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Articoli e note

n. 9/2003 - copyright

RICCARDO NOBILE (*)

Interpretazione autentica dei c.c.n.l. delle pubbliche amministrazioni e considerazioni sul rapporto di pubblico impiego

 

Occasione di questo lavoro è la sentenza della Corte costituzionale 5 giugno 2003 n. 199, utile perché sviluppa un iter argomentativo  che trascende il proprio specifico oggetto, per permeare di interessanti conclusioni la materia del rapporto di pubblico impiego e la specificità della contrattazione collettiva nazionale che lo interessa.

Essa ha ad oggetto la conformità a Costituzione dell’art. 64 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165, il quale prevede che se in una controversia di pubblico impiego depubblicizzato si fa questione della validità, dell’efficacia o dell’interpretazione di una clausola della contrattazione collettiva nazionale, il giudice a quo deve sospendere il processo con ordinanza, rimettendola all’A.R.A.N.. Essa convoca le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto o dell’accordo per verificare la possibilità di addivenire ad un’interpretazione autentica della clausola  o alla sua modificazione mediante uno specifico accordo che ha la forza erga omnes ex art. 45 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

I motivi di presunta incostituzionalità si concentrano sulla violazione del principio di effettività della giurisdizione, sulla compromissione del principio di uguaglianza e sulla violazione del diritto di azione e di difesa.

La violazione del principio di effettività della giurisdizione sarebbe configurata perché il giudice della controversia non sarebbe pienamente titolare dell’esercizio della propria funzione, ma sarebbe vincolato dagli effetti di un negozio giuridico: l’accordo sull’interpretazione ovvero l’accordo modificativo della clausola della contrattazione collettiva nazionale rivestito della stessa forma della fonte di regolazione controversa.

Il dubbio di incostituzionalità non sussiste, in quanto al giudice non è inibito l’esercizio del proprio ius dicere: in questo caso l’ordinamento consente un autonomo e specifico ed immediato ricorso per Cassazione nei confronti della sentenza emessa, connotandolo quale unico rimedio in relazione al punto controverso che ha dato origine all’attivazione del meccanismo della sospensione del processo.

Il meccanismo delineato dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, di per sé non immediatamente comprensibile se analizzato in relazione al singolo processo, deve essere posto in relazione alla tutela di specifici valori a rilevanza costituzionale per comprenderne l’intima ratio.

Ciò può essere effettuato osservando che un meccanismo simile a quello di cui è caso è previsto, ad esempio nell’art. 234 del Trattato istitutivo dell’U.E., il quale prevede che quando per la soluzione di una controversia in uno degli Stati membri sia in questione l’interpretazione o la validità di un atto comunitario il giudice a quo deve sospendere il processo e deferire la relativa questione alla Corte di giustizia.

Ciò non determina affatto un’abdicazione allo ius dicere del giudice a quo, ma assolve allo scopo precipuo di far si che gli effetti dell’esercizio dell’attività giurisdizionale di ogni Stato membro non determinino un’infrazione comunitaria e, di riflesso, una violazione dell’art. 11 Cost., fondamento costituzionale della preminenza dell’ordinamento comunitario rispetto all’ordinamento interno.

In sintesi, la sospensione del processo e l’attivazione del meccanismo pregiudiziale è funzionale a garantire interessi non del processo che non sono nella disponibilità né delle parti del processo, né del giudice che lo conduce.

In modo del tutto analogo, l’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, deve essere analizzato ponendolo in relazione non al singolo processo, ma allo scopo che emerge dalla sua analisi: la garanzia del principio del buon andamento dell’azione della pubblica amministrazione, valore che trascende la giurisdizione, della quale è sicura articolazione anche la gestione del rapporto di lavoro in un’ottica di sostanziale par condicio.

La violazione del principio di uguaglianza rinverrebbe il proprio fondamento nella disparità di trattamento che l’ordinamento avrebbe previsto per la gestione del rapporto di impiego pubblico depubblicizzato rispetto al rapporto di lavoro dei comparti privati, discriminando le due fattispecie in modo particolarmente evidente soprattutto dopo l’avvenuta devoluzione della giurisdizione al giudice ordinario attuata con il D.Lgs. 31/3/1998 n. 80.

A ben vedere, però, tale contrasto con il valore garantito dall’art. 3 Cost. non sussiste.

Ciò può essere argomentato osservando che il processo di tendenziale omogeneizzazione fra i comparti lavorativi pubblico e privato, ha ad oggetto la sola disciplina sostanziale del rapporto di pubblico impiego depubblicizzato, come evidenziato dall’art. 11, comma 4, lett. a) della legge 15/3/1997 n. 59.

Ciò che il legislatore della legge delega ed il legislatore delegato hanno avuto presente, infatti, si può riassumere osservando che nelle due tipologie di rapporti di lavoro esistono specifiche differenze strutturali, connesse alla sostanziale indisponibilità degli interessi e dei fini che sono  proprî al rapporto alle dipendenze della pubblica amministrazione, la cui azione deve essere funzionalizzata al conseguimento del pubblico interesse.

L’ordinamento per ragioni di eguaglianza sostanziale prevede che l’accesso al pubblico impiego avvenga solo per concorso, che l’eventuale rapporto a tempo determinato non sia convertibile a tempo indeterminato, e che le clausole della contrattazione collettiva nazionale sono sempre inderogabili, non solo in peius, ma anche in melius.

Analoghe considerazioni possono essere fatte in relazione al fondamento dell’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva per il pubblico impiego, che non rinviene il proprio fondamento nell’art. 39 Cost, come accade per il rapporto di impiego privato tout court, ma nell’art. 45, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, il quale impone di osservare gli impegni assunti dalle parti della contrattazione collettiva di comparto.

Ogni singolo rapporto lavorativo, in base a queste considerazioni, deve essere trattato e disciplinato in modo non formalmente, ma sostanzialmente identico, in assenza di che si verificherebbe proprio una violazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 Cost. e quindi un vulnus al principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

Le considerazioni sviluppate consentono di concludere che è impossibile ritenere a priori irrazionale ed incongrua la disciplina del processo delineata dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

La violazione del diritto di azione in giudizio e di difesa rinverrebbe il proprio fondamento nell’asserita impossibilità di far valere istanze di tutela cautelare da parte del lavoratore in presenza dell’attivazione della procedura di sospensione del processo e di rimessione all’A.R.A.N. della questione controversa.

Parimenti il meccanismo delineato dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 costituirebbe un vulnus diretto ed immediato per il lavoratore è del tutto escluso dal tavolo delle trattative fra A.R.A.N.  ed organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, e quindi anche dal tavolo della risoluzione della controversia afferente alla validità, efficacia o interpretazione delle clausole della contrattazione collettiva nazionale.

Entrambe le questioni sono superabili osservando che l’A.R.A.N. è il soggetto pubblico che ha in modo esclusivo la rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni, e che, per contro, le controparti della contrattazione collettiva nazionale sono solo le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative secondo gli índici previsti dall’art. 43, commi 1 e 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e non mai i lavoratori.

Da ciò discende de plano che il lavoratore non può essere parte della negoziazione sulla validità, efficacia o interpretazione delle clausole della contrattazione collettiva nazionale di comparto e della loro modificazione per l’ovvia ed evidente ragione che ciò gli è direttamente precluso in relazione alla partecipazione alla contrattazione collettiva nazionale tout court.

Quanto poi alle relazione fra sospensione del processo ed istanze cautelari è appena il caso di osservare che il ricorso alla tutela cautelare non è affatto precluso in presenza dell’attivazione del meccanismo di cui all’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, in quanto il fumus boni iuris che ne è elemento costitutivo congiuntamente al periculum in mora non coincide con il diritto accertato, ma con il diritto ed il suo fondamento giuridico sommariamente delibato in via interinale ed anticipata.

Ed a ciò si aggiunga che il ricorso alla tutela cautelare è ammesso anche nella fase del tentativo obbligatorio di conciliazione, che, come noto, è condizione di procedibilità del processo del lavoro ai sensi dell’art. 65 del D.Lgs. n. 30/3/2001 n. 165.

Verificato che il complesso meccanismo delineato dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 non è in contrasto con la Costituzione, resta da evidenziare quali siano le ragioni profonde del suo fondamento costituzionale.

Per analizzare la questione deve essere rimarcato che l’azione della pubblica amministrazione, e quindi anche la gestione dei relativi rapporti di lavoro, soggiace al principio del buon andamento sancito e posto dall’art. 97 Cost., espressione dei piú generali principî di uguaglianza formale e sostanziale previsto dall’art. 3 della legge fondamentale e di ragionevolezza e razionalità delle scelte legislative.

A ciò si deve aggiungere che l’art. 11, comma 4, lett. g) della legge 15/3/1997 n. 59 ha introdotto la necessità di prevedere misure idonee a evitare disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso, peraltro devoluto interamente alla giurisdizione del giudice ordinario.

Orbene, il complesso meccanismo delineato dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 ha inteso proprio dare corpo ai principî de quibus, contenendo la polverizzazione delle decisioni in materia di pubblico impiego depubblicizzato e preservando l’esigenza di uniformità di applicazione della contrattazione collettiva nazionale di comparto tramite meccanismi preventivi che conducono a chiarificazioni aventi efficacia erga omnes.

La composizione consensuale fra le organizzazioni sindacali di cui all’art. 43 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e l’A.R.A.N., pertanto, è il modo ragionevole a tutela del pubblico interesse mediante il quale viene garantito che la risoluzione di una controversia in cui è dedotta pregiudizialmente una questione che riguarda l’interpretazione, la validità o l’efficacia di una clausola della contrattazione collettiva nazionale possa estendersi alla generalità dei rapporti lavorativi con forza erga omnes.

E ciò è particolarmente vero solo che si osservi che l’affermazione dei valori de quibus avviene mediante l’utilizzazione di un congegno giuridico razionale e consistente, che, per contro, non comporta alcun apprezzabile sacrificio degli altri valori a rilevanza costituzionali coinvolti nella vicenda.

La sospensione del processo prevista dall’art. 64 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, pertanto, non è prevista a favore né del processo, né del dipendente, né della pubblica amministrazione, ma ad esclusivo vantaggio del diritto oggettivo, rispetto al quale ne deve essere apprezzata la relativa utilità finale.


 

(*) Segretario generale e Direttore generale del Comune di Muggiò – MI.


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