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n. 5/2008 - © copyright

RICCARDO NOBILE*

Il sistema di valutazione permanente:
uno strumento a disposizione degli organi
di governo e dell’organizzazione

horizontal rule

1. Annotazioni introduttive

Il sistema di valutazione permanente è lo strumento per giungere ad uno scopo ben determinato: valutare la performance dei dirigenti e dei dipendenti dell’ente locale in modo efficace e riscontrabile e verificare in un periodo di osservazione convenzionalmente predefinito il grado di discostamento dei risultati conseguiti rispetto ai risultati attesi.

Esso è inoltre il mezzo mediante il quale le attività ed i comportamenti dei “lavoratori-valutati” vengono influenzati per orientarli al risultato auspicato degli organi di governo: l’attuazione della pianificazione strategica e della programmazione di bilancio ed operativa.

In estrema sintesi, il sistema di valutazione permanente è uno strumento di orientamento dell’azione gestionale in modo che essa ricalchi e persegua non solo le azioni che consentono il raggiungimento degli obiettivi della gestione, ma anche i valori organizzativi e gestionali che gli organi di governo hanno determinato con il programma generale di mandato.

Il sistema di valutazione permanente è veicolo di valori organizzativi e gestionali: il loro soddisfacimento misura il grado di integrazione organizzativa, e quindi il riconoscimento negli elementi di vision che sono contenuti nella pianificazione e nella programmazione dell’ente.

La valutazione è indispensabile in ogni organizzazione: essa è una precondizione del miglioramento della professionalità; solo nei casi piú estremi, della maturazione di un senso di inadeguatezza che può suggerire che è arrivato il momento di “cambiar lavoro”.

Abbiamo già avuto modo di soffermarci su una caratteristica del sistema di valutazione permanente: la sua funzione di orientamento delle persone e della loro azione. Ciò consente di evidenziare che esso è una variabile dipendente dei valori che caratterizzano gli organi di governo e che devono trapassare nell’organizzazione.

Insomma, il sistema di valutazione permanente è un sistema “a geometria variabile”, cosí come lo è l’organizzazione. Variabilità di contenuti che consente di orientare il comportamento dei dirigenti e di consolidare quei comportamenti virtuosi che sono la precondizione del successo della realizzazione dei programmi di governo.

I sistemi di valutazione permanente devono essere non solo voluti, ma anche e soprattutto presidiati: di qui l’importanza del nucleo di valutazione che deve saperne non solo progettare i contenuti, ma anche garantirne l’applicazione ed il rispetto.

Il sistema di valutazione permanente deve essere il prodotto dell’implementazione di un sistema permanente, fondato su metodologie standard. Esigenza che risponde alla necessità di assicurare la stabilità e la riconoscibilità dei valori desunti dai programmi di governo: a voler significare che la valutazione non è mai un’attività neutrale, ma funzionale perché teleologicamente orientata e preordinata ad un giudizio di compatibilità.

Alla valutazione del personale è connaturata un’evidente ed ineludibile componente organizzativa: essa sostanzia un giudizio di corrispondenza fra azioni intraprese, esiti ottenuti ed aspettative di esito all’interno di un’organizzazione, la cui attività è orientata ad un dato risultato e sorretta da specifici valori di vision.

La valutazione della performance del dipendente attiene all’esercizio di una prerogativa datoriale insensibile alla negoziazione dei suoi contenuti: né contrattabili, né concertabili sono quindi né il processo di valutazione, ossia la “valutazione-processo”, né, a maggior ragione, l’esito della valutazione, ossia la “valutazione-risultato”.

Il vero cuore della “questione-valutazione” è il sistema di valutazione permanente. Che prima di tutto è “sistema”, ossia compendio organico a contenuto prescrittivo; ed, in secondo luogo, è “permanente”, ossia si snoda per l’intero arco temporale predefinito convenzionalmente, rilevando i discostamenti fra le aspettative e i contenuti della gestione e fra i comportamenti attesi e quelli attuati.

Ecco che per giungere alla “valutazione-risultato” tramite una “valutazione-processo” occorre aver preventivamente definito qual è il sistema di valutazione nel quale ed attraverso il quale la valutazione tout court acquista senso.

2. Alcune questioni di metodo.

La costruzione di un sistema di valutazione permanente è preordinata alla formulazione di un giudizio sull’attività del soggetto valutato. Ossia di un lavoratore che opera alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro secondo le indicazioni dell’art. 2094 c.c., nei cui confronti ha specifici doveri di collaborazione, fedeltà e lealtà ex artt. 2104 e 2105 c.c.

La valutazione, pertanto, riguarda il risultato della gestione attuata dal titolare della relativa funzione: il dirigente e comunque il titolare di funzioni dirigenziali.

I destinatarî della valutazione sono in primo luogo i dirigenti preposti ad un ufficio dirigenziale ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e 50, comma 10 e 107, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Nel caso di enti sprovvisti di dirigenti contrattulizzati, i destinatarî della valutazione sono i titolari di posizione organizzativa, ossia quei dipendenti apicali di unità organizzativa di massima dimensione cui è stata conferita la titolarità di funzioni dirigenziali ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, 50, comma 10 e 109, comma 2 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 e 8, 9, 10 e 11 del c.c.n.l. 31/3/1999.

I destinatarî del sistema di valutazione permanente sono anche i soggetti che si avvalgono degli organi della gestione per garantirsi l’attuazione dei programmi di governo: l’intera organizzazione è e deve operare in funzione servente rispetto all’attuazione dei programmi di mandato, della pianificazione strategica e della programmazione sia di bilancio, sia gestionale. In assenza di che l’organizzazione ridonda rispetto al proprio scopo e non si giustifica né spiega il proprio senso.

Insomma, l’organizzazione ed i suoi fattori sono un elemento a “geometria variabile” che deve agire in modo servente rispetto alla vision, alla mission ed ai contenuti dei programmi di governo.

Non esiste quindi un’organizzazione data a priori rispetto ai programmi di mandato, nel senso che l’organizzazione non può mai condizionarne l’esito. Vero è piuttosto il contrario: il contenuto dei programmi di governo è la precondizione dell’organizzazione, dell’organigramma e del funzionigramma dell’ente, cosí come pure del numero delle posizioni dirigenziali di line piuttosto che di staff e quindi della loro rilevanza, peso organizzativo ed importanza.

Dalla premessa enunciata discendono almeno tre conseguenze:

La prima: gli organi di governo sono i titolari esclusivi del potere di nomina dei soggetti cui è attribuita la funzione di controllo della performance dei lavoratori. Il che si può esprimere evidenziando che il “lavoratore-valutato” è sottoposto a valutazione da quei soggetti che il sindaco deve poter scegliere in assoluta libertà. La tesi è corroborata dall’art 7, comma 6 quater del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 introdotto dall’art. 3, comma 77 della Legge 24/12/2007 n. 244, che ne sottrae la nomina agli orpelli del suoi precedenti commi 6, 6 bis e 6 ter.

La seconda: il sistema di valutazione permanente è lo strumento con il quale si determina l’orientamento dell’azione degli organi della gestione – primi fra tutti dei dirigenti – alla realizzazione dei programmi generali di mandato e della programmazione di bilancio e gestionale.

Il sistema di valutazione permanente è il mezzo con cui gli organi di governo possono incidere sui dirigenti per orientarli al compimento delle azioni gestionali, organizzative e comportamentali necessarie a garantire l’attuazione dei loro scopi. In assenza di che essi devono essere rimossi.

La terza: il sistema di valutazione permanente deve avere un contenuto idoneo al suo fine. Esso deve indicare i valori dell’amministrazione, le modalità di pesatura comparativa degli ufficî dirigenziali, l’oggetto della valutazione, i suoi percorsi, le modalità del processo di valutazione, gli índici di valutazione, la loro incidenza e la rispettiva ponderazione.

Il sistema di valutazione permanente è espressione dei contenuti e dei valori presenti nel programma generale di mandato e, piú in generale, dei contenuti della pianificazione strategica e dei programmi di bilancio. Esso ha pertanto dirette conseguenze anche sul contenuto degli strumenti di programmazione: soprattutto sui contenuti del piano esecutivo di gestione e sul piano annuale degli obiettivi.

La conseguenza è ovvia: il sistema di valutazione permanente deve rilevare gli scostamenti fra i risultati gestionali attesi ed i risultati effettivamente conseguiti dagli organi della gestione. In altri termini, esso deve misurare il livello di successo della gestione in funzione di indicatori di risultato che definiscono il livello di realizzazione degli obiettivi gestionali contenuti nel piano esecutivo di gestione e nel piano annuale degli obiettivi.

È di tutta evidenza che le azioni intraprese dagli organi della gestione condizionano non solo l’efficacia della realizzazione della pianificazione e della programmazione: l’azione della pubblica amministrazione deve essere anche e soprattutto efficiente ed economica e quindi dare sostanza ai valori espressi dall’art. 1 della Legge 6/8/1990 n. 241, che, a loro volta, sono espressione del principio di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97, comma 1 Cost.

Ciò impone ai dirigenti oneri aggiuntivi che vanno oltre il semplice “fare”: oneri che coinvolgono il ruolo dirigenziale, e quindi non solo i comportamenti intrapresi ed i loro contenuti, ma anche e soprattutto i comportamenti organizzativi attesi.

In altri termini, il sistema di valutazione permanente deve misurare non solo il “fare” ed il “saper-fare”, ma anche “l’essere”, il “saper-essere” e, soprattutto, il “sapere-di-dover-essere” per rendere possibile valutare il livello di integrazione del “lavoratore-valutato” nell’organizzazione.

Il sistema di valutazione permanente deve quindi contenere specifici e precisi índici di riscontro che consentano di misurare i comportamenti organizzativi dei dirigenti e dei titolari di funzioni dirigenziali.

Ciò può avvenire predefinendo un insieme di “comportamenti-valore” attesi, graduando i livelli dei comportamenti da osservare e valutare ed accostando a ciascuno di essi un valore decrescente, per esempio dall’“ottimo” fino allo “scarso”.

3. I valori organizzativi e valori gestionali.

Il sistema di valutazione permanente è espressione di specifici valori organizzativi e gestionali che ciascun ente locale può e deve decidere di esplicitare: cosí facendo ne promuove la diffusione nella propria organizzazione, concorrendo alla determinazione di una ben precisa cultura organizzativa e a di un vero e proprio stile aziendale.

Una tale evenienza non è priva di effetti pratici: l’enunciazione dei valori che esso persegue costituisce, infatti, un utile supporto interpretativo della normativa di fonte legale, contrattuale ed interna, orientando il lavoro dei soggetti cui è demandato il presidio e lo svolgimento del processo di valutazione.

La definizione dei valori sottesi al sistema di valutazione permanente è pertanto di indiscutibile e primaria importanza.

Essi devono essere individuati e definiti, osservando che il sistema di valutazione permanente è lo strumento con cui si orienta l’azione dei dirigenti e dei dipendenti all’attuazione del principio fondamentale di buona amministrazione enunciato dall’art. 97, comma 1 Cost.

I valori che devono ispirare il sistema di valutazione permanente sono non meno di quattordici.

Il primo: Il miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività amministrativa. Esso si commenta da solo; anche perché l’azione della pubblica amministrazione, oggi attuata in modo preponderante proprio attraverso la gestione affidata in via esclusiva alla dirigenza, deve tendere, in ultima analisi, a garantire le finalità cui è preordinata, massimizzando il risultato e contenendo quanto piú possibile le risorse impiegate per produrlo.

Il secondo: l’accrescimento della capacità di innovazione del sistema organizzativo. Solo attraverso l’innovazione è possibile garantire che l’attività gestionale sia costantemente aggiornata alle nuove e sempre piú complesse, variegate e mutevoli esigenze dell’utenza. Non può sfuggire che la pubblica amministrazione è assimilabile ad una comune impresa che eroga servizî alla collettività e che tale evenienza si verifica sovente in situazioni di vero e proprio monopolio legale. Al “cittadino-utente” deve essere riconosciuto lo status di cliente: un cliente che finanzia proprio l’erogazione di quei servizî a carattere generale che la pubblica amministrazione non può non erogare e dei quali il “cittadino-cliente” tende ad appropriarsi generando domanda e richiesta di soddisfacimento.

Il terzo: la distinzione delle responsabilità di indirizzo politico da quelle della gestione operativa. Questo è un principio organizzativo che fa parte dell’ordinamento dopo l’attuazione della Legge 23/12/1992 n. 421 da parte del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, evidenziato dal suo art. 5, comma 2 e ripreso pressoché letteralmente dall’art. 89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

Il quarto: il potenziamento delle logiche della trasparenza, della partecipazione e dell’imparzialità dell’azione amministrativa. Vale quanto evidenziato a proposito del primo valore, con l’aggiunta che i comportamenti organizzativi dei dirigenti devono rendere pienamente conoscibili i relativi processi attuativi che ne sorreggono l’azione. Qui vale solo la pena di rammentare che la pubblica amministrazione deve perseguire interessi pubblici pur essendo titolare di funzioni proprie: insomma l’azione della pubblica amministrazione non è libera nei fini ma funzionalizzata; di qui la necessità della sua immediata riconoscibilità rispetto alla quale la trasparenza e la partecipazione sono precondizioni. Anche per l’imparzialità non vi sarebbe molto da dire; se non che essa pare essere passata di moda: sovente proprio al momento dell’individuazione dei titolari delle funzioni dirigenziali.

Il quinto: L’ampliamento dell’efficacia dell’informazione e della comunicazione sull’attività istituzionale. È di tutta evidenza che il “cittadino-utente” ha il diritto di sapere e di essere informato: questa è la logica che deve condurre sempre piú a superare il modello della pubblica amministrazione autoreferenziale per sostituirlo con quello della pubblica amministrazione “casa-di-vetro”.

Il sesto: la promozione dello sviluppo delle competenze e la valorizzazione delle professionalità dei dipendenti. I dipendenti della pubblica amministrazione sono una vera e propria risorsa che deve essere valorizzata. Il sistema di valutazione permanente deve contenere specifici item che rispecchino e rendano misurabile il potenziale dei dipendenti, per consentirne la collocazione ottimale all’interno dell’organizzazione.

Il settimo: la soddisfazione e l’anticipazione delle attese dell’utenza. L’azione gestionale è rivolta al “cittadino-utente”; che è un vero e proprio cliente che ha aspettative di soddisfacimento dei proprî bisogni. A ciò si aggiunge che la società odierna è sempre piú dinamicamente mutevole; talché è specifico onere della pubblica amministrazione prevenire le istanze connesse al cambiamento per garantire adeguamenti “in tempo reale”.

L’ottavo: l’orientamento al risultato. La logica dell’adempimento deve essere guardata con sospetto e con orrore; essa fonda una concezione autoreferenziale della pubblica amministrazione: una pubblica amministrazione che si autogiustifica. La logica dell’adempimento deve essere mandata definitivamente in soffitta e deve essere sostituita con la logica del risultato: l’azione della dirigenza e dei dipendenti deve essere sorretta dalla propensione al “moto-a-meta”.

Il nono: la responsabilizzazione a tutti i livelli. La responsabilità è una vera e propria chiave di volta. Essa deve essere sostenuta a prescindere dal ruolo. Ovviamente la responsabilità è tanto maggiore quanto piú ci si avvicina al vertice della gestione.

Il decimo: la flessibilità. Essa riguarda sia i dipendenti, sia l’organizzazione. A questo proposito ci piace rammentare che agli organi di governo è lasciata la competenza a delineare le strutture di maggior dimensione secondo quanto disposto dagli artt. 2, comma 1 e 5, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Il sistema delineato dal legislatore prevede pertanto un’organizzazione “a-geometria-variabile” che si giustifica proprio perché servente alla realizzazione dei programmi di governo dell’ente. Essa si realizza con l’approvazione dell’organigramma, del funzionigramma e della dotazione organica generale del personale e si concretizza con il programma triennale del fabbisogno di personale. In altri termini, gli organi di governo definiscono sicuramente la cosiddetta “prima linea organizzativa”; possono disciplinare anche ulteriori livelli organizzativi; non possono però determinare rigidamente l’intera organizzazione dell’ente. Essi devono individuare le funzioni amministrative di ciascuna unità organizzativa di massima dimensione. Essi devono inoltre determinare l’estensione qualitativa e quantitativa della dotazione ottimale del personale, osservando che questa altro non è altro che il numero dei dipendenti suddivisi per categoria ritenuti necessarî per soddisfare i programmi di governo e per garantire gli esiti della pianificazione strategica e della programmazione di bilancio. La conseguenza di ciò è ovvia: la dotazione organica esprime un ben specifico nesso organizzativo che lega la quantità e la qualità delle risorse di personale ai programmi degli organi politici incarnati dalla maggioranza di governo che ha prevalso nella singola competizione elettorale.

Il dirigente è titolare di una vera e propria potestà organizzativa che lo deve indurre a determinare la miscrostruttura ottimale all’interno delle unità organizzative delineate dagli organi di governo. Di essa egli è pienamente responsabile. La conseguenza è che il sistema di valutazione permanente deve contenere specifici item che consentano di misurare la sua capacità di organizzazione.

Quanto alla gestione del personale, deve essere ricordato che essa avviene nel rispetto di due fondamentali principî: la sua gestione è effettuata nell’esercizio dei poteri del privato datore di lavoro; essa è attuata nel rispetto dell’esigibilità della cosiddetta “mansione equivalente”, come testualmente dispone l’art. 3, comma 2 del c.c.n.l. 31/3/1999. Di qui l’importanza della mobilità interna e delle indicazioni dell’art. 2103, ultima proposizione c.c.

L’undicesimo: lo spirito di iniziativa. Esso è il vero motore che deve sorreggere ed orientare l’azione gestionale. Il dirigente immobile è un “gestore-ingessato”. Su di lui incombe sempre un vero e proprio dovere di attivazione preventiva. Il dirigente deve essere autenticamente futurista: privilegiare il movimento deve divenire una parola d’ordine. Il dirigente non deve contemplare il mondo; egli piuttosto deve interagire e muoversi; il tempo della siesta è definitivamente finito: di ciò è bene rendersi conto.

Il dodicesimo: la capacità di innovazione. Il dirigente deve saper stimolare l’innovazione. Chi piú di lui conosce lo “stato delle cose” che costituisce il terreno sul quale si esplica la sua azione organizzativa e gestionale? L’innovazione è il motore del cambiamento e segna la soglia del miglioramento. La pubblica amministrazione deve essere assoggettata al sistema della “total quality”; per attuarla bisogna conoscere a fondo i contenuti della cosiddetta “attività ordinaria” e migliorarne gli esiti. A questi fini, l’innovazione è un valore autenticamente strategico.

Il tredicesimo: l’attenzione continua all’efficienza ed alla qualità del lavoro. Nell’azione gestionale ed organizzativa del dirigente e dei dipendenti deve essere costantemente tenuto presente che essa non solo deve assicurare l’utilità auspicata: essa deve essere conseguita senza dissipare risorse. Ciò si realizza quando ogni passaggio del processo realizzativo produce valore aggiunto; ossia quando il rapporto fra output ed input è maggiore di uno. Questi sono i postulati della Business Process Reengineering, i quali presuppongono attenzione specifica all’analisi dei flussi trasformazionali per evitare sovra costi nella produzione e nell’erogazione di servizî e quindi, in ultima analisi, sprechi, e diseconomicità; che altrimenti si ripercuotono inesorabilmente sul “cittadino-utente”; ossia su chi paga lo stipendio ai dipendenti pubblici.

Il quattordicesimo: il riconoscimento dell’impegno individuale. Il dipendente che lavora e lavora bene deve essere positivamente discriminato rispetto a che si impegna di meno. Ciò impone di rilevare i comportamenti virtuosi e di penalizzare i comportamenti dei meno volenterosi. La casistica si spreca: basta con i “dipendenti-scaldasedia” e con gli assenteisti cronici!

Non discriminare determina pericolose propensioni a “comportamenti-al-ribasso”; provoca inoltre il trasferimento dei costi degli “stipendî-rubati” da codesti figuri sulla collettività: il “cittadino-utente” in tal modo mantiene veri e proprî parassiti; che devono essere non solo penalizzati, ma mandati a casa: la poltronite non è un valore organizzativo: l’uso del disinfettante è d’obbligo.

4. La pesatura degli ufficî di maggior dimensione.

La valutazione ha come proprio esito l’espressione di un giudizio: un giudizio di valore, che è possibile solo se sono stati predefiniti gli oggetti della valutazione, le sue metodologie ed i relativi criterî.

L’individuazione dell’oggetto del sistema di valutazione permanente è di importanza cruciale, perché ne determina la sfera di incidenza organizzativa ed operativa.

Per contro, la predeterminazione dei valori organizzativi e gestionali di cui il sistema di valutazione permanente è espressione orientano il procedimento valutativo e ne pregiudicano gli esiti.

Dirimente è ora inquadrare con precisione l’oggetto del sistema di valutazione permanente, rammentandone l’incidenza e le ripercussioni sull’organizzazione.

Il sistema di valutazione permanente può esplicare efficacemente il proprio ruolo solo in presenza di un assetto organizzativo certo, la cui definizione condiziona a sua volta l’attribuzione di valore organizzativo ed economico agli ufficî di maggior dimensione come determinati dagli organi di governo secondo gli artt. 2, comma 1 e 5 comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Il sistema di valutazione permanente deve consentire di “pesare” la rilevanza organizzativa degli ufficî di massima dimensione e comunque di fornire índici e parametri per valutare l’incidenza delle articolazioni organizzative interne.

La “pesatura” degli ufficî di massima dimensione condiziona la determinazione del salario accessorio del dirigente e del titolare di funzioni dirigenziali, cosí come pure del titolare di posizione organizzativa.

Il peso ponderale attribuito a ciascuna articolazione organizzativa condiziona le modalità della ripartizione e del dosaggio del salario accessorio nelle due componenti della retribuzione di posizione e di risultato: piú marcatamente per la dirigenza contrattualizzata (la cosiddetta regola “dell’85-15”); meno incisivamente per l’area delle categorie professionali nei termini indicati dagli artt. 10, commi 2 e 3 del c.c.n.l. 31/3/1999.

È evidente che tanto piú il salario accessorio è sbilanciato a favore della retribuzione di risultato, tanto piú l’esito della valutazione della performance incide in termini economici; fermo restando che una sua valutazione che si attesti al di sotto di una determinata aliquota può determinare la revoca anticipata dall’incarico di funzioni dirigenziali nel rispetto delle indicazioni fornite dalle sentenze della Corte costituzionale 23/3/2007 nn. 103 e 104.

La valutazione delle posizioni è fondata sull’analisi delle attribuzioni, delle responsabilità e dell’autonomia assegnate a ciascuna unità. Essa fornisce indicazioni in ordine a ciò che è richiesto a ciascuno all’interno dell’organizzazione. Le relative informazioni sono indispensabili sia per “valutare il valore” di ogni posizione dirigenziale, sia per meglio “tarare” gli strumenti di valutazione dei risultati.

La valutazione della rilevanza della posizione può essere effettuata tenendo conto di non meno di sei fattori.

Il primo: la complessità organizzativa della posizione.

Ogni singolo ufficio è un’organizzazione di risorse umane, di dotazioni economiche e di dotazioni strumentali.

Sono quindi elemento di valutazione la quantità di dipendenti assegnati, suddivisi per categoria di inquadramento e per profilo professionale. È evidente che tanto maggiore è il numero dei dipendenti assegnati, tanto maggiore è il livello di complessità interna della posizione. Il numero dei dipendenti assegnati non deve essere valutato in termini assoluti, ma in relazione alle attività gestite: una squadra di operaî ed un gruppo di addetti all’amministrazione del personale in pari entità non incidono nello stesso modo negli assetti organizzativi dell’ente.

Il numero dei dipendenti assegnati deve essere ponderato in relazione alle funzioni che essi gestiscono ed alla loro complessità.

Considerazioni analoghe valgono per l’ammontare delle risorse finanziarie ed economiche attribuite con il piano esecutivo di gestione o con altri analoghi strumenti di assegnazione.

Anche in questo caso, l’ammontare delle dotazioni assegnate deve essere considerato in termini relativi ed in funzione della complessità dei processi e dei procedimenti di spettanza. Cosí, le risorse economiche assegnate per il pagamento delle quote di ammortamento dei mutui contratti, che di solito sono di cospicuo ammontare, non può essere considerata equivalente alle risorse attribuite per supportare lo svolgimento di procedure che coinvolgono maggiori complessità operative ed organizzative.

In modo del tutto analogo si deve operare per le restanti risorse strumentali.

Il secondo: il livello di responsabilità.

Ogni ufficio è caratterizzato da forme di responsabilità e dalla loro differente intensità. Su ogni articolazione di massima dimensione incombono differenti forme di responsabilità. Esse sono una variabile dipendente della collocazione della posizione, che può essere di line o di staff.

È evidente che le posizioni di line possono condurre a responsabilità civile verso terzi, evenienza che è pressoché esclusa per le posizioni di staff. E ciò vale a maggior ragione quando esse sono adibite a funzioni di studio o ricerca.

Le forme di responsabilità da considerare in termini di incidenza comparativa e relativa sono quelle usualmente previste dall’ordinamento: le responsabilità penale, civile verso terzi – nella duplice forma della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale –, amministrativa, contabile e gestionale.

Anche in questo caso deve essere evidenziato che non tutte le tipologie di responsabilità in questione incidono simultaneamente ed in modo identico sulla singola posizione di massima dimensione. Cosí, ad esempio, per avere responsabilità contabile occorre il maneggio di danaro o la disponibilità di materia.

La pesatura della responsabilità è una variabile dipendente del rischio della sua configurazione in concreto: su un ufficio di staff addetto a funzioni di studio o ricerca grava sicuramente una minor responsabilità di quella che caratterizza un ufficio finanziario o che svolge complesse procedure in materia urbanistica ed edilizia.

Il terzo: il numero e la complessità dei processi e dei procedimenti gestiti.

La materia è in stretta relazione con la differente connotazione delle funzioni attribuite a ciascuna unità di massima dimensione. A questo proposito è bene che ogni ente locale si doti di un proprio funzionigramma generale, nel quale evidenziare le attività raggruppate per materie omogenee in relazione del loro destinatario.

In altri termini è indispensabile che l’ente locale acquisisca la consapevolezza della necessità di operare per processi ed in termini di soddisfacimento dei proprî clienti: esterni o interni che siano.

La complessità organizzativa deve essere attentamente valutata, ricorrendo a processi di mappatura sistematica dell’attività ordinaria d’istituto; nel procedervi deve essere pósta particolare attenzione alla semplificazione ed al principio di efficienza ed economicità.

Di centrale importanza è il concetto di dissipazione di risorse: in un processo che da un input conduce ad un output il rapporto fra di loro deve essere sempre maggiore di uno; in assenza di che non vi è produzione di valore, ma dissipazione di risorse.

Una volta mappata, l’attività ordinaria dell’ente locale deve essere sottoposta a miglioramento continuo o a mantenimento dello standard di ottimalità conseguito e certificato: la complessità organizzativa è quindi anche una variabile dipendente del contenuto della sua attività sottoposta al sistema della Total Quality.

Il quarto: la complessità delle relazioni gestite.

Un’unità organizzativa di massima dimensione non è una monade: essa è un centro di imputazione di relazioni. È evidente che tanto maggiore è la complessità relazionale, tanto maggiore è il suo peso nell’organizzazione.

Vale anche per questo item la distinzione fra relazioni esterne ed interne; a voler significare che le unità operative di line intrattengono prevalentemente relazioni esterne; esse sono attori anche di relazioni interne poiché non si vede come possano funzionare nell’organizzazione se non interfacciandosi con i restanti ufficî che la compongono.

Gli ufficî di staff intrattengono quasi esclusivamente relazioni interne: ciò deriva dalla loro funzioni servente nei confronti degli altri ufficî dell’ente.

Quanto appena evidenziato consente di concludere che le articolazioni organizzative dell’ente locale ricevono il loro senso in e per l’organizzazione; e che solo in quest’accezione di strumentalità si giustificano.

Il quinto: le forme di controllo.

Ogni ufficio è il luogo nel quale deve essere assicurato il continuo presidio dei processi e dei procedimenti gestiti. I processi organizzativi e gestionali d’ente locale devono essere non solo enunciati, ma anche e forse soprattutto presidiati; in assenza di che sono meri flauts vocis.

L’assenza di presidio ne falsifica l’importanza, allo stesso modo in cui la minaccia di sanzioni che non vengono mai applicate alza la soglia di impunità e delegittima l’autorità.

Il controllo e la sua incidenza sono una variabile della tipologia del processi ascritti ad ogni unità organizzativa di massima dimensione. Da ciò discende che il peso di questo item deve tenere conto del suo termine di relazione.

Il sesto: le competenze richieste.

Le competenze richieste riguardano, in primo luogo, gli elementi di scienza che sono necessarî per garantire l’efficacia dell’azione amministrativa: vi rientrano il livello di studio e l’eventuale necessità di iscrizione ad albi o ad ordini professionali.

Le competenze sono una variabile anche della complessità delle relazioni che afferiscono a ciascuna articolazione organizzativa e del livello di intensità che sono loro proprie.

Una volta determinati gli item da utilizzare per la pesatura delle posizioni di massima dimensione, il sistema di valutazione permanente deve attribuire a ciascuna di esse un peso ponderale frazionario. In altri termini deve essere “messo-a-cento” il peso complessivo della “posizione-tipo” e deve essere attribuito a ciascun item uno specifico valore che ne caratterizza l’incidenza.

Il sistema di valutazione permanente deve ponderare quanto ciascuna posizione di massima dimensione partecipa a ciascun valore di ogni singolo item di osservazione.

La conclusione del processo è la somma dei risultati cosí ottenuti e l’espressione di un índice che misura il rapporto fra la posizione valutata e la “posizione-tipo” in termini percentuali.

Essa è completata dall’attribuzione del salario accessorio in funzione del peso della singola posizione cosí determinato. Quando possibile, il sistema di valutazione permanente deve differenziare il salario accessorio nei termini delle sue componenti: la retribuzione di posizione e la retribuzione di risultato.

È evidente che uno spostamento del salario accessorio verso la componente del risultato ha l’effetto pratico di spingere il dirigente ad una maggiore attenzione verso la realizzazione degli obiettivi della programmazione gestionale e ad improntare maggiormente la sua azione al rispetto delle aspettative di comportamento organizzativo attese (le cosiddette “competenze manageriali”) che esprimono i valori organizzativi richiesti, ossia l’aderenza al ruolo in termini di “essere”, “saper-essere” e soprattutto “sapere-di-dover-essere”.

Una differente articolazione della performance piú orientata al “fare” piuttosto che a tali item completa la definizione del ruolo.

5. La valutazione degli obiettivi gestionali.

Nel precedente paragrafo ci siamo occupati della pesatura delle posizioni dirigenziali. Là si trattava di attribuire un peso alle unità organizzative di massima dimensione; anche per conferire loro un significato economico: il salario accessorio – nelle sue componenti di retribuzione di posizione e di risultato – è, infatti, una variabile dipendente delle funzioni attribuite a ciascuna di esse.

Ora dobbiamo occuparci di come si valutano le prestazioni dei titolari di tali unità operative; per semplicità circoscrivendo la nostra indagine alle prestazioni di “fare”.

Cruciale a questi fini è definire gli obiettivi della gestione mediante il piano annuale degli obiettivi (P.A.O.); che è poi la principale articolazione del piano esecutivo di gestione (P.E.G.).

Si tratta, in buona sostanza, di definire gli obiettivi della gestione annuale e di misurarne l’esito. Ecco, allora, che il cuore del problema diviene intendersi su cosa è un obiettivo; piú propriamente cosa “obiettivo” significa.

Solo dopo aver investigato il significato del termine è possibile discutere delle condizioni della sua misurabilità e degli índici della sua misurazione. La questione diviene quindi definire non solo l’azione dei dirigenti in termini di obiettivi, ma anche precostituire i termini della misurazione del loro successo gestionale ed organizzativo: cosa che si può fare solo specificando quali sono gli indicatori di successo e le azioni indispensabili per garantirne l’esito.

Il “fare” dei dirigenti può quindi essere definito e rilevato solo dopo aver determinato con chiarezza non meno di tre termini fondamentali: “obiettivo”, “azione” ed “indicatore”.

Il P.A.O. è un insieme di obiettivi di gestione. Ciascuno di essi è la specificazione operativa dei programmi che compongono la relazione previsionale e programmatica annessa al bilancio di esercizio. E quest’ultima è la traduzione del programma generale di mandato.

Il P.A.O. è quindi la rappresentazione in termini di programmazione gestionale di superiori livelli di programmazione di bilancio e di pianificazione strategica. In questo modo, il sistema di valutazione permanente diviene lo strumento mediante cui, anno per anno, si rileva l’attuazione della programmazione gestionale e quindi, attraverso i necessarî raccordi con il controllo strategico, dello stato di avanzamento della pianificazione strategica attraverso la programmazione di bilancio.

Ma veniamo alla definizione dei termini della questione.

Il primo: “obiettivo”. Un obiettivo è il fine cui è preordinato un insieme di azioni che si succedono nel tempo: evoca il “moto-a-meta”, ossia l’orientamento dell’azione al risultato.

Primo indizio: per poter dire che un obiettivo è realizzabile occorre che siano rilevabili e misurabili gli índici del suo successo; piú propriamente, la precondizione per poter parlare sensatamente di obiettivi è la loro misurabilità. “Obiettivo” dunque significa insieme di azioni rilevabili preordinate ad un fine a sua volta rilevabile empiricamente e del quale è possibile misurare l’esito. La misurabilità è dunque uno degli elementi costitutivi dell’azione per obiettivi.

Il risultato atteso può consistere nel mantenimento di uno standard consolidato e ritenuto ottimale o nel suo miglioramento; gli obiettivi si distinguono quindi in due grosse famiglie: obiettivi di mantenimento e obiettivi di miglioramento.

Gli obiettivi si differenziano anche in funzione del loro oggetto: che può essere, in primo luogo, l’attività ordinaria dell’ente. Essi possono riguardare elementi particolarmente significativi per il programma di governo: si parla in questi casi di obiettivi strategici.

Essi possono riguardare tanto un singolo dirigente, quanto un gruppo di dirigenti: in questi casi si parla di obiettivi di line, piuttosto che di obiettivi trasversali all’organizzazione.

Secondo indizio: nel tempo si dànno solo accadimenti possibili. Ecco un altro elemento dell’obiettivo: ha senso parlare di obiettivi soltanto se di essi è possibile ipotizzare la realizzazione. Una possibilità fisica e convenzionale, ossia fondata sull’esperienza.

In altri termini, un obiettivo deve essere realizzabile come esito: le precondizioni nelle quali esso è pensato e progettato devono essere idonee a sostenerlo.

Non è quindi possibile parlare sensatamente di obiettivo se l’esperienza nega la possibilità di pensarne la realizzazione e se chi lo deve realizzare non è dotato dei mezzi sufficienti per assicurare il successo della propria azione.

Un obiettivo si assicura nel tempo: ma il tempo non è una variabile dipendente; il tempo è una delle coordinate che lo definiscono. Parlare di obiettivi evoca quindi l’idea di processo e di flusso: un insieme di azioni calate nel tempo che si susseguono l’una all’altra secondo ben precisi nessi di collegamento funzionale.

Il secondo: “azione”. Un’azione è un comportamento collocato in coordinate di spazio e di tempo. Insomma, un elemento del processo o del flusso fra una piú vasta platea di accadimenti predefiniti ritenuti indispensabili per conseguire il risultato atteso. Ecco: un obiettivo è un risultato atteso, un’aspettativa, un esito voluto. Per conseguire il quale occorre intraprendere un insieme di azioni che, secondo esperienza, sono la precondizione della sua realizzazione.

Anche le azioni devono essere rilevabili: l’evanescenza è qui espressamente bandita.

Le azioni devono essere riscontrabili; e poiché esse si dànno nel tempo, esso diviene l’indizio piú prossimo per verificarne l’accadimento.

Il terzo: “indicatore”. L’indicatore è l’evento che consente di decidere se una determinata azione è stata davvero svolta. L’indicatore è importante per definire almeno due accadimenti: l’ottenimento del risultato finale atteso e il compimento di ciascuna azione che ne è la precondizione di realizzazione.

Convenzionalmente possiamo quindi parlare di “indicatori di risultato” e di “indicatori di fase”.

Gli indicatori sono veri e proprî paradigmi: ossia termini di raffronto per decidere convenzionalmente se una determinata azione o un dato obiettivo sono stati realizzati.

Gli indicatori sono fattori di rilevazione del successo e concorrono a definire i termini della misurabilità dell’obiettivo e delle azioni preordinate alla sua realizzazione.

Le modalità della misurazione sono molteplici; ciò significa che i risultati attesi possono essere riscontrati in piú modi: essenziale è che la verifica sia pensata e compiuta in termini convenzionalmente accettabili ed accettati.

All’obiettivo è quindi connessa la sua negoziabilità.

Se differenti sono i termini della verifica, diversi sono gli indicatori e quindi gli obiettivi. Il che è come dire che l’indicatore è una variabile dipendente del contenuto dell’obiettivo.

Accanto a obiettivi di quantità si possono ipotizzare obiettivi di qualità, di efficienza, di soddisfacimento dell’utenza, di prodotto, di contenimento del tempo di realizzazione e cosí via.

Gli indicatori di successo sono una variabile dipendente del tipo di obiettivo: discendono dalla sua strutturazione.

Un obiettivo di prodotto si valuta in relazione all’oggetto realizzato. Se di efficienza, si valuta ponendo in relazione il rapporto fra valore creato e risorse impiegate nel processo di realizzazione: ossia raffrontando l’output con input. Un obiettivo di soddisfacimento dell’utenza si misura mediante customer satisfaction. Un obiettivo di qualità valutando il contenuto del prodotto ottenuto.

La valutazione del “fare” del dirigente si effettua quindi verificando che le azioni e gli obiettivi attribuiti sono stati realizzati.

La valutazione del conseguimento degli obiettivi ne presuppone la rappresentazione. Proprio perché la realizzazione dell’obiettivo diviene nel tempo, essa non può che essere effettuata mediante diagrammi di flusso. Ad un capo dei quali si indica l’obiettivo, ossia il risultato atteso; all’altro, l’indicatore di risultato. Inframezzando i due termini con l’evidenziazione delle fasi intermedie e dei relativi indicatori di fase.

Ecco conclusa – sia pure a grandi linee – la parte dedicata alla valutazione delle azioni dei dirigenti.

Una tematica apparentemente semplice; ma che costituisce il cuore nevralgico della questione: insieme alla valutazione dei loro comportamenti manageriali.

Il piano annuale degli obiettivi ne rappresenta il presupposto; cosí come pure il piano esecutivo di gestione.

La valutazione della performance è allora l’esito finale della programmazione gestionale intesa nella sua complessività.

In questo modo, si porta a coerenza il sistema costruito sulla triade “programmazione-gestione-controllo”: il modello delineato dal legislatore con la riforma del rapporto di pubblico impiego considerato una delle conseguenze piú significative del principio di buon andamento dell’azione amministrativa previsto dall’art. 97, comma 1 Cost.

La valutazione è un importante momento di restituzione: agli organi di governo ed agli stessi dirigenti.

Ai primi perché essi devono poter sapere qual è l’esito della programmazione gestionale e quindi, di riflesso, della programmazione tout court; ai secondi in quanto fornisce indicazioni sul loro valore e sull’entità del salario di risultato che costituisce elemento della retribuzione contrattualmente prevista.

Ma la valutazione del grado di raggiungimento degli obiettivi è importante anche perché fornisce ai dirigenti ed al personale valutato la giusta considerazione delle loro capacità: di negoziazione e di gestione.

La performance non si esaurisce certamente solo attraverso la realizzazione di azioni ed il conseguimento di obiettivi. Alla valutazione di tali competenze si affianca la valutazione dei comportamenti: importante è non solo l’azione, ma anche il suo contenuto, ossia di quei comportamenti che concorrono a costruire lo stile aziendale.

6. La valutazione dei comportamenti organizzativi dei dirigenti e delle posizioni organizative.

Nell’ultimo paragrafo ci siamo occupati della valutazione delle competenze manageriali connesse alle azioni gestionali: le competenze propriamente tecniche connesse al “fare” ed al “saper fare”.

Sono le competenze tecniche tradizionalmente richieste ad ogni professionista; ossia quelle che riguardano direttamente la realizzazione degli obiettivi contenuti nel piano esecutivo di gestione (P.E.G.) e nel piano annuale degli obiettivi (P.A.O.).

Esse sono condizione necessaria, ma non sufficiente per definire compiutamente il ruolo del dirigente: la sua definizione, infatti, prevede ulteriori ingredienti che hanno a che fare con i cosiddetti “comportamenti organizzativi”; ossia con specifiche competenze di diretta immedesimazione e di immediata esigibilità da parte del datore di lavoro perché costituiscono il contenuto delle sue aspettative.

Alludiamo alle competenze che rendono riconoscibile la capacità di “stare nel ruolo”, ossia la piena consapevolezza che il dirigente deve avere di sé e che il datore di lavoro deve poter percepire perché costituiscono il retroterra culturale ed organizzativo che connota l’azione ed il comportamento del dirigente in generale: la capacità di “saper essere” e la consapevolezza di “essere” e soprattutto di “sapere di dover essere”.

È quindi ovvio che ad un dirigente non si richiede piú solo di conoscere, ma anche di possedere specifiche capacità organizzative e di influenza dei comportamenti dei proprî collaboratori.

Il dirigente, infatti, deve essere in grado non solo di lavorare, ma anche e soprattutto di saper fare lavorare i proprî collaboratori: con comportamenti assertivi e con stili direttivi che sappiano cogliere le differenze e valorizzare le capacità altrui.

Il dirigente deve possedere specifiche e spiccate attitudini alla costruzione ed al mantenimento di relazioni. A tale fine è indispensabile il possesso di capacità di interazione, rassicurazione e motivazione.

Queste competenze ulteriori sono la precondizione dell’esigibilità delle peculiari prestazioni lavorative che il datore di lavoro ha il diritto ed il dovere di valutare: per riscontrare se dirigente è pienamente consapevole del proprio ruolo e se i suoi comportamenti corrispondono alle aspettative del datore di lavoro.

Tali comportamenti organizzativi devono essere interiorizzati dal dirigente e costantemente presidiati perché concorrono a definire lo specifico stile aziendale che rende riconoscibile ogni organizzazione.

Di qui la necessità di prevedere idonee forme di riscontro che concorrono a definire il contenuto della sua “performance”.

Per costruire la parte del sistema di valutazione permanente che riguarda i comportamenti organizzativi occorre predefinire almeno due campi: quello dei comportamenti richiesti e quello delle modalità del loro riscontro.

Il primo ha ad oggetto il loro elenco; il secondo la metodologia della loro verifica e quindi della loro valutazione.

La distinzione fra i due ámbiti di analisi è meramente didascalica: serve solo per rendere comprensibile il contenuto concettuale della costruzione del sistema di valutazione dei comportamenti. È evidente, infatti, che la scelta degli ingredienti è intimamente connessa al metodo della loro verifica. Il quale deve contenere elementi di graduazione e di orientamento.

Qui di séguito indichiamo dieci comportamenti organizzativi che concorrono a definire il ruolo del dirigente e quindi correlativamente le aspettative sul suo comportamento. Da ciò discende la necessità di trattare congiuntamente i due ámbiti, indicando sia il comportamento organizzativo, sia i criterî per la sua valutazione.

E qui è necessaria súbito una precisazione: la valutazione deve essere ancorata saldamente a specifici item, descritti con precisione ed ordinati secondo una scala decrescente di índici di successo, individuando una serie di fattori di riscontro ed attribuendo a ciascuno di essi un punteggio.

Il primo: la capacità comunicativa.

Il dirigente deve saper comunicare. L’affermazione può sembrare banale, ma tale non è. Le azioni del dirigente sono in ampia parte di influenza del comportamento dei proprî collaboratori. E per influenzare l’altrui comportamento è indispensabile saper comunicare.

Senza ripercorrere i postulati della pragmatica della comunicazione, deve essere evidenziato che “tutto è comunicare”: gli individui comunicano sia con il linguaggio, sia con i comportamenti: ossia verbalmente ed extra e para verbalmente. Ed ecco la conclusione: il dirigente deve utilizzare quei mezzi comunicativi che piú di tutti sono idonei al conseguimento dello scopo cui la sua azione è preordinata. È questo il principio dell’elasticità degli strumenti di comunicazione.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

La comunicazione è risultata efficace ed efficiente: la comunicazione del dirigente – verbale e scritta – è risultata sempre adeguata, mirata e curata nella forma; il dirigente si è dimostrato capace ed affidabile nell’assicurare, sempre e comunque, un eccellente livello nei flussi di comunicazione verso gli uffici destinatari; il dirigente ha curato, con buona attenzione e completezza, gli aspetti di comunicazione verso gli uffici destinatari; il dirigente ha alternato risultati di comunicazione molto variabili: dal sintetico all’esauriente al prolisso al superfluo; il dirigente non è sembrato per nulla impegnato a rendere le proprie comunicazioni di un livello accettabile, vanificando, spesso, gli sforzi in tal senso di tutta la struttura.

Il secondo: la capacità di risposta.

Il dirigente deve saper fornire risposta ai problemi che di volta in volta gli si presentano. E lo deve saper fare sempre motivatamente. Il “dirigente-oracolo” deve essere guardato prima con orrore, poi con sospetto. L’azione del dirigente ha quali destinatarî dei veri e proprî clienti: la sua capacità di risposta deve essere quindi soddisfacente e rendere evidenti le ragioni che la sorreggono. Anche in questo caso è indispensabile una buona capacità di comunicazione. Se il dirigente non è capito, la colpa è tutta sua.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente è sempre stato in grado di fornire risposte tempestive ed esaurienti, attivandosi in ogni modo pur di soddisfare il “cliente” richiedente; la capacità di risposta del dirigente si è rivelata decisamente buona, anche in condizioni di lavoro eccezionali e caratterizzate da notevoli limitazioni temporali; il dirigente ha saputo far fronte alle richieste provenienti dai varî interlocutori, rispettando tempi e procedure; la capacità di risposta del dirigente è risultata variabile ed i relativi tempi di attesa, imprevedibili; il dirigente ha operato con lentezza ed inaffidabilità, sia nelle comunicazioni verbali che nell’invio di documenti, determinando frequenti reclami da parte dei “clienti” interessati.

Il terzo: la capacità di problem solving.

Il dirigente deve risolvere problemi: la sua presenza nell’organizzazione si spiega soprattutto in ragione della necessità di trovare adeguate soluzioni ai problemi che di volta in volta si prospettano. Ciò significa che il suo comportamento organizzativo deve essere spiccatamente orientato al risultato: la difficoltà deve essere uno stimolo alla soluzione e non già un intralcio al suo conseguimento. In parole povere: il dirigente deve essere un “tipo-realizzatore”.

Nel processo di problem solving egli deve sapersi districare con abilità e fluidità: è importante la capacità di ascolto attivo, ma anche la capacità di “fare sintesi”. La prima valorizza gli apporti dei collaboratori, le differenze, le specificità e l’analisi; la seconda consente di decidere in modo informato.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha dimostrato spiccate capacità intellettuali, inquadrando con chiarezza difficili problemi e dando loro soluzioni realistiche; il dirigente ha affrontato, con buoni risultati, anche problemi poco usuali o di difficoltà superiore al normale, dimostrando di orientarsi facilmente anche in situazioni complesse; il dirigente ha dimostrato di comprendere bene l’essenza dei problemi normali del suo lavoro e di individuarne, in modo esauriente, le soluzioni; talora il dirigente non ha saputo inquadrare con sufficiente chiarezza problemi normali per la sua mansioni: in casi del genere ha dato conclusioni superficiali o soluzioni approssimative; il dirigente ha dimostrato, con una certa frequenza, di ragionare in modo piuttosto confuso: ha dato prova di carenze nel vagliare i fatti e nel trarne le conclusioni.

Il quarto: la capacità di decisione.

Il dirigente deve saper decidere: lo deve fare stimolando la condivisione. Ma anche imponendosi quando essa non è sensatamente conseguibile. “Saper decidere” significa essere consapevoli che il tempo è una variabile essenziale del processo decisionale; e che quindi la logica dell’eterno rinvio è estranea al suo ruolo. Anche e soprattutto perché rinviare inutilmente è comunque decidere: decidere di rendere evidente la propria inettitudine.

La decisione deve essere informata: “decidere per decidere” non solo non serve, ma è dannoso. Le decisioni ortopediche sono espressamente bandite: il processo decisionale non è martellare un ginocchio per provare i riflessi. La decisione è una cosa seria; e come tale merita riguardo.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha dimostrato grande sicurezza nel prendere rapide e valide decisioni: quando è stato necessario ha deciso in presenza di forte rischio ed ha ottenuto risultati soddisfacenti; il dirigente ha dimostrato tempestività e concretezza nel decidere ed anche in casi difficili o eccezionali ha dato, in genere, soluzioni soddisfacenti; il dirigente ha deciso con adeguata prontezza e buoni risultati nei casi abituali o vicini alla norma; il dirigente, nel giungere a decisioni, in casi abituali, ha avuto tendenza a seguire opinioni altrui, senza una convinzione propria; il dirigente, anche nell’affrontare argomenti abituali, spesso ha dimostrato indecisione; oppure ha deciso con precipitazione, ottenendo risultati controproducenti.

Il quinto: la collaborazione.

Il dirigente non è solo un decisore, ma anche e soprattutto un facilitatore. Il suo successo poggia in larga parte sulla sua capacità di coinvolgimento dei proprî collaboratori. Al dirigente è richiesto di sapere come di organizza un gruppo, cos’è la leadership, che differenza sussiste fra un leader formale ed un leader sostanziale, cosa sono i leader informali e qual’è il loro tasso di “pericolosità organizzativa”.

Il dirigente che non possiede tali cognizioni è una mina vagante: un pericolo per l’organizzazione; il suo successo è lasciato al caso; egli sostituisce la casualità alla causalità: insomma è un pasticcione. E, per il suo bene, è meglio che faccia altro che dirigere.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha compreso spontaneamente quando era necessario collaborare in modo particolare. Ha dimostrato un atteggiamento di forte integrazione nel gruppo, pur rimanendo disponibile nei confronti dei colleghi di altri ufficî; il dirigente è sempre stato disponibile nell’offrire la massima collaborazione all’interno del proprio gruppo di lavoro, ricercando le soluzioni di collaborazione; il dirigente ha collaborato, senza recriminazioni, con i colleghi del proprio gruppo di lavoro; il dirigente si è integrato solo se sollecitato dai colleghi o dalle necessità operative. Appena gli è stato possibile ha dato rilevanza al proprio lavoro in confronto a quello degli altri; il dirigente ha sempre teso all’isolamento, non integrandosi nel gruppo né a livello personale né a livello professionale.

Il sesto: lo spirito di iniziativa.

Il dirigente deve essere orientato all’azione: egli deve essere attivo; anzi sovente è bene che sia proattivo. La sua azione deve essere orientata a rendere prevedibile la difficoltà e prevedibili i motivi del proprio successo.

Lo spirito di iniziativa è tanto piú necessario quanto piú è dinamico il sistema di riferimento. In questo senso, il dirigente deve essere scarsamente proclive all’omeostasi: qui la contemplazione è espressamente bandita.

Il dirigente deve prevenire le ragioni della complessità e perseguire la semplificazione: la sua attivazione è la precondizione del risultato. Essere attivi stimola la collaborazione: chi dorme rimane solo; e chi è solo resta indietro: come un cavallo bolso al palo.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha avuto molte iniziative sensate e brillanti, rivolte anche al futuro, per cui ha saputo superare tempestivamente e bene anche situazioni impegnative e non prevedibili; anche di fronte ad imprevisti piuttosto impegnativi il dirigente ha dimostrato pronto spirito di iniziativa ed ha ottenuto buoni risultati; il dirigente ha dimostrato buona iniziativa nell’ambito delle sue incombenze ed ha superato agevolmente le difficoltà prevedibili incontrate nel corso del suo lavoro; il dirigente applicandosi, di preferenza, ad un lavoro di routine, quando ha incontrato difficoltà impreviste, non sempre ha saputo ottenere risultati accettabili; il dirigente ha limitato la propria attività a ciò che gli veniva esplicitamente detto di fare, rendendo necessarî numerosi interventi stimolatóri.

Il settimo: la visione di insieme.

Il dirigente deve essere capace di sintesi. Ma per andare a sintesi è necessario aver prima analizzato. L’analisi presuppone la capacità di saper guardare ai termini di un problema da una pluralità di punti di vista diversi.

Aver visione d’insieme significa proprio non fermarsi alla prima impressione. Significa saper “accogliere l’incertezza”; rifuggire dall’aver “verità in tasca”: figuriamoci dal pretendere d’averla. Il dirigente deve saper essere elastico nel metodo di ricerca. Il dirigente che “si spezza ma non si piega” è un incapace. Nella direzione delle organizzazioni non hanno spazio gli “orbi veggenti”. Chi è cieco sbatte la testa, semplicemente.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente, in ogni sua attività e decisione ha costantemente tenuto presente l’economia generale dell’ente, risolvendo i problemi sempre nel modo per esso più vantaggioso; il dirigente ha dimostrato particolare sensibilità alle esigenze dell’ente, a cui ha saputo armonizzare le proprie decisioni; il dirigente ha sempre tenuto presenti i riflessi delle proprie decisioni, inquadrandoli, con buoni risultati, in un’adeguata prospettiva generale; il dirigente, in genere, ha tenuto presenti i requisiti d’insieme delle soluzioni, tuttavia qualche volta ha seguito interessi piuttosto settoriali; nelle soluzioni date ai problemi il dirigente ha dimostrato di essere particolarista e non ha tenuto adeguatamente in considerazione i riflessi generali del suo operato.

L’ottavo: il senso di responsabilità.

Il senso di responsabilità è un item di particolare importanza. Oggi il dirigente è titolare esclusivo della funzione gestionale. Fermi il principio di funzionalizzazione dell’azione della pubblica amministrazione al pubblico interesse, ed il vincolo che deriva dall’attività di indirizzo degli organi di governo, il dirigente sceglie la soluzione piú idonea con libertà.

La libertà assoluta è un’invenzione del pensiero ed esiste solo nella piú sfrenata fantasia dei soggetti affetti da delirio di onnipotenza. Piuttosto la libertà è il correlativo della responsabilità. Ossia del saper accogliere le conseguenze delle proprie azioni.

La responsabilità di cui parliamo è strettamente connessa al controllo dell’azione del dirigente ed all’affermazione del principio dell’autoimputazione delle conseguenze dell’azione dirigenziale. Il dirigente responsabile non si ferma al dato formale della propria azione e non opera da “scaricabarile”. Le ragioni del suo successo stanno in un insieme di competenze, quelle del suo insuccesso sono solo affar suo.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente, in armonia con le esigenze dell’ente, ha ricercato ulteriori e più estese incombenze, applicandosi con buoni risultati e mai ha imputato ad altri i proprî errori; per il suo senso di responsabilità, i controlli sull’operato del dirigente hanno avuto un significato soltanto formale: egli ha ricevuto volentieri ulteriori e maggiori incombenze; il senso di responsabilità del dirigente è risultato sempre adeguato, per cui è stato sufficiente solo un controllo generico, senza interventi diretti; qualche volta il senso di responsabilità del dirigente è stato meno vivo del dovuto e quindi si sono resi necessari controlli abbastanza frequenti e qualche intervento correttivo; il dirigente ha cercato in generale di sottrarsi il più possibile alle sue responsabilità e di conseguenza ha reso necessarî controlli costanti e frequenti interventi correttivi.

Il nono: l’efficienza nel lavoro.

L’azione del dirigente deve essere orientata al risultato. Ma conseguirlo non è sufficiente: soprattutto in contesti caratterizzati dalla carenza di risorse e dalla loro pubblica titolarità.

Il dirigente deve conseguire i proprî obiettivi minimizzando la consumazione delle risorse che ha a disposizione. In altri termini, egli deve produrre il massimo risultato con il minimo dispendio di risorse. Lo spreco è bandito; anzi, è fonte di responsabilità.

Il dirigente deve tendere alla semplificazione organizzativa e relazionale; deve organizzare i processi, eliminare la complessità, estirpare la circolarità, bandire gli “eterni ritorni”, essere orientato al risultato, avere spiccato “moto a meta”, mappare l’attività ordinaria che caratterizza l’ufficio di cui è responsabile, sottoporla a miglioramento continuo, monitorare i processi, considerare il tempo non come una variabile indefinita e soprattutto “darsi un tempo”.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha saputo organizzare bene il proprio lavoro, cosí da essere in grado di superare, con buon esito, anche situazioni eccezionali e di grande impegno; il dirigente, in genere ha saputo far fronte con buoni risultati anche a situazioni impegnative, necessitando di appoggio solo in situazioni eccezionali; il dirigente, ha saputo organizzare in modo adeguato il proprio lavoro abituale, necessitando di un minimo appoggio nelle variazioni di un certo rilievo; il dirigente si è trovato con una certa frequenza in difficoltà di fronte a situazioni prevedibili, non avendo considerato in anticipo i possibili sviluppi del suo lavoro; il dirigente non ha saputo organizzare il proprio lavoro abituale, suddividendolo ed equilibrando i vari compiti in un programma realistico.

Il decimo: la flessibilità.

La flessibilità è índice di adattatività e di intelligenza organizzativa. La flessibilità è capacità di adattamento al cambiamento. “Essere flessibile” significa sapersi autocorreggere: non solo dominare le conseguenze dell’errore, ma anche e soprattutto saperlo prevenire.

La flessibilità è sintomo di una particolare sensibilità: la persona flessibile sa prevenire e prevedere. Chi è flessibile non è una banderuola, ma una persona che sa prevenire il cambiamento del vento: come un bravo nocchiero, sa quando è bene riorientare la velatura; cosí né va a sbattere sugli scoglî, né va dritto incontro alla tempesta.

Quanto agli item, riteniamo che possano valere i seguenti índici decrescenti di valutazione.

Il dirigente ha dimostrato spirito critico verso le attività svolte: studia e propone cambiamenti metodologici e procedurali volti all’ottenimento di migliori risultati; il dirigente ha dimostrato un buon spirito di apprendimento verso i cambiamenti imposti da nuovi metodi e procedure, rispondendo in tempi piú che normali alle variazioni; il dirigente si è adeguato alle disposizioni intervenute a variare il suo normale iter lavorativo; il dirigente è riuscito, con difficoltà, ad inserirsi nei cambiamenti procedurali proposti da nuove procedure o da situazioni createsi nell’ambito del suo lavoro; il dirigente non ha accettato norme e situazioni rispetto a quelle preesistenti ed ha avuto difficoltà nell’apprendere nuovi metodi o nuove procedure.

7. La valutazione del personale non apicale.

Il sistema di valutazione permanente deve prevedere idonee forme di valutazione delle prestazioni del personale non apicale poiché nessun dipendente vi è estraneo. Nessun incentivo può essere distribuito ai dipendenti dell’ente locale se non all’esito di un processo di valutazione che determina una “valutazione-risultato” in conformità con un sistema di regole predeterminate e certe.

Orienta in questa direzione l’art. 37, comma 4 del c.c.n.l. 22/1/2004: la norma prevede che “i compensi destinati a incentivare la produttività e il miglioramento dei servizi devono essere corrisposti ai lavoratori interessati soltanto a conclusione del periodico processo di valutazione delle prestazioni e dei risultati nonché in base al livello di conseguimento degli obiettivi predefiniti nel PEG o negli analoghi strumenti di programmazione degli enti”, vietando nel contempo l’attribuzione generalizzata di qualsiasi forma di salario accessorio

La valutazione condiziona anche la progressione economica nella categoria di inquadramento nei termini previsti dall’art. 5 del c.c.n.l. 31/3/1999.

A questi fini, il sistema di valutazione permanente deve tenere conto degli item previsti dalle lett. a), b), c) e d) del menzionato art. 5, comma 2, secondo un sistema graduato e assoggettato ad una ponderazione che sia espressione delle varie categorie professionali e dei profili presenti nell’organizzazione dell’ente locale.

Dal punto di vista operativo, il sistema di valutazione permanente deve prevedere una pluralità di item predeterminati a ciascuno dei quali deve essere affiancato un indicatore di successo. Ciascun item deve essere pesato ponderalmente in funzione della rilevanza annessagli.

Quanto alle modalità di accesso al salario accessorio, il sistema di valutazione permanente deve prevedere uno standard minimo, al di sotto del quale ne è preclusa la corresponsione; quando dovuta, essa può essere ancorata al punteggio proporzionalmente conseguito.

La norrmativa è stata di recente corroborata dall’art. 8 del c.c.n.l. 11/4/2008. Esso, infatti, ha legato la corresponsione del salario accessorio “al riconoscimento e alla valorizzazione delle professionalità e del merito” ed all’apporto delle azioni di ciascun dipendente al miglioramento dei servizî. Tutto ciò significa che è vietato distribuire il salario accessorio al di fuori del sistema di valutazione permanente, vero e proprio paradigma di giustizia sostanziale in grado di affermare anche per il personale di minor rilevanza il principio della “giusta discriminazione”.

8. Il processo di formazione e le relazioni sindacali.

Concluso l’esame del contenuto del sistema di valutazione permanente, deve essere analizzato il procedimento che conduce alla sua adozione.

La materia è apparentemente semplice: la sua relativa complessità è dovuta alla solita sovra esposizione sindacale, che affianca una pluralità di relazioni fra datore di lavoro e organizzazioni sindacali. L’intento è il solito: fare confusione, creare difficoltà e condurre alla cogestione della valutazione del personale. O almeno provarci.

Situazioni che devono essere evitate accuratamente, nella piena consapevolezza che il sistema di valutazione permanente deve poter essere adottabile con tendenziale assoluta libertà dal datore di lavoro.

È questo uno dei soliti casi di “inquinamento relazionale”, che alterano i rapporti fra soggetti istituzionali: fra il datore di lavoro, che deve potersi dotare degli strumenti che gli servono per “fare il proprio lavoro” e i sindacati, che non si vogliono rassegnare alle conseguenze che derivano dalla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego: la perdita – almeno sulla carta – dello strapotere del quale hanno sempre goduto in tale comparto.

La formazione del sistema di valutazione permanente è una conseguenza della sua natura e della sua funzione. Cosí come pure il sistema delle relazioni sindacali che lo interessano.

Cosa il sistema di valutazione permanente sia è semplice: esso è una parte significativa del regolamento per la disciplina degli ufficî e dei servizî previsto dall’art. 48, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, con il quale gestire una parte significativa del rapporto di lavoro: la valutazione dei dipendenti. Di qui almeno due conseguenze.

La prima: esso ha natura e funzione regolamentare ed è approvato dalla giunta dell’ente locale nel rispetto dei criterî generali deliberati dal consiglio secondo quanto indicato dall’art. 42, comma 2, lett. a) del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

La seconda: proprio perché atto regolamentare adottato da un organo di governo, la sua formazione dovrebbe limitarsi a prevedere la sola relazione della consultazione delle organizzazioni sindacali e della rappresentanza sindacale unitaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, 4, comma 1, lett. a), 5, comma 1 e 6, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

Quanto al sistema delle relazioni sindacali, è bene distinguere il sistema di valutazione permanente dei dirigenti contrattualizzati da quello che riguarda i dipendenti delle categorie professionali.

Cominciando dai secondi, deve essere evidenziato che sfortunatamente il sistema delle relazioni sindacali previsto dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto è assai complicato e – diciamolo pure – francamente incomprensibile. E tale complessità complica non poco il suo processo di formazione. Che è frammentato e distribuito fra una relazione sindacale a contenuto negoziale ed una a contenuto meramente partecipativo. Alle quali si affianca la relazione sindacale della consultazione prevista dall’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Le norme che disciplinano la materia sono l’art. 4, comma 2, lett. b) del c.c.n.l. del 1/4/1999 e l’art. 16, comma 2, quarto alinea del c.c.n.l. 31/3/1999: sono oggetto di contrattazione collettiva decentrata integrativa i “criteri generali delle metodologie di valutazione basate su indici e standard di valutazione”; alla concertazione è demandata la determinazione “dei criteri generali per la disciplina […] della metodologia permanente di valutazione di cui all'art. 6”.

La sovrapposizione fra i due ámbiti è evidente: cosí come lo è la necessità di risolvere la contraddizione apparente per evitare l’instaurarsi di una vera e propria “teratologia relazionale” fra sindacati e parte pubblica.

Un buon modo di procedere è sicuramente rammentare cosa il sistema di valutazione permanente è e trarre da ciò le debite conclusioni: semplicemente.

In quanto segmento del regolamento per la disciplina degli ufficî e dei servizî, il suo contenuto sfugge ad entrambe le relazioni sindacali appena evidenziate.

Di qui la conseguenza: esso è oggetto di una mera comunicazione preventiva alla quale segue la consultazione sindacale ai sensi dell’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Ricordiamo l’incedere dell’intero processo: la parte pubblica elabora il contenuto del sistema di valutazione permanente e lo comunica ai sindacati indicando quando intende demandarne l’approvazione alla giunta dell’ente locale; i sindacati entro il termine indicato fanno pervenire le loro osservazioni senza poter pretendere l’apertura di tavoli di confronto. L’ente locale lo approva, libero di procedere senza tenerne conto.

Questa fase – e questo è davvero il peggio del peggio – deve essere preceduta da una contrattazione e da una successiva concertazione. Che, a questo punto, non possono interessare il suo contenuto, ma solo criterî generali in relazione alle metodologie della valutazione.

Prima di evidenziarne la portata effettiva, deve essere ricordato che la tematica della valutazione permanente del personale investe non meno di tre ámbiti: la “valutazione-sistema”, la “valutazione processo” e la “valutazione-risultato”.

Nella prima accezione, “valutazione” fa riferimento al paradigma alla stregua del quale viene effettuato il processo di valutazione. Nella seconda, essa fa riferimento all’attività del valutare, ossia ad un comportamento organizzativo condotto sulla base di un sistema di valutazione predeterminato. Nella terza, è riferito al prodotto del processo di valutazione, ossia ad un giudizio formulato, che deve essere coerente e consistente con il sistema di valutazione.

Ecco un secondo elemento che determina il sensibile restringimento della rilevanza sindacale della costruzione del sistema di valutazione permanente: essa né interessa il suo contenuto, né riguarda il processo della valutazione e men che meno il suo risultato.

Ed ora la conclusione: la contrattazione e la concertazione hanno ad oggetto segmenti della “valutazione-sistema”; ma limitatamente ai criterî della relativa metodologia.

Detto ciò, è evidente che la contrattazione ha ad oggetto i soli criterî generali che sorreggono le metodologie di valutazione, ossia le opzioni di ampio principio che investono la valutazione come categoria del pensiero e dell’agire.

Cosí, a titolo di esempio, costituisce oggetto di contrattazione integrativa il riferimento alla misurabilità della prestazione lavorativa, alla valorizzazione del dipendente capace, alla premialità dell’incentivo, alla necessaria affermazione della cultura del risultato, alla riconoscibilità del processo di valutazione quale fattore di sviluppo del personale e di orientamento prestazionale. Insomma, all’affermazione del principio della “giusta discriminazione”.

Il riferimento è ai soliti valori organizzativi che tutti a parole mostrano di condividere, ma che alla resa dei fatti spaventano: soprattutto i “lavoratori-indifendibili” ed i loro protettori. Che portano a stanare i “lavoratori-scaldasedia” e i “lavoratori-nullafacenti” e che inverano con semplicità sconcertante il significato di “scarso rendimento”, precondizione dell’applicazione delle sanzioni disciplinari per “truffa-ai-danni-della-collettività”. Ossia dei “cittadini-utenti” che pagano lo stipendio ai dipendenti pubblici.

La concertazione, per contro, ha contenuti appena un poco piú pregnanti; che però non possono spingersi fino alla definizione del contenuto del sistema di valutazione permanente. Essa, infatti, è demandata all’autonoma determinazione dell’ente locale: come tutto ciò che riguarda il suo assetto regolamentare.

La concertazione riguarda allora l’individuazione degli elementi cui il sistema di valutazione farà riferimento: ossia quegli elementi che il datore di lavoro dovrà considerare per giungere al suo esito finale: la “valutazione-risultato” come conclusione del relativo processo valutativo.

Sono quindi oggetto di concertazione gli ámbiti della performance dirigenziale e del personale delle categorie professionali, ossia le competenze richieste al personale: il “fare”, il “saper fare”, l’“essere”, il “saper essere” e il “sapere di dover essere”, il potenziale di sviluppo e cosí via.

Ciò consente di concludere che oggetto di concertazione sono i soli fattori che definiscono il ruolo del dipendente e quindi le aspettative che il datore di lavoro ha nei suoi confronti. Per l’individuazione dei criterî da concertare, e quindi dei relativi item, un utile riferimento è fornito dall’art. 5 del c.c.n.l. 31/3/1999, il quale li differenzia in funzione dell’inquadramento del dipendente.

Sfugge alla concertazione il contenuto della metodologia implementata e sviluppata per consentire la misurazione del risultato atteso attraverso la ponderazione degli elementi significativi della sua attesa. In altri termini, se l’item di valutazione è il comportamento atteso, piuttosto che il potenziale sviluppabile, la descrizione del comportamento richiesto in concreto, cosí come pure il peso ponderale previsto non sono materia di concertazione, ma di diretta ed autonoma determinazione del datore di lavoro.

Quanto alla rilevanza della valutazione nella sua triplice accezione basti una sola considerazione: l’art. 37 del c.c.n.l. 22/1/2004 – che ha riformulato integralmente l’art. 18 del c.c.n.l. 1/4/1999 – prevede al proprio comma 4 che “non è consentita la attribuzione generalizzata dei compensi per produttività sulla base di automatismi comunque denominati”, in quanto “i compensi destinati a incentivare la produttività e il miglioramento dei servizi devono essere corrisposti ai lavoratori interessati soltanto a conclusione del periodico processo di valutazione delle prestazioni e dei risultati nonché in base al livello di conseguimento degli obiettivi predefiniti nel PEG o negli analoghi strumenti di programmazione degli enti”.

Per il sistema di valutazione permanente dei dirigenti contrattualizzati, valgono regole simili.

Anche qui la definizione del sistema di valutazione permanente è interessata da tre relazioni sindacali distinte.

La prima: la contrattazione collettiva decentrata integrativa limitata ai “criteri generali per la distribuzione delle risorse finanziarie destinate alla retribuzione di posizione ed a quella di risultato” ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. g) del c.c.n.l. 23/12/1999.

La seconda: la concertazione, che ha ad oggetto i “criteri generali relativi ai criteri di valutazione dei risultati di gestione, anche con riferimento al procedimento e ai termini di adempimento”, secondo le previsioni dell’art. 6, comma 2, lett. d) del c.c.n.l. 22/2/2006, che ha modificato l’art. 8 del c.c.n.l. 23/12/1999. La concertazione era prima circoscritta dall’art. 4, comma 1, lett. b) del c.c.n.l. 10/4/1996 alla sola ipotesi in cui nell’ente fossero in servizio almeno cinque dirigenti ai “criteri generali relativi ai sistemi di valutazione dei dirigenti”.

La terza: la consultazione, che riguarda l’intero contenuto del sistema di valutazione permanente, ossia del relativo manuale, secondo quanto previsto dall’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

9. Il processo di valutazione.

Nei paragrafi precedenti ci siamo soffermati sul contenuto del sistema di valutazione permanente e sul percorso da seguire per produrlo. Ora dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul suo funzionamento.

Garantire il funzionamento del sistema di valutazione permanente significa definirne le modalità operative: ossia come esso deve essere utilizzato nel corso dell’anno e chi deve intervenire nella “valutazione-processo” in modo da garantire che la “valutazione-risultato” sia effettuata correttamente.

La tematica non è di poco conto: il prodotto della valutazione è oggetto di impugnazione innanzi al giudice ordinario solo e soltanto per violazione delle regole procedurali previste nel sistema di valutazione permanente.

Il sistema di valutazione permanente deve essere applicato seguendo il principio di buona fede in senso oggettivo delineato dal combinato disposto degli artt. 1374 e 1375 c.c, tenendo conto che utilizzare il sistema di valutazione permanente secondo buona fede in senso oggettivo significa essenzialmente intraprendere tre comportamenti organizzativi.

Il primo: informare il dipendente valutato sul contenuto del sistema di valutazione permanente. Il dovere di preventiva informazione è di fondamentale importanza. Almeno in tutte quelle circostanze il cui il rapporto contrattuale presenta evidenti sbilanciamenti fra le parti.

Informare il dipendente sui contenuti e sulle modalità di valutazione della sua performance significa quindi evidenziare il metro di giudizio che sarà utilizzato nel processo di valutazione per giungere al suo esito: la “valutazione-risultato”.

La parola d’ordine può essere “informare per valutare”. E le sue implicazioni non devono essere sottovalutate.

Il secondo: esplicitare i contenuti del comportamento organizzativo atteso e del livello del conseguimento degli obiettivi previsti nel piano esecutivo di gestione (P.E.G.) e nel piano annuale degli obiettivi (P.A.O.).

Per il P.E.G. ed il P.A.O. la determinazione del risultato atteso è relativamente semplice: tali strumenti di programmazione gestionale, infatti, presuppongono la negoziazione sia degli obiettivi, sia dei relativi índici di successo. E ciò risolve il problema di come evidenziare il risultato atteso in relazione alle competenze del “fare” e del “saper fare”.

Diverso è il caso della valutazione delle competenze organizzative, ossia dei relativi comportamenti che interessano “l’essere”, il “saper essere” ed il “saper di dover essere”.

In questo caso è di tutta evidenza che il vertice gestionale dell’ente deve fare riferimento agli item di valutazione ed alle sottopesature previste nel sistema di valutazione permanente per ogni sottoarticolazione. Così come pure dovrà indicare quali sono i valori di successo attesi per ciascuna di esse.

Il terzo: articolare il processo di valutazione durante l’anno. Il principio di buona fede determina la necessità di garantire una vera e propria ritualità nell’incedere del processo di valutazione.

Il processo di valutazione inizia con la consegna della relativa scheda dei comportamenti attesi al dipendente. In questo modo egli conosce preventivamente cosa il datore di lavoro si attende da lui ed è posto nella condizione di adeguare i proprî comportamenti ai risultati attesi proprio perché preventivamente esplicitati.

Il processo di valutazione ha un’evidente funzione di feed back intermedio. La funzione del sistema di valutazione permanente e del relativo processo è orientata a creare tutte le precondizioni di facilitazione possibili affinché il dipendente possa conseguire i risultati della gestione al massimo delle proprie potenzialità.

Al valutatore non interessa la testa del dipendente valutato. Chi sostiene il contrario è in mala fede e di solito mira ad impedire che nell’ente locale si consolidino fattori di miglioramento della prestazione lavorativa. Le ragioni sono sempre le solite: creare le condizioni per il piattume organizzativo e gestionale. Cosí il comportamento dei “dipendenti-scaldasedia” non emerge formalmente. Tale vocazione da “discarica-lavorativa” deve essere accuratamente investigata ed estirpata, ricorrendo a tutti i mezzi possibili. Anche perché non farlo significa essere complici degli incapaci e creare i presupposti affinché il “cittadino-che-paga-le-tasse” sia depredato dei costi delle inefficienze organizzative e gestionali dell’ente che egli mantiene con le proprie tasse.

Il processo di valutazione deve prevedere uno o piú step intermedî nei quali garantire le forme appropriate di restituzione al dipendente valutato.

Ciò significa che il valutatore ed il relativo ufficio del controllo interno devono effettuare una o piú valutazioni intermedie e comunicarne l’esito al dipendente. Cosí da garantire la funzione di correzione del comportamento organizzativo in modo da adeguarlo allo standard richiesto.

Il processo di valutazione culmina nella produzione del referto conclusivo con i quale viene attestato il livello di conseguimento degli obiettivi gestionali e il valore attribuito ai comportamenti organizzativi che hanno caratterizzato l’azione del dipendente durante il periodo di osservazione annuale.

L’esito finale del processo di valutazione deve tenere conto dei fattori della programmazione emergente, della necessità di rifasare i fattori di successo degli obiettivi assegnati, delle complessità organizzative e della piú o meno evidente propensione al cambiamento ed al miglioramento dimostrata dal dipendente, soprattutto se titolare di funzioni dirigenziali.

Il prodotto della valutazione deve essere sempre comunicato al dipendente valutato. In questa fase, il valutatore deve evidenziarne i contenuti e spiegare le ragioni dell’esito conseguito. Particolarmente raccomandato è evidenziare quali sono i fattori di miglioramento possibile, soprattutto nelle fasi intermedie del processo di valutazione.

L’esito del processo di valutazione varia in rapporto alla collocazione del dipendente nell’organizzazione e della strutturazione del sistema di valutazione permanente in uso.

A questo proposito, è bene che esso contenga graduazioni che collegano la “valutazione risultato” alle modalità di acceso alla componente variabile della retribuzione, consentendone la corresponsione o escludendola.

Per i dirigenti: una valutazione inferiore alla soglia minima prevista dal sistema di valutazione permanente comporta il mancato acceso alla retribuzione di risultato e, nei casi piú gravi, la perdita dell’incarico dirigenziale conferito o il licenziamento per giusta causa. È utile individuare almeno tre fasce cui ricondurre la “valutazione-risultato”.

La prima: se la “valutazione-risultato” è inferiore al 60%, non si procede alla corresponsione della retribuzione di risultato.

La seconda: se l’esito è compreso fra il 60,01% ed il 90%, l’eccesso alla retribuzione di risultato avviene in proporzione alla valutazione conseguita.

La terza: se la valutazione si attesta fra il 90,01% ed il 100%, l’accesso alla retribuzione di risultato avviene per intero.

L’accertamento dei risultati negativi del dirigente è sanzionato in modo dettagliato dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto è può determinare giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro nei suoi confronti.

A tal proposito l’art. 23 bis del c.c.n.l. 10/4/1996 introdotto dall’art. 13 comma 1 del c.c.n.l. 22/6/2006 gradua le conseguenze sanzionatorie prevedendo “[la] riassegnazione alle unzioni della categoria di provenienza, per il personale interno al quale sia stato eventualmente conferito, con contratto a termine, un incarico dirigenziale semprechè detto conferimento sia consentito dalla normativa vigente nell’ente; [l’] affidamento di un incarico dirigenziale con un valore di retribuzione di posizione inferiore; [la] sospensione, nei confronti del personale a tempo indeterminato con qualifica dirigenziale, da ogni incarico dirigenziale per un periodo massimo di due anni, secondo la disciplina dell’art. 23 ter; [il] recesso dal rapporto di lavoro, nei casi di particolare gravità, secondo la disciplina dell’art. 27”.

La disciplina sanzionatoria è completata dell’art. 27, comma 4 del c.c.n.l. 10/4/1996 come modificato dall’art. 11, comma 1 del c.c.n.l. 22/6/2006, secondo cui “la responsabilità particolarmente grave del dirigente, accertata secondo le procedure adottate da ciascun ente nel rispetto delle previsioni dell’art. 23 del CCNL del 10.4.1996, come sostituito dall’art.14 del CCNL del 23.12.1999, costituisce giusta causa di recesso. La responsabilità particolarmente grave è correlata: a) al mancato raggiungimento di obiettivi particolarmente rilevanti per il conseguimento dei fini istituzionali dell’ente previamente individuati con tale caratteristica nei documenti di programmazione e formalmente assegnati al dirigente; b) ovvero, per la inosservanza delle direttive generali per l’attività amministrativa e la gestione, formalmente comunicate al dirigente, i cui contenuti siano stati espressamente qualificati di rilevante interesse”.

Per i dipendenti del comparto delle categorie professionali cui è stata conferita la titolarità di funzioni dirigenziali vale il medesimo principio, esteso per analogia: tenendo conto che l’esito della valutazione negativa non può comportare il recesso dal contratto di lavoro per giusta causa, ma solo la revoca dell’attribuzione della posiziono organizzativa e la mancata percezione della retribuzione di risultato prevista dall’art. 10 del c.c.n.l. 31/3/1999.

Il principio vale anche per i dipendenti cui è stata conferita la titolarità di posizione organizzativa ai sensi degli artt. 8, 9, 10 e 11 del c.c.n.l. 31/3/1999 all’interno di organizzazioni in cui è presente la dirigenza contrattualizzata.

Per i restanti dipendenti, il mancato raggiungimento della soglia minima di valutazione comporta il mancato accesso al salario accessorio. La conseguenza: il dipendente non percepisce alcun compenso perché con il suo proprio comportamento negligente non ha concorso alla produttività collettiva dell’ente, non avendo egli mostrato di apportarvi alcuna utilità.

Anche il questo caso possono essere predeterminate soglie di accesso al salario accessorio, prevedendo i criterî per l’esclusione piuttosto che per la corresponsione in proporzione alla valutazione conseguita.

Il dipendente, inoltre, può essere sanzionato disciplinarmente fino al massimo della multa quanto meno ai sensi dell’art. 3, comma 4, lett. c) e f) del c.c.n.l. 11/4/2008, salvi gli effetti recidivanti in caso di reiterazione della performance negativa nel biennio successivo.

10. Annotazioni conclusive.

Giunti al termine della trattazione sul sistema di valutazione permanente, si impongono alcune notazioni conclusive di merito. Anche per sottolineare l’importanza della materia e la sua strategicità per la corretta attuazione della gestione dell’azione dei dipendenti degli enti locali.

La prima: senza una corretta valutazione della prestazione del dipendente, l’azione dell’ente locale è lasciata allo sbando. Non valutare significa azzoppare l’organizzazione e “lasciare al caso” il fattore del successo dell’azione amministrativa.

La seconda: rinunciare alla valutazione ed al sistema di valutazione permanente può determinare l’appiattimento dell’organizzazione su standard inaccettabili. Significa tollerare le disuguaglianze e rinunciare al miglioramento continuo della performance organizzativa e gestionale. La valutazione è la precondizione per affermare il principio della “giusta discriminazione” fra il dipendente capace ed il dipendente immeritevole.

La terza: non valutare significa non intervenire contro coloro che per interesse personale continuano a sostenere con pervicacia inaccettabile che le prestazioni della pubblica amministrazione non sono valutabili. Nulla di piú falso come si è avuto modo di dimostrare nei paragrafi precedenti.

La quarta: rinunciare al sistema di valutazione permanente ed alla sua utilizzazione significa essere complici di chi ha interesse a non fare emergere le differenze fra i comportamenti dei dipendenti che operano all’interno della medesima organizzazione.

E qui è d’obbligo non rinunciare ad utilizzare toni duri e granitici. Perché non fare il contrario significa edulcorare un fenomeno triste quale quello dei “dipendenti-scaldasedia” che ammorba la pubblica amministrazione e che deve essere estirpato con ogni mezzo e senza fare sconti a nessuno.

Ci sembra che le ragioni per sostenere l’imprescindibilità del sistema di valutazione permanente siano fin troppo evidenti.

Ora è il caso di elaborarlo compiutamente e di applicarlo con convinzione. Almeno se la nostra ricostruzione è piaciuta ed è parsa condivisibile.


 

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(*) Direttore Generale di Enti locali.


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