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n. 6/2008 - ©
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CLAUDIO MIGNONE
Note sulla disciplina dei consigli giudiziari
dopo la riforma legislativa del 2007
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Esemplificazione delle competenze spettanti ai Consigli giudiziari. - 3. La tipologia delle funzioni e la denominazione degli atti. - 4. La composizione dei Consigli giudiziari in rapporto alle competenze. – 5. I "regolamenti" dei Consigli giudiziari.
1. Premessa.
Il presente scritto intende attirare l’attenzione su alcune difficoltà interpretative cui è soggetta la normativa regolante i Consigli giudiziari, con speciale riguardo a quella contenuta nel d.lgs. 27 gennaio 2006, n. 25, nel testo modificato dalla l. 30 luglio 2007, n. 111. Lo spunto è offerto dall’avvenuta costituzione di tali organismi, nella loro veste rinnovata, e dal loro recentissimo insediamento (maggio 2008).
Le considerazioni esposte nei paragrafi seguenti perseguono il limitato scopo di sottolineare alcuni problemi, senza pretendere di venirne a capo. Tuttavia, in qualche caso, potrà essere prospettata un’ipotesi di soluzione, comunque suscettibile di essere affinata, o superata, con la riflessione comune delle persone interessate a conseguire esiti ermeneutici più soddisfacenti in merito a tutti gli aspetti della complessa problematica.
Si spera tuttavia che - quanto prima – sia lo stesso legislatore delegato, in ottemperanza all’art. 7, legge n. 111/2007, a porre ordine nella materia, così rimediando agli ostacoli cui si trova di fronte l’interprete, costretto a confrontarsi, in proposito, con una tecnica normativa lungi dall’essere apprezzabile. L’osservazione pare tanto più calzante poiché l’articolo citato demanda alle leggi delegate (da emanarsi entro il luglio 2009) non solo il compito di coordinare le norme sull’ordinamento giudiziario, ma anche quello di "operare l’abrogazione espressa delle disposizioni ritenute non più vigenti".
Dal che si deduce come si dia attualmente per scontata la presenza di un certo disordine normativo, insieme alla materiale sopravvivenza di norme che – in virtù di interpretazione talora faticosa – sono da considerare implicitamente abrogate.
Il tutto, poi, risulta aggravato da un’ulteriore constatazione. Invero il d.lgs. n. 25/2006 – recante nel proprio titolo anche l’espressione "nuova disciplina dei consigli giudiziari a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c), della legge 25 luglio 2005, n. 150" – non pare aver soddisfatto (né a ciò ha rimediato, come si dirà meglio fra breve, la legge n. 111/2007) tutte le prescrizioni enunciate dal legislatore delegante, avendo lasciato scoperto il punto indicato nell’art. 2, comma 3, lettera t) della legge n. 150, che imponeva di coordinare con quanto stabilito dalla legge di delega, soprattutto nella precedente lettera r) dello stesso comma 3, le "disposizioni vigenti che prevedono ulteriori competenze dei consigli giudiziari".
Siffatto elenco, sostanzialmente riprodotto, nel testo originario dell’art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25/2006, ha subito modifiche ad opera dell’art. 4, c. 13, legge n. 111/2007, che ha riformulato parzialmente l’art. 15 or ora ricordato.
La legge n. 111, peraltro, ha omesso anch’essa di effettuare il coordinamento, demandandolo (art. 7 cit.) a futuri decreti legislativi, i quali dovranno effettuarlo con riguardo a tutte "le norme che costituiscono l’ordinamento giudiziario".
2. Esemplificazione delle competenze spettanti ai Consigli giudiziari.
2.1. In attesa del perfezionamento normativo preannunciato (che si spera sia rispondente allo scopo e non riproduca altri errori) è intanto opportuno effettuare, in questa sede, una rassegna delle competenze dei Consigli giudiziari, senza che essa abbia pretese di completezza, dovendosi comunque applicare all’autore di questo scritto la stessa indulgenza che il legislatore assegna a se stesso quando elabora disposizioni imprecise, come talune di quelle menzionate appresso.
Prima di procedere alla suddetta rassegna occorre avvertire che si prescinde, per il momento, dalla differente composizione dei Consigli giudiziari in rapporto alla varietà delle funzioni loro assegnate (composizione allargata, ristretta, integrata, in "sezione autonoma"); di ciò si dirà nel paragrafo 4.
Similmente si prescinde, per ora, dal menzionare la tipologia degli atti mediante i quali le funzioni si esplicano (pareri, proposte, valutazioni, verifiche, etc.). Anche su ciò si tornerà più avanti (par. 4). Qui ci si riferisce ai compiti dei Consigli, visti sotto il profilo delle materie.
2.2. Ciò premesso, il nucleo delle funzioni spettanti agli organi collegiali in discorso si rinviene, come accennato, nel vigente art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25/2006, da completarsi con quanto previsto dall’art. 10, c. 1, precedente, che rinvia ad alcuni articoli della l. 21 novembre 1991, n. 374, nonché con il d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160.
Le materie elencate in tali disposizioni sono: a) predisposizione delle tabelle degli uffici giudicanti e di quelle infradistrettuali; b) formulazione dei criteri da seguire per assegnare gli affari e sostituire i giudici impediti; c) valutazione di professionalità dei magistrati; d) vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari; e) collocamenti a riposo, dimissioni, decadenze dall’impiego, concessione di titoli onorifici, riassunzione in servizio dei magistrati; f) programmazione dell’attività didattica della Scuola superiore della magistratura; g) organizzazione e funzionamento degli uffici del giudice di pace; h) tirocinio per aspiranti giudici di pace, nomina, conferma, decadenza di quelli assunti in servizio, e sanzioni disciplinari da irrogarsi ai medesimi.
2.3. Non è stata volutamente inserita fra le materie dianzi elencate la cosiddetta "competenza" menzionata nell’art. 15, c. 1, lett. h), d.lgs. n. 25/2006, poiché il dettato normativo, forse inficiato da un errore materiale, suscita un grave problema ermeneutico, il quale può essere meglio affrontato nel paragrafo 3.4. relativo alla tipologia degli atti. A questo, pertanto, occorre fare opportuno rinvio.
2.4. Oltre che nelle norme di rango primario sopra ricordate, alcune competenze dei Consigli giudiziari sono reperibili in altre fonti normative dello stesso livello, le quali, talvolta, rinviano a disposizioni ministeriali attuative, non necessariamente rientranti nella categoria degli atti-fonte. Si possono qui di seguito menzionare alcune fra siffatte competenze, a titolo di esemplificazione, come si è precisato nel paragrafo 1, salve restando l’opportunità e l’utilità di un inventario più accurato.
2.4.1. Così, l’art. 6, legge n. 374/1991 (commi 1 e 5) affida al Consiglio giudiziario l’organizzazione di corsi di aggiornamento professionale dei giudici di pace e la predisposizione di mezzi per l’informazione e l’aggiornamento degli stessi giudici e del personale di cancelleria e ausiliario.
2.4.2. A loro volta gli artt. 42 ter, 42 quinquies, 42 sexies e 71, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, prevedono l’intervento dei Consigli giudiziari in tema di nomina, conferma in servizio, cessazione, decadenza e revoca dall’ufficio dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari. In virtù dei precetti contenuti nel citato art. 42 ter, u. c., e nell’art. 42 sexies, u. c., del r.d. n. 12/1941 le competenze dei Consigli giudiziari in materia sono analiticamente esplicitate in decreti del Ministro della giustizia (identificabili, da ultimo, in due provvedimenti datati 26 settembre 2007, riguardanti, rispettivamente, i g.o.t. e i v.p.o., ed aventi contenuto quasi identico).
Siffatti decreti ministeriali, dovendo essere adottati "su conforme deliberazione del C.s.m." (art. 42 ter, u.c., ord. giud.), si configurano come meri atti di esternazione dei provvedimenti dell’Organo di autogoverno menzionati nel preambolo dei decreti stessi.
2.5. Similmente risoluzioni del C.s.m, ma questa volta non esplicitamente autorizzate, salvo errore, da norme di rango primario (come, invece, quelle ricordate nel precedente punto 2.4.2.), prevedono competenze preparatorie dei Consigli giudiziari, spettando ad altra autorità la decisione finale in materia di nomina, conferma, decadenza dei giudici onorari componenti dei Tribunali per i minorenni e delle sezioni delle Corti d’appello per i minorenni, nonché in materia di vigilanza nell’adempimento dei doveri che loro incombono. Tali competenze sono elencate nella circolare C.s.m. n. P. 4771 del 23 febbraio 2007 (1).
2.5.1. Osservazioni simili, circa l’apparente assenza di norme di rango primario, regolanti nel caso specifico la competenza preparatoria dei Consigli giudiziari, valgono per i giudici onorari componenti dei Tribunali di sorveglianza. In proposito la disciplina è rinvenibile nella circolare C.s.m. n. P. 4922 del 26 febbraio 2007, la quale costituisce una sorta di calco rispetto a quella qui ricordata poche righe addietro, anche per quanto concerne le materie della nomina, conferma, etc., dei giudici onorari minorili (2).
2.6. Non è questa la sede per esaminare e risolvere il problema attinente all’individuazione della fonte normativa idonea a prefigurare competenze di uffici amministrativi quali sono da considerare i Consigli giudiziari, ma si possono effettuare rapidissimi rilievi sull’"esistente".
La competenza di un ufficio amministrativo può essere "finale", se esso assume la decisione, eventualmente esternabile con atti di altra autorità (come avviene quando le delibere del C.s.m. assumono la forma di decreti presidenziali o ministeriali); oppure "preparatoria" (endoprocedimentale), qual è un parere; oppure, ancora, può risolversi in attività di "impulso", se collocabile all’inizio della procedura, così concretandosi in un atto di iniziativa (ad es., una proposta). Resta il fatto che la competenza deve essere riferibile ad un modello legale, ossia a una o più disposizioni normative che, a loro volta, possono prevedere interventi prescrittivi di altre autorità, ecc.
Infatti la competenza non è disponibile da parte dell’autorità amministrativa, costituendo esercizio della funzione nell’interesse pubblico; tant’è vero che la medesima è delegabile solo quando la legge attributiva (o altra legge) permette il trasferimento. Ne deriva che, in caso di impugnazione, il giudice amministrativo può conoscere, nei limiti della domanda, anche il dedotto vizio di incompetenza (relativa) addebitato all’attività di organi privi di funzioni finali, poiché tale giudice conosce di tutto il procedimento.
Orbene, per quanto sopra detto (e sempre salvo errore), mentre in alcuni casi il modello legale - rivelatore della competenza spettante ai Consigli giudiziari - è rinvenibile nella legge, in altri ciò non sembra accadere, essendo talora il parametro (che si potrebbe definire di tipo "debole") costituito da delibere del C.s.m. attributive della competenza.
La tesi che giustifica simile evenienza è diffusamente illustrata nella delibera C.s.m. adottata nella seduta del 20 ottobre 1999, avente per titolo "Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari", la quale (soprattutto nel cap. 4) descrive tali organi come uffici collocati in posizione di "subordinazione (non gerarchica ma) funzionale", svolgenti compiti ausiliari a favore del C.s.m. (punto 4.2), che possiede nei loro confronti il potere di dettare criteri di coordinamento in tema di organizzazione e funzioni, essendo ciò ascrivibile al "quadro della potestà di normazione secondaria riconosciuta al Consiglio Superiore" (punto 4.3) (3).
Ben vero che, nello stesso punto 4.3 della circolare, si precisa che "non appare configurabile in capo al Consiglio Superiore un vero e proprio potere di dettare norme sulla organizzazione e sulla attività dei Consigli giudiziari" (corsivo qui aggiunto); ma pare che quest’ultima affermazione sia poco significativa, e comunque superata dall’affermazione precedente, oltreché nella pratica.
Anche il Consiglio di Stato, d’altronde, respinge la tesi che pretende di fondare su una norma di rango primario il potere del C.s.m. di regolare l’attività dei Consigli giudiziari, ritenendo a ciò sufficiente una circolare. E questa è la giustificazione: "l’organo di autogoverno della magistratura ritrae la competenza alla disciplina ….. dell’attività dei Consigli giudiziari (quali organi incaricati dall’ordinamento di compiti informativi e valutativi sull’attività dei magistrati), direttamente dalla Costituzione che, là dove gli assegna una posizione istituzionale di vertice nella gestione delle carriere dei magistrati, radica anche il suo potere di regolare, pure con circolare, tutte le attività, per lo più istruttorie, strumentali all’assunzione dei provvedimenti relativi allo status giuridico del personale di magistratura" (4).
Sebbene tale sentenza sia soggetta ad interpretazione, è innegabile che, alla stregua di essa, il C.s.m. ha il potere di disciplinare (anche incrementandole?) le competenze degli organi decentrati, senza necessità di autorizzazione legislativa.
3. La tipologia delle funzioni e la denominazione degli atti.
3.1. Fra le competenze dei Consigli giudiziari direttamente previste per legge si individuano funzioni, il carattere delle quali è tipologicamente assai vario. Ciò che rileva, comunque, è la natura della singola funzione, a prescindere dal nomen usato dal legislatore.
Il sostantivo che ricorre più sovente al riguardo è quello di "parere" (o "pareri"); esso compare, per esempio, nella legge n. 150/2005: art. 2, comma 1, lett. l), punto 7.5, e comma 3, lett. r), punti 1, 2, 5, nonché lett. s); nel d.lgs. n. 25/2006: art. 10, c. 1, art. 15, c. 1, lettere a), b), e), g), h); nel d.lgs. n. 160/2006: art. 11, commi 5, 6, 7, 8.
E’ inutile procedere ad un’esegesi delle corrispondenti espressioni utilizzate nelle delibere del C.s.m., o in decreti ministeriali che le recepiscono, poiché le argomentazioni svolte a proposito delle norme legislative valgono anche per questi ultimi atti.
3.2. Nella sistematica del procedimento amministrativo comunemente elaborata dalla dottrina il "parere" in senso proprio non è mai spontaneo, ma è richiesto di volta in volta dall’ufficio procedente, titolare della competenza finale. L’organo consultivo studia preliminarmente la questione e, se è un collegio, discute, delibera e formula la risoluzione redatta normalmente dal relatore. Il parere scritto è poi trasmesso all’autorità richiedente, che lo assume nel procedimento come atto istruttorio, al contenuto del quale dovrà talvolta aderire (se il parere è vincolante), potendo altrimenti discostarsene motivando in maniera congrua la decisione difforme.
3.2.1. Quanti degli atti, elencati dalle ricordate disposizioni di legge, siano effettivamente "pareri", nel significato poc’anzi esposto, è questione da esaminare in maniera più approfondita in altra sede. Qui si può sollevare, almeno per alcuni, qualche fondato dubbio, in primo luogo perché il cosiddetto parere – in talune previsioni normative - è talora previsto in termini generali, non essendo richiesto volta per volta dall’organo ausiliato (normalmente il C.s.m.), bensì attivato con procedura d’ufficio a seguito di espressa previsione di legge, secondo scadenze predefinite (cfr. art. 11, commi 1 e 4, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 nel testo modificato dall’art. 2, c. 2, legge n. 111/2007); in secondo luogo perché nelle norme or ora citate il cosiddetto parere si configura, in realtà, come un subprocedimento valutativo dei magistrati avente ad oggetto l’accertamento di capacità (come l’uso di tecniche argomentative e di indagine), la laboriosità (numero e qualità degli affari trattati), la diligenza (assiduità e puntualità), l’impegno (disponibilità a sostituire i colleghi assenti).
Come si vede, a parte l’impiego di criteri che variano a seconda dei casi, si tratta di giudizi valutativi aventi sostanzialmente carattere selettivo poiché, una volta concluso il procedimento, essi incidono anche, e soprattutto, sulla carriera del magistrato (art. 2, c. 15, d.lgs. n. 160/2006, cit.).
A ben vedere, il fenomeno è simile a quello che si verifica in tutte le procedure valutative, ivi comprese quelle che, nei pubblici concorsi, portano all’individuazione degli idonei e dei vincitori, sebbene in tali ipotesi l’organo che approva gli atti (la graduatoria) abbia meno poteri del C.s.m., il quale, invece, decide solo "sulla base" della valutazione compiuta dall’organo periferico, potendo integrarla (art. ult. cit., comma 8). Ma qui non rileva il potere del decidente, quanto la natura dell’attività compiuta dall’organo di valutazione, che è identica nei due esempi fra loro comparati.
Pertanto, se nessuno qualificherebbe come "pareri" le valutazioni compiute dalla commissione giudicatrice di un pubblico concorso o di un esame (seguite da atto finale di altro ufficio), così non sembra sostenibile diversa conclusione per l’attività, dianzi indicata, svolta dai Consigli giudiziari. Questa, d’altronde, è riportata alla categoria delle valutazioni tecniche dallo stesso art. 11, d.lgs. n. 160, c. 3.
3.2.2.. Ma, proprio in base alle precedenti argomentazioni, neppure sono veri "pareri", sebbene definiti tali dall’art. 10, c. 1, d.lgs. n. 25/2006, quegli atti, pur sempre destinati al C.s.m., espressi dal Consiglio giudiziario, ai sensi degli artt. 4, c. 2, 4 bis, c. 7, 7, c. 2 bis, legge n. 374/1991: si tratta di giudizi selettivi che si concludono con la proposta di una graduatoria di idonei all’ufficio di giudice di pace, o di un elenco di soggetti aspiranti a conservare tale ufficio.
Si noti per inciso che anche il "parere" individuato dall’art. 10 predetto con rinvio all’art. 9, c. 4, legge n. 374/1991, non è propriamente tale ma è una valutazione della proposta avanzata dal presidente della Corte d’appello di dichiarare decaduto un giudice di pace. Ben vero che l’atto finale è di competenza del C.s.m. (esternato con decreto ministeriale), ma il C.s.m. non sollecita, nel singolo procedimento, nessuna attività consultiva.
3.3. Si può invece riconoscere natura di parere in senso tecnico alla funzione dei Consigli giudiziari prevista nell’art. 15, c. 1, lett. a), prima parte, del d.lgs. n. 25/2006, con riferimento all’art. 7 bis, comma 1, r.d. n. 12/1941, perché – proprio in virtù di quanto stabilito in quest’ultima disposizione – la consulenza è fornita al presidente della Corte d’appello, il quale, udito il parere da lui stesso richiesto, "propone" al C.s.m. l’approvazione delle tabelle, formalizzata infine in un decreto ministeriale. Ai sensi del capoverso dell’art. 7 bis identica procedura si segue per le variazioni tabellari in corso nel biennio, secondo il principio dell’actus contrarius.
Né può destare stupore il fatto che sul titolare di un ufficio (nella specie, il presidente della Corte d’appello), incomba l’obbligo di chiedere il parere ad un collegio da lui stesso presieduto. La circostanza non è ignota all’ordinamento: basti pensare al consiglio di prefettura, organo collegiale presieduto dal prefetto e abilitato a fornire pareri al prefetto medesimo, a domanda di questi, secondo la vecchia normativa contenuta negli art. 23 e 24, r.d. 3 marzo 1934, n. 363 (5).
3.3.1. Ugualmente fra i pareri è da inquadrare la funzione dei Consigli giudiziari indicata nella seconda parte dell’art. 15, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 25/2006, nel quale, con rinvio all’art. 7 ter, commi 1 e 2, r.d. n. 12/1941, si tratta di assegnazione degli affari alle singole sezioni e ai singoli collegi e giudici.
Qui l’atto, oggetto di consulenza, appartiene, a seconda dei casi, al dirigente dell’ufficio, al presidente della sezione o al magistrato che la dirige, i quali, nel formulare i criteri autoimposti alla propria attività, devono rispettare quelli "indicati in generale" dal C.s.m.
Ebbene, il Consiglio giudiziario esprime il parere richiesto da chi formula i criteri in sede decentrata al fine di verificare se essi siano conformi a quelli stabiliti dal C.s.m., cui spetta adottare l’atto finale (da recepirsi in un decreto ministeriale) contestualmente all’approvazione delle tabelle.
3.3.2. Sempre all’attività consultiva può ricondursi quella enunciata nell’art. 15, c. 1, lettera g), a mente della quale i Consigli giudiziari sono di volta in volta interpellati in occasione di procedimenti di collocamento a riposo, dimissioni, decadenza dall’impiego, concessione di titoli onorifici e riammissione in servizio dei magistrati.
E’ tuttavia motivo di incertezza il fatto che, secondo il precetto normativo, a richiedere il parere nel procedimento istruttorio relativo a tali materie, sia anche il C.s.m., (in quanto titolare del potere decisorio), con ciò dovendosi intendere che pure altre autorità decidenti abbiano competenza in materia. La congiunzione "anche" continua a figurare nella ricordata lettera g), mentre è stata eliminata dal testo della successiva lett. h) ad opera dell’art. 4, c. 13, legge n. 111/2007, ai sensi della quale, pertanto, il C.s.m. non concorre più con altre autorità nel chiedere pareri ai Consigli giudiziari, ma ad esse (quali?) si affianca, appunto, solo nella sedes materiae della lett. g).
3.4. Tuttavia il disposto della lett. h) dà luogo ad un problema di non agevole esito, che qui viene soltanto sollevato, come si accennava sopra nel paragrafo 2.3.
A considerare la lettera della norma, secondo la quale i Consigli giudiziari "formulano pareri, su richiesta del Consiglio superiore della magistratura, su materie attinenti alle competenze ad essi attribuite" (dove il corsivo è aggiunto per attirare l’attenzione sul tema) dovrebbe dedursi che il precetto normativo in esame è privo di senso. Invero, se la competenza degli organi decentrati, in una determinata materia, fosse finale, oppure preparatoria, ma solo nei confronti di altro organo giudiziario (per esempio, il presidente della Corte d’appello), titolare a sua volta di funzione propria, il C.s.m. non potrebbe chiedere il parere, poiché, non essendo titolare della funzione finale, né del tratto di funzione che non gli è demandata, se lo facesse verrebbe automaticamente a produrre un vizio di incompetenza nell’attività posta in essere da sé medesimo.
Si potrebbe, forse, superare la prospettata illogicità col ravvisare un errore materiale nella lettera della legge, da correggersi mediante la sostituzione del pronome "essi" col pronome "esso". In tal modo, ai sensi dell’art. 15, c. 1, lett. h), il C.s.m. potrebbe chiedere, di volta in volta, singoli pareri ai Consigli decentrati, in tutte le materie attribuite per legge ad esso, senza la necessità di esplicita previsione normativa che, quando esistente, varrebbe solo come precetto esplicativo della regola generale, e di chiusura, contenuta nella disposizione da ultimo menzionata.
3.4.1. Anche relativamente alla materia "organizzazione e funzionamento degli uffici dei giudici di pace i Consigli giudiziari svolgono compiti consultivi ex art. 15, c. 1, lett. e), da completarsi – per una migliore comprensione del suo disposto – con l’art. 10, c. 1, precedente, essendo plausibile che, a chiedere i "pareri" stessi (secondo la dizione ivi ribadita) siano gli uffici dei giudici di pace che prospettano rimedi organizzativi, evidentemente attinenti al funzionamento degli uffici stessi. Tutto ciò a prescindere dalla problematica cui si accennerà in 4.3.3.
3.5. Si può ora passare a qualche rapida osservazione sulla tipologia di altri atti (diversi dai pareri) nei quali si esprimono le competenze assegnate ai Consigli giudiziari.
Il potere di "proposta", oltre che affiancato a quello consultivo nella materia indicata nel punto precedente e previsto nell’art. 15, c.1, lett. e), cit., compare anche in tale disposizione, ma nella sua lett. i), con riguardo alla Scuola superiore della magistratura, al comitato direttivo della quale ogni Consiglio giudiziario può proporre alcunché di attinente alla programmazione dell’attività didattica.
Invece, per quanto detto sopra, le c.d. proposte di ammissione degli aspiranti giudici di pace al tirocinio (art. 4, c. 2, legge n. 374/1991) e la proposta di graduatoria degli idonei alla nomina (art. 4 bis, c. 7) si concretano in giudizi selettivi, simili a quelli espletati dalle Commissioni giudicatrici. Stante la genericità del significato giuridico implicato nel termine "proposta", questo può essere usato nel caso in cui si preferisca dire che la commissione giudicatrice, nel formulare la graduatoria di idonei e vincitori, "propone" all’organo competente l’approvazione di essa. Utilizza il sostantivo "proposta" anche l’art. 42 ter, c.1, r.d. n. 12/1941 con riguardo all’atto conclusivo della selezione dei g.o.t. (e dei v.p.o., stante il disposto del successivo art. 71).
Con riguardo, poi, a compiti di tutt’altra natura, atti di tipo strettamente organizzativo dei Consigli giudiziari (fra i quali si individuano anche "atti di nomina" dei magistrati docenti) sono previsti dalla legge n. 374 testé ricordata quando essa (art. 4 bis, c. 4) demanda loro l’allestimento dei corsi di tirocinio per giudici di pace.
Merita poi un cenno, sempre sotto il profilo tipologico, l’attività di "vigilanza" – di cui all’art. 15, c. 1, lett. d) d.lgs. n. 25/2006 – svolta dai Consigli sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto. La vigilanza effettuata da un organo amministrativo sull’azione di altri uffici pubblici è, come noto, solitamente avvicinata al potere di controllo, dal quale talora è distinguibile con difficoltà. Considerati gli organi ("giudiziari") sui quali, nel caso, si svolge, essa deve ritenersi di carattere assolutamente estrinseco, limitata alla constatazione del grado di efficienza delle strutture "monitorate" e concretantesi nella "misura" tenue consistente – secondo il precetto da ultimo citato – nel segnalare al C.s.m. l’esistenza di disfunzioni nell’andamento di qualche ufficio.
3.6. Se non per completezza, almeno per dovere, conviene ricordare che la giurisprudenza amministrativa – affermando, anche per i Consigli giudiziari, in quanto espletanti attività preparatoria (infraprocedimentale), la regola dell’inoppugnabilità degli atti intermedi (6) – ha ribadito, pure a proposito di essi, l’orientamento che ammette l’immediato ricorso giurisdizionale avverso i medesimi qualora dotati di forza lesiva di situazioni soggettive protette e, quindi, parificabili ai provvedimenti (7). Nella specie si trattava di valutazione espressa dal Consiglio giudiziario su un magistrato in caso di trasferimento di sede, inserita nel fascicolo personale e recante apprezzamenti negativi sulle qualità personali, idonei quindi "a pregiudicare in via immediata e concreta" il patrimonio giuridico del singolo, sì da abilitarlo a chiedere la loro giudiziale rimozione "senza attendere l’assunzione di provvedimenti sfavorevoli da parte del C.s.m.", per il quale il fascicolo contenente la menzionata valutazione avrebbe costituito "fonte cognitiva" di un’eventuale delibera.
In conclusione, è possibile inserire nella tipologia degli atti pronunciabili dai Consigli giudiziari anche quello che, sebbene non espressione di potere decisorio finale, sia parificabile al provvedimento quantomeno per gli effetti lesivi.
4. La composizione dei Consigli giudiziari in rapporto alle competenze.
4.1. La disciplina giuridica positiva degli organi amministrativi collegiali conosce il fenomeno (noto anche al diritto costituzionale e, ma in maniera diversa, a quello processuale) del loro funzionamento in composizione variabile a seconda della competenza volta per volta esercitata. Tale fenomeno è molto visibile soprattutto in due ipotesi: a) quando i componenti possiedono qualifiche soggettive diverse; b) quando la differente composizione è collegata al fatto che il collegio agisce quale ufficio temporaneo, pur esistendo come organo stabile per l’espletamento delle funzioni normali.
La prima evenienza riguarda notoriamente i consigli delle Facoltà universitarie articolati in almeno quattro modelli di composizione, che qui convenzionalmente vengono denominati "ristrettissimo, ristretto, allargato, allargatissimo" a seconda che alle sedute (in rapporto alle pratiche da discutere) possano partecipare i soli professori ordinari, questi e i professori associati, tutti i docenti (compresi quelli estranei alla prima e alla seconda fascia), tutti i docenti più i rappresentanti del personale tecnico – amministrativo e degli studenti. Il modello è caratterizzato da ciò: che i componenti del/dei collegio/i meno numeroso/i fanno parte, scalarmente, e di diritto, di quelli via via più numerosi. Il consiglio di Facoltà è, comunque, un organo amministrativo stabile.
La seconda evenienza è quella dei collegi, la composizione dei quali è variabile, a seconda che esercitino una funzione ordinaria o una funzione occasionale. Nel secondo caso essi vengono "integrati" con altri componenti. Esempio altrettanto noto (ancorché non si tratti di collegio amministrativo) è quello della Corte costituzionale funzionante come giudice nei processi d’accusa contro il Presidente della Repubblica (art. 135, u.c., Cost).
Orbene, nel caso dei Consigli giudiziari, come tra poco si vedrà, si verificano entrambe le vicende dianzi descritte; e questo contribuisce a rendere vieppiù difficoltosa l’interpretazione delle norme sul loro funzionamento, dopo la riforma degli anni 2005 – 2007, in rapporto anche alle disposizioni normative (o assimilabili) preesistenti.
4.2. Ma, per i Consigli giudiziari, si presenta qualche problema in più rispetto ai due modelli poc’anzi ricordati.
Una qualche somiglianza con gli organi accademici, cui s’è fatto cenno sopra, è ravvisabile per i Consigli giudiziari composti da magistrati professionali, avvocati e uno o più professori universitari. Essi funzionano in duplice composizione, allargata e ristretta; e chi entra nella seconda fa parte necessariamente della prima.
La stessa circostanza, peraltro, non si configura riguardo alla sezione autonoma dei giudici di pace, alla quale sono estranei alcuni componenti del Consiglio allargato, mentre ne fanno parte altri (i giudici di pace eletti) che non sono membri dell’allargato, così come stabilisce l’art. 10, c. 1, d.lgs. n. 25/2006.
Per inciso si può qui porre in evidenza l’incuria imputabile alla legge n. 111/2007 che, nel sostituire (con il suo art. 4, c. 8) l’originario secondo comma dell’art. 9, d.lgs. n. 25/2006, ha espunto dalla composizione dei Consigli giudiziari allargati i componenti designati dal Consiglio regionale, dimenticando (art. 4, c. 14) di correggere anche l’art. 16 del decreto legislativo stesso, dove essi continuano a figurare abusivamente (solo a figurare, s’intende) come membri dei Consigli giudiziari.
Chiuso l’inciso, vale la pena sottolineare che la sezione autonoma, più che un’articolazione dell’organo "Consiglio giudiziario" parrebbe un organo a sé (il Consiglio giudiziario per i giudici di pace), con le competenze previste dalla legge, nessuna delle quali, tranne una (della quale si dirà dubitativamente fra poco), coincide con quelle affidate al Consiglio in composizione allargata o ristretta.
Il legame fra la sezione autonoma e quella che, per mera comodità espositiva, si potrebbe chiamare "ordinaria" è puramente estrinseco, in quanto coincidono i membri di diritto e alcuni fra i componenti togati elettivi, o avvocati, della sezione ordinaria, designati da quest’ultima, che, per l’occasione, funziona da ufficio competente ad effettuare la provvista parziale dei membri dell’altro collegio.
Sembra eccessivo soffermarsi in questa sede sul fenomeno dell’unione reale di uffici (8), essendo sufficiente sottolineare la sostanziale non coincidenza delle competenze assegnate ai collegi in discorso, i quali, comunque, agiscono come organi stabili. Ad ogni modo, a rimarcare la sostanziale separatezza delle due cosiddette sezioni, contribuisce anche la problematica relativa all’elezione dei rispettivi segretari e l’adozione dei rispettivi regolamenti (cfr., infra, 5.2).
4.3. Resta il problema dell’integrazione della sezione ordinaria con membri aggiunti, per l’esercizio di funzioni temporanee, in base ad alcune disposizioni normative che non paiono abrogate (tranne nel caso dei giudici di pace) dalla sopravvenuta riforma dell’ordinamento giudiziario.
Poiché la questione della varia composizione dei Consigli giudiziari è alquanto complicata, bisogna procedere con ordine, nel modo che segue.
4.3.1. Occorre esaminare dapprima il rapporto entro il consiglio c.d. "ordinario", fra l’allargato e il ristretto, anche al fine di comprendere se, quando precetti normativi o assimilabili – anteriori alla riforma del 2007 – parlano di Consiglio giudiziario tout court, si intendono, ora, riferiti alla prima o alla seconda struttura. La qual cosa ha un’indiretta ricaduta in caso di integrazione, dovendosi stabilire, a garanzia della legalità degli atti quanto a competenza, se i componenti provvisori si aggiungono a quelli del collegio allargato o a quelli del collegio ristretto. In altre parole occorre capire se l’organo – base è l’allargato o il ristretto; restando comunque presente anche la questione dei rapporti, in punto competenza, fra la sezione ordinaria e la sezione autonoma.
L’art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25/2006, nonostante la sua formulazione apparentemente onnicomprensiva, non sembra esaurire l’elenco delle funzioni spettanti ai Consigli giudiziari, e, pur letto in connessione con il precedente art. 10, tralascia di menzionare le competenze indicate nell’art. 6, commi 1 e 5, legge n. 374/1991: organizzazione dei corsi per l’aggiornamento professionale dei giudici di pace, nonché predisposizione dei mezzi per l’informazione e l’aggiornamento di tali magistrati e del personale di cancelleria e ausiliario (in tal caso in concorso differenziato con la competenza del presidente della Corte d’appello).
La mancata menzione di detti compiti nel d.lgs. n. 25 non pare elemento sufficiente ad affermare l’avvenuta abrogazione implicita delle norme legislative che le contemplano.
Lo stesso convincimento può valere per tutte le altre previsioni normative sparse in numerose fonti (o atti assimilati) che prevedono funzioni dei Consigli giudiziari.
Il riferimento è, per esempio, alle disposizioni sui g.o.t. e i v.p.o. (gli artt. 42 ter, 42 quinquies, 42 sexies, 71, r.d. n. 12/1941; i dd.mm. 26 settembre 2007, entrambi pubblicati in g.u. 9 ottobre 2007, n. 235); alle circolari, già menzionate, del C.s.m. che, in pratica, rivestono valore normativo, per quanto ricordato in precedenza, sui giudici onorari dei Tribunali di sorveglianza (circ. n. P. 4992 del 26 febbraio 2007) e sui giudici onorari minorili (circ. n. P. 4771 del 23 febbraio 2007).
Non sembra fondata la tesi dell’avvenuto superamento di tali disposizioni ad opera del d.lgs. n. 25/2006 o, comunque, della legge n. 111/2007. Se così fosse, in ipotesi, bisognerebbe ammettere che l’art. 15 del decreto legislativo concerne tutti i magistrati, professionali e onorari, esclusi i giudici di pace, considerati invece nell’art. 10 e nella legge n. 374/1991, così creandosi una contrapposizione normativa fra la prima categoria (composita) e la seconda (omogenea), senza alcuna ragione plausibile.
Per conseguenza, se la normazione non si riduce a quella contenuta nelle riforme del triennio 2005 – 2007 (compresa, dunque, la legge n. 150/2005), anche la problematica della composizione dei Consigli giudiziari in rapporto alla competenza deve essere esaminata con l’utilizzo di uno spettro ampio di norme, di volta in volta riguardanti i magistrati professionali e ciascuna categoria di quelli onorari, rispetto ai quali detti Consigli sono titolari di funzioni.
4.3.2. Il riparto di competenza fra collegio allargato e collegio ristretto, nell’ambito della sezione ordinaria, non presenta difficoltà in rapporto alle materie indicate nell’art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25/2006, ripartite nelle lettere a), b), d), e) g), h), i). Ciò perché il successivo art. 16 attribuisce alla composizione allargata solo le funzioni di cui alle lettere a), d), e).
Nascono tuttavia tre problemi: il primo coinvolge il rapporto tra sezione ordinaria allargata e sezione autonoma quanto alle competenze descritte sotto la testé menzionata lett. e); il secondo concerne il rapporto fra sezione ordinaria e sezione autonoma in materie attinenti ai giudici di pace previste in disposizioni estranee al d.lgs. n. 25/2006, prive di specificazione circa l’organo competente; il terzo pertiene alla composizione della sezione ordinaria quanto alle materie estranee all’elenco dell’art. 15, sia quando alcune norme parlano di "Consiglio giudiziario" senza ulteriore specificazione, sia quando aggiungono la parola "integrato". Di questi ultimi aspetti si dirà più avanti sub 4.3.5. e 4.4.1.
4.3.3. A proposito della prima fra le tre questioni enunciate si deve osservare che nell’art. 15, c. 1, lett. e) figura la materia denominata "organizzazione e funzionamento degli uffici del giudice di pace", mentre il precedente art. 10 si riferisce alla materia "provvedimenti organizzativi proposti dagli uffici del giudice di pace".
Nel primo caso gli atti adottabili sono definiti "pareri e proposte", nel secondo solo "pareri".
Le due materie sono sostanzialmente sovrapponibili così come hanno in comune, almeno, il riferimento nominale alla funzione consultiva promiscuamente affidata alla sezione ordinaria e alla sezione autonoma.
Viene il sospetto che le due disposizioni siano frutto di una tecnica normativa improntata a grande superficialità, essendo incomprensibile il persistente affidamento di compiti analoghi, riguardanti i giudici di pace, alla sezione ordinaria, una volta istituita la sezione autonoma appositamente per essi.
Il problema è di ardua soluzione perché o si ammette un caso di competenza promiscua (teoricamente possibile, quantunque illogico), o si deve eseguire una rischiosa operazione di trapianto normativo, mediante estrapolazione della lettera e) dai citati artt. 15 e 16 e suo inserimento nell’art. 10.
4.3.4. Viene ora in esame il secondo problema sopra formulato: quello relativo al rapporto fra sezione ordinaria e sezione autonoma rispetto a competenze previste in disposizioni estranee al d.lgs. n. 25/2006, alle quali esso non rinvia. Il caso emblematico già accennato è quello dell’art. 6, legge n. 374/1991, il quale, a differenza di altri articoli ad esso precedenti o successivi nel testo, non è richiamato dal d.lgs. n. 25.
Anche a questo proposito vale la considerazione critica or ora esposta: non si capisce perché, una volta costituita la sezione autonoma per i giudici di pace, il legislatore abbia espressamente omesso di affidare a questa il compito di curare l’aggiornamento di tali magistrati.
Il che dà vita al già ricordato ostacolo interpretativo: o si scinde (in questo caso) la materia "amministrazione dei giudici di pace" in due settori, ripartiti fra sezione autonoma e sezione ordinaria (secondo una sorta di casualità normativa), oppure si trapianta l’art. 6, legge n. 374/1991, nell’art. 10, d.lgs. n. 25/2006.
Tuttavia, se la seconda operazione è connotata dall’arbitrio, anche il conservare la submateria di cui all’art. 6 nella competenza della sezione ordinaria non è soluzione molto accettabile una volta rilevata l’incongruenza consistente nella collocazione della lettera e) nell’art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25/2006. Del resto, non v’è neppure identità fra significati delle espressioni "organizzazione degli uffici" (art. 15, d.lgs. n. 25) e "aggiornamento professionale" (art. 6, legge n. 374), sicché l’una materia non rientra nell’altra.
4.3.5. Ad ogni modo (e per rispondere alla terza questione sollevata in 4.3.2.), se si optasse per la tesi secondo la quale i settori materiali non richiamati dall’art. 10, d.lgs. n. 25, spettano per regola alla sezione ordinaria, si affaccerebbe il solito fondamentale interrogativo: il Consiglio giudiziario senza specificazione normativa ulteriore, si identifica con la sezione ordinaria allargata o con la sezione ordinaria ristretta? Ciò a prescindere dal fatto che l’una o l’altra debbano essere "integrate" quando funzionano da organo temporaneo.
Anche la risposta al formulato interrogativo presenta gravi difficoltà, essendo auspicabile (in questo, come in altri numerosi casi) uno specifico intervento legislativo, immune da disattenzione. In mancanza occorre la riflessione comune degli interpreti o, alla fine, l’approdo giurisprudenziale in qualche modo risolutore.
L’art. 15, c. 1, d.lgs. n. 25, enuncia il riparto fra collegio allargato cui spettano tre settori materiali nominati, e collegio ristretto, al quale ne spettano quattro. Ma non esiste alcuna disposizione sull’affidamento delle competenze residuali.
Forse si può tentare una sorta di interpretazione sistematica nel modo seguente, con l’avvertimento che essa, forse, non è applicabile in tutte le ipotesi.
Nella riforma del 2007 i giudici di pace fanno capo ad un organo locale "di autogoverno", composto in maniera mista, poiché, a seconda dei distretti, comprende anche uno o due componenti laici individuati nei rappresentanti dell’avvocatura. La sezione autonoma, così composta, svolge altresì le funzioni (ancorché non decisorie) inerenti alla conferma in servizio di detti giudici verificando la loro "idoneità" (art. 7, c. 2 bis, legge 374/1991, richiamato dall’art. 10, d.lgs. n. 25/2006). Si tratta, evidentemente, di giudizi sulla professionalità dei giudici di pace.
Inoltre la sezione autonoma si esprime su alcune cause di cessazione del rapporto di servizio (art. 9, c. 4, legge n. 374, richiamato dall’art. 10, d.lgs. n. 25).
Si tratta di settori materiali in parte coincidenti, rispettivamente, con quelli descritti, per i magistrati professionali, nell’art. 15, c. 1, lettera b) e g). Ma, mentre per questi ultimi è esplicitamente stabilita la competenza della sezione ordinaria in composizione ristretta (omogenea), per i magistrati di pace è esplicitamente prevista la composizione eterogenea della sezione autonoma (includente l’avvocato o gli avvocati) poiché la legge non prevede per essa la composizione variabile. Ne deriva che il legislatore consente che componenti laici si esprimano sulle caratteristiche professionali, sullo status dei giudici di pace e, addirittura, in materia disciplinare, essendo anche questa espressamente prevista nell’art. 9, c. 4, legge n. 374/1991, pure menzionato nell’art. 10, d.lgs. n. 25.
Si ricava, quindi, esplicitamente, dall’ordinamento l’esistenza di due criteri differenziati: mentre per i magistrati professionali vale il "giudizio dei pari" riservato al collegio ristretto (come nella legislazione universitaria avviene per il giudizio sulla persona del professore ordinario, riservato ai colleghi di pari qualifica, non solo nelle commissioni giudicatrici ma anche nei consigli di Facoltà, così funzionanti in composizione ristretta) lo stesso principio non vige per i giudici di pace, sottoponibili a valutazioni formulabili, oltre che dai colleghi membri della sezione autonoma, anche da magistrati professionali e avvocati.
4.4. Se così è, sembra possibile interpretare in maniera conforme (e salva, in tal caso, l’assenza di una sezione autonoma) anche le corrispondenti norme sui giudici onorari di tribunale e sui vice procuratori onorari, ossia nel senso che, quando alcune disposizioni attinenti alla loro professionalità, al loro status, alla conduzione di procedure disciplinari nei loro confronti parlano di competenze del Consiglio giudiziario senza specificazione, questo si intenda operante nella composizione eterogenea. Sicché, se le norme aggiungono che esso funziona in composizione altresì "integrata", i membri aggiunti si sommano a quelli costituenti la sezione ordinaria allargata, che è, appunto, quella a formazione eterogenea.
Possono dunque interpretarsi in tal senso gli artt. 42 ter, 42 quinquies, 42 sexies (implicati anche dall’art. 71), r.d. n. 12/1941, nonché la normativa di attuazione di cui ai già ricordati decreti ministeriali del 26 settembre 2007.
Così, ancora, il Consiglio giudiziario al quale il presidente del Tribunale, e il procuratore della Repubblica, vigilando rispettivamente sui g.o.t. e sui v.p.o., devono inviare la relazione annuale, è quello identificabile nella sezione ordinaria allargata (art. 12 e, rispettivamente, art. 11 dei decreti ministeriali citati retro in 4.3.1.).
Le raggiunte conclusioni sono tanto più accettabili se si considera che i magistrati onorari diversi dai giudici di pace non possiedono, a differenza di questi, neppure una loro sezione autonoma entro i Consigli giudiziari; sicché il "giudizio dei pari" è non ipotizzabile ancor più di quanto lo sia per i primi.
4.4.1. Per completare ora la risposta alla terza questione sollevata in 4.3.2. occorre di volta in volta accertare se esistono norme statuenti l’integrazione del collegio in casi particolari, come si passa subito a dire.
Il Consiglio giudiziario esprimentesi in materia di revoca per inosservanza dei doveri d’ufficio da parte dei predetti magistrati onorari, dovendo operare in composizione allargata e integrata, ex art. 42 sexies, comma 3, r.d. n. 12/1941, in relazione all’art. 42 ter, c. 1, stesso decreto, e delle disposizioni attuative dei decreti ministeriali da ultimo menzionati (cfr. i rispettivi articoli 13), sarà composto dalla sezione ordinaria allargata e dai "cinque rappresentanti designati, d’intesa tra loro, dai consigli dell’ordine degli avvocati del distretto di Corte d’appello", rappresentanti che non devono neppure essere necessariamente avvocati, stante il silenzio della legge sulla loro qualifica. Uguale esito si impone nelle ipotesi di nomina e continuazione nell’ufficio (artt. 42 ter e 42 quinquies)
Identico ragionamento vale per i giudici onorari dei Tribunali di sorveglianza e per i giudici minorili, in virtù delle prescrizioni già ricordate sopra, sempre in 4.3.1., salva l’assenza dei precetti sull’integrazione del collegio.
Questa, comunque, è venuta meno anche per i giudici di pace, atteso il trasferimento dei compiti (già attribuiti al Consiglio integrato dagli artt. 4, 4 bis, 7, c. 2 bis, 9, c. 4) alla sezione autonoma di cui all’art. 10, d.lgs. n. 25/2006.
In esito alle considerazioni sopra esposte si può interpretare l’art. 16, d.lgs. n. 25/2006, come se fosse scritto nel modo seguente: "I componenti avvocati e professori universitari partecipano esclusivamente alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’art. 15, c. 1, lettere a), d), e) e di quelle previste in altre disposizioni, quando queste ultime non le attribuiscono espressamente solo agli altri componenti. Restano salve le disposizioni speciali che prevedono l’integrazione del collegio mediante componenti aggiunti" (9).
4.5. Prima di chiudere il presente paragrafo, che ha avuto ad oggetto la composizione del Consiglio giudiziario, ormai qualificabile come collegio imperfetto sia in veste di sezione ordinaria (art. 9 bis, d.lgs. n. 25), sia in veste di sezione autonoma (art. 10, c. 1 bis) può essere utile un rilievo sul quorum strutturale e su quello funzionale.
Ambedue gli articoli presentano la stessa tecnica di redazione molto imperfetta. Sia l’uno che l’altro fissano le regole della maggioranza assoluta per entrambi i quorum: ma, mentre con riguardo a quello funzionale il legislatore utilizza semplicemente il sostantivo "maggioranza", in rapporto a quello strutturale parla di "metà più uno dei componenti". Già stupisce l’uso di due diverse modalità per indicare lo stesso concetto (quello di maggioranza assoluta) simmetricamente in entrambi i commi dei due articoli, ma si deve osservare come ricorra, una volta di più, il ripetersi dell’automatismo mentale, frequente nel linguaggio giuridico scritto e parlato, secondo cui, nella serie infinita dei numeri interi positivi, applicata agli organi collegiali, esisterebbero solo quelli pari. Ma poiché esistono pure i collegi dispari, la "metà più uno" riferita ad essi è espressione da evitare, visto che coinvolge l’integrità del corpo umano. La maggioranza assoluta, invece, deve riferirsi, in campo giuridico, tanto ai collegi pari, quanto ai collegi dispari, sicché essa corrisponde al "numero intero immediatamente superiore alla metà aritmetica" in modo che, per esempio, il 6 rappresenta la maggioranza sia del 10, sia dell’11.
Invece di metà più uno, il legislatore avrebbe dovuto scrivere "maggioranza assoluta" o, semplicemente, "maggioranza".
Quella sottolineata è un’ulteriore improprietà che si aggiunge ad altre, già riferite - leggibili nell’art. 15, c. 1, lett. h), e nell’art. 16 - e a parecchie ancora rilevate da qualche attento commentatore delle recenti leggi sull’ordinamento giudiziario.
5. I "regolamenti" dei Consigli giudiziari.
5.1. Fra le competenze non previste da disposizioni normative di rango primario è da collocare anche quella consistente nella possibilità o (secondo altra tesi) nel dovere, per i Consigli giudiziari, di fornirsi di un testo disciplinante la loro azione, che, nel linguaggio giuridico corrente del settore, è chiamato "regolamento". Tale sostantivo, com’è noto, possiede una pluralità di significati indicanti fonti normative superprimarie (come i regolamenti dell’Unione europea) oppure di secondo o terzo livello, fino ad essere impiegato con riguardo a fenomeni extranormativi, perché connotanti fatti meramente organizzativi di pubblici uffici.
Poiché prevale la tesi secondo cui la potestà normativa risponde al principio di stretta tipicità, essa non si configura se non è attribuita da norma di legge all’autorità che il regolamento intende adottare (10).
A questa condizione è soggetto perfino un organo costituzionale come il Governo (art. 17, l. 23 agosto 1988, n. 400).
In mancanza di qualsivoglia disposizione legislativa che conferisce ai Consigli giudiziari il potere regolamentare, ne discende che i testi da essi promananti con tale nome non appartengono alla categoria delle fonti di diritto e devono qualificarsi come atti amministrativi di organizzazione, frutto probabilmente di un potere di "autolimite" nella specie sollecitato o, se si preferisce, imposto da delibere del C.s.m. a quelle che esso considera proprie articolazioni periferiche in funzione ausiliaria.
La più rilevante di siffatte delibere è quella in data 20 ottobre 1999, soprattutto nel suo capitolo 3, dove si precisa che i regolamenti dei Consigli periferici possiedono natura di atti autodisciplinanti l’attività interna, ai quali è inibito contraddire le norme giuridiche, potendo solo disporre secundum legem o praeter legem. La deliberazione del 1999 elenca pure i "contenuti minimi imprescindibili" (cap. 5, par. 2), i quali sono altresì sintetizzati in una delibera più recente del C.s.m., assunta nella seduta del 26 ottobre 2005 in risposta a un quesito "inteso a conoscere se i membri di diritto del Consiglio giudiziario possano essere o meno istituzionalmente relatori nelle pratiche da trattare in quel consesso".
Nella risoluzione da ultimo citata si precisa, pur senza utilizzare le relative espressioni definitorie, che i regolamenti consiliari presentano un contenuto tipico o necessario e un contenuto eventuale o facoltativo. Il primo è ravvisato nello stesso elenco leggibile nella delibera del 1999; il secondo è sintetizzato nell’espressione "tutti gli altri aspetti riconnessi al potere organizzatorio che l’organismo collegiale riterrà di disciplinare".
Nel presente lavoro si vogliono sottolineare, con riguardo ai regolamenti suaccennati, solo due profili: l’uno discendente dalla riforma del 2007, l’altro immanente alla disciplina dei Consigli giudiziari e già visibile nella ricordata delibera C.s.m. del 1999.
5.2. Il primo punto intende porre in evidenza che l’articolazione interna dei Consigli giudiziari comportante l’esistenza di due collegi distinti, diversi nella composizione e nelle funzioni, impedisce che sia adottato un regolamento unico. Tanto la sezione ordinaria quanto quella autonoma elaboreranno e voteranno il proprio testo.
Per fondare simile conclusione non si può ovviamente invocare una norma di livello primario, visto che i regolamenti in parola non hanno base legale, ma può ricavarsene la giustificazione sia dagli artt. 9 e 10, d.lgs. n. 25/2006, che definiscono la diversa composizione delle sezioni predette, sia dall’art. 11 che prevede la figura del segretario consiliare. Questa disposizione parla, apparentemente, di una sola persona fisica eletta dal Consiglio a scrutinio segreto tra i componenti togati. Ma è chiaro che tale magistrato può essere estraneo alla sezione autonoma dei giudici di pace se non è designato a farne parte ex art. 10, c. 1, lettere a), b), c). E’ vero che questa designazione potrebbe avvenire in concreto, però essa indicherebbe solo il componente, non il componente – segretario, il quale deve essere eletto espressamente a tale funzione dal collegio idoneo. In maniera fortuita potrebbe certamente accadere che uno dei togati, membro di entrambe le sezioni, fosse eletto segretario in entrambe con ciò dandosi vita ad un caso di unione personale di uffici. Si tratterebbe tuttavia di circostanza fortuita perché non prevista da norme, a differenza dell’unione reale di uffici che invece è, nella materia qui analizzata, disposta per legge (art. 11), ma riguarda solo il presidente della Corte d’appello preposto ad entrambe le articolazioni del Consiglio (11).
La diversa composizione delle due sezioni e l’elezione differenziata del segretario (oltretutto verbalizzante) comporta che non sia configurabile un regolamento consiliare singolo. Ne occorrono due.
5.3. Il secondo profilo sopra accennato cui si vuole fare cenno nel paragrafo conclusivo del presente scritto è quello del rischio che si può correre se, proprio con riguardo ai contenuti dei regolamenti consiliari, si finisca col "normare" in modo illegittimo un’attività avente natura amministrativa solitamente infraprocedimentale perché preparatoria rispetto ai provvedimenti del C.s.m.
In tal caso i parametri violati potrebbero essere alcuni di quelli fondamentali contenuti nella legge 7 agosto 1990, n. 241. Questa d’altronde è ritenuta applicabile, ancorché indirettamente richiamata sotto l’espressione "legislazione generale sul procedimento amministrativo", dalla ricordata circolare C.s.m. del 20 ottobre 1999 – capitolo 5, par. 2, lett. g) – sebbene per il limitato settore della pubblicità degli atti adottati dai Consigli giudiziari, ritenuto uno dei "contenuti minimi imprescindibili" dei regolamenti adottabili da questi.
Del resto, che la legge n. 241 possa contribuire a formare il modello legale per l’azione amministrativa di Consigli giudiziari e C.s.m. (quindi al di là del settore "pubblicità degli atti") è confermato da una recente sentenza del Consiglio di Stato dove si è affermato che il preavviso di rigetto ex art. 10 bis (nella fattispecie, riguardante l’istanza, non accolta, di conferma nell’ufficio di giudice di pace) può essere sostituito da atto equipollente, idoneo comunque a rendere l’interessato edotto delle ragioni ostative alla soddisfazione del suo interesse legittimo pretensivo, già emergenti nell’attività istruttoria espletata dall’organo periferico (12).
Come si è potuto arguire da alcune osservazioni formulate in tema di descrizione delle competenze dei Consigli giudiziari, questi svolgono spesso un’attività istruttoria che – si può ora affermare – può essere talvolta assimilabile a quella compiuta, secondo il diritto amministrativo "comune", dall’unità organizzativa responsabile del procedimento (art. 4, legge n. 241/1990).
Risultato ne è, per esempio, che, se i regolamenti consiliari si spingono a disciplinare le modalità di espletamento di detta attività, l’atto decisorio finale è sindacabile processualmente, nei limiti della domanda, tanto se il regolamento è violato, quanto se l’atto impugnabile ha applicato un regolamento avente contenuto illegittimo e, dunque, a sua volta attaccabile e annullabile quale atto presupposto; così come sono sindacabili gli atti intermedi (quelli istruttori).
Ma, ovviamente, più aumentano le funzioni di un organo amministrativo suscettibile di incidere, anche indirettamente, sulle situazioni soggettive degli amministrati, più frequente è il pericolo che esso incorra in vizi di legittimità, soprattutto se il modello legale di riferimento è carente, confuso e ambiguo.
NOTE
(1) Come si legge anche nella sent. T.a.r. Lazio, sez. I, 29.9.2005, n. 7629, l’individuazione dei giudici minorili, pur regolati in generale da norme di rango primario, riceve attuazione in circolari del C.s.m. "che specificano i criteri di selezione e di nomina" affidando funzioni ai Consigli giudiziari. Uno di questi, nella controversia sottoposta a giudizio, aveva compiuto l’istruttoria (in virtù di poteri ricevuti da una circolare del C.s.m.) per una procedura di conferma poi negata dall’Organo di autogoverno.
(2) Gli artt. 70 e 70 bis, l. 26 luglio 1975, n. 354, pur occupandosi della procedura di nomina dei suddetti giudici onorari, non menzionano né direttamente, né indirettamente, funzioni dei Consigli giudiziari.
(3) La risoluzione richiama, per corroborare la posizione di ausiliarità formale dei Consigli giudiziari, la sent. Cons. Stato, sez. IV, 31.3.1988, n. 287.
(4) Cons. St., sez. IV, 14.2.2006, n. 565.
(5) Rimane così comprensibile pure la fattispecie ricordata nel punto precedente, nella quale l’ufficio monocratico titolare del potere di proposta sottopone questa al collegio del quale è presidente, partecipando poi alla discussione sulla stessa, sì da giungere ad un atto collegiale a sua volta qualificabile come proposta (ma la legge non la denomina in tal modo), conforme o difforme rispetto a quella previa dell’organo individuale, da inoltrare al C.s.m.
(6) T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. I, 22 febbraio 2008, n. 141.
(7) Cons. St., sez. V, n. 565/2006 già citata.
(8) Si veda un rapido cenno, per dovuta precisazione, infra, 5.2 e nota 11.
(9) Rimane fermo, comunque, il problema sollevato in 4.3.4. circa la competenza di cui alla lett. e) affidata alla sezione ordinaria benché riguardi i giudici di pace.
(10) C. cost. 3.6.1970, n. 79; Cass. 26.7.1974, n. 2227; Cons. St., sez. IV, 16.7.1991, n. 577.
(11) La circolare C.s.m. 20 ottobre 1999, già ricordata sopra nel testo, chiama impropriamente (nel cap. 2.1.1.) unione "personale" quella che, essendo prevista nell’art. 11, d.lgs. n. 25/2006, va qualificata come unione "reale", allo stesso modo in cui tale fenomeno si presenta per il presidente della Repubblica che, ai sensi dell’art. 87 Cost., è titolare di più uffici: capo dello Stato (comma 1), presidente del Consiglio supremo di difesa (comma 9), presidente del Consiglio superiore della magistratura (comma 10).
(12) Sez. IV, 6.11.2007, n. 5729.