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NOBILE RICCARDO
(Segretario Generale e
Direttore Generale del Comune di Muggio’ Mi)
Il contratto di lavoro a tempo determinato negli enti locali in relazione al divieto di conversione a tempo indeterminato dopo la sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2003 n. 89
Il rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione ha sempre conosciuto la variante del rapporto di lavoro a tempo determinato, strutturalmente identico a proprio analogon a tempo indeterminato, dal quale si differenzia per l’apposizione del termine finale avente natura essenziale quale elemento connotante ad effetti costitutivi.
In generale, per effetto della modificazione della struttura del rapporto lavorativo alle dipendenze della pubblica amministrazione avvenuto con la sua depubblicizzazione a séguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 3/2/1993 n. 29 e del suo consolidamento attuato con il D.Lgs. 31/3/1998 n. 80, oggi le due fattispecie sono refluite nel piú ampio genere dei rapporti lavorativi alle dipendenze e sotto la direzione (art. 2094 c.c.) di un dirigente immedesimato organicamente in una determinata pubblica amministrazione secondo quanto previsto dall’art. 16, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 oggetto di specificazione dall’art. 89, comma 6 del D. Lgs.18/8/2000 n. 267, che sul lavoratore interviene con atti gestionali posti in essere nell’esercizio di poteri del privato datore di lavoro, come dispone l’art. art. 5, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, ribadito nei suoi contenuti dall’art. 107, comma 3, lett. e) del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
Il tutto nell’ámbito delle previsioni del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, che, nel frattempo, ha raccolto in opera di sintesi il prodotto della prima e della seconda privatizzazione del rapporto di pubblico impiego depubblicizzato.
In questo senso si parla oggi di contratto di lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato, disciplinati dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, svolta nel rispetto delle previsioni dell’art. 40 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, norma sulla quale si fonda l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi de quibus, come ha avuto modo di precisare la Corte costituzionale con la propria fondamentale sentenza 16/10/1997 n. 309.
Del contratto a tempo determinato, quale forma di rapporto lavorativo di tipo flessibile, discetta in termini generali e di impianto normativo l’art. 36, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, che ne demanda la regolamentazione alla contrattazione collettiva di comparto che, per quel che qui interessa, lo disciplina a sua volta con l’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, fonte di regolazione di tipo pattizio che completa la tornata contrattuale del periodo 1998/2001, assumendo un ruolo particolarmente significativo in relazione agli effetti disapplicanti previsti dall’art. 69, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Il contratto di lavoro a tempo determinato, pertanto, completata la tornata contrattuale 1998/2001, è regolamentato e disciplinato da una complessa stratificazione di fonti, in parte normative, in parte pattizie, ossia dagli artt. 36 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, dal D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 (che ha abrogato la legge 18/4/1962 n. 230 e l’art 23 della legge 28/2/1987 n. 56) e dall’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, norma che ha determinato la caducazione della precedente regolamentazione contenuta nell’art. 16 del c.c.n.l. del 6/7/1995 completato dall’art. 4 del c.c.n.l. del 13/6/1996.
In questo breve lavoro non si intende analizzare quali siano le fattispecie di contratto a tempo determinato validamente stipulabili dagli enti locali territoriali, ma solo analizzare le conseguenze indotte nell’ordinamento dal divieto della sua conversione in contratto a tempo indeterminato.
In tale ampio contesto si colloca la sentenza della Corte costituzionale 13/3/2003 n. 89, la quale, nell’ámbito del rapporto di pubblico impiego depubblicizzato, ha definitivamente risolto proprio la vexata quaestio dell’inconvertibilità del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il percorso logico seguíto dal giudice delle leggi non è semplice, ma molteplice, e trae le proprie mosse direttamente dall’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, secondo cui “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato”, ripreso pressoché testualmente dall’art. art. 7, comma 13 del c.c.n.l. del 14/9/2000, secondo il quale è escluso che “il rapporto di lavoro a tempo determinato (possa) trasformarsi in rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
In questo senso, pertanto, il rapporto di pubblico impiego depubblicizzato non può essere assimilato tout court al rapporto alle dipendenze e sotto la direzione (art. 2094 c.c.) del privato datore di lavoro, giacché funzionalmente e geneticamente differente.
Il rapporto di pubblico impiego depubblicizzato, infatti, pur se si svolge e diviene in modo sostanzialmente simile al proprio analogon di diritto privato, presenta indubitabili elementi di differenziazione quanto meno in relazione al suo momento genetico, il quale prevede sempre il pubblico concorso, nel rispetto di quanto sancito dall’art. 97, comma 3 Cost., salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
Quanto appena evidenziato consente di superare un primo ordine di argomenti che si fonda sulla circostanza che l’art. 36, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 ha rinviato alla fonte pattizia la normazione del contratto di lavoro a tempo determinato, e che, per effetto dell’avvenuto completamento della tornata contrattuale 1998/2001, dovrebbe ritenersi abrogata ex art. 69, comma 1 ogni regolamentazione della fattispecie in esame che non fosse quella prevista dal D.Lgs. 9/10/2001 n. 368 e dalla normativa da esso fatta salva, osservando che il primo all’art. 5 prevede proprio le condizioni alle quali si verifica la sua conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Questo primo argomento, a ben vedere, presenta un intuibile momento di fragilità ermeneutica per almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, tutte le contrattazioni collettive nazionali di comparto che hanno disciplinato la fattispecie del contratto a tempo determinato hanno reiterato con chiarezza che in nessun caso il contratto a tempo determinato può essere convertito in contratto a tempo indeterminato a pena della nullità degli atti che ciò eventualmente prevedessero.
In secondo luogo, anche se ciò non fosse, l’art. 36, comma 2 del D.Lgs 30/3/2001 n. 165, ben lungi dal cadere sotto fantomatici effetti abrogativi, assolve a funzione di norma imperativa ex art. 1343 c.c., che, come tale, è inderogabile per la volontà delle parti contrattuali e motivo di nullità del negozio giuridico.
In terzo luogo, l’art. 7, comma 11 del c.c.n.l. del 14/9/2000 prevede che il contratto di lavoro individuale a tempo determinato è radicalmente nullo proprio quando ad esso non è apposto il termine finale del relativo rapporto, evenienza che fonda e rende esplicito il divieto di conversione del negozio giuridico nullo, secondo quanto previsto dall’art. 1424 c.c..
In definitiva, la deroga alla possibilità di conversione del contratto nullo è strettamente connessa alla differenza ontologico-genetica del rapporto di pubblico impiego depubblicizzato, rendendo con ciò evidente la differenza con l’analoga fattispecie del rapporto di lavoro da tempo determinato stipulato dal privato datore di lavoro.
Come è noto, infatti, il rapporto di pubblico impiego in generale è costituito mediante pubblico concorso secondo quanto previsto dall’art. 97, comma 3 Cost., norma che, secondo una chiara ed indiscussa interpretazione logico-sistematica, è concretizzazione di specie del piú generale principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, a sua volta esplicitazione del principio di ragionevolezza indicato dall’art. 3 Cost..
Né si può sensatamente ritenere che sia possibile fondare la possibilità di convertire il rapporto di lavoro depubblicizzato da tempo determinato a tempo indeterminato invocando la clausola di eccezione prevista dallo stesso comma 3 dell’art. 97 Cost., che fa salvi i casi previsti dalla legge.
A questo proposito, infatti, è sufficiente osservare che la Corte costituzionale è già intervenuta in subiecta materia con le sentenze 17/6/1996 n. 205 e 25/8/1997 n. 320, nelle quali, salvo sempre il rispetto del principio di ragionevolezza che ne fonda il relativo sindacato, il giudice delle leggi ha posto precisi limiti e puntualizzazioni sull’estensione della deroga de qua.
In sintesi, il divieto di conversione del rapporto di pubblico impiego a termine in rapporto lavorativo a tempo indeterminato rinviene il proprio fondamento e la propria diretta giustificazione nel principio della necessarietà del pubblico concorso, espressione di una norma imperativa contenuta proprio nell’art 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
La disposizione da ultimo citata, pertanto, ben lungi dall’essere affetta da incostituzionalità, è essa stessa espressione di un principio dell’ordinamento giuridico che è diretta derivazione di ben precisi valori immanenti all’assetto costituzionale che la supportano e la sorreggono.
Anche per questa via, pertanto, si può concludere che il rapporto di pubblico impiego depubblicizzato è fattispecie ontologicamente differente dal rapporto di lavoro iure privatorum, e come tale fornito di specifica regolamentazione del tutto in sintonia con i valori espressi dalla Costituzione, che, nel rispetto delle norme imperative che ne circoscrivono i confini, è disciplinato in via primaria dalle fonti pattizie, rispetto alle quali le fonti normative sono recessive quando contrastanti.
Tutto ciò, in buona sostanza, vale a dire che nel rapporto di pubblico impiego depubblicizzato la fonte primaria di regolazione del contratto a tempo determinato è la contrattazione collettiva nazionale di comparto, rispetto alla quale le fonti normative contrastanti soccombono, fermo restando che ciò non si verifica quando esse esprimono norme di ordine pubblico economico o norme imperative proprio come accade per l’art. 36 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
Quanto alle conseguenze che scaturiscono dalla violazione della normativa imperativa, prima fra tutte quella che prevede l’impossibilità di trasformare il contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, deve essere evidenziato che sia l’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, sia l’art. 7, comma 13 del c.c.n.l. del 14/9/2000 prevedono unicamente implicazioni solo di tipo sanzionatorio.
Più in particolare, l’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 prevede il diritto al risarcimento del danno a favore del dipendente che abbia comunque reso le proprie prestazioni lavorative in presenza di un contratto a tempo determinato indebitamente trasformato in contratto a tempo indeterminato, mentre l’art. 7, comma 11 del c.c.n.l. del 14/9/2000 rende immediatamente applicabili tutte le conseguenze che discendono dal diritto comune, prima fra tutte l’applicabilità dell’art. 2126 c.c..
Così, il diritto al risarcimento del danno comporta che il dipendente abbia titolo alla rifusione sia del danno emergente, sia del lucro cessante e quindi non solo del corrispettivo delle proprie prestazioni lavorative rese in via di fatto incrementate in ragione di quanto oggi previsto dall’art. 5, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, ma anche della perdita di chances lavorative di tipo migliorativo.
Per contro, il dirigente che abbia disposto l’illecita trasformazione del contratto de quo, risponde in via amministrativa verso l’ente di appartenenza, secondo gli usuali principi in materia di responsabilità amministrativa, ossia a titolo di dolo o di colpa grave, come espressamente ribadito ad abundantiam dall’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.