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n. 10/2003 - copyright

RICCARDO NOBILE

L’accesso ai pubblici impieghi mediante pubblico concorso e le sue deroghe nella giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riferimento agli enti locali territoriali

(note minime a margine della sentenza della Corte costituzionale 24 luglio 2003 n. 274)

SOMMARIO: 1. Introduzione 2. Gli ámbiti interessati dalla sentenza 3. L’azione di riscontro ascritta allo Stato 4. La distribuzione delle potestà legislative nella giurisprudenza della Corte costituzionale 5. Il principio del pubblico concorso e le sue deroghe 6. Le conseguenze della giurisprudenza costituzionale sulle progressioni di carriera previste dai c.c.n.l. del pubblico impiego 7. La potestà statutaria e normativa delle Province e dei Comuni  8. Conclusione.

 

1. Introduzione.

Occasione del presente lavoro è la sentenza della Corte costituzionale 24 luglio 2003 n. 274 (pubblicata in questa Rivista con nota di L. OLIVERI), di estremo interesse perché consolida l’orientamento del giudice delle leggi in materia di concorso e di deroga al relativo principio contenuto dall’art. 97, comma 3, Cost.

L’art. 97 Cost., peraltro, non è l’unica disposizione rilevante in subiecta materia. Infatti, se è vero che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” e che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge”, non è meno vero che, ai sensi dell’art. 51, comma 1 Cost., “tutti i cittadini (…) possono accedere agli uffici pubblici (…) in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e che, secondo l’art. 98, comma 1, “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.

La sentenza in esame dà veste organica ad un orientamento ormai consolidato, che, partendo dall’affermazione contenuta nelle disposizioni costituzionali, circoscrive le ragioni della loro deroga, evidenziandone i presupposti e gli sviluppi possibili anche in relazione alla recente legge di riforma del titolo V della Costituzione 18/10/2001 n. 3 e della legge ordinaria di relativa attuazione 5/6/2003 n. 131.

2. Gli ámbiti interessati dalla sentenza.

Il quadro delineato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale è di sicuro interesse non solo in relazione al principio del pubblico concorso quale sistema ordinario per il reclutamento del personale della pubblica amministrazione, ma anche in rapporto ad alcuni istituti ai quali gli enti pubblici ricorrono per garantire lo sviluppo della carriera dei proprî dipendenti.

L’allusione è, ovviamente, ai concorsi interni ed alle progressioni verticali, ossia a quelle procedure alle quali la pubblica amministrazione ricorre per modificare stabilmente il contenuto delle prestazioni lavorative dei proprî dipendenti, garantendo loro lo sviluppo di carriera “a mestiere variato”.

L’argomento, oltre ai riflessi appena evidenziati, è strettamente connesso al nuovo assetto delle potestà legislative distribuite fra lo Stato e le Regioni sia a statuto sia speciale, sia a statuto ordinario.

La regolamentazione del rapporto di pubblico impiego, infatti, fermi i principî generali dell’ordinamento e l’affermazione dell’unità della Repubblica sancito dall’art. 5 Cost., tocca da vicino il modo della normazione degli istituti de quibus, rendendo necessario un approfondimento della materia non solo in relazione agli ámbiti della legislazione regionale, ma anche in rapporto all’esercizio della funzione normativa da parte degli enti locali territoriali a circoscrizione infraregionale, ossia delle Province ed ai Comuni.

La sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274 sviluppa entrambi gli argomenti facendo chiarezza in modo particolarmente stringente su tutte le questioni evidenziate.

Di esse, pertanto, è bene dire partitamente, anteponendo qualche breve riflessine sulla differente rilevanza ordinamentale che sussiste fra Stato e Regioni, pósto che anche in questa materia il giudice delle leggi ha avuto modo di rimarcare quale sia la posizione di entrambi, anche in relazione alla differente connotazione dell’ampiezza dell’azione di riscontro attivabile nel giudizio per conflitto di attribuzione.

3. L’azione di riscontro ascritta allo Stato.

La sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274 è di particolare importanza perché circoscrive con precisione i confini del riscontro di legittimità costituzionale ascritto allo Stato, ponendo le basi normative per delineare l’ámbito della sua rilevanza e delle relative differenze fra esso e quello riconosciuto alle Regioni e, a maggior ragione fra il primo e le possibilità, peraltro nulle, attualmente riconosciute alle Province ed ai Comuni.

Ciò può essere mostrato in modo non semplice, ma duplice.

In primo luogo, osservando che i confini delle azioni di riscontro di costituzionalità riconosciute allo Stato nei giudizî di conflitto di attribuzione sono notevolmente diversi rispetto a quelli garantiti alle Regioni.

In secondo luogo, evidenziando che se l’azione processuale è una proiezione formale di una sottostante posizione sostanziale che la genera, allora l’analisi della prima informa sicuramente di sé il differente modo di essere dello Stato rispetto alle Regioni nell’ámbito del complesso ordito costituzionale.

La sentenza 8/7/2003 n. 274 è tesa proprio a risolvere tale problematica in modo chiaro e lineare, ponendo un principio difficilmente superabile allo stato della legislazione costituzionale vigente.

Secondo il giudice delle leggi la posizione dello Stato è del tutto peculiare nell’ordinamento, giacché solo e soltanto ad esso compete l’imprescindibile funzione di assicurarne l’unitarietà.

I fondamenti di tale funzione sono almeno tre.

In primo luogo, solo e soltanto allo Stato compete il compito di assicurare l’unitarietà dell’ordinamento secondo quanto previsto dall’art. 5 Cost., norma che prevede sí il riconoscimento dell’autonomia degli enti locali territoriali, collocandola peraltro in un sistema unitario a garanzia del quale presiede la realtà statuale. Ciò costituisce, a ben vedere, il limite interno e paradigmatico all’enunciazione del principio della pari dignità sancito dall’art. 114 Cost., che, in tale modo, non vale affatto ad accreditare il principio dell’equiparazione fra lo Stato ed i restanti soggetti del circúito degli enti locali territoriali, prime fra tutti le Regioni.

In secondo luogo, solo lo Stato è titolare della potestà di revisione costituzionale, ossia della legge fondamentale valida per l’intero territorio delle Repubblica, alle norme ed ai principî della quale deve essere assicurato il rispetto sia da parte dello Stato, sia degli enti del circúito delle autonomie locali.

In terzo luogo, lo Stato è il soggetto che assicura il rispetto della normativa di diritto internazionale e degli obblighi comunitarî da parte di tutti i soggetti dell’ordinamento, con poteri di intervento che si giustificano in base alla considerazione che le inadempienze a tali normative di carattere sovranazionale sono imputabili solo e soltanto allo Stato-persona, inteso quale soggetto di diritto, unico riconosciuto tale nei rapporti fra Stati.

Per queste considerazioni lo Stato è il solo soggetto dell’ordinamento che in sede di conflitto di attribuzione può dedurre in via immediata la violazione di qualsiasi norma della Costituzione, tesi già propugnata dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza30/4/1959 n. 30.

Ciò può essere mostrato osservando che lo Stato può radicare il conflitto di attribuzione nei confronti delle Regioni non solo deducendo la violazione dell’art. 117 Cost., ma anche la mancata osservanza di qualunque altra norma della legge fondamentale. In questa direzione muove l’art. 127 Cost., il quale consente allo Stato di radicare il conflitto di attribuzioni nei confronti delle Regioni ogni qualvolta ritenga che una legge della Regione abbia ecceduto la propria competenza, ossia abbia trasceso i confini del proprio ámbito di legittimazione, a presidio dei quali si colloca la Costituzione nella sua interezza.

Differente è la disciplina che presiede al giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione attivabile dalle Regioni. Esse, sempre in attuazione dell’art. 127 Cost., possono attivarlo solo e soltanto quando ritengano che la legge dello Stato o di altre Regioni abbia leso la loro sfera di competenza, il che vale a dire che le Regioni possono fare valere solo e soltanto la violazione dell’art. 117, commi 3 e 4 Cost., senza poter porre a fondamento della relativa azione in giudizio nessun’altra norma costituzionale.

Decisamente differente è la posizione degli altri enti locali territoriali, ai quali è radicalmente preclusa qualunque possibilità di adíre il giudice delle leggi, in quanto privi di potestà legislativa. Essi, infatti, non hanno potestà legislativa, ma solo potestà normativa di tipo subprimario, il che vale ad escludere che gli atti di normazione che essi sono abilitati ad adottare siano muniti della forza di legge, requisito minimo previsto per poter validamente radicare un giudizio di costituzionalità comunque connotato.

4. La distribuzione delle potestà legislative nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Questo primo momento di riflessione può essere rettamente affrontato solo inquadrandolo nel divenire della normativa in materia, radicalmente modificata con la legge costituzionale 18/10/2001 n. 3.

Nell’assetto normativo ad essa previgente, la distribuzione delle potestà legislative fra Stato e Regioni era sorretta da almeno quattro principî fondamentali.

In primo luogo, dal principio della tassatività delle potestà legislative concorrenti ascritte alle Regioni, a statuto sia ordinario sia speciale, altrimenti dette Regioni ad autonomia ordinaria e rafforzata.

In secondo luogo, dal principio della tassatività delle potestà legislative esclusive ascritte alle Regioni ad autonomia rafforzata, demandandone l’individuazione ai rispettivi statuti, approvati con legge costituzionale per questioni di coerenza complessiva ordinamentale.

In terzo luogo, dall’esplicita previsione di specifici limiti interni all’esercizio delle potestà legislative di entrambe, identificati nei principî generali dell’ordinamento e nel rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali attuate dallo Stato, secondo la ricostruzione enucleata dalla Corte costituzionale in subiecta materia.

In quarto luogo, dalla previsione di una clausola generale esclusiva, secondo la quale la potestà legislativa era di spettanza dello Stato in tutte le materie non esplicitamente ascritte in modo espresso alle Regioni ad autonomia rafforzata, ovvero riconosciute in modo concorrente alle Regioni a statuto sia speciale, sia ordinario.

L’assetto legislativo appena delineato è stato modificato dalla legge costituzionale 18/10/2001 n. 3, la quale ne ha sostanzialmente capovolto il verso e la direzione.

Ciò è avvenuto in modo non semplice, ma molteplice.

In primo luogo, individuando un’elencazione tassativa di materie ascritte in modo esclusivo alla potestà legislativa dello Stato.

In secondo luogo, formando un’elencazione, anch’essa tassativa, di materie ascritte alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni in modo concorrente o ripartito.

In terzo luogo, capovolgendo la direzione della clausola generale esclusiva in materia di potestà legislative residuali, prevedendo che la potestà legislativa sia ascritta alle Regioni, indipendentemente dalla connotazione della loro autonomia, qualora non esplicitamente riservata in via esclusiva allo Stato, ovvero allo Stato ed alle Regioni in modo concorrente.

In quarto luogo, indebolendo i limiti interni all’esplicazione delle potestà legislative regionali, eliminando cosí il riferimento al rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali in relazione alle sole potestà legislative residuali delle Regioni e prevedendo quale unico limite di portata generale il rispetto della Costituzione nonché dei vincoli che derivano dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali.

Il riferimento al limite interno rappresentato dal rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, per contro, è stato mantenuto per l’esercizio delle potestà legislative concorrenti a garanzia dell’unità dell’ordinamento, osservando che in questo ámbito lo Stato esplica le proprie potestà normative con legge in senso formale o con fonti-atto equiparate, limitandosi con ciò alla sola enunciazione dei principî fondamentali in materia, non essendo piú possibile l’adozione di vere e proprie “leggi cornice” o “leggi quadro” nei termini originariamente previsti dall’art. 9 della legge 10/2/1953 n. 62, sostituito dall’art. 17 della legge 16/5/1970 n. 281.

L’ordito normativo cosí delineato è stato completato ed arricchito dalla legge 5/6/2003 n. 131 in modo particolarmente pregnante.

La legge, che ha ad oggetto proprio l’adeguamento dell’ordinamento giuridico alle norme contenute nella legge di riforma costituzionale 18/10/2001 n. 3, prevede una serie di misure che garantiscono l’autonomia delle Regioni, fra l’altro, per disciplinare l’esercizio della potestà legislativa concorrente o ripartita fra lo Stato e le Regioni stesse.

Il legislatore ordinario, in questo specifico ámbito, ha inteso garantire le Regioni cercando di prevedere limiti all’individuazione dei principî generali dell’ordinamento, demandandone allo Stato l’individuazione in modo esplicito e prevedendo all’art. 1, comma 3 della legge 5/6/2003 n. 131 che in sede di prima applicazione tale funzione di orientamento sia garantita mediante il ricorso alla decretazione delegata governativa, nel rispetto delle autonomie a rilevanza costituzionale.

In questo reticolo normativo deve essere inserita la sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274.

Essa evidenzia, per quel che qui interessa, che la materia del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti delle Regioni è riconducibile all’esercizio della potestà legislativa esclusiva o residuale regionale, e, che, in quanto tale, essa non soggiace alle limitazioni che derivano dal rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali attuate dallo Stato. E ciò indipendentemente dalla connotazione dell’autonomia regionale, sia essa rafforzata o speciale, piuttosto che ordinaria.

La normativa statale, e segnatamente il D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, trovano pertanto applicazione fino a quando le Regioni non avranno adottato specifiche norme legislative in materia, come del resto espressamente stabilito dall’art. 1, comma 2 della legge 5/6/2003 n. 131.

Il principio è applicabile anche alla disciplina del trattamento giuridico ed economico dei dipendenti degli enti locali territoriali.

Ciò si desume dall’assenza di una specifica indicazione dell’art. 117, commi 2 e 3 Cost. in materia di potestà legislative statali di tipo esclusivo e di potestà legislative ripartite.

La tesi è coerente anche con il contenuto dell’art. 2 della legge 5/6/2003 n. 131, con la quale è stata demandata alla decretazione delegata governativa l’individuazione delle funzioni fondamentali essenziali per il funzionamento dei Comuni e delle Province.

La materia dello stato giuridico ed economico del relativo personale, infatti, è estranea ai principî contenuti nell’elencazione dell’art. 2, comma 4 della legge 5/6/2003 n. 131, con la conseguenza che le Regioni sono direttamente immesse nella potestà legislativa esclusiva che ha ad oggetto la disciplina delle materie di spettanza.

Nell’esplicazione della relativa potestà legislativa esclusiva, peraltro, esse devono garantire il rispetto della Costituzione, come espressamente previsto dal nuovo testo dell’art. 117, comma 1 Cost..

Detto altrimenti, le Regioni, indipendentemente dalla connotazione delle loro autonomia statutaria, possono normare la materia del trattamento giuridico ed economico del personale proprio e degli enti locali territoriali rispettando i principî vigenti in materia di accesso ai pubblici impieghi, ossia il buon andamento dell’azione della pubblica amministrazione, della obbligatorietà del pubblico concorso quale sistema di accesso agli impieghi pubblici, salve le deroghe consentite, e della ragionevolezza nel prevederle, nonché dell’esclusivo asservimento dei pubblici dipendenti agli interessi della Nazione, previsti dagli artt. 97, commi 1 e 3, 3, 51, comma 1 e 98, comma 1 Cost..

Quanto appena evidenziato apre scenarî prima d’ora non facilmente immaginabili, osservando che l’attuale disciplina del rapporto di pubblico impiego interessato alla depubblicizzazione prevede attualmente un’esplicita riserva in materia a favore della contrattazione collettiva nazionale e non livelli di contrattazione a livello regionale.

5. Il principio del pubblico concorso e le sue deroghe.

La sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, come cennato di passaggio, contiene gli sviluppi desumibili dalla sua precedente giurisprudenza in materia di accesso agli impieghi mediante pubblico concorso.

Il giudice delle leggi ha sempre considerato il pubblico concorso quale sistema con cui garantire a priori il rispetto del principio dell’imparzialità dell’azione della pubblica amministrazione.

Il principio dell’obbligatorietà del pubblico concorso quale sistema imparziale di reclutamento, infatti, garantisce che il personale sia assunto previo espletamento di prove a rilevanza oggettiva, e come tale non soggetto alle vicissitudini contingenti, storiche ed ambientali del momento.

Il principio del pubblico concorso, a ben vedere, soddisfa una serie di valori esplicitamente previsti dalla Costituzione, i quali tutti sono orientati a garantire l’effettività della funzionalizzazione dell’azione della pubblica amministrazione al pubblico interesse, in una prospettiva di eguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale.

Piú in particolare, il principio del pubblico concorso preserva il fondamentale principio di eguaglianza, come si desume dal combinato disposto degli artt. 3, 51, comma 1 e 97, comma 3 Cost..

Ciò può essere argomentato osservando che l’ordinamento garantisce a tutti l’accesso agli ufficî pubblici, e che il pubblico concorso è lo strumento che corrobora l’affermazione del principio di uguaglianza nell’ámbito del reclutamento del personale pubblico, ossia di quei soggetti denominati “pubblici dipendenti”, che, come previsto dall’art. 98, comma 1 Cost., operano nell’esclusivo interesse della Nazione.

I pubblici dipendenti cosí reclutati, infatti, assicurano la loro dipendenza dalla pubblica amministrazione solo previo il superamento di specifiche prove attitudinali strettamente afferenti al profilo da ricoprire, ispirate a criterî di oggettività, idonei a garantirne l’indipendenza da condizionamenti.

In questo modo può essere garantito anche i principio del buon andamento dell’azione amministrativa previsto dall’art. 97, comma 1 Cost., del quale sono declinazione il rispetto sia della legge e delle fonti-atto dell’ordinamento, sia dei principî di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, posti a fondamento della riforma del pubblico impiego attuata con il D.Lgs. 3/2/1993 n. 29, confluito nel D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 insieme alle modificazioni nel frattempo apportate per migliorare la sua effettiva depubblicizzazione.

Con queste premesse, la previsione dell’obbligatorietà del pubblico concorso aperto a tutti previsto dagli artt. 51, comma 1 e 3 Cost. si colloca alla stregua di un principio fondamentale a rilevanza costituzionale che, in linea di massima, non ammette defezioni.

Ciò nondimeno l’ordinamento costituzionale prevede esplicitamente la possibilità di deroghe, le quali debbono essere sorrette da ben precisi argomenti testuali e sistematici tali da affermarne comunque la coerenza complessiva.

Di qui la costante presenza nell’ordinamento dell’endiadi “principio del pubblico concorso” – “deroghe ammissibili”, la quale non può che trovare composizione nella comparazione attenta di soli valori a rilevanza costituzionale.

Le deroghe all’obbligatorietà del pubblico concorso, pertanto, devono essere compatibili con altri valori a rilevanza costituzionale, da sempre identificati dal giudice delle leggi con il valore del buon andamento dell’azione amministrativa e con il superiore principio di ragionevolezza, espressione del canone di eguaglianza formale e sostanziale previsto dall’art. 3 Cost..

Detto in altri termini, il fondamento giuridico delle deroghe al principio del pubblico concorso è lo stesso valore che fonda il principio stesso. L’accesso all’impiego, infatti, è sicuramente conforme in sé e per sé al dettato costituzionale se effettuato mediante pubblico concorso; esso però può non essere difforme dai valori costituzionali in presenza di deroghe ragionevoli.

In questo modo, la composizione fra i due aspetti del medesimo principio, ossia del buon andamento dell’azione amministrativa, consente di attivare sempre il sindacato sulla ragionevolezza delle scelte del legislatore che ha a proprio paradigma l’art. 3 Cost.

A questo proposito, la giurisprudenza della Corte costituzionale è particolarmente ricca di precedenti.

In questi termini, la Corte costituzionale ha ritenuto conforme alla legge fondamentale tutte quelle deroghe che sono sorrette dal principio di ragionevolezza, come da ultimo esplicitamente evidenziato nell’ordinanza 20/11/2002 n. 517 in materia di concorsi riservati a personale delle università.

I piú significativi interventi del giudice delle leggi hanno avuto ad oggetto l’ammissibilità dei concorsi interni con particolare riferimento alla distribuzione delle relative percentuali di riserva e le trasformazioni dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tesi ad eliminare le situazioni di precarietà tipiche dei contratti a tempo determinato o stipulati avvalendosi della normativa sui lavori socialmente utili.

Con specifico riferimento alla complessa problematica dei concorsi interni e dei reinquadramenti dei pubblici dipendenti nell’ámbito di progressioni di carriera, la Corte ha sempre garantito giudizî ponderati sorretti da analisi approfondite dei valori costituzionali di volta in volta coinvolti.

Le pronunce piú recenti della Corte costituzionale prendono sempre le mosse dalla considerazione che, mediante la progressione di carriera attuata con il sistema del concorso interno, il pubblico dipendente viene ad occupare un nuovo posto di lavoro, come tale previsto nella dotazione organica del relativo ente di appartenenza.

Un autentico momento di svolta a questo proposito si è avuto con la sentenza 30/10/1997 n. 320, con la quale il giudice delle leggi ha esplicitamente osservato che “il passaggio nel pubblico impiego ad una fascia funzionale superiore comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, corrispondente a funzioni piú elevate, ed è quindi soggetto, quale forma di reclutamento, alla regola del pubblico concorso”, fermo restando peraltro che il legislatore, “nell’esercizio della sua discrezionalità, può ragionevolmente derogare a tale regola, in presenza però di peculiari ragioni giustificatrici, e con il limite della necessità di garantire il buon andamento dell’Amministrazione Pubblica”.

In presenza di una sostanziale variazione del contenuto delle prestazioni lavorative diviene pertanto del tutto evidente che il concorso interno deve essere ricondotto alla piú ampia problematica dell’accesso agli impieghi pubblici, osservando che l’accesso ad essi ha a riferimento non solo e non tanto l’ingresso alle dipendenze della pubblica amministrazione, ma anche e soprattutto l’accesso al livello prestazionale superiore, indipendentemente dal fatto che il soggetto coinvolto sia o meno già dipendente pubblico.

A questo proposito, non può non essere fatto riferimento ad un’altra importante pronuncia della Corte costituzionale in materia di inquadramenti automatici del personale degli enti locali territoriali. Il riferimento è alla pronuncia di poco precedente 8/1/1996 n. 1 con cui la Corte costituzionale è intervenuta in relazione all’art. 40 del D.P.R. 25/6/1983 n. 347, rendendo necessario un emblematico intervento correttivo da parte del legislatore, avvenuto con l’art. 6, comma 17 della legge 15/3/1997 n. 127, con tutto il contenzioso che da ciò è scaturito a séguito della necessità di provvedere all’annullamento dei provvedimenti di inquadramento precedentemente disposti, ed alla bandizione di concorsi interni a sanatoria.

Sulla base di tali precedenti, coniugati con la necessità di garantire comunque il rispetto degli artt. 3, 51, comma 1, 97, commi 1 e 3 e 98, comma 1 Cost., con propria sentenza 4/1/1999 n. 1 il giudice delle leggi ha ritenuto non conforme a Costituzione la previsione di una riserva a favore del personale interno pari al 100% dei posti messi a concorso, in una vicenda nella quale, per intuitive ragioni, l’acceso dall’esterno era completamente precluso.

Il contenuto della pronuncia è stato ribadito con la successiva sentenza 9/3/2002 n. 273, sostanzialmente reiterativa della sentenza 9/5/2002 n. 194, nella quale il giudice ha avuto modo di evidenziare che il pubblico concorso è il metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei piú capaci, idoneo a preservare il rispetto del canone di efficienza della pubblica amministrazione, compromesso quando le selezioni sono caratterizzate da arbitrarie restrizioni dei soggetti legittimati a parteciparvi.

Il principio è stato ribadito ulteriormente dalla sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, emessa in materia di inquadramento nei ruoli dirigenziali di personale apicale di qualifica infradirigenziale sprovvisto di laurea, in un contesto in cui i posti sottratti all’accesso dall’esterno erano sensibilmente prossimi alla totalità.

Per contro, con la propria sentenza 14/4/1999 n. 141, il giudice delle leggi ha ritenuto conforme ai principî di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa la previsione di una riserva a favore del personale già alle dipendenze della pubblica amministrazione in possesso dei requisiti di volta in volta richiesti pari al 50% del totale dei posti messi a concorso.

In questo caso, ciò è particolarmente vero quando l’ammissione del personale interno è subordinata alla verifica del possesso di specifici prerequisiti, quali l’anzianità di servizio nella qualifica immediatamente inferiore e comunque la maturazione di un’esperienza lavorativa di apprezzabile durata, i quali garantiscono comunque un ponderato e fondato giudizio in termini di razionalità delle scelte del legislatore.

Percentuali di riserva eccedenti il 50% dei posti effettivamente messi a concorso, per contro, impingono nel principio di ragionevolezza della scelta legislativa, sempre sindacabile dal giudice delle leggi. Sulla base di questa premessa, con sentenza 16/5/2002 n. 194 la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole una riserva a favore del personale interno pari al 70% dei posti effettivamente messi a concorso.

Il giudice delle leggi, peraltro, ha ritenuto conforme ai valori costituzionali espressi dal combinato disposto degli artt. 3 e 97 Cost. una riserva pari al 100% dei posti messi a concorso quando dall’analisi dell’articolato legislativo emerge in modo rilevante la funzionalizzazione della deroga al principio del buon andamento dell’azione amministrativa.

Ciò è stato perseguito con l’ordinanza 20/11/2002 n. 517, resa in materia di concorsi riservati al personale dipendente dalle Università, ma espressione di un principio sicuramente altrove estensibile.

In particolare, la Corte costituzionale ha evidenziato che non sussiste vizio di legittimità quando sia prevista la precondizione del possesso di esperienza protratta per un significativo periodo nella qualifica immediatamente inferiore ogni qualvolta le prestazioni rese siano intimamente e strutturalmente connesse con quelle afferenti al superiore livello, sempre che l’accesso alla prima sia avvenuto per pubblico concorso. Quanto al titolo di studio, la Corte costituzionale ha evidenziato che non è irragionevole che l’ordinamento richieda il possesso del titolo di studio previsto per l’accesso dall’esterno al momento della partecipazione al pubblico concorso per l’accesso al posto di provenienza, giacché ciò è sicuro índice di maggiore omogeneità fra i due profili, e quindi di ragionevolezza e razionalità dell’esercizio della discrezionalità del legislatore.

Sulla base delle argomentazioni sviluppate e consolidate nella propria giurisprudenza, la Corte costituzionale ha ritenuto a fortiori non conformi alla legge fondamentale le norme che prevedano il passaggio a superiori livelli di inquadramento al di fuori di qualsivoglia procedura selettiva tesa a valutare comparativamente l’idoneità del pubblico dipendente al posto. Come affermato nella sentenza 22/5/2002 n. 218, pertanto, sono del tutto inammissibili gli scivolamenti automatici e generalizzati verso l’alto del personale delle pubbliche amministrazioni, come già emblematicamente evidenziato nella propria precedente sentenza 8/1/1996 n. 1 richiamata in precedenza.

Particolarmente attento è altresí lo scrutinio di legittimità ogni qualvolta il giudice delle leggi si è occupato della stabilizzazione del rapporto lavorativo a tempo determinato o comunque fondato su specifiche normative come quella inerente ai cosiddetti lavori socialmente utili.

Di recente la Corte costituzionale con la sentenza 13/3/2003 n. 89 ha avuto modo di risolvere la vexata quaestio dell’inconvertibilità del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato, ritenendone l’inammissibilità per contrasto con l’art. 97 Cost., osservando che la conversione oltre ad eludere l’obbligo del pubblico concorso garantisce nella sostanza l’automatismo dell’inquadramento con sottrazione totale del posto all’accesso dall’esterno.

In modo sostanzialmente identico la Corte costituzionale aveva già opinato con la sentenza 19/10/1995 n. 447, nella quale è stata sottoposta a riscontro una specifica normativa regionale che prevedeva l’automatico assorbimento di due unità lavorative da parte della Regione, socio di maggioranza di una società consortile a totale capitale pubblico estinta.

Il giudice delle leggi, in questo caso, ha affermato che mentre una tale forma di stabilizzazione del rapporto lavorativo è in contrasto con i valori costituzionali piú volte richiamati, con essi non configge la previsione di un concorso interamente riservato per la partecipazione al quale sia previsto il possesso del titolo richiesto per l’accesso dall’esterno e una specifica esperienza protratta per un significativo periodo di tempo in un profilo sostanzialmente simile a quello di definitiva stabilizzazione.

Differente, per contro, è stato l’atteggiamento del giudice delle leggi nei confronti delle trasformazioni a tempo indeterminato dei rapporti lavorativi a tempo determinato nella forma dei lavori socialmente utili.

In questo caso, come si è verificato proprio con la sentenza 8/7/2003 n. 274, la Corte ha ritenuto giustificata la deroga al pubblico concorso, osservando che non sussistono vizî di incostituzionalità in subiecta materia in quanto l’esperienza acquisita in regime di precarietà porta a ritenere la stabilizzazione del rapporto lavorativo funzionale alle esigenze del buon andamento dell’azione amministrativa, sulla base del presupposto che l’assunzione definitiva avviene a medesimezza di profilo professionale, e quindi a mestiere sostanzialmente invariato, sempre che il numero dei posti interessati alla trasformazione non ecceda il 50% dei posti previsti dalla dotazione per quel tipo di categoria lavorativa e per quello specifico profilo professionale.

6. Le conseguenze della giurisprudenza costituzionale sulle progressioni di carriera previste dai c.c.n.l. del pubblico impiego.

La giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di obbligo del pubblico concorso e dell’ammissibilità delle relative deroghe ed eccezioni ha importanti ripercussioni anche in materia di sviluppo di carriera attuata con il sistema delle cosiddette “progressioni verticali”.

Queste ultime, ormai previste dalla generalità dei contratti collettivi nazionali per il comparto del pubblico impiego, consentono l’accesso del personale dipendente a livelli piú elevati di inquadramento professionale previo il superamento di prove selettive condotte nel rispetto dei relativi regolamenti per la disciplina degli ufficî e dei servizî, con sottrazione totale dell’accesso dall’esterno.

In questo senso, le progressioni verticali sono nella sostanza dei veri e proprî concorsi interni totalmente riservati al personale della pubblica amministrazione attualmente in servizio, e come tali devono essere disciplinati e giuridicamente inquadrati per l’assorbente ragione che mediante il ricorso alle progressioni verticali si tende ad escludere per definizione la garanzia dell’accesso dall’esterno, laddove la loro attivazione presuppone sempre la presenza di vacanze nella dotazione organica dei posti relativi al profilo da ricoprire.

Anche le progressioni verticali, che conducono ad uno sviluppo di carriera a mestiere variato, incontrano i medesimi limiti proprî dei concorsi interni.

Le pubbliche amministrazioni, pertanto, non possono prevedere progressioni verticali tout court ma debbono rispettare i principî enucleati dalla Corte costituzionale precedentemente analizzati ed evidenziati, con l’avvertenza che in difetto i relativi rapporti lavorativi comunque formalizzati sono nulli a tutti gli effetti, con conseguente responsabilità personale e patrimoniale del dirigente che ne ha consentito la formazione.

La declaratoria di nullità dell’inquadramento, infatti, attiva le conseguenze previste dall’art. 2116 c.c. in tema di rapporti lavorativi di fatto, determinando che il dipendente abbia diritto alla rifusione sia del danno emergente, ossia delle differenze retributive tabellari, sia del lucro cessante.

Al dipendente interessato, pertanto, dovranno essere corrisposti sia il controvalore delle prestazioni lavorative comunque rese, incrementate in ragione di quanto previsto dall’art. 5, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, sia del corrispettivo derivante dalla perdita di altre chances lavorative migliorative, nonché dell’eventuale danno biologico, sempre che ne sia provata la sussistenza e la presenza di un effettivo nesso etiologico.

Per contro, il dirigente che abbia consentito l’inquadramento non sfugge alla responsabilità amministrativa verso l’ente di appartenenza secondo gli usuali principî in materia, come espressamente sancito ad abundantiam dall’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n.165, sostanzialmente omogeneo all’art. 1, comma 1 della legge 14/1/1994 n. 20.

Per bandire validamente progressioni verticali, pertanto, la pubblica amministrazione dovrà rispettare una serie di accorgimenti e prerequisiti.

In primo luogo, attuare la programmazione triennale delle assunzioni e del fabbisogno del personale in stretta aderenza con il proprio bilancio di previsione annuale e pluriennale.

In secondo luogo, individuare i posti per i quali l’ente intende procedere mediante sottrazione dell’accesso dall’esterno, e quindi per pubblico concorso.

In terzo luogo, contenere i posti da riservare allo sviluppo di carriera mediante progressione verticale in una percentuale non superiore al 50% dei posti effettivamente messi a concorso per quel determinato profilo professionale.

A ciò non può essere obiettato che la progressione verticale è altro rispetto ad un concorso interno. Come si è avuto modo di evidenziare, infatti, l’accesso all’impiego di cui discetta l’art. 97, comma 3 Cost. non si esaurisce nella sola tematica dell’assunzione alla dipendenza della pubblica amministrazione, ma afferisce anche ai nuovi contenuti prestazionali corrispondenti ai superiori livelli di inquadramento professionale, come ripetutamente affermato e costantemente ribadito dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza 30/10/1997 n. 320.

Né a ciò si può obiettare che la contrattazione collettiva nazionale sembra non ritenere necessaria la stipulazione del contratto individuale di lavoro nel caso di superamento delle prove selettive che alle progressioni verticali sono comunque connaturate.

Per convincersi di ciò è sufficiente rammentare che le norme della contrattazione collettiva nazionale dei varî comparti traggono la loro legittimazione dalla depubblicizzazione del rapporto di pubblico impiego, ossia dal D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.

Ora, se si analizza l’art. 35, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 si ricava per tabulas che il contratto individuale di lavoro è di necessaria stipulazione solo in presenza dell’assunzione, fattispecie che afferisce al momento genetico della costituzione originaria e prima del rapporto di lavoro, che è cosa ontologicamente differente dall’accesso all’impiego cosí come inteso dalla Corte costituzionale.

L’accesso all’impiego, infatti, è un’evenienza ascrivibile ad un genus piú ampio, rispetto al quale l’assunzione è mera situazione di specie che, di per sé, non vale ad esaurirlo.

Ciò spiega la ragione per la quale gli ordinamenti contrattuali di comparto si limitano a prevedere che al dipendente che ha utilmente fruito della progressione verticale sia dovuta solo la mera comunicazione del nuovo trattamento economico e null’altro, pur non risolvendo il problema della necessità di stipulare comunque il contratto individuale di lavoro per ragioni di coerenza ordinamentale.

Ciò spiega anche perché le contrattazioni collettive nazionali di comparto escludano che la pubblica amministrazione possa assoggettare il dipendente al periodo di prova.

Le progressioni verticali, che attuano una modificazione dell’inquadramento del dipendente nel sistema delle categorie professionali, sono funzionali a consentire la progressione di carriera verificata la professionalità acquisita o acquisibile dal dipendente, talché il relativo superamento delle prove selettive che le supportano rappresenta ex se il momento di verifica della sua idoneità alla copertura del posto ascritto alla categoria professionale superiore.

In definitiva, ed in ragione delle argomentazioni enucleate, le progressioni verticali sono veri e proprî concorsi interni, la cui ammissibilità deve confrontarsi con i principî sanciti ed elaborati dalla Corte costituzionale in materia di garanzie della preservazione dell’accesso dall’esterno.

E ciò, si badi bene, a prescindere dalla loro ricostruzione in termini pubblicistici piuttosto che privatistici per almeno due assorbenti motivazioni.

In primo luogo, perché non si può consentire di conseguire per via contrattuale ciò che è precluso alla legge in senso formale o sostanziale, soprattutto osservando che la normativa della contrattazione collettiva nazionale sfugge al giudizio di costituzionalità per difetto del requisito della forza di legge previsto dall’art. 134, comma 1 Cost. per l’attivazione dei relativi giudizî.

In secondo luogo, in quanto i poteri ascritti al privato datore di lavoro nella gestione del rapporto lavorativo sono pur sempre attratti in un’attività funzionalizzata al conseguimento del pubblico interesse, rispetto alla quale i principî di buon andamento ed imparzialità sanciti dall’art. 97, comma 1 Cost. costituiscono non solo titolo, ma anche limite.

7. La potestà statutaria e normativa delle Province e dei Comuni.

L’analisi dell’estensione della potestà statutaria e regolamentare degli enti locali territoriali non è tematica estranea all’economia del presente lavoro, giacché non è mancato chi ha sostenuto che per effetto della modifica del Titolo V della Costituzione i soggetti del circúito degli enti locali territoriali possano normare in modo autonomo l’accesso ai ruoli del pubblico impiego, con atti che, in base al principio di competenza e non di gerarchia avrebbero la medesima forza della legge.

L’accesso al pubblico impiego, infatti, è tematica alla quale non sono estranei punti di contatto con i principî dell’organizzazione e del funzionamento degli enti locali territoriali e con la disciplina dell’organizzazione, evenienze che l’art. 4 della legge 5/6/2003 n. 131 distribuisce variamente nei contenuto ora dello statuto, ora dei regolamenti di tali enti.

Ora, che gli enti locali territoriali abbiano potestà statutaria e regolamentare è cosa ovvia, e di primo acchito pare irrelata al problema oggetto del presente lavoro.

La potestà statutaria e regolamentare degli enti locali, infatti, è evenienza incontroversa nella vigenza del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, e tale era già a partire dell’entrata in vigore della legge 8/6/1990 n. 142, primo momento nel quale non tanto della seconda, quanto della prima si è iniziato a discettare.

Per comprendere appieno quali siano le relazioni fra di esse ed il complesso ordito della gerarchia delle fonti di cognizione dell’ordinamento è bene partire dalla constatazione che la potestà statutaria e regolamentare degli enti locali territoriali è fatto intimamente connesso alla loro autonomia, ossia al fatto che essi sono soggetti giuridici autonomi, i quali, in quanto tali, sono dotati di una loro propria e specifica potestà normativa, che li legittima al compimento di fatti di normazione, ossia di atti nomopoietici o meglio nomotetici, il cui effetto è l’innovazione dell’ordinamento giuridico, sempre che appropriatamente pósti in essere.

L’autonomia normativa degli enti locali territoriali, tuttavia, deve essere rettamente intesa, in relazione alla complessità delle fonti di cognizione riconosciute dall’ordinamento giuridico, al fine di comprenderne la collocazione al suo interno.

Un utile punto di partenza è contenuto proprio nella sentenza 8/7/2003 n. 274 della Corte costituzionale, la quale, senza infingimenti di sorta, ha affermato che gli enti locali territoriali non hanno potestà legislativa. Da questa breve notazione, di per sé ovvia, discende súbito che gli ámbiti della potestà normativa degli enti locali territoriali sono ascritti alle fonti subprimarie dell’ordinamento.

In questo senso, la sentenza del giudice delle leggi è omogenea al contenuto dell’art. 114, comma 3 Cost., che di essi sancisce l’autonomia, evidenziando che una prima ed immediata conseguenza di tale principio è proprio il riconoscimento della loro potestà normativa, di cui sono espressione l’adozione sia dello statuto, sia dei regolamenti.

Di autonomia e potestà normativa si occupa anche l’art. 4, comma 1 della legge 5/6/2003 n. 131, con la quale è stata data attuazione proprio alla legge costituzionale 18/10/2001 n. 3: la disposizione appena richiamata, infatti, evidenzia che i Comuni e le Province hanno potestà normativa, che trova attuazione proprio nella potestà statutaria e nella potestà regolamentare.

Dall’esame congiunto degli artt. 14, comma 3 Cost. e 4.comma 1 della legge 5/6/2003 n. 131 discende una conclusione immediata, fondata sul mero esame testuale delle due disposizioni: l’art. 4, comma 1 della legge 5/6/2003 n.131 ha contenuto normativo nullo, in quanto meramente reiterativo della disposizione costituzionale da cui deriva.

Per verificare quale sia l’ámbito della disponibilità delle fonti-atto prodotte dagli enti locali territoriali in subiecta materia è bene ripercorrere quali siano i paradigmi normativi previsti dall’ordinamento all’esercizio della relativa potestà normativa.

Quanto allo statuto, deve essere evidenziato che i limiti all’esercizio della relativa potestà sono molteplici.

In primo luogo, esso deve rispettare i principî fissati dalla Costituzione.

In secondo luogo, lo statuto deve rispettare i principî di organizzazione pubblica, ossia quell’insieme di norme che sono frutto dell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale e della dottrina, i quali derivano il loro fondamento diretto ed immediato negli artt. 3, 51, 81, 97 e 98 Cost. e nei valori da essi presidiati.

In terzo luogo, lo statuto deve rispettare le norme che sono derivate dalla disposizioni di legge formale e sostanziale di competenza esclusiva statale adottate in attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. p) Cost., ossia le norme in materia elettorale, di organi di governo, e di esercizio delle funzioni fondamentali degli enti locali.

In quarto luogo, gli statuti devono rispettare i contenuti della legislazione adottata in attuazione del combinato disposto degli artt. 76 Cost. e 2, comma 4, lett. da a) a q) della legge 5/6/2003 n. 131.

Quanto al suo contenuto, è di immediata evidenza che allo statuto non è estranea la regolamentazione di materie comunque connesse con la tematica dell’accesso all’impiego. Allo statuto, infatti, è riservata proprio la regolamentazione dei principî dell’organizzazione dell’ente locale, rispetto alla quale l’accesso all’impiego presenta evidenti punti di contatto.

Per quel che attiene ai regolamenti, di essi si occupano a vario titolo l’art. 117, comma 6 Cost. e l’art. 4, commi , 4 e 6 della legge 5/6/2003 n. 131, ai quali deve essere riferito l’art. 7 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

Ai regolamenti degli enti locali territoriali fa riferimento l’art. 4, comma 3 della legge 5/6/2003 n. 131.

Anche nei loro confronti l’ordinamento giuridico prevede limiti paradigmatici ben precisi in relazione al loro contenuto, limiti che operano, per quel che qui interessa, anche nei confronti del regolamento per la disciplina degli ufficî e dei servizî, al quale è demandata ex art. 89 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, proprio la regolamentazione della disciplina dell’accesso all’impiego.

In primo luogo, i regolamenti comunali devono rispettare i contenuti della disciplina statutaria. Ciò significa che i regolamenti degli enti locali territoriali non possono trascendere la disciplina di principio in materia organizzativa presente nei relativi statuti.

In secondo luogo, in considerazione della loro collocazione rispetto agli statuti, i regolamenti degli enti locali territoriali devono rispettare il contenuto di tutte le norme che costituiscono limite al corretto esercizio della potestà statutaria, non essendo ammissibili deroghe per saltum.

In terzo luogo, i regolamenti degli enti locali territoriali devono rispettare delle leggi dello Stato e delle Regioni, ciascuno per quanto di propria competenza, in funzione della differente distribuzione delle relative potestà legislative organizzata e disciplinata dall’art. 117, commi 2 e 4 Cost., fonti di regolazione che debbono garantirne quanto meno i requisiti minimi di uniformità.

Anche con riferimento a quest’ultimo limite, deve essere osservato che i rinvíi contenuti nell’art. 4, comma 3 della legge 5/6/2003 n. 131 hanno contenuto normativo e pragmatico-applicativo nullo.

Nullo è il riferimento all’art. 114 Cost. che compare nella disposizione di legge ordinaria appena richiamata, in quanto la disposizione oggetto di rinvio fa già riferimento di per sé al rispetto dello statuto.

Nullo è altresí è il riferimento all’art. 117 Cost., giacché la disposizione costituzionale prevede ex se che gli enti locali territoriali “hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione”.

Nullo è infine il rinvio all’art. 118 Cost., in quanto non contiene alcun riferimento testuale alla potestà regolamentare degli enti de quibus.

Dall’analisi effettuata sui limiti della potestà statutaria e regolamentare degli enti locali territoriali si può concludere che i confini della loro normazione in materia di organizzazione sono enucleati in modo completo negli artt. 114 e 117 comma 6 Cost., norme rispetto alle quali l’art. 4 della legge 5/6/2003 n. 131 poco o nulla aggiunge, a parte il riferimento all’assicurazione dei requisiti minimi di uniformità.

Unico elemento di parziale novità è costituito dall’introduzione di una riserva di regolamento in materia di organizzazione, evenienza non nuova in materia di disciplina dell’accesso agli impieghi, posto che essa è materia già regolata dall’art. 89 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.

E’ questo, a ben vedere, l’unico ámbito nel quale viene ribadita la presenza di una riserva regolamentare in forza del principio di competenza, principio che non vale ad accreditare la tesi, peraltro screditata expressis verbis dalla Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, secondo cui i regolamenti degli enti locali territoriali hanno una forza che trascende quella riconosciuta alle fonti subprimarie dell’ordinamento.

Ed a questo proposito è sufficiente osservare che quando il legislatore ha inteso annettere efficacia abrogativa nei confronti di atti aventi forza di legge da parte di atti di fonte infralegislativa, in realtà li ha fatti discendere dalla previsione di espresse norme di legge che li hanno ad oggetto e che introducono altrettanto espresse forme di cedevolezza, come avvento nel caso dell’art. 17, comma 2 della legge 23/8/1988 n. 400 in materia di delegificazione.

In conclusione, lo statuto ed i regolamenti degli enti locali territoriali non possono disciplinare i requisiti di accesso all’impiego prescindendo dai valori costituzionali che per essi costituiscono limite invalicabile, né possono derogare a norme aventi forza di legge, poiché l’introduzione della riserva di competenza in subiecta materia non vale ad attribuire agli atti normativi de quibus una forza pari a quella della legge in senso formale o sostanziale.

8. Conclusione.

Dall’esame della giurisprudenza costituzionale di recente formazione ed ormai consolidata emerge con chiarezza che il pubblico concorso continua ad essere l’unico sistema di reclutamento a carattere generale dei dipendenti della pubblica amministrazione, le cui possibili deroghe scontano sempre e comunque il giudizio di conformità ai valori della ragionevolezza e della funzionalizzazione al buon andamento ed all’imparzialità dell’azione amministrativa al fine di garantire che l’attività del pubblico dipendente sia effettivamente asservita agli interessi esclusivi della nazione.

Di qui l’esigenza che i legislatori statale e regionale, ciascuno nei rispettivi ámbiti di competenza, non prevedano indebite sottrazioni al principio del reclutamento dall’esterno del proprio personale o del personale degli enti locali territoriali.

Come ribadito dalla sentenza della Corte costituzionale 8/7/2003 n. 274, infatti, il giudice delle leggi è abilitato su istanza di riscontro dello Stato a sindacare la legislazione regionale in relazione non solo all’art. 117 Cost., ma in rapporto a tutte le disposizioni della Costituzione, e quindi anche in riferimento ai principî fondamentali da esse espressi, evenienza che è del tutto preclusa alle Regioni, per le quali il conflitto di attribuzione è limitato al solo sindacato di conformità dell’esercizio della potestà legislativa ex art. 117 Cost..

Il principio cosí enucleato dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale è oggi particolarmente importante proprio in considerazione del mutato assetto delle potestà legislative, a dimostrazione che i valori espressi dagli artt. 3, 51, 81, 97 e 98 Cost. trascendono le modifiche ordinamentali di recente attuazione per assolvere al ruolo di pilastro dei sistemi di reclutamento del personale nella pubblica amministrazione cui tutti i legislatori dell’ordinamento debbono ossequio.

Ossequio che, a fortiori, è dovuto anche dagli enti locali territoriali la cui potestà statutaria e regolamentare deve comunque rispettare i limiti posti dalla legislazione statale e regionale, nonché tenere conto che la loro potestà normativa è comunque ascrivibile alle fonti secondarie dell’ordinamento giuridico, come da ultimo ribadito dalla Corte costituzionale in modo tanto lapidario, quanto efficace.


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