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n. 2/2009 - ©
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RICARDO NOBILE
Le ordinanze del Sindaco in materia di incolumità
pubblica
e sicurezza urbana
1. La sicurezza come bene e come bisogno.
La sicurezza ed il relativo bisogno sono un bene della vita di insopprimibile valore. Piú propriamente, la sicurezza è la precondizione per garantire la libera esplicazione dei diritti fondamentali dell’individuo e della persona.
“Sicurezza” deriva il proprio significato da “sine cura", ossia da “senza preoccupazione”. Per garantire la sicurezza di un sistema devono essere noti ed arginati tutti i fenomeni che possono determinare preoccupazione. Un sistema è sicuro se è possibile prevenire tutti gli effetti indesiderati per i soggetti che lo interessano.
La sicurezza presuppone la conoscenza della relazione fra accadimenti e loro conseguenze possibili all’interno di un determinato sistema di riferimento; in ámbito sociale, la sicurezza rimanda quindi alla conoscenza che un determinato stato di cose o che una o piú azioni non provocheranno effetti indesiderati sull’incolumità fisica o fisio-psichica dell’individuo o dei gruppi.
Il presupposto della conoscenza è fondamentale dal punto di vista epistemologico: un sistema – soprattutto se complesso come lo è il sistema sociale – può evolversi senza dar luogo a conseguenze indesiderate, ma non per questo esso può essere ritenuto sicuro a priori. Ecco perché solo una conoscenza di tipo scientifico, basata quindi su osservazioni ripetibili, può garantire una valutazione sensata sul livello di sicurezza di un determinato sistema.
Nella lingua italiana, come in altre lingue romanze e non, il sostantivo “sicurezza” è sovente accostato a “prevenzione”. “Sicurezza” e “prevenzione” sono quindi termini di un’endiadi al punto che “intraprendere azioni preventive” significa predisporre le condizioni per garantire l’eliminazione di fattori di minaccia e di rischio e quindi garantire la vivibilità e la fruibilità dell’ambiente in cui si svolge la vita degli individui. Proprio per questi motivi, la sicurezza è una caratterizzazione imprescindibile del vivere ordinato e civile.
Della sicurezza si sono occupati i sociologi e gli antropologi prima ancóra che i giuristi ed i legislatori. Il risultato delle loro ricerche è di una semplicità e di una univocità disarmanti e sconcertanti: il bisogno di sicurezza è uno dei bisogni primordiali dell’individuo che vive in gruppo. E siccome vivere in gruppo è una specifica strategia per garantire la sopravvivenza dell’individuo, ecco che la sicurezza ed il relativo bisogno sono vere e proprie condiciones sine quibus non per garantire la sopravvivenza ed il benessere dei gruppi e degli individui che vivono in gruppo.
Senza sicurezza non è possibile cementare valori. E senza valori il gruppo sociale perde la propria identità. Qui i riferimenti a Maslow e alle sue caratterizzazioni dei bisogni e della relativa scala di incidenza e propensione al soddisfacimento si sprecano. Certo è che se i bisogni fondamentali dell’individuo che vive in gruppo non sono soddisfatti, allora è fortemente dubbio che egli possa ascendere al soddisfacimento di bisogni di maggior rilevanza quali il senso di identità, di appartenenza e di autostima. Anche perché a ciò è di ostacolo il senso di paura che inevitabilmente si diffonde.
Paura per la diversità: che è di ostacolo all’integrazione delle differenti sensibilità. Paura che conduce a ritrarsi ed a ritirarsi nella propria dimensione individuale e domestica. Paura che frena la fruizione libera ed indisturbata degli spazî della città a tutto vantaggio della devianza. Paura che danneggia la qualità della vita e la qualità della convivenza urbana.
Ecco perché, la sicurezza ed il relativo bisogno sono la precondizione per garantire il senso di identità e di appartenenza al gruppo, nonché la realizzazione di quel senso di felicità che molte costituzioni pongono come elemento autenticamente baricentrico e fondante il patto fra persona e Stato e quindi il fondamento stesso del contratto sociale che lega l’individuo al gruppo che si fa prima Stato-istituzione e quindi Stato-persona.
Di qui due conseguenze.
La prima: l’importanza e la centralità dello Stato e della sua funzione di facilitazione e di garanzia nella creazione e nel consolidamento di tutte le condizioni che garantiscano il vivere ordinato e civile. Ossia dell’eliminazione di tutti quei fattori distorcenti che alterano il consorzio sociale, creando allarme sociale, incertezza e disturbo ai principî dell’honeste vivere. Il tutto con la consapevolezza che “cives” e “civitas” sono termini che si rimandano e si completano fino a rendere possibile affermare che senza civitas l’individuo non è cives, ma altro.
Ecco perché è importante guardare alla sicurezza in termini di reale contrasto degli episodî che possono arrecare nocumento alla vita ordinata ed indisturbata degli individui e dei loro aggregati sociali. In altri termini, l’attenzione alla sicurezza deve consentire di predisporre le misure idonee a garantire la vita pacifica ed indisturbata all’interno della società e dei gruppi intermedî che in essa si articolano. Proprio per questi motivi, la sicurezza sociale è davvero garantita solo se le misure attuate per preservarla sono efficaci.
Si parla a questo proposito di “ciclo della sicurezza”. Ovvero del susseguirsi di tre momenti che si saldano nella garanzia dell’effettività della percezione del rimedio e del relativo bisogno: l'analisi dei presupposti che generano la necessità di intervento, l’individuazione delle misure di contrasto e la gestione delle azioni intraprese e delle relative loro conseguenze.
L’analisi del presupposto riguarda lo studio legislativo, normativo, ambientale, personale, professionale, delle attività e dei processi che caratterizzano una determinata società. Analizzare i presupposti del bisogno presuppone l’acquisizione della coscienza che esso è realmente avvertito dalla collettività e che esso non è effettivo perché menomato da fenomeni di devianza.
L’individuazione delle misure di contrasto rimanda ai concetti di prevenzione, contrasto e protezione. Cosí come pure la gestione delle azioni che li garantiscono e le conseguenze che esse determinano nel tessuto sociale. Le quali devono essere supportate da un giudizio di idoneità ex ante fondato sulla prognosi postuma. Quanto alle tipologie delle misure di contrasto, esse possono essere attive, passive, strutturali, impiantistiche, amministrative o disciplinari.
La gestione delle misure di prevenzione e di protezione introduce il problema dell’effettività del presidio delle azioni intraprese per garantire l’effettività del bisogno di sicurezza: l’incapacità di assicurare effettività alle misure di sicurezza adottate ne falsifica l’utilità ed incide gravemente sull’autorevolezza dell’autorità che le ha predisposte.
La seconda: la consapevolezza che senza sicurezza, l’individuo si perde nel mare dell’indecidibilità dei rapporti e trova ostacolo all’affermazione dei proprî diritti fondamentali, sia come persona, sia come attore di relazioni nelle formazioni sociali in cui egli esplica ed ha diritto di esplicare la propria personalità. Proprio per questi motivi, la sicurezza radica nell’ordinamento un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a contenuto esistenziale. Diritto che l’individuo vanta nei confronti del proprio simile e dello Stato. Il quale ultimo la deve garantire proprio in qualità di diritto fondamentale e come tale rilevante ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost.
Di sicurezza e di prevenzione si è occupata di recente anche la giurisprudenza. Eccone a ritroso gli estremi: T.A.R. Veneto - SEZ. III - ordinanza 8/1/2009 n. 22, T.A.R. Lazio - Sez. II - sentenza 22/12/2008 n. 12222 e Corte Cass. - Sez. I Civ. - sentenza 5/10/2006 n. 21432.
Le pronunce – due sentenze ed un’ordinanza cautelare – opinano differentemente sull’ammissibilità degli interventi del Sindaco in materia di contrasto alla prostituzione di strada. Due di esse ne parlano in modo edulcorato, usando anglismi ispirati al politically correct che ne rendono quasi incomprensibile il retroterra. Parlare di “sex street workers” è risibile oltre che inutile, giacché il fenomeno è triste e noto alle moltitudini.
La giurisprudenza sembra ritenere ammissibili solo provvedimenti ad tempus e spazialmente circoscritti. Come dire: sí al divieto di prostituzione su strada – questa è l’esatta denominazione del fenomeno sociale di cui si sta parlando – ma solo se non generalizzato a tutto il territorio comunale. Dunque: sí alle “ordinanze anti lucciole”, ma solo se a tempo e se assistite da precise annotazioni toponomastiche.
2. Brevi cenni di inquadramento costituzionale della materia.
La sicurezza è un diritto fondamentale dell’individuo. Dell’individuo prima ancóra che del cittadino. Proprio per questi motivi, lo Stato lo deve garantire a tutti, in una prospettiva di eguaglianza non solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale. Di qui il riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Di qui anche un’ulteriore conseguenza: il diritto alla sicurezza ed il correlativo obbligo dello Stato di creare le precondizioni per il soddisfacimento del relativo bisogno non possono non attenere che alla competenza dello Stato. Ecco allora spiegato il riferimento operato dall’art. 117, comma 2, lett. h) Cost. alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in subiecta materia. Nell’inversione della rilevanza della relativa clausola generale esclusiva che oggi conduce a ritenere residuale la competenza regionale nella regolazione delle materie non altrimenti menzionate nell’art. 117 Cost, “lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: […] lett. h) ordine pubblico e sicurezza, ad eccezione della polizia amministrativa locale”.
E ciò ben si comprende proprio in ragione delle annotazioni introduttive: la sicurezza è un bene primario che non ammette differenziazioni nelle fonti di regolazione; anzi, che richiede omogeneità nelle fonti primarie di regolazione. La sicurezza ed il relativo bisogno sono una delle notazioni di base sulle quali è fondato lo Stato: proprio per questi motivi il diritto alla sicurezza individuale e collettiva non può che essere materia ascritta alla potestà legislativa dello Stato in via esclusiva.
In questa consapevolezza si è mosso il legislatore con l’adozione del D.L. 23/5/2008 n. 92. Fonte di regolazione della quale piú di un commentatore ha revocato in dubbio le ragioni di urgenza che – come noto – consentono il ricorso alla decretazione d’urgenza in luogo del comune iter parlamentare disciplinato dall’art. 75 Cost.
Il D.L. 23/5/2008 n. 92 è stato convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125, che ha introdotto significative correzioni al testo originario. Le quali riguardano anche la materia dei poteri attribuiti al Sindaco “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” e che possono condurre all’adozione “con atto motivato [di] provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento” qualificati espressamente “ordinanza” dall’art. 54, comma 7 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
La rilevanza delle materie confluite nella modificazione dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 e la loro stretta attinenza a questioni ascritte alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. h) Cost. hanno indotto il legislatore a rafforzare il relativo nesso di derivazione del potere e delle modalità del suo conseguenziale esercizio. Ciò è avvenuto prevedendo che le relative attribuzioni siano esercitate dal Sindaco in qualità di ufficiale di governo, ossia di organo del decentramento statale e, come tale, assoggettato ai poteri di gerarchia del Prefetto e del Ministro dell’Interno.
Le azioni intraprese dal legislatore sono state orientate in due direzioni differenti, ancorché non irrelate.
In primo luogo, prevedendo un vero e proprio obbligo di informazione preventiva al Prefetto in ordine all’attivazione dei poteri di sovrintendenza “alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico”. Al quale si aggiunge l’obbligo di preventiva comunicazione al Prefetto dei provvedimenti, anche contingibili ed urgenti, adottati “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.
In secondo luogo, demandando ad uno specifico decreto del Ministro dell’Interno la disciplina del“l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana”. Il rinvio ad una fonte di completamento della normativa di rango primario è contenuto nel comma 4 bis dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 ed è stato introdotto in sede di conversione dell’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 ad opera della Legge 24/7/2008 n. 125 per garantire maggiore coerenza sistematica alla materia.
Esso è stato completato dal Decreto del Ministro dell’Interno 5/8/2008, nelle cui premesse è ben compendiato il suo nesso di derivazione dall’art. 117, comma 2, lett. h) Cost. La fonte di completamento definisce sia le nozioni di “incolumità pubblica” e di “sicurezza urbana”, sia l’estensione dei poteri di ordinanza del Sindaco, evidenziandone le funzioni di prevenzione e di contrasto ed orientando e circoscrivendo l’esercizio della discrezionalità amministrativa in materia.
La previsione di ampî riferimenti contenuti nella normativa ad interventi sia del Ministro dell’Interno, sia del Prefetto corroborano la tesi della stretta inerenza della sicurezza lato sensu intesa ai poteri diretti dello Stato e quindi alla sua competenza esclusiva a regolamentarne i contenuti. Entro questi precisi binarî può correre l’esercizio del potere di ordinanza, che il combinato disposto dei commi 4 e 7 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel teso rimodellato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 ascrive al Sindaco, sia pure con le limitazioni precedentemente illustrate. Potere di ordinanza che può spingersi fino all’adozione di veri e proprî provvedimenti extra ordinem che possono determinare deroghe al diritto vigente quando ricorrano i presupposti di contingibilità ed urgenza ordinamentalmente previsti.
Quel che qui si può evidenziare è che attraverso il riconoscimento del potere di ordinanza ai sindaci nelle materie dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana il legislatore ha inteso affermare la specificità e la localizzazione dell’azione in periferia nel rispetto del necessario coordinamento generale dello Stato. Insomma: il potere di ordinanza ai sindaci – peraltro patrimonio della tradizione di tutti gli ordinamenti ad atto amministrativo a derivazione napoleonica – non è libero, ma incontra una molteplicità di vincoli che attengono alla rilevanza costituzionale del valore della sicurezza.
Valore che, per essere affermato, necessita dell’adozione di iniziative che lo rendano realmente percepibile dal cittadino e prima ancóra dall’individuo nelle immediate adiacenze degli spazî e degli ámbiti in cui egli esplica la propria esistenza e la propria personalità sia come singolo, sia nelle formazioni sociali che lo interessano. Di qui l’attribuzione di un potere di ampia latitudine, ma conformato nei limiti e negli scopi dal prodotto della normazione dello Stato a tutti i livelli.
In questo modo, l’azione legislativa intrapresa con il D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 mantiene la propria aderenza all’art. 117, comma 2, lett. h) Cost., consentendo il riconoscimento della rilevanza giuridica ad iniziative locali nel rispetto di una cornice normativa di derivazione statale che connota l’attivazione del potere di ordinanza del Sindaco in qualità di ufficiale di governo e che ne caratterizza la causa tipica ed i relativi contenuti di discrezionalità.
Poiché le azioni del Sindaco sono attuate nell’esercizio del potere di ordinanza, l’inquadramento costituzionale dell’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 non può non tenere in debito conto del fatto che il prodotto del suo esercizio può spingersi fino al confine del lecito giuridico.
A questo proposito deve essere rimarcato che il contenuto derogatorio della normativa vigente che può caratterizzare l’esercizio del potere di ordinanza può innescare un conflitto con il principio di legalità dell’azione amministrativa di cui è espressione il principio di tipicità degli atti amministrativi e del loro contenuto, entrambi derivati dall’art. 97, comma 1 Cost.
Cosí come pure non deve essere sottaciuto che la possibilità per la pubblica amministrazione di creare vere e proprie fattispecie che connettono sanzioni a condotte in ámbiti caratterizzati dall’assenza di norme primarie può condurre alla violazione per relationem del principio di tassatività della norma penale ex art. 25, comma 2 Cost., solo che si osservi che la violazione dei provvedimenti legalmente dati dall’autorità amministrativa in materia di “sicurezza pubblica” integra violazione dell’art. 650 c.p.
La prima questione sarà trattata nel § 4; la seconda nel § 8.
3. La situazione pregressa e quella attuale.
L’analisi comparativa che si intende qui intraprendere riguarda la differente formulazione dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 prima e dopo gli interventi modificativi attuati con l’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125. Essa è limitata ai soli contenuti della disposizione rilevanti in subiecta materia.
Nel testo previgente, il comma 1 della disposizione in esame prevedeva che “il Sindaco, quale ufficiale del Governo, sovraintende: […] b) alla emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica; c) allo svolgimento, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, delle funzioni affidategli dalla legge; d) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone il Prefetto”.
Il successivo comma 2 prevedeva che “il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini; per l'esecuzione dei relativi ordini può richiedere al Prefetto, ove occorra, l'assistenza della forza pubblica”.
La disciplina dei poteri del Sindaco era completata dai commi 4, e 10 secondo cui “se l'ordinanza adottata ai sensi del comma 2 è rivolta a persone determinate e queste non ottemperano all'ordine impartito, il Sindaco può provvedere d'ufficio a spese degli interessati, senza pregiudizio dell'azione penale per i reati in cui fossero incorsi” e “ove il Sindaco non adotti i provvedimenti di cui al comma 2, il Prefetto provvede con propria ordinanza”.
Il testo dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 presenta maggior organicità testuale nonché una piú ampia gamma di strumenti a disposizione del Sindaco per garantire il bene della sicurezza nella sua duplice veste dell’“incolumità pubblica” e della “sicurezza urbana”, definite nella loro estensione dall’art. 1 del D.M. 5/8/2008.
Eccone il testo, limitato alle disposizioni che qui interessano: “1. Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, sovraintende: […] b) alla emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica; c) allo svolgimento, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, delle funzioni affidategli dalla legge; d) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone preventivamente il Prefetto. […] 4. Il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al Prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Il testo del nuovo art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 prosegue prevedendo al suo comma 4 bis che “con decreto del Ministro dell’Interno è disciplinato l’ambito di applicazione di cui ai commi 1 e 4 anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana”.
La necessità di garantire un raccordo fra i territorî comunali interessati dall’adozione dei provvedimenti sindacali a tutela della sicurezza trova conferma nel successivo comma 5, il quale prevede che “qualora i provvedimenti adottati dai sindaci ai sensi dei commi 1 e 4 comportino conseguenze sull’ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, il Prefetto indice un’apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e, qualora ritenuto opportuno, soggetti pubblici o privati nell’ambito territoriale interessato all’intervento”.
Il raccordo con l’autorità centrale è ribadito dal comma 12, secondo cui “il Ministro dell’Interno può adottare atti di indirizzo per l’esercizio delle funzioni previste dal presente articolo da parte del Sindaco”.
Di una qualche rilevanza è l’avvenuta eliminazione dell’intermediazione del commissario ad acta per l’adozione degli atti in via sostitutiva qualora il Sindaco non vi proceda: secondo il comma 11, infatti, “in caso di inerzia del Sindaco o del suo delegato nell’esercizio delle funzioni previste dal comma 10, il Prefetto può intervenire con proprio provvedimento”.
La collazione fra le due versioni dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 consente di trarre non meno di tre conclusioni.
La prima: l’esercizio dei poteri di ordinanza del Sindaco deve essere preceduto dalla preventiva informazione al Prefetto. Le ragioni della preventiva comunicazione all’organo provinciale del decentramento statale è fin troppo ovvia: tutti gli interventi in materia di sicurezza pubblica – nella duplice versione della tutela della pubblica incolumità e della sicurezza urbana – attengono a funzioni di marcata e segnalata rilevanza statale. Il Prefetto, inoltre, deve poter predisporre le misure idonee a garantire l’efficace attuazione delle ordinanze sindacali in subiecta materia, a prescindere dal fatto che esse – come si vedrà nel § 4 – siano ordinanze normali, ordinanze necessitate piuttosto che ordinanze contingibili ed urgenti. Il Prefetto, infine, deve poter apprezzare preventivamente le conseguenze che scaturiscono dall’adozione delle ordinanze de quibus sui territorî limitrofi a quello interessato dalla materiale adozione del provvedimento; ciò al fine di eventualmente convocare l’apposita conferenza cui evocare non solo i rappresentanti delle istituzioni, ma anche dei corpi sociali intermedî e dei portatori di interessi comunque coinvolti nell’azione di profilassi sociale intrapresa.
La seconda: il legislatore ha ampliato sensibilmente gli ámbiti di intervento in cui è legittima l’adozione di ordinanze a tutela della sicurezza. Accanto all’“incolumità pubblica” – prima “incolumità dei cittadini” – compare oggi il riferimento alla “sicurezza urbana”. Ciò ha reso possibile ai sindaci intervenire in spazî prima preclusi o che venivano interessati dall’adozione di provvedimenti amministrativi che non sfuggivano a pesanti censure di illegittimità per eccesso di potere per sviamento della causa.
La terza: il legislatore ha affermato la primazía della posizione dello Stato garantendo al Ministro dell’Interno una posizione di indubbia centralità nella delineazione degli ámbiti di intervento. Ciò consente di garantire uniformità nell’enunciazione delle direttrici di intervento da parte dei sindaci e quindi di indirizzare i loro provvedimenti in aderenza con la causa tipica del potere loro ascritto.
4. Il potere di ordinanza in generale.
La garanzia del valore della sicurezza a livello locale avviene tramite l’adozione di ordinanze sindacali e quindi nell’esercizio di uno specifico potere: il potere di ordinanza, per l’appunto. Di qui la necessità di caratterizzarlo per individuarne i tratti salienti e le ragioni delle necessarie differenziazioni che ne connotano l’esercizio.
La radice etimologica del potere di ordinanza ascende al sostantivo “ordine”. In questo senso, con “ordinanza” si designa lo strumento normativo mediante il quale viene veicolato un ordine da parte dell’autorità amministrativa. Ossia un precetto immediatamente imperativo contenuto in un atto diverso dalla sentenza o dalla legge. Questa prima accezione di “ordinanza” ne caratterizza il significato in tempi in cui l’autorità assoluta – ossia il monarca – assommava su di sé i poteri legislativo, giurisdizionale e amministrativo. Con “ordinanza”, pertanto, si faceva riferimento ad un ordine del monarca che né definiva un processo, né innovava l’ordinamento con una legge, ma che specificava in capo ad un destinatario ben determinato un precetto nell’esercizio di quella che oggi siamo soliti definire “funzione amministrativa”.
In ragione del suo carattere soggettivo ed unipersonale, con “ordinanza” si intende oggi un provvedimento amministrativo adottato da un organo amministrativo monocratico nell’esercizio di una funzione amministrativa. Proprio per questi motivi, negli enti locali il potere di ordinanza è un potere generale attribuito al Sindaco per supportare l’adozione di provvedimenti amministrativi a contenuto imperativo con i quali si impartiscono obblighi, ordini o divieti.
Anche le ordinanze sindacali sono dunque adottate nell’esercizio di uno specifico potere: il potere di ordinanza. Per avere il quale occorre una norma che ne ascriva la competenza al soggetto che ne diviene titolare, individui la causa tipica della funzione nel cui ámbito esse possono essere emesse e specifichi il contenuto dell’atto che il Sindaco può o deve adottare. Di “ordinanza” si parla in senso debole ed in senso forte poiché non sempre è possibile specificare il contenuto del provvedimento e poiché il potere di ordinanza può essere lo strumento per fornire di regolamentazione una fattispecie non tipica.
Nella prima accezione, si è in presenza di ordinanze quando il Sindaco si limita a specificare o a attualizzare il contenuto precettivo di una fonte di regolazione preesistente (legge, decreto legge, decreto legislativo, regolamento comunale, ecc….) in capo ad uno o piú soggetti determinati. In questo caso, si è in presenza di specificazioni di ordini già previsti in modo generale ed astratto dalle norme che li riferiscono ad una platea indeterminata di soggetti. Proprio per questi motivi, queste ordinanze vengono denominate “ordinanze ordinarie”, “semplici ordinanze” o “ordinanze normali”.
La funzione di questa tipologia di ordinanze è evidente: localizzare il precetto in singoli casi determinati mediante un processo logico inverso a quello di sussunzione. In altri termini, una prima funzione delle ordinanze de quibus è quella di individuare in concreto singoli e determinati destinatarî di un precetto generale ed astratto ordinamentalmente già previsto.
Le ordinanze ordinarie possono essere utilizzate anche per differenziare le forme di contrasto a comportamenti altrimenti qualificati come illeciti. Ciò accade ogni qualvolta la finalità della tutela che caratterizza le ragioni della qualificazione illecita disposta da altre norme ordinamentali è condivisa anche dall’autorità amministrativa. In questo caso, l’esercizio del potere di ordinanza consente di differenziare le modalità del contrasto al comportamento qualificato illecito da altre norme o nell’esercizio di differenti poteri, rafforzando i termini del contrasto o predisponendo piú articolate forme di reazione dei pubblici poteri. In questo primo ámbito, si può parlare di ordinanza tutte le volte in cui il provvedimento amministrativo dell’autorità deriva il proprio contenuto da pregressi diritti o potestà tipici dei quali essa costituisce concretizzazione o esercizio, come accade, ad esempio, per la chiusura dell’accesso al pubblico alla proprietà comunale o per la regolamentazione del traffico o del commercio.
Nella seconda ipotesi, si è in presenza di ordinanze quando il provvedimento imperativo che veicola obblighi, ordini o divieti opera in deroga a norme giuridiche. Tali provvedimenti sono denominati “ordinanze necessitate”, salvo poi ulteriormente distinguerle in “ordinanze di urgenza” e in “ordinanze contingibili ed urgenti”.
Tralasciando le ordinanze ordinarie, che non fanno altro che specificare il contenuto imperativo di precedenti atti normativi a portata generale, l’attenzione deve essere focalizzata sulle due restanti tipologie di ordinanze, ossia le ordinanze necessitate.
Le norme che ascrivono potere di ordinanza non sempre disciplinano esse stesse il contenuto del provvedimento che può essere adottato nel loro esercizio. Ciò significa che tali norme – che sono norme sulla competenza che definiscono la caratterizzazione soggettiva dell’organo legittimato e la causa tipica della funzione – autorizzano l’adozione di provvedimenti amministrativi a contenuto imperativo, ma non sempre ne determinano il contenuto secondo tipicità.
Ecco perché si ha esercizio del potere di ordinanza quando la fattispecie che l’amministrazione vuole disciplinare o non è prevista da alcun’altra norma o è tale da esigere, in relazione al singolo caso concreto, l’adozione di una disciplina in deroga ad una precedente norma.
Di “ordinanza”, pertanto, ha senso parlare in non meno di due ipotesi.
La prima si concretizza quando il provvedimento è adottato per la disciplina di una fattispecie concreta non espressamente prevista dall’ordinamento, determinando ex se il contenuto del provvedimento amministrativo. È questo il caso delle ordinanze contingibili ed urgenti. Detto altrimenti, le ordinanze contingibili ed urgenti sono provvedimenti che si adottano, sempre in caso di urgente necessità, quando l’ordinamento non appronta alcun altro provvedimento per poter intervenire; sono quindi rimedî straordinarî i quali permettono di curare interessi pubblici quando mancano norme per provvedere. Proprio per questi motivi, le ordinanze di urgenza sono provvedimenti amministrativi che, in quanto previsti dalle norme, stanno nel principio di legalità, ma costituiscono un’eccezione alla regola della tipicità: la potestà di ordinanza è perciò una potestà di creare provvedimenti atipici, al di fuori della previsione normativa, e pertanto, sotto tale profilo, necessariamente derogatorî, senza che tuttavia ciò possa significare che il titolare del potere di ordinanza abbia un’assoluta libertà di scelta.
La seconda si configura quando a giudizio dell’amministrazione procedente è necessario adottare una disciplina diversa da quella prevista da una differente norma. Qui la necessità di derogare alla norma è sempre contenuta entro i limiti della tipicità e della predeterminazione dei contenuti dei provvedimenti amministrativi. Quel che varia è solo la necessità di deviare dalla normalità in presenza di un fatto per il quale l’ordinamento prevede comunque ben specificate possibilità di intervento.
Nel primo caso, l’ordinanza è emessa in deroga al diritto, nel senso che essa presenta un contenuto atipico per la regolamentazione di una fattispecie non espressamente prevista dall’ordinamento. Nella seconda ipotesi, essa è adottata in deroga a specifiche norme che per quella determinata fattispecie prevedono una disciplina altrettanto ben determinata in condizioni di normalità.
In entrambi i casi, l’esercizio del potere di ordinanza concretizza un provvedimento unipersonale a contenuto imperativo. Nella prima ipotesi, il provvedimento è tale da derogare ad un numero tendenzialmente indefinito di norme; nella seconda, il carattere derogatorio si invera solo con riferimento alla norma che stabilisce il contenuto tipico del provvedimento in condizioni di normalità. Peraltro mantenendo – e questa è la caratterizzazione saliente delle ordinanze de quibus – un contenuto comunque tipico e quindi pienamente rispettoso del principio di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità dei provvedimenti della pubblica amministrazione.
In entrambi i casi si parla di provvedimenti di urgenza. Solo nel primo caso si parla di “pienezza dei poteri di ordinanza”; nel secondo, infatti, si è in presenza di un potere che consente di derogare al diritto solo quando si tratti di disciplinare eventi eccezionali in conformità a norme che ne regolamentano non solo i presupposti di azione, ma anche i contenuti da imprimere al provvedimento di urgenza.
Ciò detto, l’urgenza – o meglio, la necessità di provvedere che scaturisce dall’urgenza – è un indubbio prerequisito per l’adozione di provvedimenti derogatorî del diritto; ed in questo senso, la necessitas urgens è comune sia alla prima, sia alla seconda tipologia di ordinanze. Esse si differenziano in ragione del loro contenuto. Che solo nelle seconde è predeterminato dalla norma, mentre nelle prime è rimesso alla determinazione della pubblica amministrazione in relazione al singolo caso concreto. In questo senso si parla di contingibilità dell’ordinanza; a volere significare che per quel determinato accadimento l’autorità non ha a disposizione alcun provvedimento a contenuto tipico con cui farvi fronte.
Nel primo caso, si parla di “ordinanze necessitate”; nel secondo di “ordinanze contingibili ed urgenti”. Entrambe rinvengono il loro presupposto nell’urgenza di provvedere. Esse di differenziano in ragione di uno specifico elemento caratterizzante: la contingibilità, per l’appunto. Loro tratto comune è la necessità di derogare al diritto in condizioni di normalità.
La contingibilità índica una specifica caratterizzazione del presupposto di fatto che attiva l’esercizio del potere di ordinanza extra ordinem. Piú in dettaglio, il significato della contingibilità si ricava dalla funzione derogatoria delle norme dell’ordinamento che caratterizza le ordinanze de quibus. La contingibilità è quindi l’effettivo elemento di differenziazione fra le ordinanze necessitate e quelle di urgente necessità. Ciò significa che queste ultime sono possono essere adottate solo per superare situazioni contingenti: esse sono quindi destinate a cessare con il venir meno di tali accadimenti presupposti.
La contingibilità nulla ha a che vedere con la prevedibilità: ben può esservi, infatti, un accadimento ampiamente prevedibile per il quale l’ordinamento non predispone alcuna forma di reazione in via amministrativa a contenuto tipico. In questo caso, l’evento è contingente, talché la reazione dell’autorità non può che essere contingibile, anche se prevista o precedibile.
Proprio per questi motivi, la contingibilità è strettamente ancorata al verificarsi di un accadimento contingente, al quale non può farsi fronte mediante un provvedimento a contenuto ordinamentalmente predeterminato e tipico. Ciò rende necessaria l’attivazione di un potere nomopoietico; ossia di un potere di ordinanza che conduca all’adozione di un provvedimento imperativo che consenta di sormontare il fatto occorso, non rinvenendosi nell’ordinamento alcun altro provvedimento a contenuto tipico idoneo allo scopo.
Ecco evidenziato l’intimo senso ordinamentale che caratterizza le ordinanze contingibili ed urgenti: ossia il potere che il legislatore ha attribuito ad alcuni organi della pubblica amministrazione – il Sindaco, per quel che qui interessa – di creare il diritto per il caso singolo, limitatamente a quelle situazioni di necessità ed urgenza per le quali nessuna norma consente di provvedere.
In questi casi, l’attribuzione del potere di ordinanza extra ordinem consente di risolvere il dilemma nel quale altrimenti la pubblica amministrazione si troverebbe; costretta, come sarebbe, fra non agire per timore di violare il principio di legalità ed invece agire mediante provvedimenti illegittimi pur di far fronte alla situazione concretizzata e che è chiamata ad affrontare.
Proprio per questi motivi, il potere di ordinanza si colloca al limite dell’ordinamento giuridico. Esso intercetta possibili punti di conflitto con il principio di legalità dell’azione della pubblica amministrazione di cui il principio di tipicità degli atti amministrativi e del loro contenuto è espressione ai sensi del combinato disposto degli artt. 23, comma 1 e 97, comma 1 Cost.
L’empasse cosí delineata può essere risolta solo osservando che la necessità di derogare al diritto al punto di legittimare l’adozione di provvedimenti amministrativi a contenuto non predeterminato ex lege costituisce una fonte normativa autonoma in tutti quei casi in cui si tratta di provvedere ad esigenze improvvise, operando in tal modo o come vera e propria fonte di chiusura dell’ordinamento ovvero come presupposto dell’attivazione di poteri extra ordinem sulla base di una norma attributiva di poteri che li prevede e ne regola gli effetti ma non, per intuitive ragioni logiche, i contenuti pur delineando la causa del loro esercizio.
Della questione si è occupata la Corte costituzionale a piú riprese, sovente con stretta attinenza proprio con la problematica dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Con la sentenza 2/7/1956 n. 8 il giudice delle leggi ha riconosciuto la legittimità costituzionale dell’art. 2 del R.D. 18/6/1931 n. 773 solo se i poteri di ordinanza extra ordinem ivi previsti sono esercitati nel rispetto dei principî di “efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell'urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principii dell'ordinamento giuridico”.
Con la sentenza 27/5/1961 n. 26, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2 del R.D. 18/6/1931 n. 773 nella parte in cui non prevede che i poteri di adottare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di pubblica sicurezza possano essere esercitati solo se ricorrono non meno di cinque condizioni. La prima: non deve essere invaso il campo riservato all’attività di altri organi legislativi dello Stato e degli altri organi costituzionali dello Stato. La seconda: non devono essere violati i precetti stabiliti dalla Costituzione. La terza: l’adozione delle ordinanze extra ordinem non è ammissibile quando la Costituzione stabilisce che debba essere la legge a regolamentare direttamente la relativa materia, come accade in tutte le ipotesi di riserva assoluta di legge. La quarta: la norma attributiva del potere di ordinanza non prevede criterî di ragionevole delimitazione della discrezionalità dell’organo legittimato. La quinta: il potere di ordinanza extra ordinem è ammissibile solo se la legge predetermina e tipizza la causa della funzione in modo da circoscrivere il corridoio normativo entro il quale esse possono essere adottate.
La conclusione che si può trarre da questo breve excursus è triplice.
Il primo luogo, mediante ordinanze contingibili ed urgenti non si può addivenire alla previsione di “prestazioni personali imposte”, perché a ciò è di insormontabile ostacolo l’art. 23, comma 1 Cost.
In secondo luogo, esse non possono intervenire in materie che la Costituzione riveste di riserva assoluta di legge (ingresso nel domicilio, perquisizioni, limitazione della libertà personale) né essere in contrasto con norme imperative primarie e perciò non derogabili se non a parità di fonte, come accade per le norme penali o per le norme di ordine pubblico economico e le norme civili imperative.
In terzo luogo, l’esercizio del potere di ordinanza nella sua pienezza inteso deve comunque rispettare i principî generali dell’ordinamento giuridico; primo tra tutti il principio di ragionevolezza fra presupposto del potere e contenuto del provvedimento amministrativo extra ordinem adottato. E ciò è particolarmente vero solo che si osservi che tramite un’ordinanza contingibile ed urgente l’autorità amministrativa può giungere alla creazione di una vera e propria fattispecie nella quale alla violazione di ordini, obblighi e divieti da essa stessa creati anche contra legem sono connesse specifiche e predeterminate conseguenze sanzionatorie che possono spingersi fino alla commissione del reato di cui all’art. 650 c.p.
Quanto alla collocazione del potere di ordinanza nello scenario delle fonti di regolazione, deve essere segnalato che con sentenza 30/12/1961 n. 72 la Corte costituzionale ha considerato il potere di ordinanza come espressione di “norme generali di completamento dell’ordinamento” in una fattispecie analoga a quella oggetto della presente analisi, quale quella dell’art. 7 della Legge 20/3/1865 n. 2448 all. E in materia di requisizione della proprietà privata.
Con la sentenza 4/1/1997 n. 4 la Corte costituzionale ha però evidenziato il carattere semplicemente derogatorio della normativa vigente proprio delle ordinanze contingibili ed urgenti: esse, in altri termini, non sono affatto fonti autonome di diritto, ma meri provvedimenti amministrativi che, in singole e ben determinate circostanze, sospendono temporaneamente l’efficacia di norme di legge o equiparate per il tempo strettamente necessario per evitare il verificarsi dell’evento pericoloso.
5. Il contenuto dei provvedimenti sindacali in materia di sicurezza.
Le ordinanze sindacali in materia di sicurezza previste con l’ampia latitudine che caratterizza l’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 possono essere adottate solo nel rispetto dei principî generali che regolamentano l’esercizio del potere di ordinanza in generale.
Di ciò si è ben convinto il legislatore che ha indirizzato l’esercizio della discrezionalità amministrativa in modo particolarmente dettagliato, sia nella formulazione della disposizione normativa in esame, sia nell’opera di successivo dettagliamento attuata con il D.M. 5/8/2008.
Il testo della prima non lascia adíto a dubbî: “il Sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al Prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”.
Il potere di ordinanza è attribuito al Sindaco a tutto tondo. Ciò significa che la norma ascrive al Sindaco poteri di ordinanza secundum, praeter e contra legem, nel chiaro intento di dotarlo della piú ampia gamma di possibilità per garantire la pienezza del diritto alla sicurezza nell’accezione sviluppata nel § 1. Talché il Sindaco può adottare ordinanze per attualizzare obblighi, ordini e divieti già previsti da norme generali ed astratte a prescindere dalla loro collocazione nella gerarchia delle fonti di regolazione. Il Sindaco, inoltre, può derogare a norme generali ed astratte che prevedono conseguenze tipiche in condizioni di ordinarietà, adottando ordinanze in deroga a contenuto parimenti predeterminato. Il Sindaco, infine, può adottare ordinanze extra ordinem in deroga alle norme e financo contra legem per fornire risposta concreta ad eventi e situazioni non altrimenti sormontabili con provvedimenti amministrativi a contenuto predeterminato e tipico.
Quel che cambia davvero è la caratterizzazione della causa tipica che fonda il potere di ordinanza e quindi la latitudine della discrezionalità amministrativa di cui gode il Sindaco in subiecta materia. Essa è legislativamente enunciata e determinata nell’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 e si risolve nelle ragioni di incolumità pubblica o di sicurezza urbana.
Per rendere maggiormente omogeneo ed aderente ai precetti costituzionali il tessuto normativo cosí venuto in essere, il legislatore ha demandato alla decretazione ministeriale la delineazione e la caratterizzazione della discrezionalità amministrativa che deve sempre sorreggere la loro adozione. Il D.M. 5/8/2008 ha completato la trama della regolamentazione, portando a compimento i termini della misura del contrasto alla “incolumità pubblica” e della “sicurezza urbana”. La fonte di regolazione secondaria ne ha operato la definizione a mente della quale per “incolumità pubblica” si intende “l’integrità fisica della popolazione”, mentre per “sicurezza urbana” si fa riferimento a “un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”.
Ecco la prima vera novità che è scaturita dalla riforma dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 ad opera dell’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125. Alla quale – è bene evidenziarlo da súbito – si è affiancata la possibilità di modificare l’assetto sanzionatorio nel caso di violazione delle ordinanze sindacali emesse dal Sindaco in subiecta materia. La misura è contenuta nell’art. 6 bis della fonte di regolazione, di modifica dell’art. 16, comma 2 della Legge 24/11/1981 n. 689. La norma prevede, infatti, che “per le violazioni ai regolamenti e alle ordinanze comunali […], la Giunta comunale […], all’interno del limite edittale minimo e massimo della sanzione prevista, può stabilire un diverso importo del pagamento in misura ridotta, in deroga alle disposizioni del primo comma”. Per contro resta ferma la possibilità di provvedere all’esecuzione d’ufficio a spese degli interessati, quando l’ordinanza violata è rivolta a persone determinate, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione penale qualora il comportamento dei contravventori costituisca anche reato oltre che illecito amministrativo.
Il contenuto che oggi può essere impresso alle ordinanze sindacali in materia di sicurezza è notevolmente piú ampio di quanto poteva legittimamente avvenire prima della riforma. A questo proposito è ben vero che non erano mancati tentativi di sanzionare comportamenti non ulteriormente tollerabili quali l’insistente tentativo di pulizia dei deflettori delle automobili ferme al semaforo da parte di vagabondi (c.d. “ordinanza vu lavà”), il petulante accattonaggio ad opera di vagabondi attuato mediante stazionamento sul suolo pubblico, l’altrettanto petulante tentativo di commercializzazione di beni ad opera di ambulanti (c.d. “ordinanza vu cumprà”) nonché l’esercizio della prostituzione su strada (c.d. “ordinanza anti lucciole”). Altrettanto vero è però che tali ordinanze sindacali non sfuggivano a fin troppo ovvie censure di illegittimità per eccesso di potere nella sua forma di sviamento dalla causa tipica della funzione amministrativa proprio perché adottate per motivi reali differenti da quelli che fondavano il potere di procedere e provvedere.
L’ampliamento dei poteri di ordinanza sindacale è avvenuto proprio facendo riferimento al secondo termine dell’endíadi contenuta nell’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125, ossia alla “sicurezza urbana” ed all’esercizio della relativa funzione amministrativa che differisce sensibilmente da quella che caratterizzava prima “l’incolumità dei cittadini” ed oggi “l’incolumità pubblica”. Ed infatti mentre quest’ultima si risolve nella predisposizione di misure idonee a garantire “l’integrità fisica della popolazione”, quella opera un piú articolato rimando a fattispecie e casistiche che fanno riferimento alla preservazione dello spazio urbano nel quale l’individuo ha diritto di svolgere compiutamente la propria personalità attraverso l’esercizio dei diritti fondamentali della persona garantiti come inviolabili dall’art. 2 Cost. nella sua visione dinamica e di continuo arricchimento e completamento sottolineata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
La tutela della sicurezza urbana è dunque preordinata alla sua preservazione in modo da garantire alla persona la libera esplicazione della propria individualità, a condizione che essa non frapponga comportamenti preordinati a limitare l’altrettanto fondamentale diritto del proprio simile. Proprio per questi motivi, che a ben vedere sono esplicazione dei principî dell’honeste vivere di romanistica derivazione, il D.M. 5/8/2008 orienta la discrezionalità amministrativa dei sindaci in piú direzioni per garantire forme di tutela che consentano di recuperare tutti gli spazî cittadini disponibili alla fruizione libera ed indisturbata del consorzio civile e quindi di reprimere tutti i comportamenti che a ciò arrecano nocumento.
In questo modo, possono essere recuperate alla legittimità formale e sostanziale pressoché tutte le tipologie di ordinanze adottate nella vigenza del pregresso ordinamento. Esse, a prescindere dalla loro specificità, possono essere adottate per sormontare “a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati all’abuso di alcool; b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento del patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana; c) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b); d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quello di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; e) i comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi”.
La caratterizzazione della discrezionalità amministrativa in subiecta materia si spinge pertanto fino a definire la sicurezza urbana non in termini di identità con il proprio definiente, ma attraverso l’elencazione delle azioni che – se intraprese – ne garantiscono l’attualità e ne preservano la consistenza e l’integrità e quindi che, se non attuate, ne favoriscono il nocumento, la vulnerazione e/o la riduzione. Il bene della vita rappresentato dalla sicurezza urbana, pertanto, è definito solo per relationem e non in modo diretto ed immediato, come accade per l’incolumità pubblica.
Questa specificità introduce nell’ordinamento piú di un motivo di perplessità. Le ordinanze de quibus, infatti, alzano la soglia della cautela amministrativa rendendo possibili provvedimenti inibitorî ogni qualvolta sia ipotizzato un nesso di strumentalità fra l’iniziativa intrapresa e la causa tipica della funzione amministrativa. Proprio per questi motivi esse devono essere adeguatamente motivate per rappresentare ed argomentare il loro fondamento logico-giuridico in relazione alle finalità ordinamentali previste dalla legge e che ne costituiscono il fondamento normativo.
Come si può facilmente notare, quasi tutte le materie oggi interessate dai poteri di ordinanza sono altrimenti fornite di forme di tutela. Proprio per questi motivi, le ordinanze sindacali legittimamente adottabili non sono quasi mai in deroga al diritto nel senso evidenziato nel § 4, ma si atteggiano ad “ordinanze normali” o “semplici ordinanze”. La loro funzione è quella di affiancare forme di tutela in via amministrativa a differenti modalità di tutela previste da altre norme ordinamentali, orientandole nella direzione della preservazione della sicurezza sociale ovvero di specificare comportamenti comunque vietati da altre norme. Tali ordinanze finiscono con l’essere specificative di norme di legge o di regolamento, aderenze rese maggiormente presenti proprio in considerazione della portata del D.M. 5/8/2008. Proprio per questi motivi, lo spazio che residua per l’adozione di ordinanze contingibili ed urgenti in materia di sicurezza urbana tende inevitabilmente a restringersi pur senza obliterarsi del tutto, garantendo tutela residuale – ma non per questo meno importante – a situazioni che altrimenti non sarebbero preservate con provvedenti a contenuto tipico proprio in ragione della loro caratterizzazione contingibile ed urgente.
Quanto alla casistica dei provvedimenti sindacali in oggi a conoscenza si possono evidenziare i seguenti termini di intervento.
Il primo: ordinanze di contrasto alla prostituzione su strada. Le ordinanze sindacali adottate mirano a tutelare sia l’integrità fisica delle persone, sia il decoro urbano. Esse sono adottate su un duplice presupposto. In primo luogo, chi si procaccia prestazioni sessuali a pagamento staziona senza motivo sulla pubblica via o sulle banchine stradali, compie sovente manovre automobilistiche pericolose, sconnesse, di intralcio al traffico e comunque in grado di provocare l’insorgenza di fattori di rischio a danno dei pedoni e degli altri conducenti di autoveicoli. In secondo luogo, chi esercita la prostituzione su strada assume atteggiamenti inequivocabilmente idonei ad offendere il senso del pudore e della pubblica decenza soprattutto quando essi sono caratterizzati dall’ostentazione improvvisa di parti del corpo che, oltre a tutto, distraggono i conducenti di veicoli creando fattori di rischio e di pericolo per la circolazione e quindi nuocciono all’incolumità fisica degli individui.
Il secondo: ordinanze di contrasto al danneggiamento del patrimonio pubblico e privato. Le ordinanze sindacali adottate mirano a tutelare il decoro urbano nella prospettiva di garantire la fruizione libera ed indisturbata del patrimonio artistico della città e di approntare forme di tutela della proprietà in generale. I comportamenti vietati sono quindi quelli del danneggiamento dei monumenti comunque effettuato, della lordatura dei muri delle case di civile abitazione con scritte, graffiti, murales e consimili opere pseudoartistiche.
Il terzo: ordinanze di contrasto al consumo di sostanze alcoliche. Le ordinanze sindacali hanno la finalità immediata di contrastare l’abbandono sulla pubblica via di bottiglie, lattine ed in genere dei contenitori delle bevande consumate. Altra finalità conseguita è prevenire l’insorgenza di comportamenti violenti o genericamente facinorosi dovuti al calo dei freni inibitorî a séguito del consumo di alcool, osservato che essi sono di ostacolo alla piena e serena fruizione delle aree e degli spazî liberamente frequentati dai cittadini o che essi hanno comunque il diritto di frequentare indisturbati.
Il quarto: ordinanze di contrasto allo spaccio ed al consumo di sostanze stupefacenti. Le ordinanze sindacali mirano ad una duplice finalità. In primo luogo, a contrastare tutti quei comportamenti che offendono il pubblico decoro o che sono di ostacolo alla libera ed indisturbata utilizzazione degli spazî pubblici o aperti al pubblico. In secondo luogo, a ostacolare l’assunzione di sostanze stupefacenti nel presupposto che essa arrechi danni alla salute degli individui nonché l’incolumità personale sia dell’assuntore, sia dei terzi. Il riferimento è al rischio diffuso di contrazione di malattie a séguito del contatto con aghi, siringhe o altre sostanze infette, soprattutto ad opera di minori e bimbi quando l’abbandono avviene nelle adiacenze delle scuole, in parchi, aree attrezzate per la sosta ed in generale in aree dedicate allo svago. Il riferimento è anche alla possibilità di creazione di fattori di rischio che conseguono al calo di attenzione alla guida, all’insorgenza di comportamenti turbolenti e violenti, nonché alla necessità di contrastare fenomeni di abbandono sociale e di timore nella frequentazione di spazî ed aree nelle quali è diffuso lo spaccio ed il consumo di sostanze stupefacenti.
Il quinto: ordinanze di contrasto dell’accattonaggio molesto. In questo caso, le ordinanze sindacali mirano alla preservazione del decoro urbano ed alla minaccia all’incolumità pubblica, che si concretizzano in presenza di comportamenti ripugnanti quali l’ostentazione di menomazioni e l’utilizzazione di minori, disabili e anziani. In questo modo, possono essere sanzionati in via amministrativa tutti quei comportamenti vessatorî e petulanti frapposti da mendicanti ed accattoni che, in ragione delle loro modalità, possono essere prodromo di molestie, di intralcio al traffico ed in generale di limitazione alla libera ed ordinata utilizzazione e fruizione indisturbata degli spazî pubblici ed aperti al pubblico.
Il sesto: ordinanze di contrasto alla vendita abusiva ed all’abusivismo commerciale. Qui le ordinanze sindacali sono tese al contrasto dell’occupazione abusiva del suolo pubblico e quindi alla libera ed indisturbata utilizzazione delle banchine stradali e dei marciapiedi da parte dei pedoni. Esse, inoltre, sono preordinate a garantire l’incolumità fisica delle persone che può essere oggetto di lesione in occasione della fuga repentina dei venditori abusivi, soprattutto quando essi agitano in modo scomposto e non controllabile la merce repentinamente raccolta per sottrarla al sequestro della polizia annonaria. Esse, infine, mirano a contrastare i possibili rischî connessi all’intralcio al traffico, quando la vendita avviene in prossimità di fermate semaforizzate, zone di attraversamento pedonale, o zone di sosta e/o fermata.
Un limite interno all’esercizio del potere di ordinanza per motivi di sicurezza è dato dalla caratterizzazione del suo presupposto: le ordinanze sindacali previste dall’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dal D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 possono essere adottate solo “al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Di qui una série di limitazioni.
La prima: le ordinanze de quibus hanno funzione preventiva e/o risolutiva delle situazioni di fatto che ne costituiscono il presupposto di adozione. Esse – in altri termini – devono essere idonee allo scopo cui la loro emanazione è preordinata. L’idoneità richiesta deve essere apprezzata mediante giudizio di prognosi postuma, facendo riferimento alle comuni nozioni desumibili dall’esperienza di azioni di contrasto ed ai meccanismi di inibizione sociale attuati mediante interventi di natura preventiva e repressiva. Va da sé che il riscontro di ampî tassi di violazione è sicuro índice di inidoneità del provvedimento sindacale. Qui la loro finalità profilattica collide con la tentazione di trasformarne l’adozione in una fonte di introito per le casse comunali.
La seconda: le ordinanze in parola possono essere adottate solo per fare fronte a “gravi pericoli che minacciano” gli specifici beni della vita previsti dalla norma ascrittiva di potere. Il pericolo che giustifica gli interventi provvedimentali in esame deve essere realmente in atto. Non ogni pericolo in atto è condizione sufficiente per l’attivazione del potere di ordinanza. Esso, infatti, deve essere “grave”, ossia caratterizzare una situazione che desta allarme sociale nella collettività secondo l’id quod plerumque accidit.
La terza: il grave pericolo che affligge la comunità deve costituire una minaccia all’incolumità pubblica e/o alla sicurezza urbana. Ciò significa che il pericolo di vulnerazione di tali beni della vita deve essere realmente in atto. Se cosí non fosse, infatti, le esigenze della cautela preventiva sarebbero eccessive rispetto alle ragioni della tutela delle libertà individuali dei soggetti che si assume abbiano, o possano aver, dato luogo alla loro vulnerazione. Dal che si desume che le ordinanze de quibus non possono essere adottate per fronteggiare situazioni di mero tentativo.
La quarta: la relazione che sussiste fra le azioni sindacali intraprese e gli effetti auspicati deve essere caratterizzata dalla ragionevolezza. In altri termini, i contenuti delle ordinanze sindacali in esame devono essere razionali e proporzionati alle finalità che le caratterizzano. Questo è un limite interno particolarmente pregnante perché i contenuti delle ordinanze de quibus impongono e sanzionano veri e proprî doveri giuridici di assoggettamento alla conformazione della condotta dei loro destinatarî pur senza poter giungere alla previsione di vere e proprie prestazioni personali imposte, peraltro assoggettate a riserva di legge dall’art. 23, comma 1 Cost. e quindi non prescrivibili tramite meri provvedimenti amministrativi.
Proprio per questi motivi, il sindacato del giudice amministrativo sul contenuto delle ordinanze previste dall’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dal D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 deve interessare anche la proporzione fra le azioni sindacali intraprese e l’effetto che esse sono preordinate a conseguire.
E proprio per non vanificare il sindacato giurisdizionale e quindi la garanzia dei diritti di libertà dei destinatarî delle ordinanze sindacali in discussione esse devono essere adeguatamente motivate onde rendere riconoscibili i loro contenuti e l’iter logico-giuridico che ha condotto alla loro adozione. La loro motivazione non può essere di mero stile, ma deve rendere possibile l’immanente riscontro delle ragioni di legittimità – e per il ricorso gerarchico anche di merito – che hanno condotto alla loro emanazione, rendendo cosí salvi i valori costituzionali espressi dal combinato disposto degli artt. 24, comma 1 e 103, comma 1 Cost. in relazione ai diritti di libertà che esse possono interessare a vario titolo.
6. La competenza.
L’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 ha inciso in modo significativo sulla competenza all’adozione dei provvedimenti in materia di sicurezza.
Lo spostamento della competenza è palese per l’adozione delle ordinanze normali e delle ordinanze necessitate, tutte caratterizzate oltre che dalla tipicità della causa e dei presupposti di fatto per la loro adozione anche del loro contenuto. Esse, infatti, sono atti di gestione della funzione amministrativa di cui l’ente locale è titolare. Proprio per questi motivi la loro competenza era incondizionatamente attratta nella sfera di applicazione dell’art. 107, commi 1, 2 e 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267. Differente il caso delle ordinanze contingibili ed urgenti, ascritte da sempre alla competenza funzionale del Sindaco o di chi legittimamente lo sostituisce, mai ritenute delegabili ad altri soggetti quali il segretario generale o i dirigenti.
La norma, per la verità, ha sempre escluso dalla competenza dei dirigenti l’adozione degli atti e dei provvedimenti previsti dal combinato disposto degli artt. 107, comma 5 e 50, comma 3 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, secondo cui “a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54” e “salvo quanto previsto dall'art. 107 essi esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi […]”.
L’inversione dell’ordine delle competenze è avvenuto proprio a séguito della modificazione dell’art. 54 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 ad opera dell’art. 6 del indotto nell’ordinamento a seguito del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125. La norma, infatti, ha individuato una competenza funzionale ascritta al Sindaco, rafforzando in tal modo la sua posizione di ufficiale di governo con la finalità di connotarla in modo omogeneo ed esaustivo, a prescindere dal contenuto dei provvedimento che egli intenda o possa adottare per inverarla nella sua azione di volta in volta necessaria.
A séguito della sopra cennata modifica, il Sindaco ha pertanto competenza funzionale ed esclusiva all’adozione di tutte le ordinanze in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, siano esse ordinanze normali, necessitate o contingibili ed urgenti.
7. Il procedimento di formazione dei provvedimenti sindacali
Il procedimento di formazione delle ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica o di sicurezza urbana è articolato e tipizzato dall’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125.
Esso riguarda tutte le ordinanze adottate nell’esercizio della causa tipica individuata dalla norma, e quindi sia le ordinanze semplici, sia le ordinanze necessitate, sia le ordinanze contingibili ed urgenti.
Poiché tutte le ordinanze sindacali sono adottate dal Sindaco nella sua qualità di ufficiale di governo, i loro contenuti devono essere anticipati al Prefetto. La comunicazione preventiva del loro contenuto non vale ad inibire o comunque a ritardare l’adozione dei provvedimenti sindacali. Essa è per contro preordinata a consentire al Prefetto di adottare tutte le misure ritenute idonee a garantirne l’effettiva attuazione, e quindi a disporre in ordine all’utilizzazione della forza pubblica.
La comunicazione preventiva del contenuto delle ordinanze in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana costituisce una fase essenziale per il perfezionamento del procedimento amministrativo preordinato alla loro emanazione e ne costituisce comunicazione di formale avvio ai sensi degli artt. 7 e 8 della Legge 7/8/1990 n. 241 modificata ed integrata dalla Legge 11/2/2005 n. 15. Essa, peraltro, configura una relazione di tipo asimmetrico, poiché il Prefetto non può ritardarne l’adozione, né frapporre indugio, né ancora sospendere il procedimento amministrativo cosí avviato. Al Prefetto residua al piú la possibilità – peraltro prevista dall’art. 54, comma 5 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 – di convocare ex post un’apposita conferenza di servizio quando “i provvedimenti adottati dai sindaci ai sensi dei commi 1 e 4 comportino conseguenze sull’ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, il Prefetto indice un’apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e, qualora ritenuto opportuno, soggetti pubblici o privati nell’ambito territoriale interessato all’intervento”.
Dell’avvenuta adozione delle ordinanze in materia di pubblica incolumità e di sicurezza urbana deve essere effettuata la pubblicazione all’albo pretorio del comune e ne deve essere data ampia pubblicità con tutti i mezzi atti a garantirne la conoscenza. Sovvengono a questo proposito le possibilità offerte dalla pubblicazione sul sito istituzionale del comune, la pubblicazione mediante manifesti, la diffusione tramite la stampa e quella effettuata con i mezzi di comunicazione di massa.
Le ordinanze in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana devono essere notificate ai destinatarî quando il loro contenuto è destinato a soggetti determinati ex ante e nominativamente indicati nel provvedimento sindacale. In tutti gli altri casi, non è necessaria alcuna forma di notificazione, neppure per pubblici proclami.
La pubblicità delle ordinanze in materia di incolumità pubblica e di sicurezza urbana ne condiziona la conoscibilità e quindi l’effettiva possibilità di osservanza. La questione ha stretta attinenza con l’escusabilità dell’ignoranza sul precetto di completamento della norma penale in bianco che fornisce di sanzione la violazione dei provvedimenti de quibus quando a contenuto contingibile ed urgente. A ciò è riservata un’apposita sezione del § 8.
8. I rimedî giurisdizionali e le conseguenze sanzionatorie
Le ordinanze adottate per ragioni di incolumità pubblica e/o di sicurezza urbana sono emesse dal Sindaco nella sua qualità di ufficiale di governo, ossia di organo del decentramento statale e, come tale, assoggettato al potere gerarchico del Prefetto. Proprio per questi motivi, esse sono provvedimenti amministrativi privi del carattere della definitività. Di qui il conseguenziale regime impugnatorio.
Le ordinanze de quibus sono assoggettabili a ricorso giurisdizionale innanzi al T.A.R. territorialmente competente ai sensi dell’art. 21, comma 1 della Legge 6/12/1971 n. 1034, garantendo in tal modo il combinato disposto degli artt. 24, comma 1 e 103, comma 1 Cost.
Esse, proprio in quanto provvedimenti amministrativi non definitivi, sono sempre ricorribili in via gerarchica per motivi sia di legittimità, sia di merito ai sensi del combinato disposto degli artt. 1, comma 1 e 2, comma 1 del D.P.R. 24/11/1971 n. 1199. Il ricorso deve essere esperito a pena di decadenza entro 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento ovvero, se volto a persone determinate, dalla notificazione in via amministrativa.
Le ordinanze emesse dal Sindaco per ragioni di incolumità pubblica e/o di sicurezza urbana non sono oggetto di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica se non dopo essere divenute definitive ai sensi dell’art. 6, comma 1 del D.P.R. 24/11/1971 n. 1199. Ciò significa che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è esperibile solo una volta decorso il termine di 90 giorni dal radicamento del ricorso gerarchico innanzi al Prefetto poiché decorso tale termine si forma il silenzio rigetto.
La violazione delle ordinanze adottate dal Sindaco per motivi di pubblica incolumità e/o di sicurezza urbana ex art. 54, comma 4 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125 sono gravide di conseguenze sul piano penale. La loro violazione, ogni qualvolta esse hanno il carattere di ordinanze contingibili ed urgenti, configura il reato di cui all’art. 650 c.p., secondo il quale “chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di […] o di sicurezza pubblica […] è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 406”.
La questione è complicata da non meno di due fattori. Il primo riguarda la natura giuridica dell’art. 650 c.p. di norma penale in bianco. Il secondo è in stretta relazione con la problematica dell’errore di diritto su legge extrapenale e quindi con l’interpretazione dell’art. 47, comma 3 c.p. e con le sue relazioni con l’art. 5 c.p.
La prima delle due questioni ha una diretta incidenza con il principio di tassatività della legge penale previsto dall’art. 25, comma 2 Cost.; esso si pone non in quanto l’art. 650 c.p. non sia esso stesso redatto secondo tassatività, ma perché il precetto penale può esserne sfornito quando il provvedimento legalmente dato dall’autorità è a contenuto non tassativo esso stesso. Mentre sulla prima questione si è pronunciata la Corte costituzionale con sentenza 8/7/1971 n. 168, sulla seconda devono essere fatte in questa sede due considerazioni. La prima: il giudice penale può e deve sindacare la legittimità formale e sostanziale del provvedimento adottato dall’autorità amministrativa, sottoponendo al proprio scrutinio tutti i profili ordinalmente previsti, ivi compreso l’eccesso di potere. Il giudice penale, infatti, deve necessariamente assicurarsi della legittimità del provvedimento sindacale, dovendo altrimenti disapplicarlo come previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 5 della Legge 20/3/1865 n. 2248 all. E di abolizione del contenzioso amministrativo. La seconda: il principio di tassatività previsto dall’art. 25, comma 2 Cost. è sicuramente vulnerato ogni qualvolta il contenuto dell’ordinanza emessa dal Sindaco per ragioni di incolumità pubblica o sicurezza urbana è indeterminato perché fa riferimento a termini dal significato emotivo, plurivoco, areferenziale o comunque privo di univoca determinazione.
Un’ulteriore questione è costituita dalla relazione di mutua esclusione che si configura fra sanzionamento penale per violazione dell’art. 650 c.p. e assoggettamento a sanzione amministrativa ex art. 16, comma 2 della Legge 24/11/1981 n. 689 nel testo modificato dall’art. 6 bis del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125. La tematica è di particolare significatività perché con la norma appena richiamata è stata attribuita alle giunte comunali e provinciali la possibilità di intervenire sull’assetto sanzionatorio previsto in tema di commissione di illeciti amministrativi. La norma in questione, infatti, prevede che “per le violazioni ai regolamenti ed alle ordinanze comunali e provinciali, la Giunta comunale o provinciale, all’interno del limite edittale minimo e massimo della sanzione prevista, può stabilire un diverso importo del pagamento in misura ridotta in deroga alle disposizioni del primo comma”, per il quale “è ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole, al doppio del minimo della sanzione edittale, oltre alle spese di procedimento […]”.
Con la modifica dell’art. 16, comma 2 della Legge 24/11/1981 n. 689 è stato risolto il problema sorto a séguito dell’inserimento nel D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 dell’art. 7 bis, comma 1 ad opera dell’art. 16 della Legge 16/1/2003 n. 3, cui è stato successivamente aggiunto il comma 2 ad opera dell’art. 1 quater del D.L. 31/3/2003 n. 50 convertito nella Legge 20/5/2003 n. 116. La relativa normativa prevede che “1. Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro. 1-bis. La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal Sindaco e dal Presidente della provincia sulla base di disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari. […]”.
La composizione fra i due assetti sanzionatorî può essere risolta osservando che l’art. 650 c.p. ha carattere e natura residuali e che, pertanto, trova applicazione se ed in quanto per la violazione dell’ordine legalmente dato dall’autorità l’ordinamento non prevede una differente disciplina sanzionatoria. Ciò accade proprio per la violazione delle ordinanze normali, ossia per quelle ordinanze che sono adottate dal Sindaco “sulla base di disposizioni di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari”. Da ciò si può agevolmente concludere che l’art. 650 c.p. trova applicazione solo per sanzionare la violazione delle ordinanze contingibili ed urgenti emesse dal Sindaco nelle materie che qui interessano, in quanto esse sono sfornite di contenuto tipico.
La seconda delle due questioni riguarda la rilevanza dell’errore sulla conoscenza dell’ordinanza. La questione ha carattere dirimente perché per la configurabilità del reato contravvenzionale di cui all’art. 650 c.p. occorre la consapevolezza dell’avvenuta adozione di un’ordinanza legalmente data da parte del Sindaco in una delle materie indicate dall’art. 54, comma 4 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 nel testo modificato dall’art. 6 del D.L. 23/5/2008 n. 92 convertito nella Legge 24/7/2008 n. 125.
In questo caso, la compiuta rappresentazione del contenuto dell’ordinanza sindacale è elemento della fattispecie nello stesso modo in cui lo è la violazione del cosiddetto “comportamento osservante”. Ciò significa che l’errore sul contenuto della fonte extrapenale di completamento della norma penale in bianco non áltera la rappresentazione della condotta commessa dal contravventore. In altri termini, egli serba proprio la condotta prevista dall’ordinanza sindacale, errando solo sulla sua qualificazione giuridica. Proprio per questi motivi, l’errore sull’elemento di completamento della norma penale in bianco si traduce in un errore non sul fatto, ma in un vero e proprio errore sul divieto, risolvendosi nella dimostrazione dell’elemento psicologico nel reo e quindi del suo grado di dolo o dell’intensità della sua colpa.
La relativa problematica non può allora che trovare la propria soluzione nella correlata questione della rilevanza dell’errore sulla legge penale presa in considerazione dall’art. 5 c.p. A questo proposito deve essere osservato che sulla vicenda è intervenuta la Corte costituzionale con sentenza 24/3/1988 n. 364 in materia di errore scusabile sulla legge penale. La pronuncia è destinata ad esplicare scarsi effetti perché la fattispecie cui essa è riferita è norma contravvenzionale, per la cui riferibilità al contravventore è sufficiente la mera colpa e non già sempre il dolo, secondo quanto previsto dall’art. 42, comma 4 c.p.
Proprio per questi motivi, il reato previsto dall’art. 650 c.p. può essere escluso solo in presenza di un errore sul precetto che sia del tutto scusabile perché dovuto né a imprudenza, né a imperizia, né ad alcun altro indizio che possa far residuare imputabilità a titolo di colpa nel contravventore. L’orientamento appena tratteggiato è pressoché unanimemente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità. In questo senso, ex pluribus, opínano le sentenze Corte cass. I, 13/2/2004 n. 8040 e Corte cass. III, 7/4/2008 n. 14326 secondo le quali sono sempre da considerare cause di esclusione dell’imputabilità per colpa gli errori sulle norme integratrici del precetto penale e quelli in cui può trovare applicazione l’art. 5 c.p. nell’interpretazione fornita dalla sentenza della Corte costituzionale 24/3/1988 n. 364.
9. Notazioni conclusive.
Dell’intervento legislativo occorso in materia di sicurezza si avvertiva la necessità. È evidente che il cittadino e l’individuo onesto devono poter fare affidamento su risposte adeguate e tempestive da parte dell’autorità pubblica in presenza di comportamenti devianti ritenuti particolarmente odiosi e vessatorî di soggetti che sovente vivono ai margini della legalità. Altrettanto vero è che gli interventi sindacali mediate l’attivazione dei poteri di ordinanza devono essere guardati ed esercitati con estrema cautela. Anche perché la loro violazione esige sempre l’effettiva attuazione delle azioni di contrasto e l’effettivo assoggettamento a sanzione dei trasgressori. In assenza di che, esse sono destinate a rimanere meri flatus vocis, ad indebolire il prestigio delle istituzioni che le adottano, a rendere percepibile un decremento del tasso di legalità nella comunità locale e nazionale e ad apprezzare il correlativo mantenimento di un tasso di impunità, oggi inaccettabile.
A questo proposito si impongono non meno di tre annotazioni conclusive.
La prima: le amministrazioni comunali devono ampliare i contenuti dei regolamenti di polizia urbana, adattandoli alle mutevoli esigenze del vivere quieto ed ordinato del consorzio sociale. In altri termini, le condotte che concretizzano la violazione della sicurezza urbana devono essere quanto piú possibile indicate nei regolamenti consiliari dei quali le ordinanze sindacali cosiddette “normali” possono divenire atti di mera attuazione e localizzazione in ragione di speciali presupposti di volta in volta concretizzati ed argomentati.
La seconda: i contenuti delle ordinanze in materia di sicurezza devono essere quanto piú tassativi possibili. Questa esigenza si apprezza in modo particolare quando esse hanno contenuto di provvedimenti contingibili ed urgenti. In questo caso, infatti, la violazione del loro contenuto costituisce reato ex art. 650 c.p. In tutti gli altri casi, che i divieti comunque ordinamentalmente previsti siano caratterizzati dalla puntualità del contenuto delle norme che li sanzionano risponde ad un’elementare esigenza di civiltà giuridica.
La terza: le reazioni sindacali devono essere realmente proporzionate alle esigenze sottese alla norma attributiva dei poteri di ordinanza. Ciò che si vuole evitare è l’eccessiva proliferazione dei provvedimenti de quibus e la loro utilizzazione come strumenti ordinarî per produrre introito alle casse del Comune ovvero per compiere operazioni di maquillage e di immagine che si commentano da sole. E qui punge vaghezza di alludere a provvedimenti sindacali dotati di contenuti inusitatamente fantasiosi, nei quali i comportamenti vietati sono posti in relazione solo apparente con la necessità di tutelare la sicurezza pubblica.
I commentatori parlano a questo proposito di “sindaci-sceriffi”. A noi piace rammentare che l’ordinamento degli enti locali non conosce tale figura: il che suggerisce morigeratezza e parsimonia nell’adozione di provvedimenti che limitano, comprimono o conformano i diritti di libertà degli individui.