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Articoli e note

n. 10/2005 - © copyright

BRUNO MOLINARO*

Condono “ambientale” e reato paesaggistico

- spunti problematici.

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SOMMARIO: 1. Il retroterra giurisprudenziale dell’autorizzazione postuma. 1.1. La sanatoria “a regime” e il c.d. condono “ambientale”. 1.2. Profili di legittimità costituzionale. 2. La valutazione di sospendibilità del giudizio penale e il momento terminale della sospensione. 3. Il pagamento della indennità pecuniaria quale elemento essenziale (“condicio iuris”) della fattispecie estintiva. 3.1. Rapporti con il nuovo condono edilizio e riflessi sui meccanismi sanzionatori amministrativi. 4. La competenza della Soprintendenza a seguito del nuovo riassetto organizzativo del Ministero per i beni e le attività culturali. 5. Il giudizio “a posteriori” di compatibilità delle “tipologie edilizie realizzate” e dei “materiali utilizzati” con gli strumenti di pianificazione paesaggistica o con il contesto paesaggistico. 6. La rimessione in pristino quale autonoma causa di estinzione del reato paesaggistico. 7. Conclusioni.

* * *

1. Il retroterra giurisprudenziale dell’autorizzazione postuma.

Dopo una lunga e defatigante “navetta” parlamentare – caratterizzata da cinque passaggi alle camere e da uno scontro politico che riecheggia pochi precedenti – è venuta alla luce la legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante “Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”.

La legge n. 308, costituita da un unico articolo di ben cinquantaquattro commi, contiene una serie di disposizioni, che, pur nell’intento di mettere ordine in una normativa giunta ad un allarmante livello di disorganicità (a causa di una copiosa e al tempo stesso frammentaria legislazione in materia di salvaguardia e tutela ambientale), appaiono, comunque, prive di omogeneità sistematica, talune occupandosi finanche della diversa materia del governo del territorio, come quelle che disciplinano la traslazione del diritto di costruire, istituto non previsto dalla disciplina previgente.

La parte che ha maggiormente catalizzato l’interesse degli interpreti e dell’opinione pubblica è indubbiamente quella che introduce “misure di diretta applicazione” relative alla tutela dei beni paesaggistici.

Da notare che, con l’entrata in vigore del nuovo testo unico dei beni culturali e del paesaggio approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, viene per la prima volta ed in modo appropriato adoperata la locuzione “beni paesaggistici” in luogo di quella di “beni ambientali” utilizzata dal precedente testo unico di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, ricomprendendosi, nell’ambito, appunto, dei c.d. “beni paesaggistici” sia gli immobili che le aree (gli immobili singolarmente considerati e le bellezze panoramiche o di insieme).

 Tra le misure non meramente programmatiche vengono in evidenza quelle che apportano modifiche al Codice “Urbani”, trasformando, tra l’altro, il reato contravvenzionale di cui all’art. 181 in fattispecie delittuosa, punita con la pena della reclusione da uno a quattro anni, qualora i lavori “ricadano su immobili od aree che, ai sensi dell’articolo 136, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori” (comma 1 – bis, lett. a) o “ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’art. 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superficie a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi” (comma 1-bis, lett. b).

Ed anche quelle che prevedono, con valenza più generale, l’ammissibilità, sia pure limitatamente a violazioni di non rilevante entità, della c.d. sanatoria “a regime”, istituto che di fatto sconfessa la filosofia ispiratrice del Codice che aveva espressamente negato la possibilità di rilascio dell’autorizzazione postuma, “successivamente alla realizzazione anche parziale degli interventi” (art. 146, comma 10, lettera c), e dunque anche in caso di semplice violazione formale conseguente alla mancata acquisizione preventiva dell’autorizzazione.

Ma la disposizione che sorprende più di ogni altra, alimentando i maggiori problemi applicativi, è senza dubbio quella sul c.d. condono paesaggistico che, con la sanatoria “a regime”, rappresenta, a ben vedere, nient’altro che lo sviluppo consequenziale di un percorso difficile inaugurato dal supremo consesso amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9.10.2000, n. 5373; 31.10.2000, n. 5851; Ad. Plen., 11.4.2002, n. 4; Cons. Stato, sez. VI, 27.3.2003, n. 1590; 15.5.2003, n. 380; 21.7.2003, n. 4192; 12.5.2004, n. 2994; 31.8.2004, n. 5723) che – con indirizzo ormai consolidato - ritiene compatibile con i principi ordinamentali la figura dell’autorizzazione paesaggistica “a posteriori”, dopo averne in precedenza negato l’ammissibilità sul presupposto logico – giuridico che quando il legislatore ha inteso perseguire tale possibilità - come nella materia urbanistico-edilizia – l’ha espressamente prevista.

In effetti, l’esclusione di un accertamento “ex post” della conformità paesaggistica è stata motivata, oltre che con il diverso grado di protezione accordata al paesaggio dall’articolo 9 della Costituzione, anche e soprattutto con la ascrivibilità alla categoria dei titoli abilitativi ad elevato contenuto di discrezionalità (o di discrezionalità tecnica) dell’autorizzazione paesaggistica, la quale si differenzia radicalmente, in ragione della causa del potere esercitato e della natura del bene assoggettato a speciale tutela, rispetto alla sanatoria “urbanistica” che è, invece, sussumibile nel novero degli atti a contenuto sostanzialmente vincolato, stante l’obbligo di verifica della conformità, sotto un duplice profilo (c.d. “doppia conformità”), delle opere realizzate agli strumenti urbanistici [1].

Altro argomento contrario ad una lettura evolutiva e sostanzialistica del dato normativo (art. 7 legge 1497/39, art. 151 d.lgs n. 490/99, artt. 146 e 159 d.lgs n. 42/04) è quello basato sul principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi. Detto principio di tipicità impedirebbe l'applicazione analogica della disciplina in tema di autorizzazione paesistica di carattere preventivo alla fattispecie non codificata dell'autorizzazione a sanatoria da rendersi in epoca successiva alla modificazione del territorio vincolato.

I fautori della “sanatoria giurisprudenziale” oppongono – per converso – che il principio di tipicità degli atti amministrativi non può essere interpretato con un rigore tale da escludere in radice la possibilità di modificare il momento nel quale effettuare le medesime valutazioni alla base dell'esercizio del potere amministrativo conferito dalla legge. In sostanza non è irragionevole ammettere, facendo leva sull'identità sostanziale del potere esercitato e sul principio di economia dei mezzi giuridici, la possibilità di autorizzazioni postume a carattere (totalmente o parzialmente) sanante con le quali si duplichino, in un torno temporale successivo, le medesime valutazioni che avrebbero dovuto essere nella fisiologia oggetto di verifica a carattere preventivo.

Inoltre, pur se ammessa sul piano dell'”an”, l'autorizzazione postuma non necessariamente costituisce un pieno equipollente, sul versante degli effetti, dell'autorizzazione preventiva, essendo ben possibile che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, annetta alla violazione del dovere di far precedere la realizzazione di determinate attività da un titolo di assenso l'effetto dell'inflizione di sanzioni amministrative al pari dell'attivazione di meccanismi diretti a far risaltare la responsabilità penale e “disciplinare” del privato che abbia agito in difformità rispetto al percorso dettato in via normativa (cfr., sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 9.10.2000, n. 5373, e Cons. Stato, sez. IV, 6.6.1996, n. 380).

Si sostiene ancora che la possibilità di una verifica “ex post” circa la compatibilità paesistica dell'intervento non è contraddetta né dalla peculiarità della fattispecie, né dal sistema normativo.

Quanto al primo profilo, si assume che in linea generale la valutazione di impatto paesaggistico, propria della fattispecie autorizzativa ex ante, non muta in relazione al fatto che l'opera sia stata realizzata o meno.

Alla tesi secondo cui la realizzazione dell'opera potrebbe mutare la situazione dei luoghi, rendendo difficoltoso o addirittura impedendo l'accertamento nel caso in cui l'intervento si risolva nella cancellazione del bene tutelato, si obietta che la valutazione di compatibilità mira proprio a verificare la mancata produzione di effetti pregiudizievoli in relazione allo stato dei luoghi antecedente all'edificazione e che costituisce onere dell'interessato, in tale evenienza, dimostrare l'assenza di impatto negativo attraverso la produzione della documentazione relativa alla condizione dei luoghi anteatta e, per l'effetto, consentire la disamina comparativa tra lo stato antecedente e posteriore all'edificazione. Il giudizio dovrà essere conseguentemente negativo, con correlativa possibilità di demolire le opere, laddove detto raffronto non si riveli possibile stante il mancato assolvimento del descritto onere da parte del privato così come nel caso in cui la realizzazione dell'opera abbia cancellato il bene sottoposto a tutela. Quanto alle legittime preoccupazioni in merito al rischio di avallare, generalizzandole, iniziative private intraprese senza il conforto della preventiva autorizzazione, si evidenzia che l'autorizzazione in sanatoria non costituisce un equipollente perfetto dell'autorizzazione preventiva in quanto, pur precludendo la possibilità di pervenire alla demolizione dell'edificio, lascia intatto in testa alla competente amministrazione il potere-dovere di infliggere la sanzione pecuniaria, fermi gli ulteriori eventuali profili di responsabilità delineati dall'ordinamento.

Secondo Cons. Stato, sez. IV, n. 5373/00 cit., “la possibilità di un'autorizzazione successiva, oltre a non essere contraddetta dalle caratteristiche precipue dell'atto di assenso di cui si discorre, è implicitamente ammessa dallo stesso legislatore. La tesi della non assentibilità a posteriori dell'intervento avrebbe avuto in ipotesi una reale consistenza sul piano positivo laddove la procedura sanzionatoria ex art. 15 della legge n. 1497/1939, prevedendo l'esito vincolato della demolizione anche in ordine a violazioni di carattere formale, non avesse posto l'alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di un'indennità equivalente alla maggior somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito.
La previsione di questa alternativa affida invece alla valutazione discrezionale dell'amministrazione, basata sull'esistenza e sulla consistenza del pregiudizio ambientale, la scelta tra la misura ripristinatoria e quella pecuniaria. Ne deriva che la via della demolizione sarà interdetta - lasciando residuare, come si vedrà, la strada della sanzione pecuniaria - nell'ipotesi in cui l'opera si armonizzi con il contesto ambientale, dovendosi in tal caso escludere un qualsiasi profilo di vulnus sostanziale, così come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della demolizione”
[2].

1.1. La sanatoria “a regime” e il c.d. condono “ambientale”.

A tali principi sembra si sia ora attenuto il legislatore delegato che, nel modificare l’originaria formulazione dell’art. 181 del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, prevede, appunto, la possibilità del rilascio dell’autorizzazione postuma, per giunta con effetti estintivi del reato paesaggistico (comma 1 – ter) per tre tipologie di abusi minori, ovverossia quella dei lavori che non hanno creato nuove volumetrie o superfici utili, quella dell’impiego di materiali difformi e quella della manutenzione ordinaria o straordinaria (c.d. sanatoria “a regime”).

Come previsto dal comma 1 – quater, sulla domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica si pronuncia l’autorità preposta alla gestione del vincolo (il dirigente dell’ufficio comunale competente, in caso di subdelega regionale) entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi nel termine, anch’esso perentorio, di novanta giorni.

Resta ferma l’applicazione, a carico del trasgressore, delle sanzioni amministrative ripristinatorie o pecuniarie di cui all’art. 167 (rimessione in pristino a proprie spese o pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione).

La causa di non punibilità prevista dal comma 1-ter non suscita apprezzabili motivi di interesse, in quanto appare scontata e condivisibile l’esigenza di sottrarre a sanzione penale gli interventi edilizi minori (tali essendo effettivamente gli interventi manutentivi e quelli che non determinano incrementi di superfici utili o di volumi) che, per loro natura e per limiti dimensionali propri, non appaiono suscettibili di arrecare in concreto alcun “vulnus” ai valori tutelati, esigenza già avvertita in passato dalla Corte di Cassazione che ha avuto modo di chiarire che “non ogni opera che interessi la superficie esterna determina alterazione, ma esclusivamente quella che ne immuti in modo rilevante ed essenziale le sue caratteristiche” (Cass., sez. III, n. 660 del 26.5.1992; Cass., sez. III, n. 1813 del 30.9.1993).

Va rilevato, inoltre, che l’art. 149 del nuovo Codice è norma affatto speculare a quelle contenute negli artt. 1 della legge n. 431 del 1985 e 151 del d.lgs. n. 490 del 1999, in quanto – come le precedenti – esclude espressamente dall’obbligo di autorizzazione gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro alla sola condizione che essi “non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”.

Non appare, per contro, coerente con il principio di ragionevolezza la disposizione, anch’essa contenuta nel predetto comma 1-ter, secondo cui, anche in caso di esito positivo dell’accertamento di compatibilità paesaggistica, è fatta salva, comunque, “l’applicazione delle sanzioni amministrative ripristinatorie o pecuniarie previste dall’art. 167”.

Tale ultima norma infatti trova applicazione solo qualora venga accertata “la violazione ad opera del trasgressore degli obblighi e degli ordini previsti dal titolo primo della parte terza”. Ma tra gli obblighi tipizzati non figura quello di acquisire l’autorizzazione per gli interventi edilizi minori, che normalmente coincidono con quelli di manutenzione (la manutenzione ordinaria è, peraltro, soggetta a semplice comunicazione), consolidamento statico e restauro conservativo che non alterano lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.

Tutt’altro discorso occorre fare per il condono paesaggistico che la legge delega disciplina al comma 37.

Tale disposizione stabilisce che:

“Per i lavori compiuti su beni paesaggistici entro e non oltre il 30 settembre 2004 senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti, anche rispetto all’autorizzazione eventualmente rilasciata, comporta l’estinzione del reato di cui all’articolo 181 del decreto legislativo n. 42 del 2004, e di ogni altro reato in materia paesaggistica alle seguenti condizioni:

a) che le tipologie realizzate e i materiali utilizzati, anche se diversi da quelli indicati nell’eventuale autorizzazione, rientrino fra quelli previsti e assentiti dagli strumenti di pianificazione paesaggistica, ove vigenti, o, altrimenti, siano giudicati compatibili con il contesto paesaggistico;

b) che i trasgressori abbiano previamente pagato:

1) la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 167 del decreto legislativo n. 42 del 2004, maggiorata da un terzo alla metà;

2) una sanzione pecuniaria aggiuntiva determinata dall’autorità amministrativa competente all’applicazione della sanzione di cui al precedente punto 1), tra un minimo di tremila euro ed un massimo di cinquantamila euro”.

La norma introduce, dunque, una nuova speciale causa di estinzione del reato paesaggistico con effetti “premiali” più dilatati rispetto a quella già prevista dall’art. 32, comma 43, n. 1, del d.l. 30.9.2003 n. 269, convertito nella legge 24.11.2003, n. 326, secondo cui “il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo”.

Infatti, oltre a determinare l’estinzione non solo del reato di cui all’art. 181, ma anche di ogni altro reato in materia paesaggistica, come quello di cui all’art. 734 c.p. [3], la disposizione in esame prevede un limite temporale diverso e più favorevole al contravventore (30 settembre 2004) rispetto a quello del terzo condono edilizio (31 marzo 2003) e non prescrive particolari requisiti dimensionali o strutturali ai fini della sanabilità paesaggistica, apparendo il legislatore “ambientale” del tutto indifferente al superamento di qualsiasi limite di superficie o di volume per le opere da sanare.

Peraltro, tali opere, non ostandovi il tenore letterale della norma, potranno anche non risultare ultimate “al rustico”, perché prive del solaio di copertura o delle tamponature perimetrali.

In altri termini, mentre l’art. 32 del d.l. n. 269/03 sul condono edilizio richiede, ai fini della sanabilità delle opere, che le stesse << non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 mc >>, il comma 37 della legge delega opera un generico riferimento ai “lavori compiuti su beni paesaggistici”, omettendo ogni indicazione di limiti quantitativi.

La medesima disposizione manifesta indifferenza anche rispetto allo stato di avanzamento dei lavori e, dunque, non include nel novero dei requisiti richiesti nemmeno l’elemento della ultimazione delle opere.

Va ricordato, in proposito, che la vasta giurisprudenza formatasi sotto la vigenza dell’art. 31 della legge n.47 del 1985 e dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994 ha più volte ribadito che “la nozione di ultimazione dell’immobile ai fini dell’applicazione della sanatoria edilizia deve essere in ogni caso tratta dalla formulazione dell’articolo 31 della legge 47/85, che considera tali gli edifici per i quali sia completato il rustico ed eseguita la copertura (ovvero, quanto alle opere interne o agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente), essendo la normativa del 1985 espressamente richiamata dalla legge 724/94 ” (v., per tutte, Cass., sez. III, sent. n. 9011/97).

Ciò vale anche per l’art. 32 del d.l. 269/03, il cui comma 25 richiama espressamente le disposizioni contenute nei capi IV e V della legge n. 47/85 (nel cui ambito è ricompreso il citato art. 31).

Anche le tamponature – secondo la Suprema Corte – costituiscono elementi essenziali dell’edificio ultimato al rustico, “ indipendentemente dal fatto che siano o debbano essere eseguite in muratura o con pannelli prefabbricati, né può trovare applicazione qualunque altra regolamentazione che modifichi, con il significato della norma, il precetto penale” (Cass., sez. III, sent. n. 9011 cit.).

Nell’affermare tale principio, il giudice della nomofilachia ha perciò disapplicato la circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3357/25 del 30.7.1985, nella parte in cui prevede che deve essere considerato ultimato il fabbricato privo di tamponature, quando è previsto che le stesse debbano essere eseguite in prefabbricato.

1.2. Profili di legittimità costituzionale.

Poteva il legislatore statale, dopo la modifica del titolo V della Costituzione, spingersi sino a tanto in una materia così controversa e di stretta interpretazione, prevedendo “misure di diretta applicazione” (di modifica del testo unico n. 42 del 2004) tali da determinare l’estinzione della contravvenzione di cui all’art. 181 per il solo fatto dell’intervenuto rilascio dell’autorizzazione in sanatoria? E per giunta prescindendo dai limiti dimensionali e strutturali per gli abusi commessi entro la data del 30.9.2004, indipendentemente da ogni profilo di “vulnus” sostanziale al paesaggio?

Pur con le opportune precisazioni, tenuto conto della eccezionalità delle misure condonistiche (in quanto tali da adottare con le dovute cautele) e della speciale protezione accordata dalla Costituzione a valori come il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9), la risposta, a mio avviso, non può che essere affermativa a seguito della sentenza n. 196/04, con la quale la Corte Costituzionale ha individuato i reciproci limiti di competenza legislativa tra Stato e Regioni, ribadendo, fra l’altro, il principio, già sancito dall’art. 117 Cost., secondo cui << solo il legislatore statale può incidere sulla sanzionabilità penale, disponendo lo stesso, specie in occasione di sanatorie amministrative, di assoluta discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena o di non procedibilità>> (v., in particolare, la sentenza n. 487/89, e anche le sentenze n. 149/99, n. 167/99 e n. 320/00 e, da ultimo, n.70/05 e n. 71/05 che fanno salvi espressamente “i profili penalistici” riconducibili alla legislazione esclusiva dello Stato).

Tale “voluntas legis” è – del resto – desumibile anche dai lavori preparatori.

E’ sufficiente leggere, sul punto, il parere della I Commissione Permanente della Camera dei Deputati (Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni) favorevole “al nuovo testo del disegno di legge A. C. 1798-D, di delega al governo in materia ambientale”, in quanto “le disposizioni recate dai commi 37, 38 e 39 appaiono incidere, altresì, sulla materia “ordinamento penale”, la cui disciplina è demandata, dal secondo comma dell’art. 117 della Costituzione, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato”.

Inoltre, a voler usare lo stesso metro di giudizio fatto proprio dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/04, con la quale è stata riconosciuta la legittimità “in parte qua” del terzo condono edilizio anche per effetto della entrata in vigore del nuovo testo unico dell’edilizia di cui al d.P.R. n. 380/01, va sottolineato che anche la legge delega in materia ambientale è stata varata pochi mesi dopo l’approvazione del nuovo testo unico dei beni culturali e del paesaggio che ha fatto giustizia della c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, prevedendo espressamente il divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, e messo ordine nel delicato rapporto tra vincoli e pianificazione paesistica, in attuazione dell’accordo Stato – Regioni del 19 aprile 2001.

2. La valutazione di sospendibilità del giudizio penale e il momento terminale della sospensione.

Comportando l’accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori eseguiti l’estinzione del reato di cui all’art. 181, non vi è dubbio che il giudice, facendo uso del suo potere discrezionale, in presenza delle condizioni minime e vertendosi in materia di pregiudizialità amministrativa, possa disporre la sospensione del giudizio, con esclusione naturalmente degli atti urgenti.

Un vero e proprio obbligo di sospensione in relazione alle questioni pregiudiziali, come è noto, non è previsto dall’attuale codice di procedura penale.

Le uniche norme di riferimento appaiono essere quelle di cui agli artt. 3 e 479 c.p.p.

L’art. 479 non prevede l’obbligo ma solo la facoltà per il giudice di disporre la sospensione del dibattimento, sempre che la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa di particolare complessità, laddove, invece, l’art. 19 del codice di procedura penale del 1930 prevedeva l’obbligatorietà della sospensione dell’azione penale.

La sospensione del dibattimento è ispirata, infatti, ad esigenze di celerità ed economicità, sicchè ad essa può farsi luogo soltanto in presenza di determinate condizioni, la cui mancanza comporta l’irrilevanza della pregiudiziale e l’obbligo di procedere.

La prima di tali condizioni, costituita dalla “particolare complessità” della controversia civile o amministrativa da cui dipende la decisione sull’esistenza del reato, “è dettata allo scopo di scongiurare superflue stasi processuali, verificabili allorquando il giudice che procede possa pervenire agevolmente alla decisione, risolvendo anche la questione pregiudiziale. Il giudice è tenuto, pertanto, a motivare la sussistenza del requisito della particolare complessità della questione” (Cass., V, sent. 1305 del   2.7.1993).

Analogamente, l’art. 3 c.p.p., intitolato “questioni pregiudiziali”, prevede la facoltatività della sospensione che, tuttavia, ricollega alla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza.

Trattasi certamente di casi diversi da quello in esame in cui l’applicazione della causa estintiva è subordinata alla verifica di una serie di presupposti, primo fra tutti quello della compatibilità paesaggistica che non deve sfociare necessariamente in una controversia tra richiedente e pubblica amministrazione.

Altro discorso riguarda l’ipotesi in cui sull’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica l’autorità preposta alla gestione del vincolo non si sia pronunciata nei termini di cui ai commi 2 o 3 dell’art. 2 della legge 7.8.1990, n. 241.

A fronte di tale evenienza, il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessata all’intervento può impugnare il silenzio, ai sensi dell’art. 21 – bis della legge 6.12.1971, n. 1034, e successive modificazioni, anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza dei suddetti termini, così come previsto ora dalla legge 11.2.2005, n. 15 (art. 2) [4].

Radicatasi la lite sul silenzio, il giudice penale potrà valutare l’opportunità di disporre la sospensione del giudizio, ove ne sia fatta richiesta, avendo cura di motivare in ordine alla particolare complessità della controversia amministrativa.

Stranamente, la legge n. 308 nulla dice in ordine alla sospensione sebbene nell’originario disegno di legge del 19.10.2001 fosse stato stabilito, all’art. 8, in conformità al parere reso dalla II Commissione Permanente della Camera dei Deputati (Giustizia), di inserire all’articolo 164 del decreto legislativo n. 490 del 1999, dopo il comma 3, il seguente: “3 – bis. Il procedimento penale, il corso della prescrizione, ai sensi dell’articolo 159 del codice penale, e gli atti esecutivi relativi alle violazioni di cui al comma 1 rimangono sospesi finchè non siano esauriti i procedimenti amministrativi di autorizzazione in sanatoria. La sospensione del procedimento penale non impedisce il compimento degli atti urgenti”.

Nel successivo parere del 4.12.2003 reso dalla medesima Commissione si osserva, peraltro, che il disegno di legge contiene “disposizioni che appaiono accettabili alla luce della peculiare ratio ispiratrice che è principalmente quella di definire fattispecie pregresse, interessate da provvedimenti di condono edilizio, anche per i profili dell’illecito incidenti sulla materia ambientale (…)”. Tuttavia, “manca una disciplina ad hoc – sul modello della legge n. 47 del 1985 – che regoli i rapporti fra il procedimento penale avente ad oggetto gli illeciti in questione ed il procedimento amministrativo il cui esito può integrare gli estremi di una causa di estinzione del reato, l’accertamento della quale resta in ogni caso riservato al giudice penale”.

Del resto, che la sospensione del giudizio possa essere disposta lo si ricava “a contrario” anche da una recente decisione della Corte di Cassazione, sez. III, sent. n. 3349 dell’11.1.2005, dep. in data 1.2.2005, secondo cui “la sospensione del procedimento penale ai sensi dell’art. 38 L. 28.2.1985, n. 47, in relazione ad una domanda di condono edilizio presentata ai sensi dell’art. 32 D.L. 30.9.2003, n. 269, non può essere disposta su immobili sottoposti a vincoli[5]; infatti, solo con la L. 15.12.2004, n. 308 (delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), è stata inserita, agli artt. 37 e 38, la possibilità di sanare gli abusi edilizi con conseguente estinzione dei reati ambientali”.

Con tale ultima affermazione la Corte, incorre, tuttavia, in una vera e propria svista, dal momento che anche l’art. 32 del d.l. 269 del 2003 prevede al comma 43, n. 1, un’autonoma fattispecie estintiva del reato paesaggistico (“il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo”).

In caso di accoglimento dell’istanza, la sospensione fino a quando produrrà i suoi effetti?

In verità, il quesito sul momento terminale della sospensione non trova risposta nemmeno nella legge n. 47 del 1985 in tema di condono edilizio.

Soccorre sul punto l’orientamento della Corte di Cassazione (cfr., in particolare, sent. sez. III, 2.10.1997, n. 8903) secondo cui tre sono le soluzioni astrattamente possibili: 1) alla data della risposta definitiva fornita dalla P.A.; 2) alla data del decreto di citazione o dell’avviso al difensore per l’udienza in Cassazione; 3) al giorno dell’udienza.

Argomenta la Corte che <<il momento di cessazione della causa della sospensione (art. 159 c.p.) dei procedimenti penali non può essere fissato all’emissione del decreto di citazione (o dell’avviso al difensore per il giudizio in Cassazione) e tanto meno all’udienza, poiché si affiderebbe, diversamente, alla maggiore o minore diligenza dell’ufficio giudiziario procedente la dilatazione, nel tempo, della prescrizione stessa.

Mancando una specifica disciplina, bisogna richiamare quella simile per estrapolare un principio di carattere generale.

L’art. 159 c.p. stabilisce che “la prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. In caso d’autorizzazione a procedere, il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta”.

L’art. 3 del codice di rito vigente dispone: “Quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice, se la questione è seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso, può sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione”.

L’art. 479 successivo recita: “1. Fermo quanto previsto dall’art. 3, qualora la decisione sull’esistenza del reato dipenda dalla risoluzione di una controversia civile o amministrativa (…) il giudice penale può disporre la sospensione del dibattimento fino a che la questione non sia stata decisa con sentenza passata in giudicato. 2. La sospensione è disposta con ordinanza (…)”.

Sul rispetto della medesima regola si fonda anche l’art. 16 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (“Tutela dell’ordine pubblico”), che prevede: “la sospensione della prescrizione durante il tempo necessario per la notifica di ordini o mandati all’imputato che non abbia provveduto alla comunicazione (…) sino al giorno in cui la notifica sia stata effettuata ovvero sia stato emesso il decreto d’irreperibilità”.

Altra applicazione è rinvenibile nella sospensione del procedimento in caso di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La giurisprudenza e la dottrina sono divise sull’indicazione del momento di cessazione della sospensione stessa. Esso, secondo un primo orientamento (Cass., sez. III, sent. 1143 dep. il 24 gennaio 1977), coincide con il giorno della decisione della questione e non con quello in cui la decisione stessa è depositata in cancelleria o gli atti sono restituiti all’autorità giudiziaria. In senso contrario, Cass., sez. IV, sent. n. 3086 dep. il 4.3.1980, che ha ritenuto che la data finale del periodo di sospensione sia quella in cui gli atti sono restituiti al giudice che promosse il giudizio di legittimità costituzionale.

Il contrasto menzionato non ha rilevanza, poiché, qualunque tesi si segua, è pacifico che la sospensione non può essere protratta fino all’udienza, nella quale il giudice revoca la sospensione stessa.

Altra conferma della correttezza dell’assunto si evince in tema di amnistia tributaria dall’art. 2, comma 4, del D.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23, che si riferisce espressamente all’esaurimento dell’attività d’accertamento, espletata dall’Amministrazione (“I procedimenti in corso (…) sono sospesi (…) fino a quando l’ufficio finanziario non avrà comunicato al giudice, evitando ogni ritardo, gli elementi necessari per valutare la sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione dell’amnistia”).

In conclusione, come si constata dalla lettura delle disposizioni di cui innanzi, queste rappresentano l’applicazione del principio stabilito in via generale dall’art. 159 c.p., secondo cui il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui cessa la causa della sospensione e non dal giorno dell’udienza in cui il giudice decide. In altri termini la prescrizione inizia nuovamente a decorrere dal venir meno della causa e non dalla declaratoria di revoca o dalla trattazione del procedimento.

In definitiva, bisogna tenere distinti i profili processuali, collegati con il provvedimento di sospensione, e quelli sostanziali, connessi con la cessazione della causa di sospensione medesima.

Deve, quindi, essere ribadito (conf. Cass., sez. III, sent. n. 12270 del 21 dicembre 1994; id. sez. III, ud. 25 marzo 1997) che, in materia edilizia, le leggi 28 febbraio 1985, n. 47, 23 dicembre 1994, n. 724, e 23 dicembre 1996, n. 662, non indicano il momento di cessazione della sospensione del processo (disposta a seguito della presentazione della domanda di sanatoria e della attestazione del versamento dell’oblazione, nei limiti dovuti) e di conseguente ripresa della prescrizione.

E’ necessario allora applicare la regola generale, stabilita dall’art. 159, secondo comma, c.p., secondo cui il corso riprende dal giorno in cui cessa la causa, che ha dato luogo alla sospensione (..).

In base a tale principio – espressione di quello più ampio del “favor rei” – la sospensione del procedimento edilizio viene meno nel giorno in cui perviene la risposta definitiva da parte della P.A. circa la sussistenza dei requisiti per la declaratoria di estinzione dei reati per oblazione o in ordine al rilascio della concessione o dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per la violazione del vincolo e non dalla data della sottoscrizione o della notifica del decreto di citazione (o dell’avviso al difensore in Cassazione) o dell’udienza>>.

Applicato lo stesso principio alla materia che ne occupa (“uti eadem ratio, ibi eadem dispositio”), non dovrebbero sorgere particolari problemi in presenza di domande di accertamento di compatibilità paesaggistica “a regime”, perché in tal caso, a mente dell’art. 1 – quater, secondo periodo, della legge delega, “l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni”.

Nulla dice la norma in ordine agli effetti sanzionatori conseguenti al superamento del termine ad opera della P.A., né in ordine al significato da attribuire al silenzio [6] che l’interessato, come già detto, potrà, comunque, impugnare entro l’anno ai sensi del richiamato art. 2 della legge n. 15 del 2005.

Per la diversa fattispecie del c.d. condono ambientale di cui si occupano i commi 37 e ss. della legge delega, la questione presenta aspetti problematici in quanto nulla è previsto in ordine al termine entro il quale il procedimento amministrativo debba essere definito. Il comma 39, infatti, stabilisce laconicamente che “l’autorità competente si pronuncia sulla domanda, previo parere della soprintendenza”.

Occorrerà in tale ipotesi un intervento del legislatore volto a prevedere, da un lato, meccanismi procedimentali che siano in grado di garantire che l’interesse del privato ad una risposta da parte della P.A. venga soddisfatto in uno “spatium deliberandi” relativamente breve (a meno di non voler ritenere applicabile, come sembrerebbe corretto, il termine di trenta giorni di cui all’art. 2, comma 4-bis, della legge n. 241/90) e ciò indipendentemente dalla possibilità – per il privato medesimo – di ricorrere contro il “silenzio”, dall’altro, rimedi idonei ad armonizzare l’istituto della sospensione del giudizio penale con il principio sancito dall’art. 111 Cost. sul “giusto processo” del quale la legge assicura “la ragionevole durata”.

3. Il pagamento quale elemento essenziale (“condicio iuris”) della fattispecie estintiva.

Come già anticipato, una delle condizioni previste per l’applicabilità della causa di estinzione del reato è quella “che i trasgressori abbiano previamente pagato la sanzione pecuniaria di cui all’articolo 167 del decreto legislativo n. 42 del 2004, maggiorata da un terzo alla metà”.

Tale sanzione consiste nel pagamento di “una somma equivalente al maggior importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima”.

Quali criteri possono essere utilizzati ai fini del calcolo del profitto?

Sul punto tacciono sia il citato art. 167 che il comma 37, lett. b), della legge delega, di tal che appare ragionevole riferirsi, per “eadem ratio”, a quelli dettati dal D.M. 26.9.1997, con il quale si è data attuazione al comma 46 dell’art. 2 della legge n. 662/96, secondo cui “il versamento dell’oblazione non esime dall’applicazione dell’indennità risarcitoria di cui all’art. 15 della L. n. 1497 del 1939”, attesa la peculiarità della sua funzione di riparazione della lesione di uno specifico interesse pubblico violato, lesione che perdura sino a quando non intervenga il risarcimento per equivalente.

Con il suddetto decreto sono stati, infatti, determinati i parametri e le modalità per la quantificazione dell’indennità risarcitoria per le opere abusive realizzate nelle aree sottoposte a vincolo. Fermo restando il fatto che l’indennità risarcitoria è pari alla maggior somma tra il danno paesaggistico arrecato ed il profitto conseguito, nel decreto si è precisato, sul punto, che: “L’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, si applica a qualsiasi intervento realizzato abusivamente nelle aree sottoposte alle disposizioni della legge medesima e del decreto – legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, ad esclusione delle opere interne e degli interventi indicati dal comma dodicesimo dell’art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, come integrato dalla legge 8 agosto 1985, n. 431.

L’indennità risarcitoria di cui all’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497, è determinata previa apposita perizia di valutazione del danno causato dall’intervento abusivo in rapporto alle caratteristiche del territorio vincolato ed alla normativa di tutela vigente sull’area interessata, nonché mediante la stima del profitto conseguito dalla esecuzione delle opere abusive. In via generale è qualificato quale profitto la differenza tra il valore dell’opera realizzata ed i costi sostenuti per la esecuzione della stessa, alla data di effettuazione della perizia.

Il profitto è pari, in via ordinaria, al tre per cento del valore d’estimo dell’unità immobiliare come determinato ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 1993, n. 75, del decreto legislativo 28 dicembre 1993, n. 568, e della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (…)”.

La disposizione in esame, quindi, abbandonato ogni riferimento al valore di mercato del bene, assume quale parametro di valutazione il 3% del valore d’estimo dell’unità immobiliare (o il diverso incremento della predetta aliquota eventualmente determinata dalla Regione).

E’ quanto affermato, sul punto, dal Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza depositata il 15.7.2004, relativa a fattispecie in cui la perizia, sulla base della quale si era proceduto alla quantificazione della sanzione irrogata, aveva fatto erroneo riferimento “al valore di mercato desunto dalle tabelle dell’ufficio tecnico erariale”.

3.1. Rapporti con il nuovo condono edilizio e riflessi sui meccanismi sanzionatori amministrativi.

Il mancato coordinamento tra la legge n. 308 e il nuovo condono edilizio, per più aspetti criticabile, è un dato di fatto che oltre a generare antinomie ed incertezze applicative non trova spiegazione sul piano della logica e della coerenza tra fonti normative.

E’ pur vero che il legislatore della sanatoria paesaggistica ha avuto di mira (almeno apparentemente) l’obiettivo di determinare i criteri e le modalità di estinzione del reato paesaggistico in presenza delle condizioni previste dalla legge.

Ma questo poteva avere un senso, avuto riguardo alle fattispecie pregresse (lavori compiuti su beni paesaggistici entro e non oltre il 30.9.2004), ove nel nuovo condono edilizio non fosse stata inserita un’analoga disposizione.

Tale disposizione – invece – esiste, come già detto, e si rinviene nel comma 43, n. 1, dell’art. 32, il quale (pur essendo applicabile ai soli abusi accertati entro il diverso limite temporale del 31.3.2003) stabilisce che “il rilascio del titolo abilitativo edilizio estingue anche il reato per la violazione del vincolo”.

Come è agevole rilevare, si è in presenza di presupposti diversi, quanto ai parametri regolamentari di valutazione della compatibilità delle opere con gli interessi tutelati, perché nel comma 27, lett. d), dell’art. 32 del d.l. n. 269 si richiede che la sanabilità sia rapportata alla normativa urbanistica e alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, nel mentre nella legge n. 308 si fa riferimento alle previsioni degli strumenti di pianificazione paesaggistica ove vigenti o, altrimenti, al c.d. “contesto paesaggistico”.

Ma che senso ha prevedere parametri difformi quando è lo stesso Codice “Urbani” a stabilire l’obbligo di adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni degli strumenti di tutela paesaggistica i quali, dovranno – a loro volta – essere adeguati dalle Regioni, ai sensi dell’art. 156 (entro quattro anni), ai contenuti descrittivi, prescrittivi e propositivi dei piani di cui all’art. 143?

L’art. 145 del Codice, intitolato “coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, stabilisce, infatti, ai commi 3 e 4 che “le previsioni dei piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei Comuni, delle città metropolitane e delle province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici e sono, altresì, vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione.

Entro il termine stabilito nel piano paesaggistico e comunque non oltre due anni dalla sua approvazione, i comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano e adeguano gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica alle previsioni dei piani paesaggistici, introducendo, ove necessario, le ulteriori previsioni conformative che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dai piani”.

Così come appare lecito interrogarsi – mi sia consentita la digressione – sui motivi che hanno indotto il legislatore del nuovo condono edilizio ad ancorare la sanabilità degli interventi sugli immobili assoggettati a vincolo paesaggistico alla positiva valutazione di conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici (comma 27, lett. d), cit.), quando già esisteva nel corpo normativo un’identica disposizione come quella dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 della legge n. 47 del 1985), con la sola differenza che, mentre l’art. 36 prevede la “doppia conformità” agli strumenti urbanistici adottati e a quelli vigenti alla data di realizzazione, il comma 27 richiede invece la sola conformità alla normativa urbanistica e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti.

Il mancato coordinamento tra la legge n. 308 e quella sulla delega ambientale si riflette – a ben vedere – anche sul piano dei meccanismi sanzionatori amministrativi.

Va, innanzitutto, osservato che non appare sostenibile che abusi commessi entro il 31 marzo 2003 e non condonati (o non condonabili) possano, poi, beneficiare, anche ai fini urbanistico – edilizi, della sanatoria paesaggistica, in quanto – lo si ripete – per i primi è richiesta la conformità urbanistica, nel mentre per i secondi è necessaria la compatibilità paesaggistica.

Ed è noto che – nonostante il legislatore abbia come obiettivo l’adeguamento dei piani – gli strumenti urbanistici e paesaggistici continueranno ad operare, fin tanto che tale adeguamento non sarà avvenuto, in campi completamente diversi.

La giurisprudenza, occupandosi della definizione del rapporto tra urbanistica e paesaggio, ha tracciato una distinzione tra le due materie tenuto conto soprattutto del diverso interesse pubblico tutelato: l’urbanistica ha, infatti, come scopo il raggiungimento di un ordinato assetto del territorio, il paesaggio invece tende alla conservazione della funzione estetico – culturale del bene-valore, tra l’altro direttamente e autonomamente tutelato dalla Costituzione (Cons. Stato, sez. VI, 14.1.1995, n. 29; Cass., sez. III, 9.2.1998, n. 1492).

L’interesse paesaggistico è funzionalmente differenziato da quello urbanistico tant’è che i singoli progetti, pur compatibili con la destinazione urbanistica, possono risultare poi incompatibili con i valori paesaggistici alla cui tutela sono preordinati atti diversi scaturenti da procedimenti autonomi (Cons. Stato, sez. VI, n. 1001 del 30.6.97).

Premessa, dunque, l’autonomia del riscontro urbanistico rispetto alla valutazione di compatibilità paesistica, non v’è chi non veda che, sul versante amministrativo, anche in caso di pagamento della sanzione di cui all’art. 167 del Codice “Urbani”, ai fini dell’estinzione del reato paesaggistico, potrà verificarsi che l’opera realizzata abusivamente venga demolita ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/01, concernente la “vigilanza sull’attività urbanistico – edilizia”.

L’attuale formulazione di tale norma, per effetto delle modifiche apportate dal d.l. 269, è la seguente : “1. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell'ente, la vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
2. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, ,nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa. Per le opere abusivamente realizzate su immobili dichiarati monumento nazionale con provvedimenti aventi forza di legge o dichiarati di interesse particolarmente importante ai sensi degli articoli 6 e 7 del decreto legislativo. 29 ottobre 1999, n.490, o su beni di interesse archeologico, nonché per le opere abusivamente realizzate su immobili soggetti a vincolo o di inedificabilità assoluta in applicazione delle disposizioni del titolo II del decreto legislativo. 29 ottobre 1999, n.490, il Soprintendente, su richiesta della regione, del comune o delle altre autorità preposte alla tutela, ovvero decorso il termine di 180 giorni dall'accertamento dell'illecito, procede alla demolizione, anche avvalendosi delle modalità operative di cui ai commi 55 e 56 del!' articolo 2 della legge 23 dicembre 1996, n.662 (…)”
.

Di scarsa incidenza pratica appare la ricostruzione operata, sul punto, da Cons. Stato, sez. VI, 9.10.2000, n. 5373, secondo cui, avendo il legislatore posto l’alternativa tra la demolizione a spese del trasgressore delle opere abusivamente eseguite ed il pagamento di un’indennità equivalente alla maggior somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito, è fuor di dubbio che, una volta che l’amministrazione abbia optato per la sanzione pecuniaria, la misura ripristinatoria sarà interdetta, dovendosi in tal caso escludere un qualsiasi profilo di “vulnus” sostanziale, così come nel caso in cui il pregiudizio si presenti marginale al punto da rendere sovradimensionata la drastica misura della demolizione.

Infatti, se appare condivisibile la tesi secondo cui la decisione di non procedere alla demolizione per effetto della ritenuta compatibilità dell’opera con il contesto paesaggistico oggetto di tutela implichi, sulla base di una precisa opzione del legislatore, un’implicita autorizzazione al mantenimento in vita dell’opera, deve giocoforza ammettersi che l’opera, ove non ritenuta, al tempo stesso, conforme anche alla normativa urbanistica vigente, debba essere, comunque, demolita con conseguente ripristino dello stato dei luoghi preesistente all’intervento abusivo, in ragione della diversa natura degli interessi (urbanistici e non paesaggistici) lesi e tenuto conto che l’art. 27 del d.P.R. n. 380/01 trova collocazione in tutt’altra “sedes materiae” (testo unico).

4. La competenza della Soprintendenza a seguito del nuovo riassetto organizzativo del Ministero per i beni e le attività culturali.

La legge delega prevede che l’autorità preposta alla gestione del vincolo, in caso di sanatoria “a regime”, prima di accertare la compatibilità paesaggistica, deve chiedere il parere, non solo obbligatorio ma anche vincolante, della Soprintendenza.

Tale disposizione, se comprensibile sul piano dell’irrigidimento dei criteri che presiedono al rilascio dell’autorizzazione postuma per le opere realizzate dopo il 30.9.2004 (anche se si tratta di “falso allarme” in quanto le opere sanabili dopo tale data, come si è visto, sono solo quelle che normalmente non arrecano alcun nocumento ai valori paesaggistici e quasi sempre non richiedono nemmeno la preventiva autorizzazione se non comportano alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore dell’edificio), suscita, ad un esame più attento, seri dubbi di legittimità costituzionale in quanto, nel sancire la vincolatività dell’atto consultivo, finisce per relegare in una posizione assolutamente secondaria le competenze regionali (o comunali, in caso di sub-delega) “in relazione a momenti di particolare importanza della disciplina prevista per la protezione delle bellezze naturali, violando così il principio costituzionale di concorrenza e di cooperazione delle competenze statali e di quelle regionali nella tutela del paesaggio” (Corte Cost., 10.3.1988, n. 302).

Del resto l’analoga disposizione contenuta nel comma 43, n. 4, del d.l. n. 269/03 è stata già impugnata dalla Regione Basilicata innanzi alla Corte Costituzionale, in quanto tale norma, nel rimodulare il procedimento della conferenza dei servizi, prevede la partecipazione obbligatoria della Soprintendenza competente il cui “motivato dissenso” preclude il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria [7].

Per la diversa fattispecie del condono ambientale, il comma 39 della legge delega prevede, invece, l’obbligo di acquisire il parere della Soprintendenza senza nulla aggiungere in ordine alla natura di tale parere che, pertanto, nel silenzio “eloquente” del legislatore, deve essere qualificato come non vincolante. Tale interpretazione appare, peraltro, in linea con quanto previsto dal Codice “Urbani” all’art. 146, il quale prevede che l’acquisizione del parere dalla Soprintendenza debba precedere il rilascio dell’autorizzazione ad opera dell’amministrazione competente tenuta a pronunciarsi “entro il termine di venti giorni dalla ricezione del parere della Soprintendenza”.

Ma tale materia può dirsi ancora oggi effettivamente rientrante nei compiti della Soprintendenza a seguito del nuovo riassetto organizzativo del Ministero per i beni e le attività culturali realizzato dal legislatore (anche in questo caso delegato)?

Tralasciando, per brevità, ogni riferimento alla c.d. delegificazione della disciplina di organizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri, introdotta dall’art. 13 della legge 15.3.1997, n.59 [Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa] e attuata dall’art.4 del d.Lgs. 30.7.1999, n.300 [Riforma dell’organizzazione del Governo a norma dell’art.11 della legge 15.3.1997, n.59], quel che rileva, allo stato, è che, a seguito dell’emanazione del d.P.R. n. 173 dell’8.6.2004 (pubblicato nella G.U. n. 166/04 ed entrato in vigore il 2.8.2004), recante il nuovo “regolamento di organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali”, è stato espressamente abrogato il precedente d.P.R. n. 441 del 29.6.2000, ivi compreso il comma 3 dell’art. 14, relativo ai compiti della Soprintendenza in ordine all’esercizio dell’attività di controllo di cui all’ art. 151 del d.lgs. n. 490/99 e agli artt. 146 e 159 del d.lgs n. 42/04 sugli atti autorizzatori delle Regioni e dei Comuni subdelegati.

Il nuovo regolamento del Ministero ridefinisce, invero, l’amministrazione centrale con la istituzione di dipartimenti e relative direzioni centrali di uffici di livello generale (artt. 1 e 3), nonché l’amministrazione periferica con gli organi periferici così come individuati all’art. 19.

Tra gli organi periferici del Ministero sono compresi le direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici, nonché gli uffici di livello generale, tra cui le Soprintendenze per i beni culturali e per il paesaggio quali articolazioni della stessa direzione regionale.

Con decreto ministeriale del 24.9.2004, è stata, poi, definita e perfezionata l’articolazione della struttura centrale e periferica dei dipartimenti e delle direzioni generali del Ministero ed abrogato il D.M. 31.2.2002 di articolazione degli uffici dirigenziali non generali periferici della direzione per i beni architettonici e per il paesaggio.

Tale decreto individua anche gli uffici dirigenziali di livello non generale del Ministero (amministrazione periferica) di cui all’allegato 1 e, nell’ambito del dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, individua, altresì, le direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e, nell’ambito di queste, le direzioni amministrative.

Dal complesso delle disposizioni costituenti l’ “ius superveniens” si desume che, con la entrata in vigore della suindicata normativa e la conseguente abrogazione del d.P.R. n. 441 del 29.6.00, la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio è un organo periferico dell’amministrazione e dipende dalla competente direzione generale.

Il Soprintendente, nell’ambito dell’autonomia gestionale riconosciutagli dal regolamento ed in conformità a quanto previsto dall’art. 17 del d.lgs. n. 29 del 3.12.1993, partecipa ai procedimenti di competenza della direzione regionale, ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 20 del d.P.R. n. 173/04, ma non ha più alcun potere di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche, rilasciate ai sensi degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42/04.

Né – verosimilmente - può esprimere pareri preventivi nell’ambito dei procedimenti autorizzatori.

La babele legislativa si è aggravata ulteriormente con l’entrata in vigore della legge n. 308/04 che, essendo stata pubblicata in G.U. il 15.12.2004, è, comunque, successiva alla complessa produzione normativa che ha determinato il radicale riassetto organizzativo del Ministero per i beni e le attività culturali.

Tanto radicale ed innovativo da indurre l’Associazione Italia Nostra a proporre ricorso (n. 580 del 2004) al T.A.R. Marche contro i provvedimenti attuativi della delega contenuta nella legge n. 137/2002, ed in special modo contro il regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali approvato con il citato d.P.R. n. 173/2004, sul presupposto che tali provvedimenti perseguirebbero – in violazione dei principi fissati dalla legge delega – “il fine di determinare un indebolimendo della tutela dei beni culturali, così realizzando un attacco strategico al patrimonio culturale e paesaggistico nazionale”.

La previsione verticistica del Ministero, organizzato piramidalmente, finirebbe per ostacolare, in sostanza, le procedure amministrative, appesantendo l’attività istituzionale del dicastero. Inoltre, la possibilità, prevista dal regolamento, di affidare gli incarichi di direttori regionali anche a manager amministrativi e politici svuoterebbe le funzioni, dagli stessi svolte, di quel contenuto tecnico – scientifico necessario ai fini di un’efficace tutela dei beni culturali e che è stato patrimonio precipuo delle Soprintendenze territoriali, spossessate del loro ruolo dalla riforma contestata.

Il T.A.R. Marche, con ordinanza n. 136 del 15 ottobre 2004, ritenuto, fra l’altro, che “l’intervenuta approvazione del d.P.R. n. 173/2004 ha prodotto un rilevante sconvolgimento di assetti consolidati, con possibilità di alterazione dei livelli attuali di gestione e concentrazione dei poteri su strutture centralizzate, ciò in antitesi alla evoluzione regionalistica ed al recente orientamento della riforma costituzionale, e che non è dato rinvenire nessuna traccia di conferimento al legislatore delegato di un potere di delegificazione, attraverso un regolamento governativo, della materia oggetto di delega”, ha sospeso il giudizio e disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, che dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle norme coinvolte, sulle quali si basa il regolamento impugnato[8].

Va da sé che, nelle more, sulle richieste di parere di cui alla legge n. 308/04, non dovrebbe pronunciarsi la Soprintendenza, in quanto privata - come già detto - dei relativi compiti a seguito dell’abrogazione del d.P.R. n. 441/00. Ma paradossalmente nemmeno la competente direzione regionale, atteso che, allo stato, alle direzioni regionali non sono stati ancora trasferiti i compiti in origine attribuiti alle Soprintendenze di settore.

Né può ritenersi che della materia relativa alla gestione del vincolo paesaggistico possa oggi occuparsi il Ministero o per esso il Dipartimento o la direzione generale centrale (di livello dirigenziale generale), in quanto tra i compiti loro assegnati, in linea con gli scopi perseguiti, non rientra quello relativo alla gestione del vincolo paesaggistico cui sono, appunto, riconducibili i procedimenti autorizzatori ai sensi degli artt. 146 e 159 del d.lg. n. 42 del 2004 e i pareri previsti dalla legge delega n. 308.

5. Il giudizio “a posteriori” di compatibilità delle tipologie edilizie realizzate e dei materiali utilizzati con gli strumenti di pianificazione paesaggistica o con il contesto paesaggistico.

La lettera a) del comma 37 ricollega l’estinzione del reato di cui all’art. 181 alla verifica di compatibilità dei lavori eseguiti alle previsioni degli strumenti di pianificazione paesaggistica, se vigenti.

In caso di non vigenza dei piani l’accertamento di compatibilità con l’interesse pubblico è rimesso al giudizio latamente discrezionale della P.A..

In altri termini, nel primo caso, come avviene per l’accertamento di conformità urbanistica ex art. 36 d.P.R. n. 380/01, il controllo postumo sulla compatibilità delle tipologie edilizie e dei materiali si traduce in una verifica (apparentemente) vincolata della conformità di ciò che è stato realizzato alle previsioni di dettaglio, immediatamente precettive, contenute nel piano. Nel secondo, difettando i parametri pianificatori di riferimento, il giudizio di compatibilità è affidato, per così dire, al buon gusto del funzionario competente, risolvendosi in un apprezzamento discrezionale sulla compatibilità dell’intervento rispetto al quale si richiede la sanatoria con il contesto paesaggistico.

 “Quid iuris” se il piano paesaggistico non presenta i contenuti precettivi o auto-esecutivi propri degli strumenti urbanistici?

Può, infatti, sostenersi la natura sostanzialmente vincolata dell’autorizzazione solo se i criteri ed i parametri di compatibilità con l’interesse paesaggistico siano già compiutamente predeterminati ovvero oggettivamente determinabili con riferimento al contenuto dichiarativo del vincolo ed alle caratteristiche del bene tutelato, di modo che non resti all’amministrazione che un mero accertamento al riguardo.

Contravvenire alle prescrizioni dello strumento di tutela paesaggistica equivale, in tal caso, a violare norme tecniche obiettivamente vincolanti, con conseguente revoca o modificazione implicita del vincolo paesaggistico e del suo contenuto (cfr, sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 27.3.2003, n. 1594).

Ove il piano non presenti contenuti precettivi, la scelta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è espressione piena di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in sede di legittimità purchè immune da profili di eccesso di potere anche per quanto riguarda l’idoneità dell’istruttoria, l’apprezzamento di tutte le circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta medesima (Cons. Stato, sez. VI, 10.10.2002, n. 5430, e 1.10.2003, n. 5690).

Sta di fatto che, nella realtà, la maggior parte dei nostri piani paesistici appare carente di contenuti precettivi tali da orientare in modo corretto l’attività di gestione del vincolo dei quali i piani stessi costituiscono strumenti di attuazione.

Con l’Accordo Stato – Regioni del 2001 e, prima ancora, con la Convenzione europea del paesaggio di Firenze del 2000, sottoscritta anche dall’Italia, si può considerare conclusa la fase che ha visto nella pianificazione paesistica la preminenza delle politiche di conservazione, con approccio più complesso che vede introdotti nuovi concetti quali “politica del paesaggio”, “qualità paesaggistica”, “protezione del paesaggio”, “gestione del paesaggio”, “pianificazione del paesaggio”.

Il paesaggio, pertanto, viene interpretato come il prodotto di un processo in continuo divenire che vede coinvolti numerosi soggetti e che riguarda l’intero territorio di una comunità. Esso è una “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni” (non solo le parti considerate più rilevanti), su cui è difficile esercitare un controllo solo vincolistico, dovendo essere oggetto di politiche specifiche “da parte delle autorità pubbliche competenti attraverso la formulazione di principi generali, di strategie e orientamenti” finalizzati a “salvaguardare, gestire e pianificare il paesaggio”.

Ciò implica la necessità di rinnovare profondamente l’approccio alla pianificazione paesistica, attraverso:

- il superamento della concezione meramente vincolistica del piano e l’estensione della pianificazione paesistica all’intero territorio;

- il coinvolgimento degli attori locali nella individuazione e nel riconoscimento dei valori paesaggistici;

- l’attribuzione agli strumenti di pianificazione e di governo del territorio anche della valenza della pianificazione paesistica.

In Campania, in particolare, è emerso da una indagine effettuata dall’assessorato regionale all’urbanistica che i piani paesistici redatti ai sensi dell’art. 149 del d.lgs n. 490/99 non appaiono conformi ai dettami espressi dall’Accordo Stato-Regioni.

Infatti i piani fanno ricorso a norme precise e dettagliate, sia pure prevalentemente vincolistiche, che possono essere considerate come una risposta alla necessità, espressa dal suddetto Accordo, di un contenuto prescrittivo dei piani medesimi.

Tuttavia, i PP.TT.PP., in merito alle modalità e ai criteri secondo i quali attuare la pianificazione paesistica:

- non riportano le modalità attraverso cui si è proceduto al riconoscimento della differenziazione dei valori costitutivi (punto a. dell’art. 4 dell’Accordo Stato-Regioni); in particolare non esplicitando adeguatamente le loro caratteristiche e facendo riferimento sinteticamente alle norme del testo unico (artt. 139 e 146), in cui sono indicate:

a) - categorie dei beni da tutelare quasi esclusivamente in relazione agli aspetti estetici;

b) - categorie generiche di beni, all’interno dei quali andrebbero individuati e classificati i diversi valori in relazione alle specifiche caratteristiche storico-culturali, naturalistiche, morfologiche ed estetico-percettive;

 - non fanno alcun riferimento alle dinamiche socio-economiche e insediative di trasformazione dei territori interessati;

 - orientano la tutela, la riqualificazione e la valorizzazione del territorio in funzione del livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici e ambientali (art. 3 dell’Accordo Stato – Regioni), riferendosi essenzialmente all’ambiente costruito, ovvero agli edifici e alle relative sistemazioni esterne.

A tali indicazioni si è attenuto anche il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio che ha inteso valorizzare maggiormente rispetto al passato la funzione della pianificazione regionale, esercitata nel rispetto del principio di leale cooperazione con gli organi del Ministero preposti alla contitolarità degli interessi.

Il tutto al fine di valutare soprattutto le dinamiche socio-economiche ed insediative di trasformazione del territorio, individuando, altresì, i fattori di rischio e di vulnerabilità sotto il profilo paesaggistico-ambientale e definendo le logiche di interazione con gli altri strumenti di pianificazione, al fine di definire norme preventive per la tutela e l’uso del territorio.

D’altra parte, anche nella nota dell’Ufficio Legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali del 22.6.2004, prot. n. 11758, già richiamata, viene evidenziato che “nella fase transitoria (prevista dal codice) la pianificazione paesaggistica esistente non è in grado ancora di svolgere quel ruolo di guida all’esercizio del potere autorizzatorio che, invece, il nuovo articolo 143 intende ad essa assegnare (prevedendo nuovi piani ricchi di contenuti precettivi e regolativi dell’uso compatibile del territorio). Nella fase transitoria, dunque, il completamento della disciplina d’uso degli immobili e delle aree sottoposti a vincolo rimane affidato alla scelta discrezionale dell’amministrazione competente ad autorizzare gli interventi. E’ in questa fase transitoria, pertanto, che è e resta particolarmente avvertita la necessità di assicurare che tale valutazione avvenga “prima” della modifica dello stato delle cose. La ridetta ragione giustificatrice del divieto (di sanatoria) potrebbe invece in qualche modo divenire meno urgente con la progressiva opera di adeguamento dei piani paesaggistici ai nuovi dettami analitici di cui all’articolo 143 del codice. All’esito di tale adeguamento, infatti, allorquando i piani diverranno veri piani regolatori dell’uso antropico del territorio compatibile con il valore paesaggistico protetto, la connotazione di discrezionalità dell’atto autorizzatorio potrebbe anch’essa subire un ridimensionamento, con contestuale incremento del profilo di vincolo della decisione amministrativa alla predeterminazione legale rimessa al piano paesaggistico adeguato”.

La natura normalmente discrezionale dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (C. Stato, sez. VI, 27.3.2003, n. 1594) è dimostrata, inoltre, dalla costante giurisprudenza che ne pretende un’ampia e articolata motivazione (Cons. Stato, sez. VI, 22.2.1995, n. 207, 19.7.1996, n. 968, 10.10.2002, n. 5430, 1.10.2003, n. 5690, e 14.10.2003, n. 6259).

La motivazione è richiesta anche in caso di diniego (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sezione VI, 13.7.2004, n. 7785, secondo cui “nell’ambito del complesso procedimento di sanatoria e soprattutto nel contesto del condono edilizio (le cui peculiari ed eccezionali finalità tendono a recuperare il dilagante fenomeno dell’abusivismo), l’amministrazione è tenuta a compiere una specifica ed articolata istruttoria che consenta di ricostruire le ragioni poste a fondamento del relativo provvedimento conclusivo.

Ed in particolare quando per l’appunto nell’ambito di una procedura di condono l’amministrazione svolge una valutazione negativa, proprio in relazione a quelle finalità di recupero a cui l’eccezionale procedura è improntata, l’amministrazione deve motivare sulla base della specifica istruttoria espletata, con puntualità di riferimenti, le ragioni tecnico – valutative che impediscono nella fattispecie il rilascio della concessione in sanatoria”.

Alla luce di tali considerazioni non è difficile immaginare il contenzioso che potrà svilupparsi anche in ordine alla fase endoprocedimentale dell’iter di rilascio dell’autorizzazione postuma, laddove questo si concluda con esito sfavorevole (“vincolato”) per il privato.

Non senza rilevare che altro motivo del contendere sarà sicuramente rappresentato dall’ambiguo riferimento che la legge delega fa, ai fini dell’assentibilità del titolo in sanatoria, alle tipologie edilizie e ai materiali utilizzati (e non ai lavori o alle opere): locuzioni troppo generiche e vaghe per far ritenere assolto l’obbligo di indicare validi elementi di riscontro tipici della pianificazione di dettaglio ai fini della valutazione di compatibilità paesaggistica.

Peraltro, secondo T.A.R. Marche, sent. 27.7.2002, n. 907, “l’autorizzazione paesistica va tenuta distinta dal diverso istituto della compatibilità paesistico-ambientale (…), la cui verifica ha il diverso compito di accertare gli effetti sull’ambiente indotti dall’intervento di trasformazione del territorio progettato, al fine di dimostrarne la compatibilità con il contesto paesistico-ambientale” [9]-[10].

6. La rimessione in pristino quale autonoma causa di estinzione del reato paesaggistico.

La normativa in commento aggiunge, infine, all’art. 181 del Codice dei beni culturali e del paesaggio un nuovo comma 1 quinquies che introduce un’ipotesi di ravvedimento attuoso o operoso da valere – a determinate condizioni – quale autonoma causa estintiva del reato.

La rimessione in pristino dello stato dei luoghi, se effettuata prima della sentenza di condanna o, comunque, prima della esecuzione di ufficio del provvedimento sanzionatorio (ripristinatorio) emesso dall’autorità preposta alla gestione del vincolo (come già precisato, in caso di sub-delega regionale, il dirigente dell’ufficio comunale competente), determina, dunque, nella nuova disciplina condonistica, l’estinzione del reato.

La norma richiede in primo luogo che il giudizio penale non si sia già concluso con una sentenza di condanna, anche perché, in tal caso, alla sentenza si accompagna necessariamente l’ordine giudiziale di rimessione in pristino dello stato dei luoghi (misura amministrativa c.d. sanzionatoria o surrogatoria di sicurezza, suscettibile di autonoma esecuzione) a spese del condannato, così come previsto dall’art. 181 del Codice; in secondo luogo, che non si sia già proceduto alla esecuzione di ufficio del provvedimento sanzionatorio eventualmente adottato dall’amministrazione ai sensi dell’art. 167 dello stesso Codice o ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380/01.

E’ difficile immaginare che tra la data dell’adozione del provvedimento (specie se adottato ai sensi dell’art. 27) e quella della sua esecuzione possa intercorrere un apprezzabile lasso di tempo. Tuttavia, nella realtà, sovente si verifica che l’esecuzione dell’ordine di ripristino venga rallentato e non di poco da altri fattori, come, ad es., la non immediata revoca del sequestro ad opera del Pubblico Ministero procedente qualora la “res abusiva” sia stata, appunto, assoggettata alla misura cautelare reale per esigenze probatorie o di prevenzione.

La rimessione in pristino – ove effettuata dal trasgressore – naturalmente non potrà essere limitata alla demolizione dell’opera, intesa quale mera distruzione fisica della “res”, dovendo consistere in un comportamento teso a reintegrare il più possibile lo stato dei luoghi originario, così come si presentava prima dell’intervento abusivo (cfr Cass. pen., sez. III, 13.10.1992, Langella).

Può fondatamente sostenersi che la disposizione in esame vada applicata (perché questa sembra essere la volontà espressa del legislatore) al solo reato contravvenzionale di cui al comma 1 dell’art. 181 e non anche alla diversa fattispecie incriminatrice (delitto) introdotta con il comma 1-bis, operando per le cause estintive del reato il divieto di analogia di cui all’art. 14 delle preleggi.

La riferita disposizione trova un suo remoto e pur sempre eccezionale precedente nell’art. 8-quater della legge n. 298 del 1985, di conversione del d.l. n. 146 del 1985, che prevede che non sono perseguibili coloro che abbiano demolito o comunque eliminato le opere abusive entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 146 cit. (7 luglio 1985).

Su tale disposizione, come si ricorderà, è intervenuta più volte la Corte Costituzionale (si citano, per tutte, le sentenze n. 369 del 31.3.1988 e n. 167 del 29.3.1989) chiamata a pronunciarsi sulla sua legittimità soprattutto in riferimento all’art. 3 della Costituzione, “in quanto tale norma dichiara non perseguibili penalmente coloro che abbiano demolito le opere abusive entro il 6 luglio 1985 (data di entrata in vigore della legge di conversione), mentre niente dice su coloro che tali opere abbiano demolito posteriormente a tale data, i quali, quindi, sono soggetti a sanzione penale nonostante l’eliminazione dell’opera abusivamente costruita”.

Si è ritenuto in sostanza, da parte dei giudici remittenti, che, dal momento che la demolizione elimina l’antigiuridicità del fatto, ripristinando la situazione conforme all’ordinamento, lo stabilire che la non perseguibilità sia relativa alle sole demolizioni eseguite entro un determinato termine violerebbe l’art. 3 Cost.-

La Corte ha osservato che intanto non è esatto che la demolizione dell’opera abusiva elimini l’antigiuridicità del fatto. In realtà, l’eliminazione del manufatto illecitamente costruito fa soltanto cessare la permanenza del reato, ma la violazione della legge si è già perpetrata con il solo fatto della costruzione senza concessione, e con la violazione si è realizzata necessariamente quella antigiuridicità del fatto che la demolizione non può più eliminare. Non senza ragione, del resto, la legge non parla nemmeno di “non punibilità”, nella quale ipotesi rientrano tanto le vere e proprie situazioni scriminanti quanto quelle di mera esenzione da pena per ragioni di opportunità, ma usa addirittura una formula atecnica a carattere processuale quale quella di “non perseguibilità”: e ciò perché resti ben chiaro che l’effetto che la demolizione dell’opera abusiva produce è soltanto l’esenzione dall’azione penale, ferma restando l’illiceità del fatto compiuto.

Tuttavia, rientra nella discrezionalità del legislatore - ha aggiunto la Corte - stabilire limiti temporali a taluni effetti di “non perseguibilità” come conseguenza di non punibilità per ragioni di politica criminale e non certo come effetto della caduta di antigiuridicità per cause intrinseche attinenti al nucleo sostanziale dell’illecito, che permane anche dopo la demolizione (sentenze n. 167 del 1989 e n. 137 del 1996).

Il dato normativo introdotto dalla legge n. 308/04 non fa riferimento ad una causa di non perseguibilità, bensì ad una vera e propria causa di estinzione del reato.

L’interrogativo che sorge è se si tratti di espressione impropria o atecnica, avendo il legislatore inteso soltanto prevedere – come nella fattispecie delineata dall’art. 8-quater – la non perseguibilità del contravventore in caso di ravvedimento operoso, o, viceversa, se si sia voluto affermare il principio della caduta di antigiuridicità per cause intrinseche attinenti al nucleo sostanziale dell’illecito. Sul punto si impone la seguente precisazione.

Non solo la Corte Costituzionale, come si è visto, ma anche la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che l’intervenuta demolizione di un manufatto abusivo non può comportare l’estinzione del reato connesso con la sua costruzione (cfr., in particolare, sez. III, 19.6.1998, n. 10199, 14.3.1992, Malchiodi, e 17.11.1995, Caputo).

Infatti, nei reati urbanistici ciò che rileva penalmente è l’elusione da parte dell’agente del generale e preventivo controllo che l’autorità amministrativa è chiamata ad esercitare su tutta l’attività edilizia assoggettata a regime concessorio. Pertanto, nell’ipotesi di attività edificatoria intrapresa in assenza di previa concessione, si verificherà sempre un danno urbanistico, eccetto il caso di abuso meramente formale, come disciplinato dagli artt. 13 e 22 della legge n. 47 del 1985.

Solo in un’isolata pronuncia la Corte ha, peraltro, sostenuto che l’avvenuta spontanea demolizione delle opere illecitamente realizzate da parte del soggetto responsabile dell’abuso può costituire prova sia della mancanza di un danno penalmente rilevante, sia della buona fede dell’imputato (sez. III, 30.5.1990, Vigevano).

Pertanto, non pare possa ragionevolmente negarsi che la rimessione in pristino non elimina in alcun modo l’antigiuridicità del fatto illecito compiuto e l’obbligo della conformità “a priori” delle opere agli strumenti di tutela paesaggistica.

Altrimenti si introdurrebbe il principio secondo cui la semplice eliminazione delle conseguenze del reato, o addirittura la condotta che ne fa cessare la permanenza, elimina l’illecito.

Quel che, però, non può essere trascurato è che il legislatore delegato ha inserito il comma 1 - quinquies subito dopo i commi 1-ter e 1-quater, che disciplinano un’altra fattispecie estintiva che, come già detto, trova applicazione soltanto in presenza di accertamento della compatibilità paesaggistica di interventi edilizi minori (che non abbiano, cioè, comportato creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, o che si siano caratterizzati per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica o che abbiano dato luogo ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria).

La collocazione sistematica della disposizione relativa alla efficacia estintiva della rimessione in pristino potrebbe, dunque, far ritenere che con la legge n. 308 si sia inteso significare che l’eliminazione delle conseguenze del reato, nei casi di interventi edilizi minori, equivale in sostanza a dimostrare l’assenza di un danno penalmente rilevante e correlativamente il venir meno dell’interesse punitivo dello Stato.

La qualcosa non potrebbe mai dar luogo – proprio per la peculiarità della fattispecie – a censura d’irrazionalità.

Tuttavia una simile interpretazione – a ben vedere - è esclusa proprio dal comma 1 dell’art. 181 del Codice, cui è stato aggiunto il richiamato comma 1-quinquies, che riserva il trattamento sanzionatorio penale a “chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici”

E’ evidente, infatti, che il riferimento a “lavori di qualsiasi genere” esclude che la disposizione in esame possa essere riferita solo agli interventi edilizi minori.

7. Conclusioni.

Si avverte da più parti l’esigenza di una normativa di raccordo tra la disciplina sul nuovo condono edilizio e la sopravvenuta legge delega “ambientale”, giacché tali normative, come sopra evidenziato, pur perseguendo finalità diverse, per taluni aspetti che attengono alla sanzionabilità della condotta sul piano penale finiscono inevitabilmente per sovrapporsi ma in modo disomogeneo, generando incertezze nei rapporti giuridici ed anche sul versante della attività “gestoria” della pubblica amministrazione [11].

In tale situazione disorienta il fatto che la legge n. 308 paradossalmente succeda in ordine di tempo al testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. n. 380/01 ed al neonato codice “Urbani” del gennaio 2004, che, a sua volta, sostituisce, abrogandolo in ogni sua parte, il precedente testo unico dei beni culturali ed ambientali n. 490 del 1999.

L’affastellamento di norme, talvolta di difficile interpretazione ma pur sempre regolanti la materia del governo del territorio e dei beni paesaggistici, pur nella diversità del profilo teleologico sottostante all’interesse pubblico tutelato, alimenta dubbi e perplessità soprattutto in ordine alla “riconoscibilità” del precetto penale.

Come precisato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del marzo 1988 (con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile), relativa alla già criptica e caotica disciplina previgente, un precetto penale ha valore, come regolatore della condotta, non per quello che è ma per quel che appare ai consociati. E la conformità dell’apparenza all’effettivo contenuto della norma penale dev’essere assicurata dallo Stato che è tenuto a favorire, al massimo, la riconoscibilità sociale dell’effettivo contenuto precettivo delle norme.

Dal diritto romano classico, per il quale era consentito alle donne ed ai minori di 25 anni “ignorare il diritto”, attraverso i “glossatori” ed il diritto canonico, fino alle attuali normative di diritto comparato (codici penali tedesco, austriaco, svizzero, greco, polacco, giapponese, ecc.) si evidenziano tali e tante eccezioni all’assolutezza del principio in discussione che il nostro codice si può sostenere sia rimasto, in materia, isolato, neppure più seguito dal codice penale portoghese. Quest’ultimo, infatti, mutando recentemente la precedente normativa, ha previsto il c.d. “errore intellettuale”, nel quale rientra l’errore sul divieto la cui conoscenza appare – come ammonito dalla Corte Costituzionale – ragionevolmente indispensabile perché possa aversi coscienza dell’illiceità del fatto.

Valeva la pena di rimodulare l’esercizio del potere punitivo dello Stato in una materia già così complessa, prevedendo nuove fattispecie estintive il cui avveramento richiede – come si è visto – processi interpretativi il più delle volte latamente discrezionali, con buona pace del principio di legalità?

Ritengo di no, in quanto, anche a voler trovare una giustificazione a tutti i costi nella esigenza di far cassa anche in tale settore, il legislatore non pare abbia imboccato la strada giusta come l’esperienza pratica certamente dimostrerà nei prossimi anni.

La sensazione è che la legge n. 308, soprattutto nella parte relativa al condono paesaggistico, difficilmente verrà utilizzata appieno da chi potrebbe avere astrattamente interesse al conseguimento del titolo abilitativo “estintivo”, sia perché la “conditio sine qua non” della sinallagmatica “monetizzazione” della trasgressione costituirà un deterrente di significativo rilievo, sia perché con la legge 3 maggio 2004, n. 134, sul c.d. “patteggiamento allargato” sono state offerte al contravventore nuove opportunità transattive in materia penale, prevedendosi anche misure sostitutive della pena detentiva, sicuramente in concreto meno gravose di quelle introdotte dalla l. n. 308.

E’ vero che una sentenza di patteggiamento, “salve diverse disposizioni di legge” (art. 445, comma 1-bis c.p.p.), è da equiparare, comunque, ad una sentenza di condanna, ed è, pertanto, ben diversa cosa rispetto ad una pronuncia applicativa di una causa di estinzione del reato, ma è altrettanto vero che il beneficio della sospensione condizionale della pena viene in tali casi quasi sempre concesso ed “il reato è estinto, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale, e se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva l’applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena” (art. 445, comma 2, c.p.p.).

Così come è innegabile che gli ordini di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi pronunciati dal giudice contestualmente alla sentenza ex art. 444 c.p.p. rimangono il più delle volte solo sulla carta, in quanto stranamente le nostre Procure solo in rarissimi casi hanno dato esecuzione a tali provvedimenti, pur essendovi tenute in via esclusiva come stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la nota sentenza n. 15 del 19 giugno 1996.

Ed allora perché ritenere votata al successo una legge che, pur agitando il “bastone” per il futuro e facendo uso della “carota” (comunque indigesta) per il passato, appare agli occhi del contravventore – sempre più scaltro e meno convinto della funzione “retributiva” della pena - come un rimedio idoneo ad assicurargli un qualche vantaggio, ma “a caro prezzo” e sempre che la pubblica amministrazione sia in grado, attraverso una verifica di “compatibilità” nient’affatto scontata, di concludere positivamente il procedimento, quando altri strumenti processuali gli consentono, invece, di conseguire i medesimi effetti con oneri e limitazioni decisamente meno penalizzanti?

 


 

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(*) Avvocato amministrativista.

[1] Anche secondo l’amministrazione statale (v. la nota dell’ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali del 22 giugno 2004, prot. n. 11758) una delle ragioni del divieto consiste nel fatto che la verifica della compatibilità di una trasformazione del territorio con il notevole interesse paesaggistico è sostanzialmente discrezionale (e deve perciò essere fatta “prima”), mentre la verifica della compatibilità di una trasformazione del territorio con gli strumenti urbanistici vigenti è del tutto vincolata (e può perciò esser fatta anche “dopo”).

[2] Per una interessante ed approfondita disamina, in dottrina, della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” si rimanda a P. Carpentieri in “L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (alcune considerazioni a margine del disegno di legge A.S. 1753-B di delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”), in Urbanistica e Appalti n. 4 del 2004. Secondo l’Autore, “non appare corretta la sottovalutazione della specificità della materia della tutela dei beni paesaggistici, che viene tendenzialmente contaminata con la confinante – ma diversa - materia dell’urbanistica e dell’edilizia”.

[3] L’art. 734 c.p. così recita: <<Chiunque, mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo, distrugge o altera le bellezze naturali dei luoghi soggetti alla speciale protezione dell'Autorità, è punito con l'ammenda da 1.032 euro 6.197 euro>>. Secondo la giurisprudenza penale, di merito e di legittimità, tale reato è un reato di danno, per cui, ai fini della sussistenza dell’illecito penale, non è sufficiente la semplice alterazione dello stato naturale delle cose, ma occorre che tale alterazione abbia effettivamente determinato la distruzione o il deterioramento delle bellezze naturali. Ciò si verifica quando l’agente viene a turbare la sensazione di gradimento estetico che i luoghi offrivano prima dell’atto lesivo della loro integrità (v., fra le tante, Cass. pen., se. III, 4.5.1995, n. 7026).

[4] Per O. Forlenza, in “Se c’è silenzio della P.A. ricorso al T.A.R. senza diffida”, in Guida al Diritto (Il Sole 24 Ore), Speciale Azione Amministrativa, 12.3.2005, n. 10, “l’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, impone una generale temporizzazione dei procedimenti amministrativi, e, in ragione della sopravvenuta disciplina, che dunque ora prevede sempre un termine di conclusione di ogni procedimento amministrativo, si è voluta ritenere non più necessaria la costruzione del cosiddetto silenzio-inadempimento, ben potendo esso ritenersi formato con la semplice scadenza del termine normativamente previsto”.

[5] A conclusioni opposte perviene A.P. Arturo, in “Il terzo condono edilizio e la Cassazione penale”, in www.lexitalia.it, n. 2/2005, il quale, con articolate argomentazioni improntate a rigore interpretativo, pienamente condivisibili soprattutto perché aderenti al dato normativo, dimostra che l’orientamento della Corte in materia si pone in contrasto con “i principi consolidati (…) per effetto delle leggi di condono precedenti, che non appaiono scalfiti dalla disciplina del terzo condono che, sul punto, è invece in continuità normativa. La stessa Corte – aggiunge l’Autore - modificando la motivazione del suo diniego di applicazione degli articoli 44 e 38, sembra non essere convinta della bontà della soluzione adottata!

Infatti, mentre in un primo tempo (per tutte, Sez. III, 29.12.2004, n. 3350, 13.11.2003, n. 3348 e 15.7.2004, n. 35984) riconduce la non applicabilità della sospensione e della estinzione del reato all’art. 32, comma 27, lettera d), del D.L. n. 269/2003, nei successivi arresti (per tutti 21.12.2004, n. 48954, 21.12.2004, n. 48956, 12.1.2005, n. 216) richiama il comma 26, lettera a), dello stesso art. 32, abbandonando la precedente motivazione”.

[6] Sul significato da attribuire al silenzio della P.A. nel nuovo condono edilizio, sia consentito rinviare a B. Molinaro, in “Condono ter, vincolo paesistico e silenzio – rifiuto impugnabile”. “Silenzio inadempimento o silenzio provvedimentale”?, in www.lexitalia.it, n. 11/2004.

[7] Per S. Conte, in “Nuovo condono edilizio. Primi appunti e commenti al D.L. 30 settembre 2003, n. 269”, in www. LexItalia.it., n. 10/2003, “si tratta di disposizione che innova in maniera inaspettata e contraddittoria (…); la nuova formulazione finisce per distruggere l’equilibrio fra le attribuzioni di competenze, riattribuendo alla Soprintendenza una competenza di merito, e non di solo annullamento per motivi di legittimità, atteso che nella conferenza di servizi essa potrebbe esprimere il proprio motivato dissenso, idoneo a provocare il rigetto dell’istanza, senza alcuna possibilità di una riformulazione del parere”.

[8] L’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale del T.A.R. Marche è riportata in Altalex, n. 883 del 13.12.2004, con nota di commento di Alessandro Ferretti (“Alla Consulta il nuovo regolamento per i beni e le attività culturali”).

[9] Secondo A. Natalini, in “Delega Ambientale e norme di diretta applicazione; la legge 308/04, le modifiche al decreto Ronchi e le sanatorie ambientali”, in Diritto e Giustizia, 12.3.2005, n. 10, “il condono ambientale è più permissivo (di quello edilizio), perché (…) introduce il concetto di compatibilità paesaggistica, il cui giudizio è di ampia portata riferendosi a tipologie edilizie, materiali e in generale al contesto paesaggistico”.

[10] Anche per D. Chinello, in “Il nuovo condono ambientale nella legge 308/2004”, in Immobili e Proprietà n. 3/2005, “può aversi un immobile abusivo astrattamente compatibile  per tipologia della struttura, forma e stile dell’opera, materiali utilizzati, colore e quant’altro”.

[11]Severo ma pienamente condivisibile il giudizio di G. Saporito, in “Condono ambientale: per gli interventi abusivi necessario il coordinamento con le norme edilizie”, in “Guida al Diritto”, 26.2.2005, n. 8, secondo cui “reagendo alla rigidità delle norme che destinavano alla demolizione tutti gli interventi privi di preventivo parere ambientale, il legislatore manca di coordinamento tra edilizia ed ambiente. Ciò genera incertezza, perché vanifica gli effetti di ambedue i condoni, edilizio ed ambientale, almeno finché non interverrà un momento di unificazione tra procedure con testo unico delle sanatorie sul territorio”.


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