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Articoli e note

n. 5/2007 - © copyright

RICCARDO NOBILE*

Il regime delle incompatibilità nel rapporto
di lavoro alle dipendenze degli enti locali

horizontal rule

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. L’indicazione della normativa vigente. 3. La rilevanza costituzionale della materia dell’incompatibilità nel pubblico impiego e le differenze con l’impiego privato 4. La riserva di Legge e l’estraneità alla materia contrattuale 5. La disciplina legislativa applicabile agli enti locali 6. Le varie ipotesi di incompatibilità e la loro rilevanza in termini assoluti e relativi 7. Il part time e l’attenuazione del dovere di esclusività 8. Il conferimento di incarichi da parte della pubblica amministrazione 9. L’autorizzazione all’esercizio di attività concomitanti 10. Le conseguenze del mancato rispetto del regime autorizzatorio 11. La rilevanza disciplinare della normativa sulle incompatibilità 12. Conclusioni.

1.   Introduzione

La disciplina delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi per i dipendenti degli enti locali territoriali è materia complessa, che interessa non meno di tre questioni distinte.

In primo luogo, l’impianto costituzionale vigente ed i riflessi sulle fonti di regolazione cui è demandata la disciplina della materia in esame.

In secondo luogo, la previsione di un regime di cumulabilità differenziato dal punto di vista oggettivo e soggettivo, affiancando ipotesi di incompatibilità assoluta a fattispecie caratterizzate da incompatibilità relativa, e quindi superabile previo compimento di uno specifico procedimento autorizzatorio.

In terzo luogo, un ben delineato regime sanzionatorio, che presenta punti di contatto con l’esercizio del potere disciplinare e con l’irrogazione delle relative sanzioni.

Il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi ed incarichi, inoltre, rileva nella gestione dei rapporti di lavoro in modo non semplice, ma duplice.

In primo luogo, tocca da vicino – e questo è l’aspetto piú direttamente percepibile – il dipendente pubblico che intenda svolgere un’attività concomitante in pendenza dello svolgimento del proprio rapporto di lavoro subordinato.

In secondo luogo, ha diretta connessione con la qualificazione giuridica degli atti che legittimano il dipendente allo svolgimento di incarichi ed impieghi ulteriori.

Nei successivi paragrafi saranno analizzate tutte le problematiche succintamente tratteggiate. Specifica attenzione sarà riservata alle conseguenze disciplinari che derivano dal mancato rispetto della normativa di riferimento.

A tutto ciò sarà anteposto un paragrafo riservato alla rilevanza costituzionale della materia ed alle sue differenze con  il comparto privato nonché agli spazî riservati alla normazione dell’istituto.

2. Indicazione della normativa vigente

Le fattispecie dell’incompatibilità, del cumulo di impieghi e degli incarichi negli enti locali territoriali sono normate in modo composito ed articolato. La disciplina che le riguarda, infatti, è distribuita fra fonti primarie, fonti secondarie e contrattazione collettiva nazionale di comparto, sia pure in modo residuale.

In primo luogo, le fonti primarie. All’evidenziazione delle fonti-atto che regolamentano le fattispecie in esame deve essere premessa una notazione preliminare.

Le fattispecie in esame attraversano i confini del rapporto di pubblico impiego depubblicizzzato, perché sono comuni sia ad esso, sia a quello estraneo agli effetti della privatizzazione.

La materia in esame, infatti, è stata specificatamente sottratta alla regolamentazione pattizia dalla legge di delegazione 23/10/1992 n. 421, il cui art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 ha sottoposto al riserva di legge proprio la disciplina “delle incompatibilità, tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi ed incarichi pubblici”.

La ragione che ha indotto il legislatore a mantenere questa fattispecie al di fuori della contrattazione collettiva nazionale di comparto risiede nella necessità di preservare i principî di buon andamento della pubblica amministrazione e di esclusività della prestazione del pubblico dipendente, entrambi costituzionalmente previsti, rispettivamente, degli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost., e quindi di attuarli in modo omogeneo per tutti i comparti, del pubblico impiego interessati o meno alla depubblicizzazione.

La disciplina dell’incompatibilità non era estranea all’ordinamento del pubblico impiego nella vigenza del D.P.R.  10/1/1957 n. 3, il cui art. 63 prevedeva - e per i settori estranei alla depubblicizzazione prevede ancóra - un regime sanzionatorio particolarmente intenso, che può sfociare nella pronuncia di  decadenza dall’impiego previa diffida alla cessazione della situazione contra ius.

Attualmente la fattispecie è regolamentata per gli enti locali territoriali dall’art. 1, commi da 56 a 65 della Legge 23/12/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Di non secondaria importanza è anche il suo successivo art. 55, che contiene disposizioni in materia di responsabilità disciplinare, in relazione alle conseguenze che derivano dalla violazione delle norme sull’incompatibilità e sul cumulo di incarichi ed impieghi. Come sarà mostrato nel § 11, infatti, una tale evenienza configura, salva l’applicazione di piú gravi sanzioni, il presupposto per l’attivazione dei procedimenti disciplinari, che possono avere ad esito l’adozione di misure espulsive del dipendente.

In secondo luogo, le fonti secondarie.

La normativa primaria che interessa le fattispecie in esame è stata fatta oggetto di molteplici precisazioni dalla Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica, con le circolari esplicative 12/2/1997 n. 3, 18/7/1997 n. 6 e 18/1/2003 n. 182, tutte tese alla definizione del rapporto di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente, all’evidenziazione delle modalità della verifica del conflitto di interessi ed alla sua connotazione in astratto piuttosto che in concreto.

In terzo luogo, la contrattazione collettiva nazionale del comparto contrattuale al quale appartengono gli enti locali.

Sebbene la materia delle incompatibilità e del cumulo di impieghi e degli incarichi sia assoggettata ad una riserva di regolazione tramite atti aventi forza di legge, la contrattazione collettiva nazionale di comparto è tuttaltro che ininfluente. Ciò può essere mostrato osservando che la violazione del dovere di esclusività può essere agevolmente ricondotta alle fattispecie di cui ai commi 7, lett. i) o 8, lett. f) dell’art. 25 del c.c.n.l. 6/7/1995, cosi come modificati dal c.c.n.l. 22/1/2004.

La contrattazione collettiva nazionale di comparto, inoltre, rileva in subiecta materia in relazione all’art. 2, comma 2 del codice di comportamento allegato al c.c.n.l. 22/1/2004, secondo il quale “il dipendente mantiene una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche solo apparenti, di conflitto di interessi. Egli non svolge alcuna attività che contrasti con il corretto adempimento dei compiti d'ufficio e si impegna ad evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o all'immagine della pubblica amministrazione”.

3.  La rilevanza costituzionale della materia dell’incompatibilità nel pubblico impiego e le differenze con l’impiego privato

La disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego è una diretta derivazione del dovere di esclusività che connota la prestazione lavorativa del pubblico dipendente.

Essa è, a sua volta, una diretta conseguenza di una piú ampia premessa, che pone l’ente pubblico, organizzatore dei fattori aziendali necessarî per la realizzazione del programma di governo, nella sostanziale indisponibilità dei fini della propria azione, perché funzionalmente connessi al perseguimento del pubblico interesse.

Detto in altri termini, il dovere di esclusività della prestazione lavorativa del pubblico dipendente risponde a specifiche esigenze connesse all’imparzialità ed al buon andamento dell’azione amministrativa, e, come tale, non è disponibile per alcuna delle parti del rapporto di pubblico impiego, depubblicizzato o sottratto alla contrattualizzazione che sia.

Non al datore di lavoro pubblico, perché deve garantire che, all’esito dell’organizzazione dei fattori di produzione e della loro gestione, tutta l’attività degli ufficî sia espletata non solo nel rispetto dei canoni aziendali dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità, ma anche condotta in modo da evitare il concretizzarsi di conflitti di interesse, la cui possibilità è sensibilmente aumentata in presenza di una pluralità di attività svolte.

Non al pubblico dipendente, in quanto esso deve riserbare tutte le proprie energie lavorative ad esclusivo vantaggio dell’ente da cui dipende, non dissipandole con l’esercizio di attività concomitanti che lo distolgano dal dovere di collaborazione che egli deve al proprio datore di lavoro. Il dovere di esclusività, infatti, comporta l’obbligo per il pubblico dipendente di dedicare interamente all’ufficio la propria attività lavorativa, con la conseguenza che deve astenersi dalla prestazione di attività industriali, commerciali o professionali, dal ricoprire l’ufficio di amministratore di società a scopo di lucro nonché dalla concomitante copertura di un impiego pubblico o privato, sia pure con qualche eccezione ed attenuazione,

La sintesi fra i due principî costituzionali fonda non meno di tre corollarî.

In primo luogo, il divieto di svolgimento di attività in conflitto di interessi, in base al quale al pubblico dipendente è preclusa la possibilità di svolgere attività concomitanti ulteriori rispetto al proprio rapporto di impiego che collidano anche in modo solo potenziale con il contenuto concreto delle sue prestazioni lavorative. Esse sono determinate in base alla categoria di inquadramento, al profilo professionale posseduto,  al contenuto del contratto individuale di lavoro, ed a tutto ciò che concorre alla determinazione dell’oggetto del rapporto di impiego nei limiti della sua esigibilità.

In secondo luogo, porta a concludere che il pubblico dipendente non può trarre utilità dirette o indirette dalla propria qualità e status, con la conseguenza che gli è precluso spendersi nella vita sociale come tale al fine di garantirsi opportunità che altrimenti gli sarebbero precluse. È evidente che un tale modo di atteggiasi arreca disonore alla pubblica amministrazione di appartenenza, ledendone il prestigio e danneggiandone l’immagine.

In terzo luogo, impone che lo svolgimento di attività concomitanti sia assoggettata ad una specifica autorizzazione, esplicazione di poteri pubblicistici, proprio perché nel relativo apprezzamento sono coinvolti valori a rilevanza costituzionale, che la pubblica amministrazione deve preservare mantenendo una posizione di primazia che le deriva dalla sua funzione e dall’assoggettamento della relativa azione al principio di legalità.

Quanto appena evidenziato consente di concludere che il regime delle incompatibilità fra prestazione lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione ed attività concomitanti è espressione di un principio a rilevanza costituzionale che lo rende sostanzialmente indisponibile per entrambi gli attori del relativo rapporto di lavoro.

Da ciò si desume che il principio di esclusività  costituzionalmente garantito dall’art. 98, comma 1 Cost., vincola il pubblico dipendente a riservare al disbrigo dell’attività di ufficio tutta la propria energia lavorativa, essenzialmente per garantire il migliore standard professionale possibile,  per evitare l’insorgenza di conflitti di interesse fra pubblica amministrazione e terzi, e per tutelare il prestigio e l’imparzialità di quest’ultima.

Proprio per queste ragioni, la disciplina delle incompatibilità è oggi interamente demandata alla regolamentazione ex lege, sia per l’impiego oggetto di depubblicizzazione e contratualizzazione, sia per quello che non vi è interessato.

Per il primo, la disciplina delle incompatibilità è sottratta alla contrattualizzazione ed è interamente ascritta e riservata alla fonte legale in senso formale o sostanziale. Ciò trova puntuale conferma nel testo dell’art. 2, comma 1, lett. c), n. 7 della Legge 23/10/1992 n. 421, secondo il quale “sono regolate con legge, ovvero, sulla base della Legge o nell'ambito dei princìpi dalla stessa posti, con atti normativi o amministrativi, (…) la disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici” .

Per il secondo continua a trovare applicazione la sola disciplina prevista dagli artt. 60, 61, 62, 63, 64 e 65 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3.

Come tutte le situazioni ordinamentalmente previste e sussumibili sotto principî generali a rilevanza costituzionale, anche la disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego deve essere correttamente contemperata alla luce del principio, anch’esso di rilevanza costituzionale, espresso dall’art. 3 Cost.: il principio di ragionevolezza, che, introducendo in subiecta materia la possibilità di contemperare opposti interessi tutti meritevoli di tutela, consente di individuare le ipotesi in cui lo svolgimento di attività concomitanti da parte del pubblici dipendente è lecita perché sostanzialmente inidonea ad arrecare pregiudizio agli interessi tutelati dalle norme di divieto.

Quanto appena evidenziato consente di cogliere le differenze che sussistono nella disciplina del regime delle incompatibilità vigente per il rapporto di lavoro alle dipendenze del privato imprenditore.

Nel rapporto di lavoro iure privatorum il divieto di svolgimento di attività concomitanti è sussunto non nello specifico dovere di esclusività, ma in quello di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c.. Essa, infatti, precisa che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di impresa, o farne uso in modo da potere arrecare ad essa pregiudizio”.

In queste circostanze, il divieto di svolgimento di attività concomitanti non è affatto assoluto, ma relativo, e da porre in stretta relazione con il rapporto fiduciario che è alla base del contratto di lavoro subordinato nell’accezione indicata dal combinato disposto degli artt. 2086, 2094 e 2114 c.c..

Proprio per questi motivi, al comparto privato è estraneo il divieto generalizzato di svolgere una pluralità di attività lavorative o para-lavorative concomitanti con il rapporto di lavoro subordinato principale, le quali sono e/o divengono illecite solo quando in concreto conflitto di interessi con quest’ultima.

Le condizioni dell’illecito, pertanto, nulla hanno a che fare con la preservazione del prestigio del datore di lavoro, ma si esauriscono nel divieto, sanzionato fino ai limiti della risoluzione unilaterale del rapporto lavorativo per fatto imputabile al lavoratore, di menomare quel nesso fiduciario che deve sussistere fra datore di lavoro e lavoratore, e del quale il divieto di attività concorrenziale ed i comportamenti genericamente infedeli sono sintomo, purché accertati in concreto ed ex post.

4. La riserva di legge e l’estraneità alla materia contrattuale

Nel precedente paragrafo è stato evidenziato che la materia delle incompatibilità nel pubblico impiego è strettamente connessa alla disciplina costituzionale del relativo rapporto in termini di buon andamento ed imparzialità, ad un lato, e di esclusività del servizio alla nazione.

Proprio per questi motivi, la disciplina delle incompatibilità nel pubblico impiego è assoggettata ad una specifica riserva di regolamentazione mediante fonte legale, ed è quindi sottratta, per il pubblico impiego depubblicizzato, alla contrattualizzazione.

Una tale evenienza è corroborata per tabulas dell’art. 2, comma 1, lett. c), num. 7 della Legge 23/12/1992 n. 421 e nel successivo art. 11, comma 4 della Legge 15/3/1997 n. 59, sulla base dei quali è stata data attuazione, rispettivamente, alla prima ed alla seconda privatizzazione del rapporto di pubblico.

La ragione della previsione di una riserva di legge, sia pure fondata in via immediata su uno specifico atto normativo avente forza di legge, deve essere ricercata nell’indisponibilità dei valori costituzionali prima evidenziati.

Essi fondano la specificità dell’interesse della pubblica amministrazione ad assicurarsi integralmente le energie lavorative dei propri dipendenti, l’esigenza di evitare possibili conflitti fra gli interessi della pubblica amministrazione e quelli di altri soggetti, pubblici o privati, per i quali il dipendente dovesse prestare la propria opera, nell’esigenza di inibire la formazione di centri di interesse alternativi rispetto all’ufficio pubblico a cui appartiene il dipendente, nonché le ragioni di indipendenza e prestigio della pubblica amministrazione  e, di riflesso, del pubblico dipendente.

A proposito della permanenza della riserva di legge, deve essere in questa sede evidenziato che sull’art. 2, comma 1, lett. c) n. 7 della Legge 23/12/1992 n. 421 si è innestato il successivo art. 11, comma 4 della Legge 15/3/1997 n. 59, ponendo lo specifico problema della sua possibile abrogazione.

La disposizione della legge delega che fonda la cosiddetta “seconda privatizzazione” non ha determinato alcuna menomazione dell’originaria riserva prevista dal citato art. 2, comma 1, lett. c) n. 7 della Legge 23/12/1992 n. 421. La prima, a ben vedere, si è limitata a confermarne i contenuti, prevedendo solo nuovi criterî direttivi di delega in modo da attuare il “principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni”, senza toccare testualmente il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi.

Ciò consente di concludere che la normativa sopravvenuta non ha determinato effetti abrogativi sulla prima, determinando solamente uno specifico problema di coordinamento fra di esse. La normativa delegata adottata in sua attuazione, infatti, non esplica alcun effetto innovativo sul regime delle incompatibilità, con la conseguenza che alle “misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro […] assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” sono estranei gli atti con i quali il datore di lavoro interviene per rilasciare o negare l’autorizzazione al loro svolgimento.

La conclusione è ulteriormente convalidata dalla constatazione che le norme delle due leggi delega ora in esame hanno oggetti differenti, talché fra di esse non può essere configurato alcun nesso di interferenza caducatoria per carenza del relativo presupposto.

Da ciò deriva che l’assenso o la negazione all’esercizio di attività concomitanti al rapporto di pubblico impiego ha natura giuridica provvedimentale a contenuto autorizzatorio, e non già privatistico.

Dalla permanenza della riserva di legge e dalla natura provvedimentale della relativa attività autorizzatoria discende che essa ha ad oggetto un atto amministrativo a contenuto permissivo attraverso il quale viene rimosso un limite all’esercizio di un’attività, sempre che non si versi in una situazione di esclusione assoluta secondo quanto desunto dall’art. 60, comma 1 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3.

La rilevanza pubblicistica della normativa in materia di incompatibilità e cumulo di impieghi ed incarichi, e quindi il suo stretto ancoraggio ai principî costituzionali del buon andamento dell’azione amministrativa e dell’esclusività sono confluiti nel testo dell’art. 53, comma 5 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. La norma, infatti, prevede la necessaria determinazione di “criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione” a supporto del conferimento di incarichi operato direttamente dall'amministrazione, e dell'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da una pubblica amministrazione diversa da quella di appartenenza, ovvero da soggetti privati.

5. La disciplina legislativa applicabile agli enti locali

Il regime delle incompatibilità per il personale degli enti locali, nella vigenza dei testi unici, e quindi prima della Legge 8/6/1990 n. 142, era delineato dall’art. 241 del R.D. 3/3/1934 n. 383.

Tale norma prevedeva un regime di incompatibilità pressoché assoluto, escludendo che i dipendenti dei comuni e delle province potessero svolgere attività concomitanti con i loro rapporto di pubblico impiego. Essa, infatti, prescriveva che “salvo che la legge disponga altrimenti, l’ufficio di […] impiegato e salariato dei comuni, delle province e dei consorzi è incompatibile con ogni altro ufficio retribuito a carico dello Stato o di altro ente” fermo restando che “qualora ricorrano speciali motivi […] il Prefetto [… può …] sentita l’amministrazione interessata, può autorizzare […] gli impiegati e i salariati dei comuni, delle province e dei consorzi a prestare opera retribuita presso istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza o di altri enti pubblici locali”.

Tale disciplina era completata dal comma 6 della disposizione de qua, la quale prevedeva che “ […] gli impiegati e i salariati devono astenersi inoltre da ogni occupazione o attività che, a giudizio del Prefetto […] non sia ritenuta conciliabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio o col decoro dell’amministrazione stessa”.

La conseguenza di questo regime dai contenuti particolarmente intensi era che, qualora l’amministrazione avesse accertato che il proprio dipendente avesse svolto un’attività non conciliabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio o col proprio decoro, aveva il dovere di dichiararne ex abrupto la decadenza dall’impiego per incompatibilità iuris et de iure, non essendo tenuta a, né avendo il potere di, compiere indagini di specie sulla conciliabilità in concreto delle attività concomitanti svolte con gli specifici doveri impiegatizî. In particolare, non era affatto richiesto verificare se l’attività concomitante fosse tale da comportare l’inadempienza dei doveri di ufficio, tale evenienza essendo direttamente presunta dalla legge.

L’art. 241 del R.D. 3/8/1934 n. 383 è stato abrogato dall’art. 64 della Legge 8/6/1990 n. 142, il cui art. 51, comma 9 ha rinviato al D.P.R. 10/1/1957 n. 3 ai fini della regolamentazione degli istituti della responsabilità in generale ed a quella disciplinare in particolare.

In questo modo è stato possibile applicare ai dipendenti dei comuni e delle province gli artt. 60 e seguenti del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, con conseguente mitigazione del previgente regime pressoché assoluto delle incompatibilità prima in vigore.

L’evoluzione della normativa in subiecta materia è stata completata con l’abrogazione dell’art. 51 della Legge 8/6/1990 n. 142 ad opera dall’art. 74, comma 1 del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29, con la conseguenza che attualmente il regime delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi per i dipendenti dei comuni e delle province è disciplinato, al pari di tutti i dipendenti il cui rapporto di lavoro è stato depubblicizzato, dall’art. 1, commi 56 e seguenti dalla Legge 23/10/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

6. Le varie ipotesi di incompatibilità e la loro rilevanza in termini assoluti e relativi

La normativa in materia di incompatibilità e cumulo di incarichi ed impieghi enuclea una varietà di situazioni possibili. Esse sono sostanzialmente suddivisibili in ragione dell’intensità del vincolo che esprimono dal punto di vista sia oggettivo, sia soggettivo.

In questo senso la disciplina delle incompatibilità e del cumulo di impieghi ed incarichi prevede sia divieti a contenuto assoluto, sia divieti a contenuto relativo.

Ciò consente di evidenziare che alle prime si affiancano incompatibilità relative, che possono essere rimosse mediante autorizzazione all’esercizio dell’attività concomitante previa verifica della presenza o meno di situazioni di conflitto di interessi.

È questa la questione dell’apprezzamento in concreto piuttosto che in astratto del conflitto di interessi, che pone non pochi problemi di coordinamento all’interno della normativa vigente.

Il principio generale in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi ed impieghi è espresso in termini “quasi assoluti” dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3,  secondo il quale “l'impiegato non può esercitare il commercio, l'industria ne alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro”.

La norma è richiamata dall’art. 53, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, la quale prevede che “resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilita' dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3”, nonché dall’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662, il quale richiama, l’art. 58, comma 1 del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 sia pure ex negativo.

Il regime di incompatibilità appena delineato tiene conto del  nesso di funzionalizzazione che sussiste fra le energie lavorative del dipendente e la loro adibizione all’attività di ufficio e conduce a rafforzare l’orientamento interpretativo che individua nell’intensità dell’attività collateralmente svolta uno specifico índice rivelatore dell’incompatibilità. A prescindere dalla connotazione delle attività indicate come incompatibili dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, l’incompatibilità sussiste quando l’attività collaterale è caratterizzata da elementi qualificanti di natura quantitativa quali la sua protrazione nel tempo, il suo grado di complessità, la non episodicità, la sua stabilità, la sua ripetitività e la professionalità richiesta per il suo svolgimento.

Da ciò si desume che non sussiste incompatibilità in termini assoluti quando l’attività concomitante è sporadica o connotata dall’occasionalità.

Ai fini dell’esclusione dell’incompatibilità, per contro, non è sufficiente che il dipendente abbia correttamente assolto ai proprî doveri di ufficio, in quanto il regime de quo mira, da un lato, a preservare le energie lavorative del dipendente nei termini appena visti, e, dall’altro, ad assicurare un utile quanto indisponibile baluardo nei confronti di specifici valori costituzionali a garanzia del prestigio della pubblica amministrazione e della correttezza del suo operato.

L’incompatibilità all’esercizio di attività collaterali, in sintesi, interessa non meno di quattro situazioni.

In primo luogo, la titolarità di un altro impiego, ossia di un secondo rapporto di lavoro subordinato, sia esso pubblico, piuttosto che privato.

Nel caso in cui la seconda attività lavorativa sostanzi un rapporto di pubblico impiego, la situazione in cui il dipendente viene a trovarsi è talmente grave da comportare la decadenza dall’impiego. Secondo l’art. 65 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, infatti, “gli impieghi pubblici non sono cumulabili, salvo le eccezioni stabilite da leggi speciali. I capi di ufficio […] sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire [..] i casi di cumulo di impieghi riguardante il dipendente personale. L'assunzione di altro impiego nei casi in cui la legge non consente il cumulo importa di diritto la cessazione dall'impiego precedente, salva la concessione del trattamento di quiescenza eventualmente spettante […]”.

L’incompatibilità sussiste solo quando il secondo impiego abbia i caratteri della stabilità e della continuità, talché essa non è configurabile quando il rapporto lavorativo subordinato non si protrae nel tempo ed è comunque episodico, ovvero quando esso, indipendentemente dalla sua forma, coinvolge tempi ristretti.

Il riferimento testuale al lavoro subordinato esclude che sussista incompatibilità assoluta nello svolgimento di rapporti di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 2222 c.c.. Lo svolgimento di prestazioni saltuarie ed occasionali e di collaborazioni coordinate e continuative, pertanto, non è interessato dal presente regime di incompatibilità assoluta, con la conseguenza che esse sono esercitabili qualora autorizzate perché non in conflitto di interessi, sempre che il loro contenuto non sia riconducibile ad attività libero-professionali.

In materia di cumulo di impieghi negli enti locali deve essere segnalato che talvolta è lo stesso legislatore a prevedere specifici ámbiti di fattibilità.

Ciò si è verificato con l’art. 1, comma 557 della Legge 23/12/2004 n. 311, secondo cui “i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale,  le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali, purchè autorizzati dall’amministrazione di provenienza”.

La norma esprime, chiaramente, una deroga al principio dell’unicità del rapporto di lavoro del pubblico dipendente, sancito dall’art. 53, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e degli artt. 60 e seguenti del D.P.R. 10/1/1957 n. 3.  Essa necessita di un raccordo con quanto previsto dall’art. 92, comma 1 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, secondo il quale i dipendenti degli enti locali possono svolgere attività lavorativa a favore di altri enti locali solo se sono titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale.

Tale nuova fattispecie prevede comunque la necessità di una specifica autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza. Ciò significa che quest’ultima può accodarla solo per quelle attività che non arrechino pregiudizio alle proprie attività e che non interferiscano con i relativi cómpiti istituzionali.

In secondo luogo, la titolarità di cariche sociali in società caratterizzate dallo scopo di lucro in astratto.

L’ipotesi de qua si configura quando il pubblico dipendente assuma la legale rappresentanza di società costituite ai sensi dell’art. 2247 c.c., siano esse società commerciali ai sensi dell’art. 2195, piuttosto che agricole ex art. 2135 c.c.. Le cariche sociali che rilevano ai presenti fini sono quelle che si desumono dallo statuto e dall’atto costitutivo della società, e che sono riportate per tabulas sulle visure camerali.

Sussiste, pertanto, incompatibilità quando l’attività concomitante è quella di amministratore di società per azioni, a responsabilità limitata o in accomandita per azioni, talché per le ultime la qualifica di socio accomandatario configura ex se attività contra ius. Parimenti, sussiste incompatibilità con il ruolo di socio accomandatario di società in accomandita semplice e di socio di società in nome collettivo. Per contro, non dà luogo ad incompatibilità la qualifica di socio quando essa non è accompagnata dall’assunzione della legale rappresentanza della società, come accade per il socio accomandante della società in accomandita semplice.

In tutti questi casi, non è consentita l’effettuazione di alcun apprezzamento sull’intensità e la continuatività dell’attività concomitante, poiché il divieto di cumulo è fondato sull’opportunità di evitare le disfunzioni e gli inconvenienti che deriverebbero alla pubblica amministrazione di appartenenza dalla circostanza che il proprio dipendente si dedichi ad attività imprenditoriali, formando centri di interesse alternativi all’ufficio pubblico rivestito, caratterizzati da un’attività continuativa e professionale alla quale potrebbe essere di supporto e vantaggio proprio lo status di pubblico dipendente. In questa situazione, infatti, il pubblico dipendente finirebbe con trarre un vantaggio personale dal proprio ufficio, arrecando disdoro e pregiudizio all’immagine della pubblica amministrazione di appartenenza.

Non incompatibile è l’assunzione di cariche sociali in società che a priori non sono interessate a fini di lucro, ma a finalità di tipo mutualistico. Ciò accade, per esempio, per le società cooperative ai sensi dell’art. 18 della Legge 31/1/1992 n. 59. In questi casi, pertanto, l’assunzione di cariche sociali non è preclusa in sé e per sé, ma diviene lecita a séguito di autorizzazione, che  può essere rilasciata solo quando non sussista interferenza fra lo scopo sociale della cooperativa e il contenuto della prestazione lavorativa del pubblico dipendente.

In terzo luogo, l’esercizio di attività commerciali o industriali.

Il contenuto dell’attività non deve essere inteso in modo testuale, poiché sono rilevanti ai fini de quibus tutte le attività imprenditoriali desumibili per contenuto dal combinato disposto degli artt. 2082, 2083, 2135 e 2195 c.c.. Anche in questo caso, l’incompatibilità assoluta si configura solo in presenza di attività continuative e remunerate.

In quarto luogo, l’esercizio della libera professione o, piú generalmente, di attività libero-professionali.

Sono queste le attività di lavoro autonomo secondo la definizione dell’art. 2222 c.c.,  caratterizzate da un contenuto intellettuale ai sensi del successivo art. 2230, per le quali è prevista l’iscrizione ad albi o l’appartenenza ad ordini professionali.

Lo svolgimento concomitante di queste attività è possibile a partire dal gennaio 1997, ossia dopo che l’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662 ne ha consentito l’esercizio a condizione che il pubblico dipendente sia parte di un rapporto di lavoro con prestazioni che non eccedono la metà del debito orario.

La normativa de qua, pertanto, ha indebolito il tradizionale regime di incompatibilità assoluta, osservato dal punto di vista della pubblica amministrazione, fra pubblico impiego ed esercizio della libera professione, a condizione che il dipendente sia parte di un contratto part-time a contenuto qualificato.

7. Il part time e l’attenuazione del dovere di esclusività

Il part-time rileva ai presenti fini quale istituto idoneo ad indebolire il dovere di esclusività a carico del pubblico dipendente, ogni qualvolta questi intenda svolgere attività per le quali vige una situazione di incompatibilità assoluta.

Il riferimento al part-time è oggi contenuto nell’art. 1, comma 56 della Legge 23/12/1996 n. 662 e nell’art. 53, commi 1 e 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, nonché, in relazione alla contrattazione collettiva nazionale di comparto, nell’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000.

Esso, peraltro, era già disciplinato dall’art. 7, comma 2 della Legge 29/12/1998 n. 554 e dall’art. 6, comma 2 del D.P.C.M. 17/3/1999 n. 117, ma non operante con la medesima pregnanza prevista dalla normativa sopravvenuta.

Scopo della normativa sul part time è la facilitazione e l’incentivazione del passaggio dal contratto a tempo pieno al contratto a tempo parziale, rendendolo piú vantaggioso rispetto al previgente assetto normativo, perché cumulabile con una seconda attività lavorativa, di tipo subordinato, autonomo o libero-professionale.

Analizzato in questi termini, e cosí ricostruitane la ratio, è evidente che il ricorso al part-time ha indebolito il principio di esclusività a carico del pubblico dipendente sancito in termini assoluti dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, quanto meno in relazione all’elemento del raffronto quantitativo fra la prestazione di lavoro dipendente e l’attività concomitante.

Con l’accostamento del rapporto di lavoro a tempo parziale alla possibilità di svolgere un’attività lavorativa o libero-professionale concomitante è, pertanto, caduto definitivamente l’ostacolo a priori fondato sulla considerazione che il cumulo di attività lavorative non consentirebbe al pubblico dipendente di dedicare la parte preponderante delle proprie energie lavorative al disimpegno dei proprî cómpiti di ufficio, con conseguenziale detrimento del buon andamento dell’attività amministrativa.

In questo modo, il divieto generalizzato previsto dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, che preclude al dipendente pubblico di esercitare “il commercio, l'industria ne alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, è espressione di un principio generale dell’ordinamento, ragionevolmente derogato (art. 3 Cost.) quando la prestazione lavorativa non eccede la metà del debito orario normalmente previsto.

La riduzione quantitativa della prestazione nei limiti suddetti è condizione necessaria, ma non sufficiente a rendere lecito l’esercizio di un’attività concomitante altrimenti tassativamente vietata.

L’attività concomitante, infatti, sebbene riconducibile ad uno degli elementi della casistica enumerati dall’art. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, deve avere un contenuto tale da non configurare conflitto di interessi in relazione al suo contenuto.

Detto in altri termini, il dovere di esclusività che incombe sul pubblico dipendente è tendenzialmente assoluto, ma può essere ragionevolmente derogato solo se la prestazione lavorativa è ridotta, sempre che il contenuto dell’attività concomitante non sia incompatibile e quindi non arrechi nocumento al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa ovvero il suo prestigio.

Il complesso coordinamento dei principî costituzionali che derivano dal combinato disposto degli artt. 97, comma 1, 98, comma 1 e 3 Cost. in relazione agli artt. 60 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, 1, comma 56 e seguenti della Legge 23/12/1996 n. 662 e 53, commi 1 e 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 richiede qualche precisazione su modo in cui il conflitto di interessi deve essere investigato.

La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale con prestazione lavorativa non eccedente la metà del debito orario può essere chiesta per lo svolgimento di attività concomitanti, cosí come può accadere che un dipendente che si trovi già in tale situazione intenda svolgere attività concomitante.

In entrambi i casi, sul dipendente incombe l’obbligo di indicare il contenuto di tale attività.

Nel primo caso, l’accertamento della situazione di conflitto di interessi deve indurre a non dare corso alla richiesta trasformazione del rapporto lavorativo. In questo senso, infatti, opina l’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, i cui commi 7  e 9 prevedono, rispettivamente che “i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, qualora la prestazione lavorativa non sia superiore al 50% di quella a tempo pieno, nel rispetto delle vigenti norme sulle incompatibilità, possono svolgere un'altra attività lavorativa e professionale, subordinata o autonoma, anche mediante l'iscrizione ad albi professionali” e che “nel caso di verificata sussistenza di un conflitto di interessi tra l'attività esterna del dipendente - sia subordinata che autonoma – e la specifica attività di servizio, l'ente nega la trasformazione del rapporto a tempo parziale”.

Una situazione analoga si verifica, in modo del tutto simmetrico, anche nel caso in cui il dipendente dell’ente locale operi già a tempo parziale, ed in tale condizione intenda avviare un’attività concomitante. 

Ciò si desume dall’art. 1, comma 58 della Legge 23/12/1996 n. 662, il quale prevede espressamente che “il dipendente è tenuto, inoltre, a comunicare, entro quindici giorni, all'amministrazione nella quale presta servizio, l'eventuale successivo inizio o la variazione dell'attività lavorativa”.

Da tutto ciò segue che sul dipendente incombe l’obbligo giuridico di fornire indicazioni non generiche sulle condizioni di svolgimento delle attività ulteriori che intende realizzare, ponendo l’amministrazione nella concreta e piena condizione di poter effettuare il proprio apprezzamento in ordine alla sussistenza o meno di una situazione di conflitto di interessi, e quindi di autorizzare o negare la possibilità di svolgere tale seconda attività.

Circa le modalità di apprezzamento del conflitto di interessi, esso deve essere analizzato non in concreto, ma in astratto.

Ciò significa che l’ente locale di appartenenza deve limitarsi a comparare il contenuto dell’attività concomitante indicata dal proprio dipendente con le funzioni che ad esso sono proprie in ragione della loro specifica attribuzione. Ne deriva la necessità di compiere un apprezzamento cui è proprio un giudizio ex ante, indipendentemente dal fatto che l’attività concomitante sia poi effettivamente resa in tutta la sua estensione dal dipendente.

Solo in questo modo, infatti, è possibile preservare il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa e quindi evitare che il dipendente tragga vantaggî nell’espletamento di proprie attività esterne e concomitanti in ragione del proprio status.

Da ciò segue che un’attività potenzialmente in grado di confliggere con il contenuto delle prestazioni lavorative del dipendente è sicuramente in conflitto di interessi, talché il suo svolgimento non può essere autorizzato, e, se comunque esercitata, deve essere repressa in via disciplinare fino a giungere al licenziamento per  giusta causa nei casi più gravi.   

8. Il conferimento di incarichi da parte della pubblica amministrazione

Oltre alle attività indicate nel § 6 il dipendente degli enti locali può essere interessato al conferimento di incarichi, sia dalla propria, sia da altra amministrazione.

Tralasciando gli incarichi interni, per i quali vale il regime di conferimento previsto dall’art. 53, commi 2 e 5 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, anche gli incarichi attribuiti da amministrazioni differenti da quelle di appartenenza pongono specifici problemi connessi al regime delle incompatibilità ed alle conseguenziali problematiche autorizzatorie.

Secondo quanto previsto dal successivo comma 5, infatti, “l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza […] sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.

Gli incarichi rilevanti ai presenti fini sono solo quelli retribuiti, anche occasionali, che non sono ricompresi nei cómpiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso.

La normativa considera i soli incarichi remunerati, con ciò significando che il regime delle incompatibilità ed il conseguenziale problema della loro autorizzazione è escluso quando si è in presenza di ipotesi di gratuità.

L’ordinamento, pertanto, risolve il problema dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione sotto il profilo del rischio del distoglimento delle energie lavorative e quindi del presidio del dovere di esclusività operando una scelta di campo, e quindi ritenendo che tale valore possa essere incrinato solo in presenza di incarichi comunque retribuiti.

La scelta del legislatore è completata dalla previsione di un’anagrafe delle prestazioni, che ha ad oggetto le rilevazioni e le comunicazioni dei soli incarichi onerosi nei termini previsti dall’art. 53, commi 11, 12, 13, 14, e 16, cui si aggiunge uno specifico regime sanzionatorio previsto dal comma 15, secondo il quale “le amministrazioni che omettono gli adempimenti di cui ai commi da 11 a 14 non possono conferire nuovi incarichi fino a quando non adempiono”.

La scelta del legislatore manifesta tutti i suoi limiti, in quanto il conflitto di interessi è in realtà fondato non tanto sulla remunerazione dell’incarico, quanto sul suo contenuto, ossia sulle specifiche prestazioni che al dipendente sono richieste e commissionate.

La previsione della remunerazione, infatti, può essere certamente un utile incentivo alla ricerca di incarichi da parte del pubblico dipendente, distogliendone, in tal modo, le energie lavorative dal proprio impiego principale. Ma ben può sussistere un incarico gratuito il cui contenuto si ponga in contrasto con i doveri di servizio, arrecando disdoro e pregiudizio al prestigio dall’amministrazione di appartenenza.

In presenza della specifica scelta del legislatore, che esclude dall’ámbito delle incompatibilità e del conflitto di interessi le prestazioni gratuite, l’attenzione deve essere  appuntata sui soli incarichi retribuiti, sui quali è costruito il sistema delle eccezioni di cui all’art. 53, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e sul relativo sistema eccettuativo.

Ciò consente di concludere che non sono soggetti ad autorizzazione gli incarichi onerosi, la cui remunerazione derivi: “a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili; b) dalla utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali; c) dalla partecipazione a convegni e seminari; d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate; e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo; f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita; f-bis) da attivita' di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione”.

In tutti questi casi, sul dipendente non incombe alcun obbligo di segnalazione all’amministrazione di appartenenza, né ad essa residuano comunque poteri inibitorî di sorta. È, pertanto, infondato ritenere che il dipendente debba comunque informare il datore di lavoro circa lo svolgimento di uno degli incarichi sopra citati, in quanto lo specifico  regime eccettuativo legislativamente previsto non attiva obblighi additivi secondo il principio di buona fede in senso oggettivo nei termini previsti dal combinato disposto degli artt. 1374 e 1375 c.c..

9. L’autorizzazione all’esercizio di attività concomitanti

Come è stato evidenziato nel § 2, il regime delle incompatibilità e del cumulo di impieghi ed incarichi per i dipendenti dei comuni e delle province è disciplinato dagli artt. 1, commi 56 e seguenti della Legge 23/12/1996 n. 662 e dall’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Tale regime è interessato dalla specifica riserva di Legge che discende dall’art. 2, comma 1, lett. c) della Legge 23/12/1992 n. 421, ed il cui fondamento deriva direttamente dal combinato disposto degli artt. 97, comma 1 e 98, comma 1 Cost..

La conseguenza di ciò è che il regime autorizzatorio previsto dalla normativa vigente ha natura giuridica di diritto pubblico, e piú specificatamente provvedimentale.

L’assenso o il diniego allo svolgimento di attività concomitanti, pertanto, viene reso nell’ámbito di un procedimento amministrativo, che culmina con l’adozione di un vero e proprio provvedimento, con la conseguenza che esso ne condivide gli aspetti, primo fra tutti l’obbligo di motivazione, soprattutto quando di contenuto negativo, inibitorio o ablativo.

Il particolare regime autorizzatorio allo svolgimento di attività concomitanti costituisce attività di gestione del rapporto di impiego non effettuata con i poteri del privato datore di lavoro come prevede in via generale l’art. 5, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e, per gli enti locali territoriali, l’art. 89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

La natura pubblicistica e non iure privatorum dell’attività autorizzatoria all’esercizio di attività concomitanti non esplica effetti sull’individuazione del giudice avente giurisdizione in subiecta materia, non determinandone l’attrazione nella sfera di competenza del giudice amministrativo. Trova applicazione nel caso di specie l’art. 63, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, il quale devolve al giudice ordinario “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2”, a prescindere dalla natura giuridica degli atti gestorî.

Il regime autorizzatorio all’esercizio di attività concomitanti opera sia in presenza di attività per le quali l’incompatibilità è meramente relativa, sia per le attività in regime di incompatibilità assoluta svolte in concomitanza con la trasformazione del rapporto lavorativo da tempo pieno a tempo parziale.

Lo svolgimento di attività concomitanti, in tali casi, determina conseguenze assai gravose per il dipendente, ossia l’attivazione del percorso procedurale delineato dall’art. 63 del D.P.R. 10/1/1957 n. 3, con la conseguenza che questi viene diffidato a cessare dalla situazione di incompatibilità e decade dall’impiego qualora la situazione contra ius non sia cessata entro 15 giorni, fatta sempre salva l’azione disciplinare nell’ipotesi in cui il dipendente vi abbia ottemperato.

Come costantemente ritenuto, sono attività incompatibili tutte le attività comunque svolte in assenza di specifica autorizzazione da parte dell’ente di appartenenza, con la precisazione che la rimozione al limite al loro svolgimento non è comunque consentibile in presenza di un conflitto di interessi.

Non ha rilevanza la forma del rapporto esterno, ma assume valore la previa verifica dell’assenza di una situazione potenziale di conflitto, che, ai presenti fini, deve essere valuta in astratto e non in concreto, proprio per preservare il principio di buon andamento dell’azione amministrativa.

A questo fine, l’amministrazione dovrà verificare che non si configurino situazioni di conflitto con le attività svolte nell’ámbito del rapporto di impiego pubblico e che non si vengano a determinare vantaggî per sé o per altri nell’esercitare le attività ulteriori sfruttando la qualità di dipendente.

L’autorizzazione allo svolgimento di attività concomitanti deve essere resa preventivamente al loro inizio. In questo senso si esprimono i commi 7 e 8 dell’art. 53 del D.Lgs. 30/3/2001,  che fanno esplicito riferimento alla sua “previetà”. Nel medesimo senso opina anche l’art. 1, comma 58 bis della Legge 23/12/1996 n. 662, secondo il quale “i dipendenti degli enti locali possono svolgere prestazioni per conto di altri enti previa autorizzazione rilasciata dall'amministrazione di appartenenza”.

L’art. 53, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 disciplina il contenuto del procedimento autorizzatorio, individuando i soggetti titolari del potere di impulso, disciplinando i tempi per la sua conclusione e prevedendo specifiche forme di silenzio-assenso per la qualificazione dell’inezia protratta dalla pubblica amministrazione di appartenenza del dipendente interessato al rilascio.

In relazione all’individuazione del titolare del potere di impulso procedimentale nel caso di conferimento di incarichi, l’autorizzazione deve essere richiesta all'amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati, che intendono attribuirli. In questi casi, l’autorizzazione può essere richiesta anche dal dipendente interessato alla propria amministrazione di appartenenza. Nell’ipotesi di attività autonomamente svolte dal dipendente, per contro, è pacifico che sia quest’ultimo a doversi attivare direttamente con la propria amministrazione.

Quest’ultima deve comunque pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla sua ricezione, a pena del formarsi del sislenzio-assenso, salvo il caso del diniego entro tale temine, da pronunciarsi con motivato provvedimento a contenuto inibitorio.

La previetà ex lege dell’autorizzazione all’esercizio di attività concomitanti con il rapporto di impiego pone il problema dell’ammissibilità dell’autorizzabilità ex post, soprattutto in relazione alla gravità delle conseguenze che l’ordinamento connette al loro esercizio in via di fatto.

La questione può essere risolta osservando che il regime autorizzatorio in esame ha natura giuridica provvedimentale e che è principio generale dell’ordinamento che le autorizzazioni, possono essere rilasciate anche in sanatoria, determinando il pieno consolidamento degli effetti loro proprî con efficacia ex tunc e quindi con effetti pienamente sananti.

A ciò si aggiunge che se la funzione dell’autorizzazione è quella di rimuovere un ostacolo all’esercizio di un’attività, e che il particolare regime procedimentale previsto dall’art. 53, comma 10 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 prevede la formazione di un silenzio-assenzo nel caso in cui il dirigente sia rimasto inerte, un’autorizzazione in sanatoria deve ritenersi piú che valida a fortori, perché un apprezzamento sull’assenza di conflitto di interessi è stato comunque storicamente svolto.

In questi casi, infatti, il dirigente che gestisce il rapporto di lavoro svolge comunque una verifica sull’assenza di conflitto di interesse comportandosi come avrebbe fatto in condizioni di previetà. Da ciò discende che i poteri di apprezzamento in suo possesso sono identici a quelli di spettanza in tale ultima circostanza e che quindi non sono recuperabili ex post situazioni non assentibili ab origine.

L’effetto ex tunc del provvedimento autorizzatorio adottato in sanatoria determina il totale consolidamento della liceità dell’attività comunque svolta dal pubblico dipendente, escludendo la sua responsabilità disciplinare, così come pure quella del funzionario che ha adottato l’atto di conferimento dell’incarico in assenza o in pendenza di autorizzazione da parte dell’ente di provenienza del dipendente incaricato.

10. Le conseguenze del mancato rispetto del regime autorizzatorio

Il mancato rispetto del regime autorizzatorio in subiecta materia determina conseguenze particolarmente gravi in una pluralità di ámbiti, che devono essere tenuti distinti per evitare contaminazioni concettuali ed operative.

In primo luogo, conseguenze carico del dipendente che svolge attività concomitanti comunque remunerate non previamente autorizzate.

In questi casi, il dipendente deve essere diffidato a cessare lo svolgimento dell’attività concomitante non autorizzata, salva l’attivazione del procedimento disciplinare per grave violazione dei doveri di servizio.

Quanto al compenso previsto per lo svolgimento dell’incarico non previamente autorizzato, l’art. 53, comma 7 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 ne prevede la devoluzione in relazione alle “prestazioni eventualmente svolte” a cura dell'ente erogante o, qualora questo non vi provveda, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

Nel caso in cui il conferimento dell’incarico abbia interessato un dipendente comunale o provinciale e sia stato disposto da un soggetto privato,  trova applicazione lo speciale regime delineato dall’art. 6 del D.L. 28/3/1997 n. 79 convertito nella Legge 28/2/1997 n. 140, in forza del quale, ferma la mancata spettanza del corrispettivo da parte del pubblico dipendente non autorizzato, è prevista una sanzione a favore del Ministero dell’economia pari al doppio dell’importo del compenso pattuito, oltre all’esborso delle somme comunque dovute per sanzioni tributarie e/o contributive.

In secondo luogo, conseguenze a carico del funzionario che abbia conferito incarichi a dipendenti di soggetti terzi al proprio ente, pubblici dipendenti o meno.

Il conferimento di incarichi a soggetti estranei all’amministrazione di appartenenza concretizza un’ipotesi di responsabilità disciplinare per grave violazione dei doveri di ufficio, la cui sanzione edittale deve essere ricercata nell’art. 25, comma 4, lett.g) del c.c.n.l. 6/7/1995 cosí come modificato dal c.c.n.l. 22/1/2004.

In terzo luogo, conseguenze sull’attività amministrativa svolta in attuazione di incarico non autorizzato.

La fattispecie è normata dall’art. 53, comma 8 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, il quale ne prevede la radicale nullità. Ciò, in buona sostanza, determina conseguenze particolarmente serie in presenza di conferimenti di incarichi a pubblici dipendenti operati da pubbliche amministrazioni in vista del compimento di attività di pubblico interesse.

Secondo la norma in questione, infatti, il conferimento di incarichi “senza la previa autorizzazione […determina la conseguenza che]  il relativo provvedimento è nullo di diritto”. La nullità del provvedimento di  conferimento ha dirette ed immediate conseguenze sull’attività che in sua attuazione fosse stata svolta, sia in modo esclusivo, sia per concorso. Essa, infatti, è tamquam non esset e quindi non utilmente acquisibile da parte della pubblica amministrazione conferente.

Alla responsabilità disciplinare del funzionario che ha effettuato il conferimento si affianca, come precedentemente evidenziato, quella del dipendente al quale l’incarico è stato conferito in assenza di autorizzazione.

Quest’ultimo, perché colposamente coinvolto nel conferimento contra ius, non ha titolo alla percezione di alcun compenso, il quale deve essere trasferito al bilancio dell’ente locale cui appartiene il dipendente comunque incaricato.

Il trasferimento coattivo della somma per importo pari al compenso previsto come corrispettivo viene effettuata a titolo sanzionatorio, in quanto ad essa non è correlativa l’acquisizione di alcuna utilità da parte della pubblica amministrazione che ha conferito l’incarico.

Una tale evenienza configura sicuramente un’ipotesi di danno erariale per fatto gravemente colposo nel quale è incorso il funzionario che ha disposto il conferimento in assenza di autorizzazione, con conseguenziale accollo risarcitorio ed attivazione dell’azione di recupero del tantundem da parte della Corte dei conti a suo carico.

11. La rilevanza disciplinare della normativa sulle incompatibilità

La violazione della normativa in materia di incompatibilità e di cumulo di incarichi da parte del pubblico dipendente determina conseguenze sul piano disciplinare.

Essa riguarda le fattispecie dell’esercizio di attività concomitanti al rapporto di lavoro alle dipendenze dell’ente locale, nonché il disbrigo di impieghi e l’assolvimento di incarichi non previamente autorizzati, ovvero rispetto ai quali non sia comunque intervenuta un’autorizzazione in sanatoria.

Ciò si desume dall’art. 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, secondo il quale la relativa fattispecie è sottratta alla determinazione del proprio contenuto da parte della contrattazione collettiva nazionale di comparto.

Secondo la disposizione che introduce tale regime eccettuativo, infatti, “salvo quanto previsto dagli articoli 21 e 53, comma 1, e ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento di cui all'articolo 54, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”.

Quanto appena evidenziato consente di concludere che in materia di incompatibilità l’ordinamento prefigura un’ipotesi di responsabilità disciplinare di fonte legale, nella quale la determinazione del contenuto della fattispecie contra ius è sottratta alla contrattazione collettiva nazionale di comparto.

Dubbio è se il regime eccettuativo appena delineato coinvolga anche la determinazione della sanzione da applicare, dal momento che la sua violazione è qualificata ex lege come giusta causa di recesso dall’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662, norma cui fa riferimento l’art. 53, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Nonostante l’apparente autosufficienza della normativa appena richiamata, i contenuti delle conseguenze disciplinari della sua violazione sono delineabili solo coordinando i due ámbiti.

In primo luogo, la normativa sulle incompatibilità e sui relativi riflessi disciplinari interessa una pluralità di fattispecie, tutte tratteggiate ex lege, rendendo necessaria la loro esatta delineazione.

In secondo luogo, la violazione del dovere di esclusività è qualificato ex lege come giusta causa di recesso dall’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662, nell’ámbito di un assetto punitivo che parrebbe prevedere l’unicità della sanzione espulsiva, peraltro automaticamente connessa al verificarsi della relativa fattispecie.

In relazione al primo elemento di problematicità, deve essere evidenziato che le fattispecie disciplinarmente rilevanti coinvolte nella violazione della normativa sull’incompatibilità ed il cumulo degli impieghi sono almeno tre, e che non per tutte è prevista per tabulas la misura espulsiva della giusta causa di recesso indicata dall’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662.

Le condotte contra legem previste in astratto dal legislatore sono, da un lato, quelle dello svolgimento dell’attività concomitante con il rapporto di lavoro, ovvero l’assunzione dell’incarico o dell’impiego, senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione dell’ente di appartenenza e, dall’altro, l’avvenuto conferimento di incarico a dipendente di altro ente pubblico senza la previa autorizzazione resa dall’ente di appartenenza dell’incaricato.

A esse si aggiunge la mancata comunicazione dell’attività concomitante svolta dal pubblico dipendente con rapporto lavorativo a tempo parziale a prestazione lavorativa dimezzata ed il riscontro di comunicazioni non veritiere.

In relazione al secondo elemento di problematicità, deve essere evidenziato che l’interferenza fra la violazione del regime delle incompatibilità e del cumulo di incarichi e di impieghi da parte del pubblico dipendente e la materia della responsabilità disciplinare cui la prima rimanda determina specifiche conseguenze sul piano dogmatico.

Prima fra tutte è il riversamento della normativa prevista in materia disciplinare nella determinazione delle conseguenze sanzionatorie che seguono alla violazione della normativa in materia di incompatibilità.

Ciò può essere mostrato osservando che nei casi de quibus, a ben vedere, viene delineata una specifica fattispecie disciplinarmente rilevante ex lege, ma non è affatto individuata la sanzione comminabile in modo univoco ed in concreto.

Essa, ad una prima interpretazione superficiale, dovrebbe essere rinvenuta, salvo il caso del conferimento di incarichi senza preventiva autorizzazione da parte dell’ente di provenienza, nella giusta causa di recesso prevista dall’art. 1, comma 61 della Legge 23/12/1996 n. 662.

Questa tesi, peraltro, finirebbe con l’introdurre un automatismo espulsivo - il recesso dal rapporto di impiego - che non consente alcuna forma di graduazione della misura sanzionatoria, conseguenza del tutto inammissibile perché in contrasto, con il principio di proporzionalità fra condotta antigiuridica e sanzione prevista di cui all’art. 2106 c.c., con il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost. e con la costante giurisprudenza della Corte costituzionale a partire dalla sentenza 14/10/1988 n. 971.

Quanto appena evidenziato, consente di concludere che il regime eccettuativo previsto dal combinato disposto degli artt. 53 e 55, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e dalla normativa da essi richiamata interessa la sola delineazione della fattispecie e non anche la determinazione della sanzione da irrogare e la procedura da seguire per addivenirvi.

È quindi chiaro che alla violazione della normativa sulle incompatibilità si applicano tutti i principî e tutte le regole che operano in materia disciplinare: l’obbligo della contestazione degli addebiti, la definizione del procedimento entro termini perentorî e la comminazione della sanzione proporzionata alla gravità in concreto del fatto commesso ed accertato con procedimento interno.

In presenza della violazione della normativa sulle incompatibilità, pertanto, l’amministrazione deve necessariamente procedere alla contestazione degli addebiti, instaurando il procedimento disciplinare, l’esito del quale può essere la comminazione di una sanzione non espulsiva in applicazione del principio di proporzionalità indicato dall’art. 2106 c.c., cui fa espresso richiamo l’art. 55, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

La valutazione della gravità del comportamento in contrasto con la normativa in materia di incompatibilità, pertanto, deve essere effettuata in contraddittorio con il dipendente contravventore e nel rispetto del principio di proporzionalità e dei criterî generali enunciati dall’art. 25, comma 1 del c.c.n.l. 6/7/1995 nel testo modificato dal c.c.n.l. 22/1/2004. In particolare, l’ufficio disciplinare deve apprezzare l’intensità della violazione del dovere di esclusività, l’estensione del conflitto di interessi concretizzato, il livello di nocumento arrecato al prestigio dell’ente di appartenenza, il grado di deviazione dal buon andamento dell’azione amministrativa, unitamente alla collocazione del dipendente contravventore nell’organizzazione dell’ente.

L’adozione della misura espulsiva, pertanto, non può costituire l’automatica conseguenza per ogni di violazione, giacché, se cosí fosse, si sarebbe in presenza di un caso di responsabilità disciplinare meramente formale sanzionata in modo rigido ed automatico, e quindi di un automatismo espulsivo che non ha cittadinanza nell’ordinamento.

12.   Conclusione

L’analisi del sistema delle incompatibilità e del cumulo di incarichi ed impieghi ha evidenziato l’estrema complessità della materia e la delicatezza dei suoi contenuti.

Essa deve essere considerata con particolare attenzione in relazione sia ai valori costituzionali che la relativa disciplina mira a garantire e proteggere, sia alle conseguenze che dal suo mancato rispetto derivano a carico dei dipendenti coinvolti.

Il regime delle incompatibilità e del cumulo di incarichi e di impieghi, in definitiva, è posto a presidio della trasparenza e del buon andamento della pubblica amministrazione e quindi della sua stessa credibilità.

Tutto ciò deve indurre ad interpretazioni particolarmente rigorose per evitare che il rapporto di impiego possa divenire il pretesto per trasformare l’ente pubblico in un “incarichificio”, con conseguente detrimento dell’immagine della pubblica amministrazione che, anche in passati recenti, è stata caratterizzata da comportamenti non condivisibili che sovente hanno rasentato il discredito ed il grottesco.

 

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(*) Segretario generale e Direttore generale – Comune di Cassina de’ Pecchi.


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