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Articoli e note

n. 12/2003  - © copyright

RICCARDO NOBILE (*)

Progressioni di carriera negli enti locali territoriali e sottrazione dell’accesso al pubblico impiego dall’esterno

 

Le progressioni verticali, ossia le procedure finalizzate dal passaggio del dipendente alla categoria professionale immediatamente superiore, sono una specifica evenienza disciplinata dal c.c.n.l. del 31/3/1999.

Esse consentono all’Ente locale di valorizzare le proprie risorse di personale a mestiere variato, e quindi l’inquadramento del dipendente in una differente categoria professionale, previa dimostrazione nell’ámbito di una prova selettiva dell’avvenuta acquisizione della relativa capacità.

Definite in questo modo, le progressioni verticali sono strettamente relazionate con la copertura di uno specifico posto vacante nella dotazione organica, e quindi con la piú ampia problematica dell’accesso al pubblico impiego.

E’ quindi evidente che la fattispecie delle progressioni verticali ha punti di contatto con il principio dell’accesso all’impiego pubblico per concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge, nei termini che derivano dall’art. 97, comma 3 Cost, da leggere in combinato disposto con gli artt. 3, 51, comma 1 e 98, comma 1 Cost., secondo i quali “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” e che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge”, e “tutti i cittadini (…) possono accedere agli uffici pubblici (…) in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e che, secondo l’art. 98, comma 1, “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

Sulla complessa vicenda dell’accesso all’impiego pubblico è di recente intervenuta la sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, di estremo interesse perché consolida l’orientamento del giudice delle leggi in materia di concorso e di deroga al relativo principio contenuto dall’art. 97, comma 3 Cost..

L’importante pronuncia del giudice delle leggi è il momento conclusivo di uno specifico modello interpretativo, rispetto al quale solo di recente le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno aderito con la sentenza 15/10/2003 n. 15403, traendo da esso tutte le conseguenze ermeneutico-applicative potenzialmente sviluppabili.

La comunanza e la condivisione dell’orientamento dei due supremi giudici sul principio di accesso al pubblico impiego genera corollarî di estremo interesse proprio nella materia delle progressioni verticali, definite nei termini indicati dall’art. 4, comma 1 del c.c.n.l. del 31/3/1999, in quanto è ormai evidente che essa comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, rappresentando per tabulas una deroga all’accesso dall’esterno mediante pubblico concorso in ossequio ai valori costituzionali appena richiamati.

La Corte Costituzionale ha sempre considerato il pubblico concorso quale sistema con cui garantire a priori il rispetto del principio dell’imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione.

Il principio dell’obbligatorietà del pubblico concorso quale sistema imparziale di reclutamento, infatti, garantisce che il personale sia assunto previo espletamento di prove a rilevanza oggettiva, e come tale non soggetto alle vicissitudini contingenti, storiche ed ambientali del momento.

Il principio del pubblico concorso, a ben vedere, soddisfa una serie di valori esplicitamente previsti dalla Costituzione, i quali tutti sono orientati a garantire l’effettività della funzionalizzazione dell’azione della pubblica amministrazione al pubblico interesse, in una prospettiva di eguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale.

Piú in particolare, il principio del pubblico concorso preserva il fondamentale principio di eguaglianza, come si desume dal combinato disposto degli artt. 3, 51, comma 1 e 97, comma 3 Cost..

Ciò può essere argomentato osservando che l’ordinamento garantisce a tutti l’accesso agli ufficî pubblici, e che il pubblico concorso è lo strumento che corrobora l’affermazione del principio di uguaglianza nell’ámbito del reclutamento del personale pubblico, ossia di quei soggetti denominati “pubblici dipendenti”, che, come previsto dall’art. 98, comma 1 Cost., operano nell’esclusivo interesse della Nazione.

I pubblici dipendenti cosí reclutati, infatti, assicurano la loro dipendenza dalla pubblica amministrazione solo previo il superamento di specifiche prove attitudinali strettamente afferenti al profilo da ricoprire, ispirate a criterî di oggettività, idonei a garantirne l’indipendenza da condizionamenti.

In questo modo può essere garantito anche il principio del buon andamento dell’azione amministrativa previsto dall’art. 97, comma 1 Cost., del quale sono declinazione il rispetto sia della legge e delle fonti-atto dell’ordinamento, sia dei principî di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, posti a fondamento della riforma del pubblico impiego attuata con il D.Lgs. 3/2/1993 n. 29, confluito nel D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 insieme alle modificazioni nel frattempo apportate per migliorare la sua effettiva depubblicizzazione.

Con queste premesse, la previsione dell’obbligatorietà del pubblico concorso aperto a tutti previsto dagli artt. 51, comma 1 e 3 Cost. si colloca alla stregua di un principio fondamentale a rilevanza costituzionale che, in linea di massima, non ammette defezioni.

Ciò nondimeno l’ordinamento costituzionale prevede esplicitamente la possibilità di deroghe, le quali debbono essere sorrette da ben precisi argomenti testuali e sistematici tali da affermarne comunque la coerenza complessiva.

Di qui la costante presenza nell’ordinamento dell’endiadi “principio del pubblico concorso” – “deroghe ammissibili”, la quale non può che trovare composizione nella comparazione attenta di soli valori a rilevanza costituzionale.

Le deroghe all’obbligatorietà del pubblico concorso, pertanto, devono essere compatibili con altri valori a rilevanza costituzionale, da sempre identificati dal giudice delle leggi con il valore del buon andamento dell’azione amministrativa e con il superiore principio di ragionevolezza, espressione del canone di eguaglianza formale e sostanziale previsto dall’art. 3 Cost..

Detto in altri termini, il fondamento giuridico delle deroghe al principio del pubblico concorso è lo stesso valore che fonda il principio stesso. L’accesso all’impiego, infatti, è sicuramente conforme in sé e per sé al dettato costituzionale se effettuato mediante pubblico concorso; esso però può non essere difforme dai valori costituzionali in presenza di deroghe ragionevoli.

In questo modo, la composizione fra i due aspetti del medesimo principio, ossia del buon andamento dell’azione amministrativa, consente di attivare sempre il sindacato sulla ragionevolezza delle scelte del legislatore che ha a proprio paradigma l’art. 3 Cost..

A questo proposito, la giurisprudenza della Corte costituzionale è particolarmente ricca di precedenti, rispetto ai quali un autentico momento di svolta a questo proposito si è avuto con la sentenza 30/10/1997 n. 320, con la quale il giudice delle leggi ha esplicitamente osservato che “il passaggio nel pubblico impiego ad una fascia funzionale superiore comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, corrispondente a funzioni piú elevate, ed è quindi soggetto, quale forma di reclutamento, alla regola del pubblico concorso”, fermo restando peraltro che il legislatore, “nell’esercizio della sua discrezionalità, può ragionevolmente derogare a tale regola, in presenza però di peculiari ragioni giustificatrici, e con il limite della necessità di garantire il buon andamento dell’Amministrazione Pubblica”.

In presenza di una sostanziale variazione del contenuto delle prestazioni lavorative diviene pertanto del tutto evidente che il concorso interno deve essere ricondotto alla piú ampia problematica dell’accesso agli impieghi pubblici, osservando che l’accesso ad essi ha a riferimento non solo e non tanto l’ingresso alle dipendenze della pubblica amministrazione, ma anche e soprattutto l’accesso al livello prestazionale superiore, indipendentemente dal fatto che il soggetto coinvolto sia o meno già dipendente pubblico.

A questo proposito, non può non essere fatto riferimento ad un’altra importante pronuncia della Corte costituzionale in materia di inquadramenti automatici del personale degli enti locali territoriali. Il riferimento è alla pronuncia di poco precedente 8/1/1996 n. 1 con cui la Corte costituzionale è intervenuta in relazione all’art. 40 del D.P.R. 25/6/1983 n. 347, rendendo necessario un emblematico intervento correttivo da parte del legislatore, avvenuto con l’art. 6, comma 17 della legge 15/3/1997 n. 127, con tutto il contenzioso che da ciò è scaturito a séguito della necessità di provvedere all’annullamento dei provvedimenti di inquadramento precedentemente disposti, ed alla bandizione di concorsi interni a sanatoria.

Sulla base di tali precedenti, coniugati con la necessità di garantire comunque il rispetto degli artt. 3, 51, comma 1, 97, commi 1 e 3 e 98, comma 1 Cost., con propria sentenza 4/1/1999 n. 1 il giudice delle leggi ha ritenuto non conforme a Costituzione la previsione di una riserva a favore del personale interno pari al 100% dei posti messi a concorso, in una vicenda nella quale, per intuitive ragioni, l’acceso dall’esterno era completamente precluso.

Il contenuto della pronuncia è stato ribadito con la successiva sentenza 9/3/2002 n. 273, sostanzialmente reiterativa della sentenza 9/5/2002 n. 194, nella quale il giudice ha avuto modo di evidenziare che il pubblico concorso è il metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei piú capaci, idoneo a preservare il rispetto del canone di efficienza della pubblica amministrazione, compromesso quando le selezioni sono caratterizzate da arbitrarie restrizioni dei soggetti legittimati a parteciparvi.

Il principio è stato ribadito ulteriormente dalla sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, emessa in materia di inquadramento nei ruoli dirigenziali di personale apicale di qualifica infradirigenziale sprovvisto di laurea, in un contesto in cui i posti sottratti all’accesso dall’esterno erano sensibilmente prossimi alla totalità.

Per contro, con la propria sentenza 14/4/1999 n. 141, il giudice delle leggi ha ritenuto conforme ai principî di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa la previsione di una riserva a favore del personale già alle dipendenze della pubblica amministrazione in possesso dei requisiti di volta in volta richiesti pari al 50% del totale dei posti messi a concorso.

In questo caso, ciò è particolarmente vero quando l’ammissione del personale interno è subordinata alla verifica del possesso di specifici prerequisiti, quali l’anzianità di servizio nella qualifica immediatamente inferiore e comunque la maturazione di un’esperienza lavorativa di apprezzabile durata, che garantiscono comunque un ponderato e fondato giudizio in termini di razionalità delle scelte del legislatore.

Percentuali di riserva eccedenti il 50% dei posti effettivamente messi a concorso, per contro, impingono nel principio di ragionevolezza della scelta legislativa, sempre sindacabile dal giudice delle leggi. Sulla base di questa premessa, con sentenza 16/5/2002 n. 194 la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole una riserva a favore del personale interno pari al 70% dei posti effettivamente messi a concorso.

Il giudice delle leggi, peraltro, ha ritenuto conforme ai valori costituzionali espressi dal combinato disposto degli artt. 3 e 97 Cost. una riserva pari al 100% dei posti messi a concorso quando dall’analisi dell’articolato legislativo emerge in modo rilevante la funzionalizzazione della deroga al principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

Ciò è stato perseguito con l’ordinanza 20/11/2002 n. 517, resa in materia di concorsi riservati al personale dipendente dalle Università, ma espressione di un principio sicuramente altrove estensibile.

In particolare, la Corte costituzionale ha evidenziato che non sussiste vizio di legittimità quando sia prevista la precondizione del possesso di esperienza protratta per un significativo periodo nella qualifica immediatamente inferiore ogni qualvolta le prestazioni rese siano intimamente e strutturalmente connesse con quelle afferenti al superiore livello, sempre che l’accesso alla prima sia avvenuto per pubblico concorso. Quanto al titolo di studio, la Corte costituzionale ha evidenziato che non è irragionevole che l’ordinamento richieda il possesso del titolo di studio previsto per l’accesso dall’esterno al momento della partecipazione al pubblico concorso per l’accesso al posto di provenienza, giacché ciò è sicuro índice di maggiore omogeneità fra i due profili, e quindi di ragionevolezza e razionalità dell’esercizio della discrezionalità del legislatore.

Sulla base delle argomentazioni sviluppate e consolidate nella propria giurisprudenza, la Corte costituzionale ha ritenuto a fortiori non conformi alla legge fondamentale le norme che prevedano il passaggio a superiori livelli di inquadramento al di fuori di qualsivoglia procedura selettiva tesa a valutare comparativamente l’idoneità del pubblico dipendente al posto. Come affermato nella sentenza 22/5/2002 n. 218, pertanto, sono del tutto inammissibili gli scivolamenti automatici e generalizzati verso l’alto del personale delle pubbliche amministrazioni, come già emblematicamente evidenziato nella propria precedente sentenza 8/1/1996 n. 1 richiamata in precedenza.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo essersene discostate con importanti pronunce quali, da ultimo, le sentenze 11/7/2001 n. 965 e 11/6/2001 n. 7859 e l’ordinanza 27/2/2002 n. 2954, hanno aderito all’orientamento del giudice delle leggi con la richiamata sentenza 15/10/2003 n. 15403.

Nella sentenza de qua, la Suprema Corte ha fornito una lettura piú aderente all’assetto dei valori costituzionali del combinato disposto degli artt. 63, comma 1, 35, comma 1 e 52, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, sottraendo alla giurisdizione del giudice ordinario la competenza in materia di miglioramenti di inquadramento professionale, per devolverla alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo.

Ciò è avvenuto osservando che il c.c.n.l. del 31/3/1999 prevede un complesso sistema di inquadramenti del personale dipendente ripartito in aree e/o fasce professionali, per concludere che “le procedure che consentono il passaggio da un’area inferiore a quella superiore (integrano) un vero e proprio concorso, tali essendo anche le procedure che vengono denominate “selettive” qualunque sia l’oggetto delle prove che i candidati sono chiamati a sostenere”.

In questo modo, se è vero che la prova selettiva è pur sempre una specificazione di specie del piú ampio genere del concorso, non meno vero è che il mutamento dell’inquadramento del dipendente per qualunque ragione rappresenta un accesso all’impiego, posto che, come rammentato dalla Corte Costituzionale e ribadito dalla Corte di Cassazione, l’accesso all’impiego “fa riferimento non solo alle procedure strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale ad una fascia o area superiore”.

Il termine “assunzione”, pertanto, deve essere posto in relazione anche all’inquadramento superiore che il candidato (id est: il dipendente) intende conseguire, e non solo all’ingresso iniziale nella dotazione organica, anche e soprattutto in considerazione che il miglioramento dell’inquadramento presuppone proprio un suo ampliamento.

In questo modo, il definitivo consolidamento dell’orientamento delle massime magistrature formatasi in materia di obbligo del pubblico concorso e dell’ammissibilità delle relative deroghe ed eccezioni ha importanti ripercussioni anche in materia di sviluppo di carriera attuata con il sistema delle cosiddette “progressioni verticali”.

Queste ultime, ormai previste dalla generalità dei contratti collettivi nazionali per il comparto del pubblico impiego, consentono, come ricordato, l’accesso del personale dipendente a livelli piú elevati di inquadramento professionale previo il superamento di prove selettive condotte nel rispetto dei relativi regolamenti per la disciplina degli ufficî e dei servizî, con sottrazione apparentemente totale dell’accesso dall’esterno.

In questo senso, le progressioni verticali sono nella sostanza dei veri e proprî concorsi interni totalmente riservati al personale della pubblica amministrazione attualmente in servizio, e come tali devono essere disciplinati e giuridicamente inquadrati per l’assorbente ragione che mediante il ricorso alle progressioni verticali si tende ad escludere per definizione la garanzia dell’accesso dall’esterno, laddove la loro attivazione presuppone sempre la presenza di vacanze nella dotazione organica dei posti relativi al profilo da ricoprire.

Anche le progressioni verticali, che conducono ad uno sviluppo di carriera a mestiere variato, incontrano i medesimi limiti proprî dei concorsi interni.

Le pubbliche amministrazioni, pertanto, non possono prevedere progressioni verticali tout court ma debbono rispettare i principî enucleati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione, con l’avvertenza che in difetto i relativi rapporti lavorativi comunque formalizzati sono nulli a tutti gli effetti, con conseguente responsabilità personale e patrimoniale del dirigente che ne ha consentito la formazione.

La declaratoria di nullità dell’inquadramento, infatti, attiva le conseguenze previste dall’art. 2116 c.c. in tema di rapporti lavorativi di fatto, determinando che il dipendente abbia diritto alla rifusione sia del danno emergente, ossia delle differenze retributive tabellari, sia del lucro cessante.

Al dipendente interessato, pertanto, dovranno essere corrisposti sia il controvalore delle prestazioni lavorative comunque rese, incrementate in ragione di quanto previsto dall’art. 5, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, sia del corrispettivo derivante dalla perdita di altre chances lavorative migliorative, nonché dell’eventuale danno biologico, sempre che ne sia provata la sussistenza e la presenza di un effettivo nesso etiologico.

Per contro, il dirigente che abbia consentito l’inquadramento non sfugge alla responsabilità amministrativa verso l’ente di appartenenza secondo gli usuali principî in materia, come espressamente sancito ad abundantiam dall’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n.165, sostanzialmente omogeneo all’art. 1, comma 1 della legge 14/1/1994 n. 20.

Per bandire validamente progressioni verticali, pertanto, la pubblica amministrazione dovrà rispettare una serie di accorgimenti e prerequisiti.

In primo luogo, attuare la programmazione triennale delle assunzioni e del fabbisogno del personale in stretta aderenza con il proprio bilancio di previsione annuale e pluriennale.

In secondo luogo, individuare i posti per i quali l’ente intende procedere mediante sottrazione dell’accesso dall’esterno, e quindi per pubblico concorso.

In terzo luogo, contenere i posti da riservare allo sviluppo di carriera mediante progressione verticale in una percentuale non superiore al 50% dei posti effettivamente messi a concorso per quel determinato profilo professionale.

A ciò non può essere obiettato che la progressione verticale è altro rispetto ad un concorso interno. Come si è avuto modo di evidenziare, infatti, l’accesso all’impiego di cui discetta l’art. 97, comma 3 Cost. non si esaurisce nella sola tematica dell’assunzione alle dipendenze della pubblica amministrazione, ma afferisce anche ai nuovi contenuti prestazionali corrispondenti ai superiori livelli di inquadramento professionale, come ripetutamente affermato e costantemente ribadito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 30/10/1997 n. 320 ed oggi reiterato dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione.

Né a ciò si può obiettare che la contrattazione collettiva nazionale sembra non ritenere necessaria la stipulazione del contratto individuale di lavoro nel caso di superamento delle prove selettive che alle progressioni verticali sono comunque connaturate.

Per convincersi di ciò è sufficiente rammentare che le norme della contrattazione collettiva nazionale dei varî comparti traggono la loro legittimazione dalla depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, ossia dal D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Ora, se si analizza l’art. 35, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 si ricava per tabulas che il contratto individuale di lavoro è di necessaria stipulazione solo in presenza dell’assunzione, fattispecie che afferisce al momento genetico della costituzione originaria e prima del rapporto di lavoro, che è cosa ontologicamente differente dall’accesso all’impiego cosí come inteso dalla Corte costituzionale.

L’accesso all’impiego, infatti, è un’evenienza ascrivibile ad un genus piú ampio, rispetto al quale l’assunzione originaria è mera specificazione di specie che, di per sé, non vale ad esaurirlo.

Ciò spiega la ragione per la quale gli ordinamenti contrattuali di comparto si limitano a prevedere che al dipendente che ha utilmente fruito della progressione verticale sia dovuta solo la mera comunicazione del nuovo trattamento economico e null’altro, pur non risolvendo il problema della necessità di stipulare comunque il contratto individuale di lavoro per ragioni di coerenza ordinamentale.

Ciò spiega anche perché le contrattazioni collettive nazionali di comparto escludano che la pubblica amministrazione possa assoggettare il dipendente al periodo di prova.

Le progressioni verticali, che attuano una modificazione dell’inquadramento del dipendente nel sistema delle categorie professionali, sono funzionali a consentire la progressione di carriera verificata la professionalità acquisita o acquisibile dal dipendente, talché il relativo superamento delle prove selettive che le supportano rappresenta ex se il momento di verifica della sua idoneità alla copertura del posto ascritto alla categoria professionale superiore.

In definitiva, ed in ragione delle argomentazioni enucleate, le progressioni verticali sono veri e proprî concorsi interni, la cui ammissibilità deve confrontarsi con i principî sanciti ed elaborati dalla Corte costituzionale in materia di garanzie della preservazione dell’accesso dall’esterno.

E ciò, si badi bene, a prescindere dalla loro ricostruzione in termini pubblicistici piuttosto che privatistici per almeno due assorbenti motivazioni, anche se appare ormai evidente che le progressioni verticali non sono il risultato della gestione del rapporto di lavoro mediate atti iure privatorum.

In primo luogo, perché non si può consentire di conseguire per via contrattuale ciò che è precluso alla legge in senso formale o sostanziale, soprattutto osservando che la normativa della contrattazione collettiva nazionale sfugge al sindacato di costituzionalità per difetto del requisito della forza di legge previsto dall’art. 134, comma 1 Cost. per l’attivazione dei relativi giudizî.

In secondo luogo, in quanto i poteri ascritti al privato datore di lavoro nella gestione del rapporto lavorativo sono pur sempre attratti in un’attività funzionalizzata al conseguimento del pubblico interesse, rispetto alla quale i principî di buon andamento ed imparzialità sanciti dall’art. 97, comma 1 Cost. costituiscono non solo titolo, ma anche limite.

 

 (*) Segretario generale e Direttore generale del Comune di Muggiò - MI.
 


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