, la teoria della revoca assessorile come provvedimento amministrativo vero e proprio incontra, poi, irrimediabili carenze di fondamento.

La teoria del provvedimento amministrativo critica le avverse tesi, intanto con specifico riferimento a quella che nega radicalmente la natura provvedimentale, perché configura la revoca come atto politico.

La teoria del provvedimento amministrativo, allora, si rifà all’articolo 31  della legge 1054/1924 [8], che esclude la giurisdizione amministrativa nel caso di provvedimenti del Governo, frutto dell’esercizio del potere politico.

La giurisprudenza dà un’accezione molto restrittiva dell’atto politico come definito dall’articolo 31 citato. Ad esempio, si è ritenuto[9] che ad una deliberazione del consiglio regionale con la quale viene respinta una richiesta di referendum consultivo avanzata da consigli provinciali non si può accreditare la natura di "atto politico " ai sensi e per gli effetti dell'art. 31, considerato che essa non proviene da organo di massimo livello della cosa pubblica, non riguarda la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri, non costituisce espressione della funzione di direzione e indirizzo politico, non coinvolge i supremi interessi dello Stato e delle sue istituzioni fondamentali.

Infatti, alla nozione legislativa di "atto politico" concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre, da un lato, che si tratti di atto o provvedimento emanato "dal governo", e cioè dell'autorità amministrativa cui compete, altresì, la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica (si intende, pertanto, il Governo organo costituzionale previsto dall’articolo 92 della Costituzione); dall'altro, che si tratti di atto o provvedimento emanato "nell'esercizio di potere politico", anziché nell'esercizio di attività meramente amministrativa [10].

La teoria del provvedimento amministrativo sottolinea che mancano entrambi i requisiti per l’atto politico di cui all’articolo 31 della legge 1054/1924:

a)     dal punto di vista soggettivo, perché non è un atto del Governo;

b)     dal punto di vista oggettivo, perché si parte dal presupposto che si tratti di un atto amministrativo vero e proprio, quale è la revoca.

In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, si è affermato [11] che la revoca dell’assessore è e resta atto avente natura amministrativa e non politica, traendo tale conclusione dal ruolo “chiaramente istituzionale-amministrativo e non politico dell’assessore la cui funzione ne disegna un ruolo senza dubbio di amministrazione (peraltro attiva) e non politico. Amministrativa è, quindi, l’atto di nomina come quello di revoca”.

Tale ultima affermazione non può condividersi. A prescindere dalla difficile identificabilità di un ruolo istituzionale-amministrativo come distinto da quello politico, è proprio da contestare radicalmente l’opinione secondo cui l’assessore svolge funzioni di amministrazione attiva e non politiche.

Infatti, tale visione si pone in contrasto netto, radicale ed insanabile col principio di separazione tra le funzioni degli organi di governo, riguardanti l’indirizzo ed il controllo, e le funzioni gestionali [12].

Le prime, quelle assegnate agli organi di governo, sono funzioni definite “politico-amministrative” dalla stessa legge, cioè dall’articolo 4, comma 1, del d.lgs 165/2001. La connotazione, dunque, politica dell’attività dei componenti gli organi di governo non può minimamente essere messa in discussione, perché è la legge a stabilirlo con chiarezza esemplare.

Il legislatore parla di funzioni amministrative, oltre che politiche, perché l’attuazione delle funzioni di indirizzo politico passa anche per l’esercizio di connesse funzioni amministrative, che, però, risultano necessariamente distinte dalle funzioni, anch’esse amministrative, di carattere gestionale.

La discriminante tra le funzioni amministrative “politiche” e le funzioni amministrative “gestionali” è la loro natura: solo le seconde attengono alla funzione amministrativa “attiva”; la prima, invece, attiene a quella di indirizzo e controllo.

Dunque, gli organi di governo e, di conseguenza i loro componenti, non possono per nulla svolgere funzioni di amministrazione attiva, che spetta in via esclusiva agli apparati gestionali.

Meno che mai gli assessori locali: essi, infatti, non sono neanche organi, poiché ai sensi dell’articolo 48 del d.lgs 267/2000 agiscono esclusivamente nell’ambito della giunta, che opera solo con deliberazioni collegiali. L’assessore è assolutamente privo, come tale, del potere di adottare atti di amministrazione attiva.

Pertanto, la propugnata proprietà transitiva della natura amministrativa dell’atto di nomina e revoca dell’assessore, derivante dalla funzione amministrativa dell’assessore non è assolutamente sussistente.

La natura amministrativa dell’atto di nomina, come quello di revoca, si dovrebbe desumere, a sua volta, dall’esercizio di una funzione amministrativa diretta piuttosto che politico-amministrativa.

Ma, la funzione di amministrazione diretta si esercita mediante atti di puntuale esplicazione del potere amministrativo, tali da incidere nella sfera giuridica degli amministrati, garantendo tuttavia il perseguimento dell’interesse pubblico.

La funzione politico-amministrativa, al contrario, si caratterizza per essere espressione di poteri di indirizzo e di controllo di carattere generale, mirante ad improntare i criteri ai quali dovrà attenersi la successiva funzione amministrativa gestionale.

In particolare, è di connotazione soprattutto politica l’attività finalizzata alla costituzione degli organi di governo, mediante la quale è evidente che non si determina in alcun modo un incidenza sulla sfera giuridica dei cittadini, ma si pongono esclusivamente le basi per assicurare che l’indirizzo generale sia presidiato dai componenti l’organo di governo. La nomina, come la revoca, dell’incarico all’assessore non è, pertanto, assolutamente configurabile come amministrazione attiva.

Quanto meno, deve trattarsi di atto di alta amministrazione, quale tipica espressione degli atti esercizio della funzione politico-amministrativa in esplicazione del principio di separazione visto prima [13].

E’ proprio degli atti di alta amministrazione, infatti, raccordare l’azione amministrativa in senso stretto (attinente alla funzione amministrativa gestionale) con quella politica. Ovviamente, l’individuazione dei componenti di un organo di governo attiene quanto meno a questo livello di azione amministrativa, specie se i compiti di tali componenti, come avviene proprio per gli assessori degli enti locali, sono a loro volta preminentemente funzionali a garantire il perseguimento dell’indirizzo politico espresso dal sindaco o dal presidente della provincia che li nominano.

E’, del resto, pacifico in dottrina e giurisprudenza che le nomine degli organi di vertice degli enti pubblici, con specifico riferimento ai dirigenti generali, sono atti di alta amministrazione [14].

Si può ribattere che gli atti di alta amministrazione rientrano pur sempre nel novero degli atti amministrativi in senso stretto: del resto in dottrina si evidenzia che proprio per la caratteristica di atti amministrativi e non politici, gli atti di alta amministrazione sono soggetti al medesimo regime giuridico di tutti gli altri atti amministrativi [15]. Da qui, pertanto, l’applicazione necessaria della legge 241/1990.

Tuttavia, questa obiezione non appare del tutto convincente. La legge 241/1990 è una legge generale di garanzia minima del giusto procedimento finalizzato a regolamentare e limitare proprio ed esclusivamente l’attività di amministrazione attiva e diretta. Non è un caso che ai sensi dell’articolo 13 della medesima legge i suoi principi non si applichino nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali e di pianificazione e di programmazione.

Si potrebbe tentare l’operazione di dimostrare la coincidenza tra atti di alta amministrazione ed atti amministrativi generali, per sgomberare definitivamente il campo dal problema dell’applicazione di garanzie procedimentali quali un approfondito obbligo di motivazione o la comunicazione dell’avvio del procedimento nel caso della revoca dell’assessore.

Tuttavia, si potrebbe osservare che se il legislatore avesse voluto annoverare gli atti di alta amministrazione tra quelli esclusi dal campo di applicazione della legge 241/1990 lo avrebbe stabilito espressamente.

Ma, in ogni caso si può giungere alla medesima conclusione per altra via. Le garanzie di cui alla legge 241/1990 risultano necessariamente attenuate nel caso dei provvedimenti di alta amministrazione, perché è elevatissimo il grado di discrezionalità che li caratterizza.

La differenza che realmente intercorre tra atto politico ed atto amministrativo è data dalla carenza di discrezionalità nel primo. L’atto politico è totalmente libero da vincoli e nei fini. L’atto amministrativo, invece, poiché deve sottostare alla legge, è discrezionale, nel senso che deve rispettare i vincoli all’apprezzamento della situazione di fatto che la legge pone alla determinazione dell’autorità amministrativa [16].

L’atto amministrativo, dunque, viene adottato entro ambiti di scelta. Tanto più l’ambito è ristretto, tanto più è probabile di essere in presenza di atti amministrativi in senso stretto.

Laddove l’apprezzamento si ampli in modo tale da escludere, di fatto, margini di vincolo nella scelta, l’atto si avvicina notevolmente a quello politico.

La nomina e la revoca dell’assessore sono atti politici in senso oggettivo; non lo sono solo in senso soggettivo, perché non sono organi costituzionali a provvedere.

Ma la libertà di scelta di sindaco e presidente della provincia è amplissima, influenzata solo da condizioni soggettive del possibile destinatario della nomina.

Talmente è ampia, che oggettivamente non si comprende quale scopo, ai fini del giusto procedimento, possa avere la motivazione.

Si ritiene in dottrina [17] che, atti politici ed atti di alta amministrazione, pur nella loro differenza, si caratterizzano per la loro sostanziale in impugnabilità. Nel caso degli atti politici, essa è prevista dalla legge; per gli atti di alta amministrazione, tale condizione scaturisce dalla sostanziale inidoneità ad incidere direttamente nella sfera soggettiva dei cittadini.

Eccezioni, tuttavia, a tale assunto vi sono. Gli atti di alta amministrazione di nomina dei dirigenti si ritengono impugnabili, perché in questo caso un minimo di vincolo alla determinazione dell’organo competente esiste; l’articolo 19 del d.lgs 165/2001, infatti, impone di incaricare i dirigenti generali in termini non esclusivamente fiduciari, ma tenendo in particolare conto la professionalità e l’esperienza. I margini di discrezionalità dell’amministrazione in questo caso si riducono, perché una non corretta esplicazione del potere di nomina dei dirigenti influisce negativamente sulla posizione di tutti coloro i quali possono aspirare alla nomina [18].

M, nel caso della nomina dell’assessore, non esistendo, a ben vedere, una cerchia ristretta di possibili erigendi aventi diritto; è lo determinabile un lotto di possibili aspiranti, in quanto iscritti ad un partito, operanti in quell’ambito, attivi nella campagna elettorale o, comunque, in funzioni politiche in senso stretto. Ma, non è configurabile un diritto o una posizione differenziata mirante alla garanzia della nomina. Simmetricamente, l’assessore nominato dal sindaco non ha alcuna posizione differenziata rispetto alla revoca, essendo potere esclusivo del sindaco conformare la composizione dell’organo di governo da lui diretto nella maniera che ritenga più confacente.

Non è un caso che la nomina dell’assessore non sia mai corredata da motivazione, che la legge non lo richieda e che non sono note pronunce di annullamento di nomine assessorili per carenza di motivazione o mancata effettuazione della comunicazione di avvio del procedimento.

Ma, se la nomina, come la revoca, è un atto amministrativo in senso stretto, allora dovrebbe operare anche in questo caso la legge 241/1990.

La realtà è che tale legge non si applica che per ampli principi alla fattispecie di atti di alta amministrazione di carattere generale e, comunque, non incidenti in modo immediato e diretto su posizioni concretamente differenziate di cittadini.

E non si applica nemmeno nel caso della revoca, perché essa è pur sempre atto di alta amministrazione, come conferma il d.lgs 267/2000, il quale è la disciplina speciale della fattispecie e non richiede le garanzie procedimentali proprie della legge 241/1990, ma si limita solo a imporre una comunicazione motivata al consiglio (occorre motivare la comunicazione, non l’atto di revoca).

Dunque, la revoca assessorile, in quanto atto di alta amministrazione non incidente su posizioni concretamente differenziate (non potendosi configurare né un diritto né un interesse legittimo alla permanenza in incarichi politici) è da considerare di per sé in impugnabile.

In questo senso, è atto politico. O, meglio una via di mezzo tra l’atto politico in senso stretto, e l’atto di alta amministrazione, con fortissime connotazioni di libertà nella scelta, tali da rendere comunque inutile la motivazione e, in ogni caso, da giustificare la linea giurisprudenziale che riconosce la sostanziale in suscettibilità di annullamento per il vizio di eccesso di potere (il che, nella sostanza, coincide con una in impugnabilità, giacchè solo l’eccesso di potere appare essere il vizio di una revoca assessorile).

Di atto politico non si può limitarsi a dare l’accezione restrittivissima di cui all’articolo 31 della legge 1054/1924. Occorre prendere atto che nel nuovo assetto organizzativo politici sono anche gli atti non di amministrazione attiva e, in particolare, quelli di alta amministrazione. Anche in giurisprudenza si danno definizioni di atto politico di tipo evolutivo [19].

Non può che condividersi l’opinione di quella giurisprudenza secondo la quale [20] la diversa disciplina della comunicazione prevista per nomina e revoca degli assessori, di cui al d.lgs 267/2000 risiede in una particolare "ratio legis". Nel caso della nomina, essa consegue ad un presumibile programma elettorale comune, di cui gli atti successivi costituiscono in termini politici la conseguenza operativa. Sicchè una comunicazione di avvio del procedimento appare formalismo inutile.

Nel caso della revoca, l'atto costituisce una novità rispetto al programma iniziale, cosicché appare applicazione del principio di ragionevolezza prevedere l'onere di una motivazione, ma di natura e carattere strettamente politico, al fine di mettere in condizione al Consiglio di effettuare le relative valutazioni, anche eventualmente opposte fino all'estremo rimedio del voto di sfiducia. Sicchè, la motivazione resta solo elemento di verifica politica e non di controllo di legittimità, alla stregua degli atti amministrativi in senso stretto. Fermo restando che anche una revoca assessorile può essere attuativa del programma politico (si richiama l’esempio dell’allargamento della coalizione)

La revoca assessorile, pertanto, appare come “atto politico minore”, o di “altissima amministrazione” formalmente impugnabile, ma sostanzialmente sottratto a valutazioni di legittimità sotto il profilo del vizio di eccesso di potere, perché non è oggetto della disciplina di garanzia procedimentale prevista dalla legge 241/1990, ma solo alla disciplina particolare prevista dall’ordinamento locale.

 

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[1] Per l’inderogabilità dell’obbligo di motivazione, anche nel caso di atti vincolati, trattandosi di dovere giuridico valevole nei confronti di ogni provvedimento formalmente inteso direttamente produttivo di effetti nei confronti dei destinatari, v. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, ed. Giappichelli, Torino, 2001, pag. 486.

[2] L. Oliveri, La riforma della legge sul procedimento amministrativo: profili attuativi ed applicativi, Matelica (Mc) 2005.

[3] G. Farina, La natura del provvedimento di revoca dell’assessore comunale e provinciale e la sua sindacabilità in giudizio, in www.altalex.com.

[4] G Farina, cit.; O. Carparelli, Verso la piena sindacabilità del provvedimento di revoca degli assessori comunali, in questa Rivista; P. G. Scarabino, La revoca assessorile, in questa Rivista, tende a configurare il provvedimento come atto di alta amministrazione, ma ricostruisce la fattispecie alla stregua di un provvedimento amministrativo ordinario.

[5] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, VI ed. Milano 2004, ed. Giuffrè, pag. 492.

[6] V. Italia. G. Landi, G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, 13^ ed., Milano 2002, ed. Giuffrè, pag. 637.

[8] “Il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico”.

[9] Tar Abruzzo L'Aquila, 7 ottobre 2003, n. 839.

[10] Tar Veneto, sez. III, 25 maggio 2002, n. 2393.

[11] P.G. Scarabino, cit.

[12] Tar Campania Napoli, sez. V, 7 gennaio 2002, n. 120: l'art. 3, d.lg. n. 29 del 1993 demanda in via generale ai dirigenti pubblici l'emanazione di tutti gli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, laddove la competenza degli organi di governo degli enti pubblici riguarda piuttosto l'esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo. In tale quadro, l'art. 107, commi 2 e 3, d. lg. n. 267 del 2000, nel delineare la sfera di attribuzioni spettanti ai dirigenti degli enti locali, sancisce espressamente la loro competenza per ogni specie di provvedimento autorizzativo, ivi compresi quelli che richiedono valutazioni di natura discrezionale. In forza dell'art. 45 comma 1, d. lg. n. 80 del 1998, è poi previsto che le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si devono intendere nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti. Analoga disposizione è contenuta nell'art. 107, comma 5, d.lg. n. 267 del 2000 per quanto riguarda le disposizioni specificamente relative agli organi di governo degli enti locali. Pertanto, è da riconoscere che il provvedimento di occupazione, avente natura di atto di mera gestione amministrativa, rientra nella competenza dirigenziale.

[13] Così R. Galli, D. Galli, Corso di diritto amministrativo, 4^ ed., vol. II, Padova 2004, pag. 628.

[14] R. Galli, D. Galli cit., pag. 630.

[15] Tar Puglia Lecce, sez. II, 3 giugno 2005, n. 3023. Il potere di nomina dei soggetti preposti ai più alti livelli di responsabilità nell'ambito degli apparati tecnico-burocratici pubblici si configura alla stregua di attività riconducibile nell'alveo della c.d. "alta amministrazione", caratterizzata da tutte le garanzie ed i limiti propri degli atti amministrativi in generale e volta alla cura di interessi connessi al perseguimento delle principali finalità dell'amministrazione pubblica nel suo complesso.

[16] P. Virga, Diritto amministrativo, Atti e ricorsi, tomo 2, Milano 2001, ed. Giuffrè, pag. 5.

[17] R. Galli, D. Galli cit., pag. 630.

[18] Consiglio Stato, sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2706. La nomina del segretario comunale, pur fondata su criteri eminentemente fiduciari e costituendo perciò atto di alta amministrazione, deve comunque essere motivata attraverso l'esposizione delle ragioni che hanno condotto alla nomina, e segnatamente la avvenuta valutazione del possesso dei prescritti requisiti da parte del prescelto, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata. A tal fine, è peraltro sufficiente che il provvedimento di nomina si limiti a indicare le pregresse esperienze di lavoro del prescelto, ove queste siano di per sé indicative del possesso di adeguata esperienza e capacità.

[19] Corte Conti, sez. II, 16 ottobre 1990, n. 357. Un ordine del giorno approvato dalla giunta regionale presenta natura di atto politico ove non accompagnato dai conseguenti provvedimenti amministrativi e finanziari; pertanto, esso non è idoneo ad escludere la responsabilità degli amministratori ospedalieri che abbiano deliberato l'illegittima erogazione di compensi in favore del personale sulla base di provvedimenti che si assume adottati sulla base del predetto ordine del giorno (nella specie, peraltro, tale circostanza giustifica l'esercizio del potere riduttivo dell'addebito).

[20] Tar Liguria, sez. I, 7 dicembre 2004, n. 1600.


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