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Articoli e note

n. 9/2006

RICCARDO NOBILE*

La repressione della condotta antisindacale dei Comuni
ed il mancato rispetto del sistema delle relazioni sindacali

horizontal rule

1. Introduzione.

La materia della repressione della condotta antisindacale è di importanza imprescindibile per comprendere i termini della dialettica che contrappone l’esercizio dei poteri datoriali e delle potestà organizzative della pubblica amministrazione alla tutela delle prerogative delle organizzazioni sindacali a vario titolo coinvolte nello svolgimento delle relazioni che le avvincono, di volta in volta, con gli organi di governo dell’ente locale e con la relativa dirigenza.

Il mancato rispetto delle relazioni sindacali da parte della pubblica amministrazione, ovvero la mancata garanzia delle prerogative delle organizzazioni sindacali sul luogo di lavoro, infatti, dà luogo a condotta illecita e quindi censurabile proprio in quanto condotta antisindacale.

A questo proposito, giova premettere alcune brevi notazioni sulle fonti di normazione e di regolazione che contengono la disciplina delle relazioni fra gli enti locali territoriali e le organizzazioni sindacali, non senza osservare che il comparto contrattuale cui essi afferiscono è interessato da due settori di incidenza: l’area della categorie professionali e l’area della dirigenza.

Entrambe prevedono relazioni sindacali sostanzialmente identiche, pur nella differenziazione delle singole materie in cui ciascuna di esse si articola e compendia, evenienza, questa, che agevola la presente analisi, consentendo di ridurla ad unità.

Per la disciplina delle relazioni sindacali, l’attuale ordinamento prevede una sostanziale riserva di contrattazione collettiva nazionale. L’art. 40, comma 3, terza proposizione del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, emanazione dell’art. 2, comma 1, lett. a), prima parte della legge 23/12/1992 n. 421, infatti, sancisce espressamente che “la contrattazione integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti nei contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure che questi ultimi prevedono”.

I termini del rinvio mobile appena evidenziato sono completati dalla contrattazione collettiva nazionale di settore, suddivisa in funzione delle aree di incidenza.

Piú in dettaglio, il sistema delle relazioni sindacali che interessa il comparto contrattuale degli enti locali è delineato per l’area delle categorie professionali dall’artt. 16 del c.c.n.l. 31/3/1999 e dagli artt. 4, 7 e 8 del c.c.n.l. 1/4/1999, esplicitamente confermato dall’art. 3, comma 1 del c.c.n.l. 22/1/2004.

Per l’area della dirigenza, in modo del tutto analogo operano gli artt. 4, 7 ed 8 del c.c.n.l. 23/12/1999, delineando un sistema coerente e consistente esplicitamente confermato dall’art. 3, comma 1 del c.c.n.l. 22/4/2006, che, con il proprio art. 6 ha modificato l’art. 8 del c.c.n.l. 23/12/1999.

Le relazioni sindacali oggi previste e disciplinate dall’ordinamento contrattuale sono pertanto le seguenti: la contrattazione collettiva decentrata integrativa, la concertazione, la consultazione, l’informazione preventiva e l’informazione successiva, ognuna delineata in modo tipico e sintomatico.

2. La definizione di “condotta antisindacale”.

Della condotta antisindacale il legislatore fornisce una definizione all’art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300. Per quel che qui interessa, ossia limitando l’analisi della normativa vigente ad uno degli elementi della possibile plurioffensività della condotta dell’ente locale, si è in presenza di condotta antisindacale quando questi, attraverso i proprî organi di governo ovvero i proprî dirigenti, “ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

In tutti questo casi, “su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il [giudice ordinario adíto in qualità di giudice del lavoro] del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”, la cui efficacia esecutiva “non può essere revocata fino alla sentenza con cui il […] giudice del lavoro definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo”.

La repressione della condotta antisindacale pósta in essere dalla pubblica amministrazione è oggi devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, come previsto dall’art. 63, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, secondo cui “sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

3. Le caratteristiche del procedimento.

Come si può agevolmente notare, la procedura prevista dall’art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300 enuclea un procedimento giurisdizionale dotato di particolare incisività. Esso consente una forma di tutela piú che celere alle organizzazioni sindacali, lasciando al datore di lavoro la possibilità di esperire opposizione. Infatti, “contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti opposizione davanti al pretore in funzione di giudice del lavoro che decide con sentenza immediatamente esecutiva”.

La norma è direttamente applicabile anche alle condotte sindacali póste in essere dalla pubblica amministrazione. Secondo l’art. 28, comma 7 della legge 20/5/1970 n. 300 “se il comportamento [che concretizza la condotta antisindacale] è posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico, l'azione è proposta con ricorso davanti al [giudice ordinario adíto in qualità di giudice del lavoro] competente per territorio”.

Quanto all’individuazione del giudice avente giurisdizione, l’art. 63, comma 3 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 la demanda al giudice ordinario adíto in qualità di giudice del lavoro, con ciò attualizzando i principî della medesimezza della tutela previsto iure privatorum e della concentrazione della cognizione in subiecta materia in capo ad un giudice specializzato.

In relazione alla competenza territoriale, il giudice da adire non può che essere quello nella cui giurisdizione ha sede il luogo nel quale è stata pósta in essere l’asserita condotta antisindacale esplicitamente denunziata come tale.

4. Il contenuto e la ratio della tutela.

L’azione di repressione della condotta antisindacale è delineata dall’art. 28, comma 1 della legge 20/5/1970 n. 300, che la esplicita prevedendo che “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

Come si può agevolmente notare, il contenuto dell’azione è fondato su una clausola generale di responsabilità, a contenuto atipico, e quindi non tipizzabile a priori, in stretta analogia con quanto previsto dall’art. 2043 c.c..

Fatta eccezione per il secondo elemento presente nella norma, nel quale l’azione del datore di lavoro è preordinata all’impedimento o alla limitazione dell’esercizio del diritto di sciopero, il contenuto della clausola generale di responsabilità è orientato a sanzionare comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale”.

La condotta, che può essere attiva od omissiva, deve essere, da un punto di vista meramente oggettivo, teleologicamente orientata, ossia diretta al conseguimento di uno specifico obiettivo che ne costituisce verso e direzione: impedire nei fatti l’esercizio delle libertà sindacali e delle relative attività, ovvero limitarne l’esercizio.

La norma, per essere operativa, necessita di completamento, il quale può essere attualizzato mediante rinvio mobile a tutte le norme dell’ordinamento che enunciano specifiche forme di libertà sindacali o che disciplinano le relative attività e/o relazioni con la controparte, a prescindere dalla fonte di regolazione.

Ricostruita in questo modo, la norma in esame consente l’immediato adeguamento alle modifiche legislative ed alle innovazioni della contrattazione collettiva nazionale di comparto, enucleando una clausola di responsabilità a carico del datore di lavoro dotata di una specifica forza espansiva.

L’ampiezza del contenuto della norma, unitamente alla sua capacità di adattamento in progress, consentono di ricostruirne la ratio in termini ampî. Essa, come è facilmente intuibile, condiziona sia la ricostruzione degli elementi essenziali dell’azione, ed in particolare modo dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., sia il contenuto del petitum sostanziale, ossia della domanda di parte attrice, che poi condiziona a sua volta il contenuto della decisione ottenibile in base al principio di corrispondenza fra domanda e pronuncia previsto dall’art. 112 c.p.c..

Data l’ampiezza della norma in questione, la sua ratio non può che condividerne verso e direzione, ed identificarsi nella tutela del sindacato nei confronti di tutti quei comportamenti del datore di lavoro tali da lederne, ingiustificatamente, le prerogative , danneggiandone l'immagine.

È evidente che stante la finalizzazione della tutela nei termini appena evidenziati, ne costituiscono oggetto tutte le condotte datoriali che si concretizzino in comportamenti che ledono oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, essendo condizione né necessaria, né sufficiente la presenza di uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro.

Ciò si verifica, in primo luogo, nel caso di condotte tipizzate, ossia in quelle condotte attive od omissive che consistono nell'illegittimo o nell’illecito diniego di prerogative sindacali quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali, tutti previsti oltre che dalla legge 20/5/1970 n. 300 anche dall’a.c.n.q. del 7/8/1998.

Tale evenienza, in secondo luogo, si configura anche nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale secondo il principio illustrato di orientamento teleologico della condotta al fine illecito costí represso.

È di tutta evidenza che oggetto della tutela apprestata dall’art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300 è anche il mancato rispetto dell’assetto delle corrette relazioni sindacali tenuto dalla pubblica amministrazione per il tramite dei proprî dirigenti e/o della sua delegazione di parte pubblica.

Il mancato rispetto delle relazioni sindacali, la cui delineazione l’art. 40, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 demanda alla contrattazione collettiva nazionale di comparto, infatti, è di per sé idonea a limitare, o nei casi piú gravi, ad impedire l’esercizio delle attività sindacali, menomando le prerogative delle relative organizzazioni ed alterando sensibilmente la rilevanza del ruolo che la contrattazione collettiva demanda loro.

Quanto al contenuto della pronuncia, esso si desume agevolmente dall’art. 28, comma 1 della legge 20/5/1970 n. 300, il quale prevede che il giudice ordinario, adíto in qualità di giudice del lavoro, “ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.

Il contenuto della pronuncia ha chiari ed inequivoci contenuti di condanna, in quanto lo iussum iudicis impone al datore di lavoro alternativamente o cumulativamente la cessazione del comportamento contra ius e la rimozione dei relativi effetti.

Correlativamente, la domanda che introduce il giudizio non può che essere una domanda di condanna ad un fare specifico, con ciò escludendo la possibilità di richiesta di pronunce di accertamento mero volte a far dichiarare al giudice la connotazione antisindacale della condotta datoriale.

Il contenuto in concreto dell’antisindacalità della condotta dell’ente locale consente di individuare i soggetti titolari della legittimatio ad causam, altro elemento essenziale dell’azione processuale, che coincide, nell’ottica chiovendiana tuttora attuale, con il vanto della titolarità della posizione soggettiva sostanziale che si asserisce lesa e della quale l’azione in giudizio costituisce proiezione processuale.

Essi, a ben vedere, sono i soggetti sui quali ricadono gli effetti lesivi del comportamento dell’ente locale, e pertanto coincidono con le organizzazioni sindacali territoriali, con le r.s.u. dei dipendenti ascritti all’area delle categorie professionali ovvero, per l’area della dirigenza, con le relative r.s.a.. I soggetti sindacali de quibus sono quindi gli organismi indicati dagli artt. 9 e 10 del c.c.n.l. 1/4/1999 per l’area delle categorie professionali e dall’art. 11 del c.c.n.l. 23/12/1999 per l’area della dirigenza, confermato per tabulas dall’art. 3 del c.c.n.l. 22/4/2006.

Va da sé che il titolare della legittimatio ad causam può essere anche una sola delle componenti degli organismi evidenziati, come accade quando gli effetti della condotta lesiva afferiscono ad un’unica organizzazione sindacale.

È escluso che la legittimazione processuale attiva spetti a singoli membri della r.s.u., in quanto tale organismo agisce ed opera collegialmente, deliberando a maggioranza dei proprî membri, come si desume dall’art. 8, comma 1 del c.c.n.l. 7/8/1998 nei termini del chiariti dal c.c.n.l. 6/4/2004.

In modo del tutto analogo si può opinare per la r.s.a. dei dirigenti per le materie che li interessano.

5. Esempî di condotta antisindacale.

Completando le osservazioni del precedente paragrafo, si può concludere che costituisce condotta antisindacale l’utilizzazione di una relazione sindacale in modo improprio, o carente, o comunque idoneo a vanificarla in concreto.

Sono esempî di ciò, la pretesa di risolvere in concertazione materie demandate alla contrattazione integrativa, il pretendere di instaurare procedure concertative in carenza di un’informazione idonea e completa, non integrandola a richiesta delle organizzazioni sindacali, il non fornire informazione successiva degli atti di gestione del rapporto di lavoro, l’adottare atti in pendenza dello svolgimento delle procedure concertative, il non attivare la consultazione sindacale nei casi previsti dall’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, l’anticipare le autonome determinazioni datoriali nel caso in cui la contrattazione collettiva decentrata integrativa non si sia conclusa entro i termini previsti dalla contrattazione nazionale.

Oltre alle ipotesi di mancato rispetto delle relazioni sindacali, costituiscono esempî di condotta antisindacale attuare il trasferimento dirigente sindacale senza il previo assenso dell’organizzazione di appartenenza, il negare lo svolgimento del diritto di assemblea adducendo ragioni e motivazioni speciose, quali la creazione di disagî per l’utenza, il limitare il diritto di affissione, ed in generale non consentire l’esplicazione delle prerogative sindacali previste dalla legge 20/5/1970 n. 300, ovvero, l’addurre speciosamente l’argomento del verificarsi di disagî e difficoltà per il cittadino utente per limitare o differire l’esercizio di diritti sindacali, dal momento che essi sono evenienze del tutto prevedibili e prevenibili con azioni datoriali e comunque tipiche di ogni forma di protesta lato sensu intesa.

Si è in presenza di condotta antisindacale anche quando le relazioni sindacali non sono condotte nel rispetto del principio di buona fede in senso oggettivo. In questi casi, è indubbio che la mancanza di buona fede, evidenziata, a seconda dei casi, nei modi sintomaticamente enucleati dal giudice delle leggi, ne áltera il contenuto, ledendo l’immagine delle organizzazioni sindacali e frustrandone il ruolo.

La condotta del datore di lavoro può incidere, cumulativamente, sia sui diritti del dipendente in quanto tale, sia sugli interessi delle organizzazioni sindacali delle quali il dipendente stesso è membro.

Di qui la potenziale plurioffensività della condotta antisindacale, che qui viene solo evocata, ma non sviluppata.

6. L’utilità del procedimento giurisdizionale.

L’utilità del procedimento di repressione della condotta antisindacale è di immediata percezione per almeno due ordini di ragioni.

In primo luogo, la condotta sub iudice non presenta le caratteristiche della tipicità. Ciò consente alle organizzazioni sindacali legittimate al ricorso di fruire di una forma di tutela particolarmente agile perché assoggettata alla possibilità di continuo adattamento alle mutate sensibilità che si concretizzano nel tempo e nello spazio.

Intesa in questo modo, la fattispecie entro la quale è sussunta la condotta prevista dall’art. 28, comma 1 della legge 20/5/1970 n. 300, ossia “impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale”, esibisce la caratteristica dell’atipicità in modo del tutto simile a quanto concretizzato per l’illecito aquiliano dall’art. 2043 c.c., consentendo di ipotizzare una vera e propria forza espansiva della forma di tutela delineata dall’ordinamento, soprattutto a fronte dello sbilanciamento che connota, nell’ámbito della causa di scambio del contratto di lavoro subordinato, la posizione del datore di lavoro rispetto a quella del lavoratore.

In secondo luogo, il procedimento de quo enuclea un vero e proprio processo speciale, dotato di specifica autonomia rispetto al rito ordinario e connotato dall’elemento della sommarietà, che è accentuata dalla sua estrema celerità, come si desume per tabulas dal termine estremamente contenuto di due giorni previsto per l’adozione del provvedimento giurisdizionale interinale.

In considerazione dell'adiacenza temporale del provvedimento giurisdizionale rispetto alla domanda, evenienza che pone specifici problemi per la convocazione delle parti, è evidente l’efficacia ripristinatoria che ha il decreto che accoglie la domanda delle organizzazioni sindacali attrici.

Essa è rafforzata dal fatto che il decreto che accoglie la domanda delle organizzazioni sindacali è dotato di provvisoria efficacia esecutiva anche qualora il datore di lavoro vi si opponga.

In definitiva, il processo speciale previsto dal legislatore dall’art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300, proprio in quanto dotato della caratteristica della sommarietà, è dotato di una particolare forza ripristinatoria della legalità violata, alla quale si accompagna, per assicurarne l’esecuzione, la particolare forma di pressione psicologica sul datore di lavoro rappresentata dalla possibilità di incriminazione ex art. 650 c.p. in caso di mancata conformazione alla pronuncia giurisdizionale.

7. Il provvedimento conclusivo del procedimento inibitorio.

Come è stato precedentemente evidenziato, il processo speciale previsto per garantire la repressione della condotta antisindacale è strutturato in due fasi, delle quali una necessaria e l’altra meramente possibile.

Quanto alla prima, il provvedimento giurisdizionale che la definisce ha la forma del decreto motivato, che, qualora accolga la domanda delle organizzazioni sindacali attrici, contiene l’ordine rivolto al datore di lavoro di cessare il comportamento sindacalmente illegittimo e di rimuoverne i relativi effetti. In caso contrario, ossia di rigetto della domanda, la pronuncia giurisdizionale ha contenuto implicito di accertamento della correttezza del comportamento datoriale senza, peraltro, che da ciò sia possibile evincerne la natura di provvedimento giurisdizionale di accertamento mero a contenuto negativo.

Il decreto de quo ha efficacia immediatamente esecutiva, che può essere revocata solo all’esito del giudizio di merito che definisce l’eventuale opposizione. Essa, derivando direttamente dalla legge, lo differenzia dai provvedimenti cautelari atipici previsti dall’art. 700 c.p.c., la cui efficacia provvisoria deriva proprio dalla loro natura anticipatoria tipica dei provvedimenti di prime cure.

L’esecuzione del decreto, indipendentemente dall’interposizione dell’opposizione, avviene con le forme previste per assicurare l’attuazione degli obblighi di fare o di non fare, secondo quanto previsto dagli artt. 612 e seguenti c.p.c..

Nel caso in cui si sia in presenza di impossibilità di esecuzione coattiva dovuta all’infungibilità delle prestazioni richieste per dare luogo alla cessazione del comportamento antisindacale denunciato ovvero per addivenire alla rimozione dei suoi effetti, l’ordinamento prevede una specifica forma di pressione psicologica sul datore di lavoro. Essa consiste nell’incriminabilità del comportamento omissivo nel quale si concretizza il mancato comportamento di rimozione degli effetti di danno ai sensi dell’art. 650 c.p..

Sia nell’uno, sia nell’altro caso, il decreto conclusivo della prima fase del processo è suscettibile di opposizione, peraltro sempre nell’ámbito del primo grado di giudizio.

Quanto alla seconda, ossia all’opposizione, essa è esperibile sia dal datore di lavoro, sia dalle organizzazioni sindacali in caso di mancato accoglimento della domanda interposta.

L’opposizione enuclea una fase autonoma caratterizzata dalla piena cognizione, e definita con una sentenza di primo grado, autonomamente ricorribile innanzi alla Corte d’appello territorialmente competente.

Qualora l’opposizione si concluda in senso favorevole alle organizzazioni sindacali attrici valgono le medesime considerazioni effettuate in materia di esecuzione del decreto che definisce la prima fase del processo di primo grado.

8. L’attualità della condotta antisindacale e la permanenza degli effetti.

Come si è avuto modo di evidenziare nel § 4, l’azione di repressione della condotta antisindacale ha la funzione di rimuovere gli ostacoli alla lesione ingiustificata delle prerogative del sindacato che ne danneggino l'immagine a séguito dei comportamenti del datore di lavoro diretti ad “impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”.

La pronuncia del giudice, in modo del tutto conseguenziale, ordina “la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti” della condotta lesiva, con ciò lasciando intendere che il suo intervento in tanto è ammissibile, in quanto si sia in presenza del perdurare di effetti sui quali, per l’appunto, interviene lo iussum con effetti inibitorî.

Detto in altri termini, l’azione di repressione della condotta antisindacale ex art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300 presuppone la permanenza degli effetti della condotta datoriale che le organizzazioni sindacali, titolari della legittimatio ad causam, si sono prefisse di inibire.

Tutto ciò è strettamente connesso alla connotazione dell’interesse ad agire, che, come noto insieme alla legittimatio ad causam, costituisce elemento costitutivo dell’azione processuale, rendendo necessario analizzare qual’è il margine di utilità tratto dall’attore dall’avvenuto accoglimento della pretesa introdotta nel processo.

A questo proposito, si può osservare che secondo l’univoco orientamento della giurisprudenza, i presupposti essenziali dell’azione ex art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300 sono, congiuntamente o alternativamente, l’attualità della condotta antisindacale e/o il perdurare dei suoi effetti.

In modo del tutto conseguenziale, l’ammissibilità e/o l’effettività dell’ordine del giudice richiedono che la condotta antisindacale sia ancóra in atto, giacché non è coerente dal punto di vista logico-giuridico disporre la cessazione di un comportamento privo dei requisiti dell’attualità.

Questo modo di opinare, peraltro, riferisce il requisito dell’attualità non tanto alla condotta datoriale, quanto piuttosto ai suoi effetti. Si può quindi concludere che la norma mira a colpire, alternativamente, o una condotta ancóra in atto, o una condotta esaurita ma produttrice di effetti permanenti perché ancora perduranti.

Da ciò si desume che l’attualità della condotta antisindacale, che costituisce presupposto necessario per l’esperibilità dell’azione ex art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300, in quanto diretta ad una pronunzia costitutiva, non è esclusa dall’esaurirsi della singola azione sindacale del datore di lavoro, ove gli effetti del suo comportamento illegittimo siano tuttora persistenti perché idonei a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la loro portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, quando essa sia tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell’attività sindacale.

Quanto appena evidenziato è vero proprio in presenza della violazione delle norme della contrattazione collettiva nazionale che disciplinano lo svolgimento delle corrette relazioni sindacali, come accade, quando l’oggetto della violazione datoriale è il diritto d’informazione e consultazione dell’organizzazione sindacale. Ciò in quanto una tale violazione incide sempre e comunque sui diritti all'immagine e al rispetto della sua funzione, rispetto ai quali costituisce vulnus l'altrui inosservanza delle regole che ne garantiscono l'esercizio.

A riprova di ciò può essere evidenziato che la sfera dei diritti sindacali non si esaurisce piú nello svolgimento dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro, ma si estende anche a tutti i casi in cui si consolidino in favore del sindacato posizioni soggettive tutelate da una norma legislativa o contrattuale, anche solo di carattere procedimentale e non decisionale.

In questi casi, infatti, proprio in virtú dell’asserita lesione del diritto all’immagine e dello status sindacale si è in presenza dell’attualità della condotta per il suo solo porsi in essere. In tal modo, il requisito della sua attualità non può essere escluso dall’esaurirsi dell’immediatezza fenomenica della singola azione antisindacale ove i suoi effetti, ed il comportamento illegittimo, pur se solo astrattamente suscettibili di reiterazione, sono idonei a creare una situazione d’incertezza in ordine alle prerogative sindacali e, quindi, ad ostacolare il loro libero svolgimento.

Le considerazioni appena sviluppate devono indurre ad evidenziare che è proprio il riferimento al perdurare degli effetti della condotta antisindacale che consente di continuare a ritenere che l’attualità sia prerequisito della proponibilità dell’azione ex art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300.

In sintesi, “attuale” è non solo la condotta datoriale ancóra in atto, ma anche quella condotta che, ormai esaurita nella sua fenomenicità, lasci residuare un sia pur minimo effetto pregiudizievole del comportamento antisindacale, talché il provvedimento del giudice possa avere qualche efficacia, anche parziale, sul piano della tutela dell’attività e della libertà sindacale al fine di ripristinare la legalità violata, assicurando al titolare della legittimatio ad causam l’utilità ripristinatoria cui l’azione in esame è preordinata.

In conclusione, elemento centrale della tutela de qua non è tanto la condotta del datore di lavoro, quanto piuttosto l’immanenza degli effetti che essa sta ancóra casualmente producendo al momento in cui se ne chiede la rimozione.

9. La natura necessariamente costitutiva del provvedimento giurisdizionale.

Le considerazioni sviluppate nel precedente paragrafo conducono a ritenere che la pronuncia di repressione della condotta antisindacale qui in discussione ha natura esclusivamente costitutiva.

Da ciò segue che non sono ammissibili pronunce giurisdizionali né a contenuto di mero accertamento della condotta antisindacale su domanda delle organizzazioni sindacali legittimate, né di accertamento negativo di una condotta non antisindacale su istanza del datore di lavoro.

L’inammissibilità delle sentenze di accertamento mero involge a fortori l’inammissibilità di pronunce cosiddette “de futuro”, ossia che abbiano lo scopo di far ordinare al datore di lavoro di non tenere una data condotta che si pretende di far dichiarare attualmente antisindacale, e della quale si teme o la reiterazione o l’autonoma concretizzazione.

Quanto appena evidenziato ha immediati riflessi sulla connotazione dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.. In presenza di una domanda con cui le organizzazioni sindacali attrici chiedono una pronuncia di accertamento mero al giudice non resta che dichiarare l’azione carente di interesse, e quindi, in definitiva, rigettare la relativa azione per carenza di uno dei suoi elementi costitutivi.

10. Conclusioni.

L’esame delle modalità mediate le quali è garantita la repressione della condotta antisindacale attuata dalla pubblica amministrazione nei confronti dell’azione degli enti locali territoriali dimostra la particolare efficacia dello strumento previsto fin dall’entrata in vigore della legge 20/5/1970 n. 300.

È evidente che il ricorso a tale particolare mezzo di reazione costituisce il baluardo nei confronti di condotte datoriali che non sono tollerabili perché álterano la serenità e la profittevolezza dello svolgimento delle corrette relazioni sindacali a beneficio del clima aziendale e dei diritti non solo dei lavoratori, ma anche della pubblica amministrazione datrice di lavoro.

Ciò consente di concludere che la particolare efficacia dell’azione prevista dall’art. 28 della legge 20/5/1970 n. 300 è una diretta conseguenza della necessità di assicurare la correttezza dei rapporti fra pubblica amministrazione datrice di lavoro, organizzazioni sindacali territoriali ed aziendali e lavoratori.

Il tutto nella prospettiva dell’affermazione del principio della piena responsabilità di ognuna della parti, nel rispetto dei ruoli che a ciascuna di esse sono assegnati, nella certezza che ciò costituisca un utile ed indispensabile antidoto contro il manifestarsi o peggio ancóra il persistere, di elementi di teratologia relazionale che nuocciono al clima lavorativo, alterano i rapporti e frenano il dialogo.

 

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* Segretario Generale e Direttore generale della Città di Salsomaggiore Terme.


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