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n. 10/2005 - © copyright

GIOVANNA MASTRODONATO*

La motivazione del provvedimento nella riforma del 2005

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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Le disposizioni sulla motivazione del provvedimento introdotte dalla legge n. 15 del 2005. 3. L’introduzione della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (ex art 10 bis). 3.1. Valorizzazione del contraddittorio e motivazione. 3.2. Partecipazione, divieto di aggravamento e motivazione. 3.3. L’interruzione dei termini. 3.4. Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e comunicazione di avvio del procedimento: caratteri comuni e differenze. 3.5. Luci e ombre della comunicazione dei motivi ostativi. 4. La motivazione tra “dequotazione” e rivalutazione. 5. Il rapporto tra motivazione e revoca nelle norme di riforma.

1. Premessa.

L'obbligo di motivare gli atti amministrativi, trova, com’è noto, la sua fonte di diritto positivo nell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo [1].

La sua introduzione nell’ordinamento è intervenuta con carattere di generalità come dimostra il fatto che l’estensione dell’obbligo raggiunge il confine degli atti normativi e di quelli a contenuto generale, categorie entrambe (leggi delegate, decreti legge, regolamenti, piani e programmi) sulle quali – sia pur con qualche eccezione – la dottrina concorda nella scelta del legislatore e la giurisprudenza non l’ha mai posta in discussione.

Quest’ultima notazione merita un commento che funge da introduzione a questa ricerca: la motivazione nelle sue “qualificazioni” di sufficiente, logica e comprensibile, nasce nella giurisprudenza amministrativa più risalente [2], quella degli organi consultivi del principe e diventa elemento fondamentale dello Stato di diritto quanto alla decisione degli organi amministrativi giustiziali e alla sentenza del giudice amministrativo, quindi passa con la stessa caratteristica di obbligatorietà nel provvedimento amministrativo, collocandosi la sua assenza o la sua insufficienza tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere [3].

Infatti, in assenza di un obbligo di legge la motivazione è oggetto di obbligo configurato dalla giurisprudenza perché il Consiglio di Stato avverte la necessità di non differenziare la decisione contenziosa (giurisdizionale o amministrativa poco importa) da quella che caratterizza l’atto amministrativo [4]. Sicchè l’obbligo della motivazione si afferma nella misura in cui l’atto, rappresentando l’esercizio puntuale di un potere attribuito dall’ordinamento ad un organo amministrativo, penetra nella sfera giuridica del suo destinatario con astratta capacità lesiva di quest’ultima o di quella di cui sono titolari i controinteressati. In tal modo, una volta affermato il principio secondo il quale spettava ai giudici conoscere il modo con cui l’autorità amministrativa aveva valutato gli interessi pubblici, la motivazione dell'atto amministrativo divenne ben presto il principale oggetto d’indagine del sindacato giurisdizionale.

 Ad onor del vero va detto che vi furono perplessità evidenti in riferimento all’introduzione del nuovo obbligo gravante sulla pubblica Amministrazione: poteva sembrare infatti eccessivo addossare all'Amministrazione l’obbligo di rendere pubbliche le ragioni del provvedimento da adottare. Soltanto in seguito si ritenne quest’obbligo come un comportamento dovuto degli organi amministrativi, accettato e unanimemente condiviso, addirittura polifunzionale perchè volto al conseguimento di tre obiettivi: consentire l’interpretazione dell’atto amministrativo, effettuare il controllo amministrativo e l'accertamento giudiziale, garantire il privato in ordine all'operato dell'Amministrazione[5].

L’estensione dell’obbligo agli atti amministrativi ampliativi e non incidenti sulle posizioni di controinteressati – rinnovi di concessione di bene o di servizio, autorizzazioni e abilitazioni non incidenti su interessi altrui [6] – non poteva invece scaturire dall’evoluzione giurisprudenziale, perché atti di questo tipo giuridico, non ledendo posizioni soggettive, non vengono comunemente sottoposti alla cognizione del giudice amministrativo [7].

La dottrina, dal canto suo, non ha mancato, almeno inizialmente, di manifestare alcune riserve di fronte alla posizione giurisprudenziale che privilegia la garanzia della legittimità rispetto alla speditezza dell’azione amministrativa ed anche con voce autorevole [8] ha cercato di dirottare l’attenzione su altri presidi di legittimità, ma senza successo (anche se sulla questione della obbligatorietà generale la dottrina sarebbe tornata in tempi recenti ad avanzare dubbi motivati) [9].

Restano comunque, a mo’ di bilancio di un dibattito dottrinale ormai secolare sul tema della motivazione, alcuni punti ancor irrisolti in relazione ad esempio al valore sostanziale o formale della motivazione ed alla corrispondenza della motivazione ai motivi reali sottesi alla decisione.

D'altra parte, se è vero che già da tempo la giurisprudenza aveva affermato il principio di motivazione come obbligo generale per (quasi) tutti gli atti amministrativi è pur vero che la norma di cui all'articolo 3 contiene un elemento assai interessante che può ritenersi innovativo almeno rispetto alla prassi, tenuta dal legislatore italiano, di evitare le definizioni (sull’ammonimento di Celso omne definitio periculosa): il collegamento necessario con le risultanze dell’istruttoria, che – come si vedrà tra breve - viene ulteriormente rafforzato da una norma introdotta dalla novella legislativa del 2005. Non va infatti trascurato il valore sostanziale di tale formula normativa che rappresenta un non frequente contributo del legislatore alla costruzione di una nozione giuridica ben delineata e soprattutto funzionale a scopi garantisti.

Il primo risultato colto dalla accurata formulazione dell’art. 3 può dirsi quello di aver arginato la “libera fluttuazione della volontà psicologica dell'autorità decidente” [10] che sembra aver contribuito non poco ad alterare nel tempo il già difficile equilibrio del rapporto libertà-autorità, che soltanto di recente - anche in virtù dell'introduzione, con la l. n. 241 del 1990, di istituti garantisti alla stregua della motivazione, della partecipazione e dell’accesso – si presenta meglio bilanciato.

Or, la legge n. 15 del 2005, oggetto di commenti già numerosi e approfonditi, è tornata sulla disciplina del procedimento amministrativo, anzitutto codificando gran parte della elaborazione giurisprudenziale dell’ultimo quindicennio; ma ha disciplinato anche il provvedimento e alcune sue caratteristiche, sino al punto da introdurre novum di notevole portata.

Le norme di cui all’art. 3 della legge 241 del 1990 non sono state investite direttamente dalla novella legislativa, tuttavia l’esame di alcune disposizioni che riguardano, direttamente o di riflesso, l’istituto della motivazione non è privo di interesse. La l. n. 15 infatti ha in parte codificato la vis espansiva dell’istituto della motivazione, che, a fronte di un accrescimento di autoritarietà nell’esercizio della funzione amministrativa rinvenibile in alcune previsioni della novella, può assurgere infine a istituto decisivo per la garanzia di trasparenza dell’attività amministrativa a vantaggio della paritarietà tendenziale del rapporto con gli amministrati e per rendere possibile un rapporto consapevole e consapevolmente leale e collaborativo. D’altra parte, però, costringe ad un passo indietro sul piano delle garanzie attraverso la previsione di un ampliamento dell’area di quei vizi formali del provvedimento dai quali può non discendere l’annullabilità degli atti vincolati.

Sembra dunque che un approfondimento sul tema della motivazione possa ritenersi opportuno dopo un intervento legislativo volto ad estendere la tipologia delle illegittimità soltanto formali, immuni dagli effetti sanzionatori nell’ordinamento amministrativo, tipologia che inevitabilmente tende ad estendersi al difetto di motivazione del provvedimento amministrativo, ricorrendo i presupposti dell’ormai noto art. 21 octies.

Ancora una volta la motivazione viene valorizzata, da un lato, e dall’altro costretta a misurarsi con le esigenze di efficacia e celerità dell’azione amministrativa.

2. Le disposizioni sulla motivazione del provvedimento introdotte dalla legge 15 del 2005.

La prima norma concernente la motivazione – prima solo nell’ordine di scrittura della legge – non è in realtà la più rilevante nel panorama legislativo rinnovato sul procedimento e sull’atto amministrativo, soprattutto se la si rapporti all’istituto di cui all’art. 10 bis, come vedremo tra breve.

La legge n. 15 del 2005 ha aggiunto infatti un nuovo periodo all’art. 6, comma 1, lettera b) della legge n. 241 del 1990, con il quale si specifica che l'organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.

Come è evidente, la norma esprime – anzi ribadisce - quell’aspirazione alla coerenza tra istruttoria e provvedimento finale che emerse nella disciplina di base del 1990 con riferimento al rispetto dei principi di buon andamento e di trasparenza dell'attività amministrativa.

Ma, se essa potrebbe apparire, ad una prima lettura, quasi superflua, considerato che già nell’art. 3 della legge n. 241 figurava uno stretto collegamento tra risultati dell'istruttoria e motivazione, tuttavia si possono intravedere agevolmente, in una disposizione di tal fatta, almeno due effetti che potranno tradursi in un ulteriore arricchimento delle garanzie per il cittadino, e di conseguenza in un’evoluzione positiva del rapporto tra cittadini e pubblica Amministrazione.

Gli scopi perseguiti, infatti, sono distinguibili su due differenti livelli, il primo attinente alla sfera esterna, e che si sostanzia in un rafforzamento del principio di trasparenza, il secondo meramente interno, in riferimento ad un più razionale riparto di competenze tra responsabile del procedimento e dirigente[11]. L’accresciuto riguardo per la trasparenza del procedimento amministrativo potrà consentire al destinatario del provvedimento finale di rilevare eventuali profili di contraddittorietà sin dalla semplice lettura della proposta di provvedimento. Inoltre, quanto al problema relativo all'individuazione delle responsabilità, si rende più agevole l'individuazione di quella del dirigente “qualora il danno dipenda esclusivamente dal responsabile del provvedimento, (il quale abbia adottato un atto finale diverso da quello proposto dal responsabile del procedimento). Viceversa, nell’ipotesi in cui il danno consegua ad un provvedimento adottato dal dirigente in conformità alle risultanze istruttorie indicate dal responsabile, sarà altrettanto agevole risalire alla condotta del dipendente preposto alla gestione del procedimento e metterne in luce i profili di responsabilità” [12].

E’ stato sottolineato [13] che nuovi effetti non trascurabili deriverebbero da questa soltanto apparentemente “innocua” disposizione.

Il primo è quello di ampliare l'area del vizio di difetto di motivazione sanzionabile in via diretta per violazione di legge: naturalmente il provvedimento finale che non abbia dato conto delle ragioni per cui il suo autore disattende o semplicemente trascura le risultanze dell'istruttoria risulterà illegittimo per violazione di un preciso disposto normativo. Si pone inoltre il problema della decisione del responsabile del procedimento, che sia anche competente ad adottare il provvedimento finale e che si discosti dalle risultanze dell’istruttoria che egli stesso ha diretto in precedenza senza motivare adeguatamente: il provvedimento risulterà viziato non per violazione di legge, bensì per eccesso di potere, essendo in questo caso evidente il travisamento del fine proprio del provvedimento impugnato e dello stesso procedimento all’interno del quale esso ha trovato la sua maturazione. È stato in tal modo introdotto un onere formale di motivazione che vale di per sé, cioè come presidio di legittimità e di garanzia legato alla motivazione, per il solo caso in cui l'atto finale debba essere adottato da un organo diverso da quello che ha proceduto all’istruttoria.

L'articolo 21 septies commina la massima sanzione della nullità per il provvedimento amministrativo carente degli elementi essenziali, sicché occorre chiedersi se la motivazione di cui all'articolo 3 della stessa legge non sia un elemento essenziale del provvedimento la cui mancanza determina nullità. Come è noto, la dottrina ha ritenuto doversi escludere che la motivazione sia un elemento essenziale dell'atto, necessario per la sua ricognizione sul piano dell'esistenza giuridica precisando che si tratta di un requisito di validità dell’atto, che ne condiziona, spesso totalmente, la legittimità. Eppure va ricordato che la posizione assunta in sede comunitaria sul punto sembra sostenere [14] – senza dubbi di sorta - un ruolo stricto sensu essenziale della motivazione nel provvedimento amministrativo [15].

La relazione con le risultanze istruttorie ed il relativo recente rafforzamento con le disposizioni di cui all'articolo 6 della legge n. 15 tendono a realizzare il fine di evitare le deviazioni e gli equivoci che altrimenti avrebbero potuto insorgere. L’ancoraggio alle risultanze istruttorie impedisce, quindi, che la volontà psicologica dell'autorità decidente possa agire in modo del tutto incontrollato, del resto in armonia con la concezione ormai da lungo tempo prevalente che sottrae il provvedimento dall'area del negozio giuridico e lo configura quale esercizio oggettivo di una funzione pubblica [16].

In siffatta prospettiva tutti i fatti che hanno preceduto il momento puntuale dell’emanazione del provvedimento interessano direttamente il cittadino suo destinatario, poiché è da essi, piuttosto che dalla pura e semplice loro rappresentazione (che non è - come è noto – condizionante nello scrutinio “forte” di legittimità affidato al giudice), che può discendere la sindacabilità in concreto del provvedimento amministrativo.

3. L’introduzione della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art 10 bis).

La nuova legge sembra, a tutta prima, prestare attenzione soprattutto ai profili che riguardano l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, non più coincidenti con la sua pura legalità, e trascurare gli aspetti del c.d. garantismo.

Tuttavia la legge nel suo complesso appare immeritevole di un giudizio di questo genere, fondato su di una visione critica in punto di garanzie del cittadino: infatti, nonostante abbiano subito una significativa attenuazione alcune forme di tutela della legittimità dell'azione amministrativa, sono state d'altra parte attribuite al privato alcune garanzie ulteriori di non scarso momento. Il riferimento è senz’altro alla norma di cui all’art. 10 bis “Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento della istanza” [17] che impone all'Amministrazione, prima di emanare un provvedimento sfavorevole per il cittadino istante, di comunicargli le ragioni che impediscono l'accoglimento della sua richiesta. Il nuovo istituto, non a caso collocato immediatamente prima delle norme relative agli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, attribuisce indubbiamente a colui che partecipi al procedimento più concrete chances di ottenere dall’Amministrazione con la quale egli è entrato in contatto quanto gli preme.

Sembra, anzi, che si vada configurando, accanto alle norme di cui all'articolo 11 che prevedono la conclusione negoziata del procedimento, un più ampio spazio deputato a divenire nuovo “luogo del consenso”[18], connotato anche dalla significativa circostanza di essere localizzato nella fase predecisionale. Sicchè, l’istituto di cui all'articolo 10 bis produce l’effetto di avvicinare ancor di più il diritto amministrativo – inteso come norma d’azione - alle regole ed ai principi del diritto comune, in linea con quanto disposto, per l'adozione di atti di natura non autoritativa, dall'articolo 1, comma 1 bis introdotto dalla novella del 2005.

Sul versante delle maggiori garanzie offerte al privato, va ricordata – solo per inciso - anche l'affermazione del carattere generale, e non più speciale, della nullità del provvedimento amministrativo [19].

Si vuol dire che una visione generale della riforma possa agevolmente approdare alla constatazione per la quale essa non si risolva in una deminutio, ma, al contrario, in una rivalutazione della figura del cittadino, (recte del destinatario del provvedimento) “che oggi trova protezione giuridica in quanto tale, e non quale mero strumento di realizzazione dell'interesse della stessa p.a” [20].

Solo una norma, su cui ci si diffonderà in prosieguo, invece registra una netta subordinazione dell'interesse sostanziale del cittadino rispetto all’interesse pubblico: la norma sulla revoca, nella misura in cui essa venga interpretata come riconoscimento della possibilità di ritirare, perché inopportuni, anche provvedimenti di carattere autorizzativo.

Sebbene secondo la dottrina maggioritaria [21] la disposizione di cui all’art. 10 bis risulti essere particolarmente innovativa e foriera di un possibile ulteriore sviluppo della partecipazione di privati al procedimento amministrativo[22], non sono tuttavia mancate critiche di segno opposto che hanno già dato vita ad un dibattito dottrinario di notevole interesse, che dovrà senz’altro essere oggetto di attenta analisi critica. E’ del resto innegabile che sino alla legge n. 241 si poteva definire “debole” [23] il rapporto intercorrente tra p.a. e cittadino e, di conseguenza, gli istituti di partecipazione accolti nella legge sul procedimento costituirono una risposta necessaria alla esigenza crescente di costruire una via verso una tendenziale paritarietà tra cittadino e pubblica Amministrazione: la via virtuale che può congiungere questi due attori del diritto amministrativo è proprio la partecipazione. Nei tre lustri trascorsi dopo il 1990, sino alle porte della legge 15, la partecipazione è però rimasta il più delle volte una mera aspirazione, un dialogo a distanza, nel corso del quale al privato era consentito solo di prendere visione degli atti, estrarne copia e produrre memorie, che andavano obbligatoriamente esaminate dall’Amministrazione procedente.

Uno degli autori che di recente si è occupato della tematica relativa alla partecipazione ha anzi ipotizzato una distinzione tra qualità e quantità della partecipazione sottolineando come siano rimasti sinora in ombra i profili qualitativi della partecipazione, proprio quelli che avrebbero consentito più efficacemente di ridurre la reale distanza fra Amministrazione e amministrati, mentre sono stati sviluppati quelli quantitativi, relativi alla possibilità di estendere quanto più possibile l’accessibilità al procedimento [24].

La trasformazione che potrebbe consentire un innalzamento della qualità della partecipazione rispetto all'antica contrapposizione fra chi partecipa uti singulus e chi uti civis richiede che non solo chi amministra, ma anche chi è amministrato debba tendere sempre più al bene comune – non trascurando tuttavia anche il suo interesse particolare - nell’ambito di un rapporto più evoluto e maturo tra Amministrazione e amministrato.

Per tal via si spiega come, ad esempio, da una raccolta completa di informazioni, volta a chiarire ed a razionalizzare le premesse fattuali all’esercizio del potere, si possa raggiungere agevolmente la tutela di tutti gli interessi, siano essi pubblici o privati.

In tale prospettiva prendeva spazio - acutamente - ad esempio la possibilità di intendere, secondo un’interpretazione estensiva, la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990, riferibile ad ogni altra fase del procedimento “ove gli effetti diretti o il pregiudizio nei confronti di uno o più soggetti si profilino solamente a procedimento già avviato e inoltrato…compatibilmente con le esigenze di celerità”  [25].

Sicchè in virtù delle norme testé introdotte si va schiudendo una nuova fase per la partecipazione, nel corso della quale, ove l’orientamento conclusivo dell’Amministrazione sia negativo, quest’ultima è tenuta, prima di adottare la determinazione finale, a comunicare il suo orientamento negativo agli istanti, anche se secondo alcuni autori non si comprende tuttavia perché siano stati esclusi da tale fase tutti gli altri interventori necessari individuati nelle norme sulla partecipazione [26].

La comunicazione dell’intendimento negativo darà diritto agli istanti di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti, in aggiunta alle memorie e ai documenti eventualmente già depositati presso l’ufficio del responsabile del procedimento, che andranno obbligatoriamente esaminate, con apposita motivazione che dia partitamente conto delle ragioni del loro mancato accoglimento. Si viene ad instaurare così un dialogo tra Amministrazione ed amministrato che finisce per focalizzarsi nella parte conclusiva del procedimento, quando l'Amministrazione sta per assumere la decisione finale.

Senonché, malgrado la comunicazione dei motivi ostativi sia stata generalmente accolta con un evidente favor da parte della dottrina, non mancano questioni interpretative che tendono a porre in crisi l’effettività di norme sicuramente innovative e volte all’ampliamento delle garanzie per il cittadino.

La stessa definizione giuridica dell’istituto sembra aver diviso la dottrina che ha già provveduto a qualificarne – in modi diversi ed a volte configgenti - i contenuti. Ad oggi si possono infatti menzionare: contraddittorio endoprocedimentale necessario [27], preavviso di rigetto [28] e motivazione anticipata [29]. Quest’ultima definizione sembra tuttavia tautologica, mentre la prima è forse quella più idonea a sottolineare il contenuto innovativo delle norme in commento, considerato che si prevede un obbligo per l’Amministrazione procedente di elencare – in una fase antecedente alla emanazione dell’atto finale - i motivi posti alla base di una probabile risposta negativa alle istanze del privato, che pongono le premesse per il successivo contraddittorio endoprocedimentale. Ed è proprio la comunicazione dei motivi (anticipata) che connota in modo inconfondibile l’istituto, si può dire che ne costituisca l’oggetto e allo stesso tempo il presupposto perché sia attivata la procedura.

Non può negarsi che essa il più delle volte sia destinata a coincidere sul piano effettuale con la medesima motivazione che verrà adottata in via definitiva, presentando caratteri solo più schematici, perché fondata sui motivi che – a parere dell’organo competente - impongono il rigetto dell’istanza, ma che ha qualche probabilità di essere integralmente rivisitata dall’Amministrazione, sulla scorta delle nuove osservazioni formulate dagli istanti.

Una delle prime pronunce del giudice amministrativo riguardo all’istituto di cui all'articolo 10 bis è per l’appunto volta a meglio individuare il contenuto di questo tipo di comunicazione motivata, che non può essere vaga, indeterminata, apodittica o ridotta ad una formula standardizzata, teoricamente valevole in tutti i casi e che non renda comprensibile, in concreto e nel caso specifico, l'iter logico seguito dall'amministrazione nella propria valutazione negativa [30].

La motivazione del provvedimento finale dovrà riferire invece sulle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni prodotte dall’istante. V’è da fare a questo proposito una distinzione di ordine qualitativo, che impone naturalmente una motivazione più approfondita in relazione alla maggiore rilevanza di taluni elementi che potranno essere forniti dal cittadino e che tuttavia l’Amministrazione dimostrerà di non voler accogliere [31]. Si ritorna inevitabilmente alla ripartizione effettuata da Giannini [32], ove tanto più rigorosa sarà la motivazione se avrà ad oggetto provvedimenti negativi.

Le virtualità dell'istituto appena introdotto paiono molteplici: è agevole riscontrare nella sua disamina aspetti che afferiscono al piano delle garanzie e aspetti che si riverberano sulla qualità del procedimento. Il fine ultimo, o almeno il più evidente, pare quello deflattivo del contenzioso giurisdizionale, poichè viene offerta un’ultima possibilità all'istante per intervenire in un momento in cui si è conclusa l’istruttoria in senso non conforme alle sue richieste, evocandosi dunque una fase quasi-giustiziale [33] o pregiustiziale e all’organo competente all’emanazione del provvedimento lo spazio di una finale riflessione sul merito e sulla legittimità indotta dalle osservazioni del destinatario.

Tornando al primo aspetto va osservato che proprio l'aver trascurato la valorizzazione e la pratica della funzione giustiziale - svolta all'interno dell'Amministrazione - ha provocato la crisi per eccesso di domanda che affligge la giustizia amministrativa, “frutto della miopia – per la verità non addebitabile al solo legislatore - con la quale l'intera funzione giustiziale è stata elisa nell’ordinamento amministrativo” [34].

Di tal guisa sembra invece naturale attendersi che i rischi di annullamento da parte del giudice saranno maggiori quando l’atto non è stato oggetto di previo confronto con coloro che ne sono coinvolti [35].

 Tuttavia ciò che sembra più significativo è il nuovo dialogo che viene ad instaurarsi tra cittadino, con le sue ragioni, e organi amministrativi, con la possibilità di un accoglimento (tardivo) delle osservazioni dell’ultima fase procedimentale prodotte dall’istante: il risultato di un siffatto contraddittorio endoprocedimentale sembra destinato a produrre - tra gli altri vantaggi - un indubbio miglioramento in termini di qualità dell'atto finale [36].

A ciò si aggiunga che, al perseguimento di questi obiettivi per così dire primari, si collegano una serie di conseguenze che sembrano configurare quasi una sorta di circolo virtuoso che potrebbe derivare da un’applicazione diffusa dell’istituto. V’è infatti l’innegabile risvolto positivo atto ad incoraggiare possibilità di miglioramenti e di autocorrezione dell’azione amministrativa.

L’obbligo di clare loqui, inoltre, sembra notevolmente rafforzato dalle disposizioni dell’articolo 10 bis [37]. Sino alla normazione del 2005 il principio appena accennato non risultava invero così limitante per l’operato della p.A., potendosi anzi segnalare in giurisprudenza perlopiù decisioni volte a stemperare l’incidenza di tale obbligo sulla legittimità del provvedimento, piuttosto che a valorizzarlo, come si può ben desumere da alcune affermazioni del Consiglio di Stato [38].

Si va profilando dunque, in relazione alla codificazione – seppur implicita - di tale principio, un caso forse unico nell’intero scenario offerto dalla novella: anziché limitarsi a trascrivere gli apporti giurisprudenziali più noti, la legge n. 15 del 2005 in questa occasione li supera, in armonia con un approccio ancor più moderno e garantista per il cittadino, che beneficia in tal modo di nuove garanzie di trasparenza e di chiarezza nel farsi del procedimento che lo riguarda.

Parte della dottrina [39], che attendeva dalla nuova legge un’estensione dell'istituto della partecipazione anche ai procedimenti cosiddetti di massa, in linea con l'originario progetto elaborato dalla commissione Nigro, non ha condiviso la scelta del legislatore di restringere la portata della norma ai soli procedimenti intrapresi su istanza di parte e di escludere quelli concorsuali ed i procedimenti in materia previdenziale ed assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti competenti. Va comunque aggiunto che a tal proposito v’era stata una precisa richiesta alla commissione parlamentare da parte degli enti previdenziali che ne temevano l'applicabilità. E inoltre la norma si applica – almeno secondo le indicazioni di parte della dottrina e ora anche della giurisprudenza - ai procedimenti a carattere discrezionale, nei quali la partecipazione dei soggetti portatori degli interessi apporta elementi utili alla decisione, non certo ai procedimenti a carattere vincolato e a quelli tesi all'accertamento di diritti a contenuto patrimoniale [40].

3.1 Valorizzazione del contraddittorio e motivazione.

Secondo la nota definizione di contraddittorio offerta dalla dottrina che più autorevolmente se ne è occupata, l’istituto “esprime la posizione di eguaglianza che è fatta alle parti nel processo in ordine alla possibilità astratta di elaborazione del contenuto della sentenza”[41]. Va però precisato che, sebbene il contraddittorio si manifesti soprattutto nel processo caratterizzando addirittura la funzione giurisdizionale (audiatur et altera pars), “esso è espressione di un principio giuridico generale di carattere costituzionale, principio che si manifesta ogniqualvolta la funzione svolta sia retta dalla ragione di imparzialità”[42].

Anzi, la dottrina appena richiamata riteneva apertis verbis pienamente realizzabile l'applicazione di questo istituto anche nell’ambito del procedimento amministrativo [43].

Si devono tuttavia rimarcare, seppur in estrema sintesi, alcune delle peculiarità proprie del procedimento amministrativo che hanno nel tempo reso difficile, se non del tutto improponibile, lo sviluppo della linea legata alla paritarietà delle posizioni anche all’interno del procedimento, ma che sembra trovare da ultimo accoglienza proprio nelle norme relative al contraddittorio endoprocedimentale necessario. Innanzitutto v’è un carattere del procedimento amministrativo, per sua natura “unisoggettivo e monocentrico” [44] anche quando sono chiamati a parteciparvi soggetti terzi rispetto al suo autore, che sembra stridere fortemente con la caratteristica che meglio di ogni altra connota il processo e che dà luogo ad un procedimento plurisoggettivo: ancora una volta audiatur et altera pars. V’è poi di fondo il problema sempre irrisolto – e questo disagio si avverte anche nella giurisprudenza comunitaria che ha affermato principi talvolta contraddittori - relativo alla difficoltà di coniugare le ragioni delle garanzie con le necessità dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. Di tal guisa quasi si può percepire la diffidenza che talora colpisce l’introduzione di (o il tentativo di introdurre) alcuni elementi di indubbia complicazione del sistema quali sono le garanzie, e segnatamente la garanzia relativa al principio del contraddittorio [45].

In aggiunta a queste considerazioni la dottrina ha indicato un'altra caratteristica, tradizionalmente sottesa al procedimento amministrativo, che ha reso tutt’altro che semplice l’introduzione del contraddittorio in questa sede. Ci si riferisce infatti alla logica improntata alla separatezza o diversificazione tra potere pubblico, da un lato, e destinatari dell’atto amministrativo, dall’altro[46]. La giurisprudenza più risalente aveva contribuito a determinare questa situazione di netta contrapposizione tra pubblico interesse e interessi privati, negando valore a qualsiasi contributo “esterno”, e ritenendo la prospettazione degli interessi dei privati non opportuna, né utile al fine della determinazione delle scelte amministrative. Per di più, anche se fosse stata legislativamente prevista la “partecipazione” (ante litteram) del privato, il giudice amministrativo probabilmente non avrebbe esitato a ridurre la portata di una siffatta disposizione e a considerare il relativo apporto “un mero fatto di collaborazione esterna, ma generalmente ininfluente ai fini della soluzione realizzativa adottata dalla p.a.” [47]

L’introduzione della partecipazione nel procedimento amministrativo ha in tal contesto rappresentato un vero momento di rottura con il passato, non riuscendo però a raggiungere, almeno sino alle soglie della legge n. 15 del 2005, quell’ampio respiro e quell’effettività richiesti da parte della dottrina più attenta. E tuttavia non è di certo un dato trascurabile la possibilità per il destinatario dell’atto, che viene a trovarsi in una nuova posizione - lontana da quella cui era relegato, ossia di semplice osservatore esterno rispetto alle vicende dell’atto in fieri - di incidere dall’interno sulla formazione del provvedimento.

Quanto al rapporto tra partecipazione e contraddittorio, è appena il caso di rimarcare un dato che riguarda la confusione fatta sovente dalla dottrina tra i due termini, senz’altro vicini e per taluni profili simili, ma ritenuti (forse con leggerezza) del tutto fungibili. Va piuttosto condiviso quel tentativo della dottrina più attenta di rinvenire specifici tratti distintivi delle due nozioni, e segnatamente sembra possa accogliersi quell’impostazione autorevole che sottolinea come la sostanziale diversità tra i due concetti vada ricercata nella funzione stessa della partecipazione, concetto che “prescinde da ogni conflitto di interessi tra corrispondenti posizioni soggettive, sia perché non definisce una tutela o una garanzia, ma una modalità dell’azione, il cui carattere fondamentale si apprezza in relazione ai risultati complessivi” [48]. In attuazione del principio del contraddittorio - inteso come concreta specificazione della partecipazione, un quid pluris senza il quale probabilmente non si conseguirebbe un’effettività reale del principio di partecipazione – è invece consentito al privato non soltanto di interloquire con la pubblica Amministrazione, ma anche di avanzare una proposta di decisione alternativa, in grado di confutare i presupposti di fatto e di diritto alla base dell’ipotesi prospettata inizialmente dall’Amministrazione [49].

Ed è proprio dalla motivazione – attratta ormai nell’ambito del regime dei vizi formali - che può desumersi l’intervento in concreto di un adeguato contraddittorio tra le parti: inoltre, per effetto delle norme di cui al 10 bis, anche lo svolgimento di quello endoprocedimentale necessario deve risultare nella motivazione finale. Il legame tra contraddittorio e motivazione sembra pertanto mal conciliarsi con l’eventuale “dequotazione” dell’istituto della motivazione.

Su di un piano diverso ma non lontano sembra doversi riconoscere la necessità di una motivazione puntuale ed esauriente nel caso in cui in un procedimento sia intervenuto l’accesso infraprocedimentale.

E’ noto che tra le norme che meglio qualificano il rapporto nuovo tra pubblica Amministrazione e cittadino v’è quella concernente la previsione dell’accesso all’interno del procedimento: tale modalità dell’accesso deve essere considerata particolarmente rilevante ai fini della motivazione del provvedimento finale, poiché una comunicazione o presa di conoscenza dei fatti rilevanti per il provvedimento finale comportano certamente un effetto che si proietta sulla conclusione del procedimento. Dall’accesso infraprocedimentale discende infatti “una sorta di compromissione per il successivo esercizio della funzione amministrativa” [50] che risulta evidente se si ponga mente alla ipotesi nella quale, dopo aver consentito l’accesso alla parte interessata l’organo amministrativo muti la linea del procedimento a seguito dell’acquisizione di fatti nuovi rispetto alla data dell’accesso (nulla questio viceversa – questo è ovvio - se il procedimento continui a seguire una linea coerente rispetto al momento in cui è intervenuto l’accesso) e questo dirottamento venga recepito dal cittadino – come è inevitabile - alla stregua di un tradimento dell’affidamento riposto sulla base della documentazione rilasciata o delle informazioni fornite in occasione o a seguito dell’accesso, che dunque si fondava sull’istruttoria precedente. La motivazione conclusiva in un caso come questo dovrà adeguatamente illustrare le ragioni in forza delle quali ha finito per prevalere nella confezione del provvedimento gli elementi acquisiti in un momento successivo all’accesso al fine di “dissipare l’inquietante ipotesi che proprio quell’accesso si sia risolto in una trappola, dissuadendo la parte interessata da opportune iniziative a protezione migliore del suo interesse” [51].

Fatta questa precisazione di ordine concettuale relativa alle peculiarità del contraddittorio rispetto alla partecipazione, va aggiunta una considerazione che riguarda la determinante influenza del diritto comunitario in relazione all’affermazione del principio del contraddittorio nell’ordinamento interno. Invero negli ultimi decenni – si può anzi tentare di rinvenire una data precisa che coincide con la prima fondamentale pronuncia della Corte di giustizia CE del 1963 [52] – si è andato affermando nell’ordinamento comunitario il principio del contraddittorio nel provvedimento amministrativo, legato intimamente al principio del giusto processo e assurto in breve a principio cardine degli ordinamenti degli Stati membri, proprio in virtù di un consolidato orientamento della medesima Corte.

Il legislatore del 1990 si è mostrato alquanto timido - e tale atteggiamento si può forse almeno parzialmente giustificare per le ragioni appena esposte - in riferimento all'introduzione del principio del contraddittorio nell'ambito del procedimento amministrativo, e ciò particolarmente si può notare laddove si compari la legge italiana sul procedimento con quelle degli ordinamenti anglosassoni [53].

Tuttavia un modello nettamente più avanzato rispetto a quello generale offerto dalla legge n. 241 del 1990 può rinvenirsi nel procedimento innanzi alle autorità amministrative indipendenti: si può anzi affermare agevolmente che “la garanzia del contraddittorio costituisce il tratto forse più qualificante del loro modo di essere e di agire”[54], posto che le autorità indipendenti hanno come funzione essenziale quella di assicurare la parità delle armi nel contraddittorio concorrenziale, ove si realizza “la partecipazione del cittadino ad una pubblica funzione attraverso la comparazione fra il suo interesse e quello che la p.a. deve perseguire” [55].

Nell'ambito del procedimento amministrativo dinanzi all’Autorità antitrust, il cui modello può essere utilmente portato ad esempio, il contraddittorio è – come è noto -garantito innanzitutto dalla comunicazione dell’avvio dell’istruttoria, che avviene con notificazione secondo le modalità previste dal codice di procedura civile e non è derogabile neppure per particolari esigenze di celerità del procedimento[56], diversamente da quanto previsto per la comunicazione di avvio del procedimento nell'ambito della disciplina del procedimento amministrativo generale (ex art. 7 legge 241 del 1990) [57].

Oltre a ciò esso è assicurato dalla facoltà di accesso ai documenti formati o stabilmente detenuti dall'Autorità, ed inoltre v’è la possibilità di essere sentiti, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, nonché di produrre memorie, deduzioni, pareri e documenti.

Ma è soprattutto la comunicazione delle risultanze istruttorie alle imprese da parte del collegio, una volta verificata la non manifesta infondatezza delle proposte formulate dagli uffici in relazione agli elementi probatori acquisiti a costituire la garanzia più importante ai fini dell’effettività del contraddittorio (ex art. 14, comma 1, d.p.r. n. 217 del 1998). Un contraddittorio siffatto, che risulti cioè efficace, consentendo alle imprese di presentare proficuamente e nei tempi opportuni le osservazioni e le proprie difese, favorendo lo sviluppo di una dialettica vera e propria tra le parti - e per questo motivo prendendo le distanze dal modello meno avanzato proposto dalla legge generale sul procedimento – “è indispensabile al fine di rendere il modello amministrativo di tutela antitrust idoneo a soddisfare il diritto delle parti interessate ad una decisione equa e imparziale” [58].

Altro istituto assimilabile a quello appena introdotto nel diritto amministrativo, nelle disposizioni di cui al 10 bis, è rinvenibile nelle norme del codice di procedura penale, segnatamente in un’articolo – il 415 bis - introdotto dall’art. 17, comma 1, l. 16 dicembre 1999, n. 479 [59]. Il codice di procedura penale infatti prevede all'articolo 415 bis la disciplina dell’avviso all'indagato della conclusione delle indagini preliminari, che disciplina la facoltà per l'indagato, entro il termine di venti giorni, di presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore. E’ quindi una disposizione che può ben dirsi di nuova generazione, anche temporalmente vicina all’art. 10 bis, di poco precedente l’introduzione dell’istituto del contraddittorio endoprocedimentale necessario.

La Corte costituzionale ha rimarcato la funzione dell’avviso di cui al richiamato articolo 415 bis, del tutto analoga (mutatis mutandis) a quella espressa dall’istituto di cui all’art. 10 bis, che “appare essere chiaramente quella di assicurare una fase di “contraddittorio” tra indagato e pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini”[60]. Sicché l’omissione dell'avviso previsto dall'articolo 415 bis priverebbe l’indagato “di un momento difensivo di assoluta rilevanza”[61], e ciò del tutto in linea con le conseguenze che potrebbero derivare - questa volta nell'ordinamento amministrativo - dall'omissione della comunicazione di cui all'articolo 10 bis della legge sul procedimento amministrativo. Anzi, il mancato invio dell’avviso di conclusione delle indagini prima della relativa scadenza determinerebbe l'esercizio di un’azione penale geneticamente viziata, poiché il pubblico ministero, richiesto di formulare dal giudice l'imputazione, sarebbe tenuto ad emettere il decreto di citazione a giudizio senza aver dato tempestivamente all'imputato l'obbligatorio avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p. , dunque ad emettere un atto nullo.

Infine, tra l’avviso di garanzia previsto dal c.p.p. e l’avviso di avvio del procedimento si muove l’istituto dell’invito a dedurre[62], introdotto dalle disposizioni di cui all’articolo 5[63], comma 1, della l. 14 gennaio 1994, n. 19, e in seguito affinato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti. Si tratta di “un adempimento prodromico del giudizio con carattere di necessità ed indispensabilità,…la cui mancanza costituisce vizio non sanabile e non consente l’apertura del dibattimento, nonostante la sua sostanziale diversità rispetto agli atti di garanzia previsti nei procedimenti penali”[64]: si deve infatti rimarcare un aspetto che differenzia nettamente l’istituto appena citato dall’avviso di garanzia processual-penalistico, garantito dal Giudice delle indagini preliminari, che assicura in modo pieno l’imparzialità del procedimento. Non sembra pertanto condivisibile la tesi partecipativa, che assegna al Procuratore regionale il potere-dovere di raggiungere la verità anche ricercando prove a discarico dell’indagato.  

Considerazioni di questo genere, derivanti dalla descrizione, pur sintetica, di alcuni istituti “vicini”, quanto alla ratio che li sottende, a quello della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di cui all’art. 10 bis, sembrano indurre un netto avvicinamento tra processo e procedimento, soprattutto con riguardo all'aspetto del contraddittorio tra il privato e il potere, con un potere che appare meno distante e quasi conformato dagli interventi a carattere collaborativo e/o oppositivo dei soggetti privati [65].  Ciò in linea con quella prospettazione che ha definito il processo come una species del procedimento in cui partecipano – in contraddittorio - anche coloro nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a svolgere effetti, in modo che “costoro possano svolgere attività di cui l’autore dell’atto deve tenere conto, i cui risultati, cioè, egli può disattendere, ma non ignorare” [66].

Cionondimeno va ricordata una teoria autorevole che, pur riconoscendo il contraddittorio come tratto comune tra procedimento e processo, ha invece rimarcato la peculiarità di quest’ultimo, in cui la posizione della parte che agisce risulta sempre volta alla protezione di proprie pretese, mentre quella del soggetto che è chiamato a partecipare al procedimento amministrativo appare perlopiù tesa a migliorare lo svolgimento dell’attività amministrativa[67]. Questa distinzione può però ritenersi superata laddove si consideri che a seguito della introduzione della partecipazione, rafforzata dalla novella del 2005, il soggetto che partecipa al procedimento oggi ha diritto a produrre documenti e memorie, a farsi ascoltare dal responsabile del procedimento, dunque ad interloquire con essa. Ciò viene previsto al fine di raggiungere il prodotto conclusivo che risulti il migliore possibile, sia per l’Amministrazione che per il cittadino, sebbene il ragionamento - rinvenibile nei suoi tratti più significativi, ma in modo sufficientemente esauriente, nella motivazione finale – che conduce all’adozione dell’atto sia lontano dall’esser definito in termini di “codecisione”[68].  

3.2. Partecipazione, divieto di aggravamento e motivazione.

Quanto al rapporto tra partecipazione più ampia e divieto di aggravare il procedimento, di cui all’art. 1, comma 2, l’istituto in esame senza dubbio si pone in contrasto, almeno apparente, con il modello di un’amministrazione celere ed efficace[69].

L'applicazione della norma comporterà infatti un inevitabile aggravamento dei procedimenti ad istanza di parte. Il legislatore dunque in questo specifico contesto sembra, ad una prima lettura, aver privilegiato le ragioni della garanzia, la partecipazione e il contraddittorio, anche a scapito di alcuni principi cardine del nuovo procedimento amministrativo: quello di efficacia e di divieto di aggravamento. Si frena – naturalmente ricorrendone i presupposti - il procedimento anziché correre verso il suo termine, superando pareri, valutazioni e ogni altra occasione che induca a dilatare i tempi del procedimento [70].

In realtà già da qualche tempo si segnala una tendenza della dottrina più attenta verso una maggiore elasticità dell'istituto della partecipazione, volto a migliorare l’acquisizione di dati e conoscenze al fine di realizzare un quadro di riferimento quanto più possibile completo e reale, in definitiva il più possibile vicino al cittadino. In questo quadro l'istituto del contraddittorio endoprocedimentale realizza l'aspirazione alla concretezza del procedimento e dunque all’atteggiarsi del provvedimento finale come volontà della pubblica amministrazione che si fonde, ove ciò sia possibile, con le ragioni esposte dal cittadino: si consegue dunque una maggiore aderenza alla realtà nel suo farsi, posto che se il quadro istruttorio si riveli orientato verso un rigetto dell’istanza è possibile richiedere un apporto collaborativo/chiarificativo al cittadino istante [71].

Una prospettiva di chiaro segno “sostanzialistico” come questa è stata seguita altresì dalla giurisprudenza del giudice ordinario, come si desume dalla pronuncia della Corte di cassazione [72] con la quale si è affermato il principio in base al quale “la partecipazione al procedimento contribuisce a definire l'accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento finale e l'interpretazione delle norme giuridiche che regolano il potere”.

Dunque sembra potersi ormai affermare “la diffusione, anche nella giurisprudenza, di un'idea di amministrazione non intesa quale manifestazione del potere, piuttosto come funzione rivolta al perseguimento di uno scopo, in virtù del quale il potere le è stato assegnato. È lo scopo, infatti, che giustifica l'esistenza del potere e lo connota, lo delimita, lo conforma”. In opposta ipotesi il potere alla luce dell'ordinamento vigente, anche in base al principio di sussidiarietà, non troverebbe legittimazione alcuna.

Quantunque partecipazione e celerità del procedimento possano apparire concetti in contraddizione, si è disvelata nei contributi della dottrina più recente la possibilità di conciliazione tra i due termini del problema: amministrazione di risultato [73] e partecipazione. Anzi, si potrebbe dire con un gioco di parole: amministrazione di risultato è (anche) partecipazione. Posto che un termine non esclude l'altro - almeno non in modo così immediato - sembra possibile superare agevolmente un contrasto più declamato che reale: si può infatti rinvenire un punto d'incontro nella “reciproca naturale funzionalizzazione alla realizzazione di bisogni concreti colti nella loro dimensione materiale e personale” [74].

In relazione alla fattispecie descritta dalle norme contenute nell'articolo 10 bis, tanto più il contrasto tra i due interessi, alla partecipazione e al conseguimento del risultato, sembra superabile in quanto si consideri che a fronte di un termine assai breve previsto dalla novella per la presentazione delle osservazioni, che comporterà dunque uno “svantaggio” minimo in termini di aggravio del procedimento, potrà invece dirsi ampliata in modo notevole la possibilità per il destinatario di conseguire utilità, ancor più preziose perché ormai insperate. Se è pur vero che il termine di dieci giorni non è perentorio, almeno ciò non è specificato dalle disposizioni di legge, tuttavia, volendo leggere l’articolo in commento in armonia con l’impianto complessivo della novella non si potrà che darne una interpretazione che non sfugga a paletti rigorosamente fissati, soprattutto ove si tratti di questioni attinenti ai tempi del procedimento. Dunque sembra eccessivo configurare – seppure in linea meramente teorica – una possibilità di presentare le osservazioni decorsi i dieci giorni prescritti dalla legge, addirittura sino alle soglie dell’adozione del provvedimento finale [75].  

In realtà, già da tempo la dottrina sostiene che per la definitiva affermazione – e miglior applicazione - dell’istituto della partecipazione e per assicurare un risultato utile sul piano delle garanzie per i cittadini, sia necessario accompagnare il processo di affermazione della partecipazione con altri imprescindibili cambiamenti, anche sociali: in altre parole occorre contestualizzare un valore altrimenti assai lontano dalla realtà[76]. Infatti, sebbene la partecipazione democratica costituisca un valore assoluto in astratto, un siffatto valore per assumere una veste concreta “deve corrispondere ad una metodologia nuova dell’attività amministrativa, a valutazioni particolarmente caratterizzate da indipendenza, imparzialità, prudenza ed equità, ben più che in passato. Il netto e confortante progresso democratico rappresentato dal procedimento partecipato postula – sembra di poter dire - una corrispondente trasformazione dell’Amministrazione: in ciò il suo valore intrinsecamente strumentale e non finale. La semplificazione dei procedimenti, è appena il caso di soggiungere, presenta anch’essa natura ancipite e lascia agevolmente scorgere i rischi di una eterogenesi dei fini resa ben più agevole dalla attenuazione delle garanzie che pur innegabilmente complicano il procedimento” [77].

3.3. L’interruzione dei termini.

Un altro problema che la dottrina non ha mancato di affrontare riguarda l'interpretazione della locuzione relativa alla “interruzione” [78] dei termini per concludere il procedimento “che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo”. Sono state prospettate infatti due differenti soluzioni in merito, a seconda che si voglia leggere il termine interruzione in senso atecnico [79] - e dunque si faccia in realtà riferimento alla mera sospensione, in questo caso il termine riprenderebbe a decorrere solo dal momento in cui è stato sospeso – o si legga il termine nella sua accezione più grave, nel senso che produce la conseguenza di far decorrere i termini ab initio.

La prima lettura sarebbe in realtà più coerente con lo spirito della legge: snellimento e efficacia dell’azione amministrativa. Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato[80], che negli ultimi anni ha affermato un esplicito favor per il riconoscimento di un effetto sospensivo - e non di un più incisivo effetto interruttivo - per quanto riguarda l'integrazione documentale è su questa linea.

La seconda impostazione comporterebbe invece un considerevole e spesso del tutto inutile ritardo nella conclusione del procedimento, più precisamente quasi il raddoppio dei termini previsti per la sua conclusione, dato che la comunicazione però finisce per esser collocatasi colloca al termine dell’istruttoria, in un momento che precede appena la decisione finale.

Tuttavia questa presunta ambiguità della disposizione di legge sembra trovare conforto in sede esegetica unicamente nel richiamo alla regola di efficacia ed al divieto di aggravamento del procedimento, essendo d’altronde il legislatore trasparente nel suo intento di configurare un’ipotesi di interruzione, confermata dalla locuzione “iniziano nuovamente a decorrere”, anche laddove si volesse leggere il termine “interrompe” in senso atecnico.

Di guisa che, proprio nella prospettiva garantista che sembra muovere questo istituto appena introdotto nell’ordinamento giuridico, non può non farsi una considerazione: se i termini non ricominciassero a decorrere dall'inizio non si avrebbe garanzia dell’effettività dell'esame e della attenta valutazione da parte degli organi amministrativi dei nuovi documenti ed osservazioni prodotti dall'istante. Infatti un periodo troppo breve probabilmente non risulterebbe sufficiente per convincere la pubblica Amministrazione, già indirizzata verso un rigetto dell’istanza, a cambiar strada. Tanto più v’è bisogno di tempo per la disamina delle nuove argomentazioni, proprio perché l’Amministrazione ha già espresso e con chiarezza la sua opinione, a seguito di un’istruttoria completa: pertanto altrettanto completo e puntuale si dovrà configurare l’esame successivo alla presentazione delle nuove osservazioni. Anzi, il vaglio dei documenti sarà così accurato da provocare un doppio ordine di conseguenze i cui effetti, in entrambi i casi, non possono dirsi affatto trascurabili per la pubblica Amministrazione: un cambiamento radicale di convincimento quanto ai risultati dell’istanza, o un rafforzamento della posizione espressa in precedenza, che dovrà risultare da un’altrettanto puntuale motivazione del provvedimento finale.

3.4. Comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e comunicazione di avvio del procedimento: caratteri comuni e differenze.

Quanto al rapporto tra istituti almeno apparentemente rispondenti alla medesima ratio – quella di rendere effettiva la partecipazione “vestendo” di legittimità e di buon andamento la motivazione che lo caratterizzerà – la comunicazione di avvio del procedimento e la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, sembra che le pronunce dei giudici amministrativi relative alle prime applicazioni delle norme di cui all’art. 10 bis ripropongano in sostanza la stessa vicenda occorsa alle disposizioni di cui all’art. 7 della l. n. 241 del 1990[81]. Si tratta di due istituti accomunati da vari profili, svolgendo entrambi una funzione informativa-partecipativa – anche se la comunicazione di avvio riguarda, beninteso apparentemente, profili di correttezza più marcatamente formali, mentre le norme del 10 bis investono direttamente aspetti e valori sostanziali, incentrati nell’istruttoria procedimentale - e soprattutto risultano “sospesi” tra esigenze evidenti di garanzia e altrettanto imprescindibili necessità di non aggravare il procedimento.

Le questioni che cominciano a trovar spazio nelle sentenze dei giudici involgono a questo punto la definizione ad opera della giurisprudenza di criteri volti a meglio delineare un istituto che, nell’applicazione concreta, non produca una dilazione del procedimento pur consentendo la partecipazione del cittadino tutte le volte che questa giovi alla garanzia della propria sfera giuridica e, al contempo, della determinazione del miglior “prodotto” finale. Ebbene, se si tenta di prospettare una soluzione di questo tipo si comprende ben presto come a questa sia sottinteso che non tutte le volte che ci si trovi in presenza di un provvedimento di diniego, relativo ad un procedimento iniziato su istanza di parte, la comunicazione di cui all’art. 10 bis e il conseguente apporto eventualmente fornito dal cittadino avrà una utilità ai fini del provvedimento finale. Infatti, seguendo questa linea interpretativa, non si può non soffermare l’attenzione su di un dato logico: non avrebbe senso aprire il procedimento alla manifestazione di ulteriori interessi privati se – a seguito di siffatta acquisizione istruttoria - l’Amministrazione non fosse titolare di un potere discrezionale di valutare il peso e la reciproca interazione tra i diversi interessi privati[82]. In questa situazione la partecipazione sarebbe probabilmente infruttuosa e certamente foriera di un aggravio del procedimento.

Viceversa, secondo un’altra impostazione – forse più rigorosa - il contraddittorio, anche quando si tratti di attività vincolata può avere una sua utilità, per fornire un diverso punto di osservazione, più completo e per eventualmente integrare la conoscenza di fatti già noti all’amministrazione.

La giurisprudenza sulla comunicazione di avvio del procedimento si è quindi discostata da questo criterio di demarcazione tra procedimenti vincolati e procedimenti discrezionali e si è indirizzata sul singolo episodio procedimentale e sul relativo esame casistico per verificare la reale incidenza della violazione della norma di cui all’art. 7 sull’assetto finale degli interessi [83].  

E’ appena il caso di ricordare che, dopo una prima, rigorosa applicazione delle norme sulla comunicazione di avvio del procedimento, si è registrata nella giurisprudenza amministrativa un’inversione di tendenza, anche a causa di un aumento sensibile del contenzioso.

Verosimilmente la medesima vicenda potrà verificarsi anche in relazione all'istituto della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza. E’ infatti già in atto un primo tentativo di erosione dei rigidi confini posti dal nuovo diritto attribuito al cittadino che abbia presentato istanza: in una recente sentenza viene ad esempio affermata la natura non tassativa delle esclusioni, previste dalla legge per le sole procedure concorsuali e per i procedimenti in materia previdenziale e assistenziale, preferendo dunque una lettura delle norme improntata ad una interpretazione meno rigorosa e di segno sostanzialista, del resto in linea con l’intonazione generale e con alcune delle disposizioni della legge n. 15 del 2005 [84].

A ciò si aggiunga che paiono ormai numerose anche quelle pronunce che ritengono non necessaria un’ulteriore fase collaborativa quando il destinatario del provvedimento finale abbia avuto comunque modo di conoscere aliunde le ragioni ostative al rilascio del provvedimento richiesto[85]. Quando un procedimento sia costituito da vari atti predecisori si è ritenuta inutile la funzione di discovery delle valutazioni dell’amministrazione, così come per un procedimento di V.I.A. si è considerata superabile l’omessa comunicazione dei motivi ostativi poiché il ricorrente “ha avuto modo in più occasioni, in particolare partecipando con un proprio rappresentante alla riunione per la V.I.A., di conoscere tempestivamente le ragioni ostative al rilascio del provvedimento”[86].

V’è dunque un principio superiore di ragionevolezza cui viene affidata la sovrintendenza all'interpretazione di questa norma di nuova introduzione: in caso contrario gli effetti sulla durata dei procedimenti ad istanza di parte potrebbero avere ripercussioni negative sull’intero assetto del procedimento appena riformato e sull’efficacia dell’attività amministrativa nell’esercizio della funzione pubblica. Tuttavia, nonostante si debbano registrare i timori di chi considera le norme sulla comunicazione dei motivi ostativi – se applicate con eccessivo rigore – alla stregua di un vero e proprio attentato alla speditezza dell’azione amministrativa, non sembra d’altra parte auspicabile un’erosione rapida dei confini del nuovo istituto, che può risultare rischiosa per il prezioso acquis nel campo delle garanzie per il cittadino.

E di ciò sembra aver piena consapevolezza il legislatore: se infatti prevede ormai espressamente nella legge la via di fuga per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, non avviene altrettanto per l’omessa comunicazione di cui al 10 bis. Infatti il giudice amministrativo ha sovente interpretato in modo rigido l’applicazione di queste ultime norme, giungendo ad annullare provvedimenti negativi anche di natura vincolata non preceduti dalla comunicazione dei motivi ostativi, mentre ha ritenuto legittimi provvedimenti anche a basso tasso di discrezionalità mancanti della comunicazione di avvio del procedimento [87].

Ultima incongruenza che si può rilevare - forse proprio la meno comprensibile - concerne la differenza di trattamento tra motivazione, il cui difetto o lacunosità rientra nell’area dei vizi formali, e comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10 bis, la cui assenza è invece considerata motivo di annullamento. Per alcuni primi commentatori di questo istituto appena introdotto è infatti parso un controsenso che la violazione delle norme sulla motivazione del provvedimento, nella quale devono trovar spazio anche le ragioni che hanno indotto l’eventuale rigetto delle osservazioni presentate dal privato partecipante al procedimento – a seguito della comunicazione ai sensi dell’art. 10 bis - possa risultare meno grave della mancanza della comunicazione dei motivi ostativi[88].

3.5. Luci e ombre della comunicazione dei motivi ostativi.

Non vi è comunque chi non sottolinei i limiti sul piano dell’effettività della nuova disciplina, che avrebbe in questa prospettiva di pensiero una dubbia utilità, sostanziandosi in una mera ripetizione di garanzie già presenti nella formulazione originaria della legge 241[89]. Si considera inoltre che l’obiettivo deflattivo sarebbe presto vanificato dalla possibilità per l’interessato di proporre immediatamente l’impugnativa in sede giurisdizionale, una volta acquisita conoscenza dell’atto lesivo dei suoi interessi. Tuttavia una siffatta prospettazione dottrinaria pare non considerare che l’atto emanando potrebbe sì risolversi in una risposta negativa alle aspettative dell’istante, ma se ciò fosse automaticamente conseguente al “sospetto di rigetto” l’istituto in questione mancherebbe di una ratio giustificatrice.

Sarà dunque rimessa alla capacità dell’istante di produrre le osservazioni pertinenti, oltre alla oggettiva fondatezza delle ragioni del cittadino, l’adozione di un provvedimento a lui favorevole. Ciò nondimeno sino al provvedimento finale il “discorso” tra cittadino e p.a. rimane senz’altro aperto, disvelandosi tutt’altro che prevedibile la soluzione finale. V’è inoltre chi non manca di rimarcare l'effetto di aggravamento sul procedimento ed anzi, nella peggiore delle ipotesi, un rischio di trasformare il nuovo istituto in uno strumento dilatorio posto, con scelta infelice, nelle mani dell’organo pubblico[90], ma questo non sembra un orientamento condivisibile.

Nondimeno un altro problema potrebbe sorgere nel momento in cui la p.a., a seguito delle osservazioni prodotte dal cittadino, cambiasse strada, accorgendosi cioè di aver condotto un’istruttoria basata su un convincimento logico errato. In tal caso il responsabile del procedimento o l’autorità competente (potrebbe) comunica(re) all’istante un nuovo termine di 10 giorni per acquisire in una successiva fase di arricchimento dell’istruttoria ulteriori osservazioni e documenti, ma questa volta la riapertura dei termini sarà supportata da un altro ordine di motivi. La motivazione contenente le ragioni che inducono l’Amministrazione a percorrere una nuova via istruttoria risulterà di conseguenza ancor più scrupolosa e accurata, poiché la dilatazione dei tempi del procedimento e il nuovo percorso del “ragionamento” istruttorio lo imporranno quale garanzia di legittimità per il cittadino in attesa di provvedimento e per la stessa Amministrazione.

Il cittadino va dunque ammesso finalmente all’esercizio della funzione amministrativa con lo stesso valore di quello spettante all’autorità, sulla linea della paritarietà auspicata da Benvenuti[91].

4. La motivazione tra “dequotazione” e rivalutazione.

Come si è accennato, l’'articolo 3 della legge n. 241 del 1990 non ha subito modifiche ad opera della legge n. 15 del 2005.

Ciò non deve indurre a pensare che il rispetto dell'obbligo di motivazione non susciti questioni giuridiche di rilievo, anzi. Il fatto di non aver espressamente fatto menzione della possibilità per la pubblica amministrazione di integrare la motivazione in corso di giudizio non è certamente imputabile ad una mera dimenticanza. Piuttosto può significare la volontà di lasciare al giudice amministrativo la verifica, caso per caso, in relazione alle peculiarità della fattispecie al suo esame, in ordine alla sanabilità in corso di giudizio del difetto di motivazione del provvedimento amministrativo impugnato.

Alla luce della norma di cui all'articolo 3 della legge n. 241 del '90 la mancanza o l'insufficiente motivazione comporta l'illegittimità del provvedimento amministrativo. Va segnalata anche una tendenza giurisprudenziale che aveva considerato la motivazione come elemento essenziale per valutare l'effettiva lesività del provvedimento.

Dalla lettura delle disposizioni di cui all'articolo 3 si evince che la motivazione deve essere contestuale al provvedimento, considerato l’importante ruolo che essa svolge di rendere conoscibile e giustificare l'esercizio del potere, a garanzia dei principi di trasparenza, di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione.

   In giurisprudenza possono individuarsi almeno tre orientamenti, ormai consolidati, riguardo al difetto o mancanza della motivazione. Un primo orientamento che si definirebbe rigorista impone, in modo univoco e generalizzato, l'obbligo di motivare integralmente tutti gli atti amministrativi, con le sole eccezioni indicate nell’art. 3, ritenendo che ogni imperfezione dell’atto che riguardi la motivazione ne determina comunque l’invalidità.

  Un secondo orientamento esclude la motivazione per i provvedimenti vincolati. Il terzo orientamento ritiene sufficiente, quando l'attività amministrativa è vincolata, l'indicazione dei presupposti di fatto e di diritto, senza che occorrano ulteriori e più ampie argomentazioni rivolte a confutare analiticamente le deduzioni svolte dalle parti interessate.

   La motivazione del provvedimento non deve tradursi in una puntuale confutazione delle ragioni espresse in ogni atto interno del procedimento che abbia prospettato una diversa soluzione, né deve espressamente menzionare un parere facoltativo non vincolante quando comunque risulti che l'autorità decidente ne abbia tenuto conto, ma, ai sensi dell'articolo 3 della legge 7 agosto 1990 n. 241, deve consistere nell'esposizione dei fatti rilevanti raccolti nella fase istruttoria nonché delle ragioni di diritto della determinazione della pubblica Amministrazione con argomenti non illogici, non contraddittori, ma coerenti e logicamente autosufficienti.

A questo punto è di particolare interesse quella giurisprudenza recente che ammette la convalida in corso di giudizio dell’atto impugnato per difetto o carenza di motivazione.

Si fa riferimento in tale prospettiva all’inutilità dell'annullamento dell'atto per mero difetto di motivazione e all'opportunità della sua convalida anche in corso di giudizio[92] “ove l'amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di sanatoria intenda avvalersi di tale facoltà (la convalida in corso di giudizio mediante integrazione della motivazione), non sembra possa esserle opposto un diritto dell'interessato ad ottenere invece, ad ogni costo, l'annullamento giurisdizionale del provvedimento viziato. E questo tanto più in un processo amministrativo impostato, ormai, come giudizio sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento istituzionalmente devoluto al giudice deve investire, ben più che l'isolato dato della legittimità formale di un singolo provvedimento, il grado di fondatezza delle aspettative e delle correlative pretese che costituiscono la materia del singolo rapporto di diritto amministrativo”. La decisione è stata dunque confermata dal Consiglio di Stato, che ha ritenuto il difetto di motivazione inidoneo a determinare l'annullamento del provvedimento laddove il medesimo provvedimento, integrato successivamente nella motivazione, sia rimasto sostanzialmente inalterato, quanto alle ragioni di infondatezza dell'originaria pretesa del ricorrente [93].

La struttura del processo amministrativo introdotto dalla legge n. 205 del 2000, con la quale si affida ai motivi aggiunti l’impugnativa dei provvedimenti sopravvenuti aventi oggetto analogo o connesso al provvedimento originariamente impugnato ed adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, ha definitivamente legittimato anche la prassi dell'integrazione o convalida postuma del provvedimento in pendenza del giudizio amministrativo, essendo possibile considerare il provvedimento integrato nella sua motivazione come un nuovo atto di contenuto uguale o similare al precedente, se del caso emendato dei vizi formali, la cui proposizione è da ritenersi non solo materialmente possibile, ma del tutto legittima.

Il principio della necessaria contestualità tra motivazione e provvedimento muoveva dalla premessa che il giudizio amministrativo si definiva un giudizio sull’atto, da cui discendeva che la res litigiosa si cristallizzasse nell'atto impugnato e, quindi, fosse poi precluso all'amministrazione di poter utilmente modificare quest'ultimo in corso di giudizio per impedire che il ricorrente vedesse modificata la situazione provvedimentale sulla base della quale aveva presentato le sue doglianze.

Va precisato inoltre che parte della giurisprudenza subordinava l'ammissibilità dell'integrazione postuma della motivazione alla condizione che fosse comunque presente nell’atto un principio di motivazione, di guisa che l'amministrazione intervenisse solo per giustificare quanto già in nuce espresso.

Di sicuro la possibilità di ammettere l'integrazione della motivazione in corso di giudizio risulta intimamente connessa all'introduzione del principio di risarcibilità degli interessi legittimi: sembra infatti opportuno riconoscere alla p.A. la facoltà di intervenire, anche in un momento successivo, per porre rimedio ad una illegittimità che ha eventualmente commesso, per circoscrivere la portata del danno, limitando così possibili pregiudizi all'erario.

Non esistendo però ragioni incontrovertibili a sostegno dell'ammissibilità dell'integrazione della motivazione in corso di giudizio, e soprattutto in relazione alle controindicazioni che le applicazioni delle nuove norme comportano, anzitutto lo svuotamento del principio della forma come garanzia, ma non potendo neppure disconoscere, in considerazione della norma di cui all’art. 113 della Costituzione, il rilievo dei principi di concentrazione ed economicità del giudizio, appare necessario tentare di circoscrivere il più possibile i casi in cui l’integrazione della motivazione in corso di giudizio possa essere considerata ammissibile. Solo in ipotesi limitatissime, ad esempio, può ammettersi l’integrazione della motivazione dei provvedimenti discrezionali in corso di giudizio, in particolare solo ove vi sia già un abbozzo di motivazione, un insieme di elementi che permettano comunque, anche se in modo non completo, di ricostruire l'iter logico seguito dell'amministrazione. Diversamente, nei provvedimenti vincolati la mancanza della motivazione, risolvendosi in una sorta di difetto di esternazione, sarà destinata ad essere sanata senza difficoltà.

Quando invece siano in gioco poteri discrezionali e risulti vana la ricerca di indicazioni su come sia avvenuta la composizione di interessi da parte dell'Amministrazione la mancanza di motivazione non potrà essere sanata, costituirà pertanto un indice della presenza del vizio di eccesso di potere che porterà all'annullamento del provvedimento.

Non manca chi ritiene che, laddove si ammetta la possibilità di integrare la motivazione in corso di giudizio, sia necessaria la previsione di una sorta di indennizzo automatico, per il mancato rispetto delle forme provvedimentali, al fine di sospingere l’intera organizzazione amministrativa verso un progresso culturale e funzionale, rafforzando l’autocoscienza dei dipendenti[94].

Le perplessità sorte in dottrina, del tutto condivisibili, riguardano soprattutto la possibilità che a fronte della violazione di una o più norme da parte dell'Amministrazione pubblica, l'ordinamento giuridico non preveda alcuna reazione negativa a tale condotta antigiuridica.

Ciò che non convince parte della dottrina [95] è infatti che nel procedere all'eliminazione della sanzione dell'annullabilità non si sia affatto pensato di introdurre strumenti o sanzioni alternative che, non incidendo sull'efficacia o sulla validità dell’atto comunque si facciano carico di garantire l’effettività delle norme. Per tal via, infatti, si sarebbe resa l’introduzione delle norme di cui al 21 octies meno traumatica e più accettabile dagli amministrati, giungendo ad un bilanciamento opportuno tra la perdita di alcune garanzie formali e l’affermazione di nuovi strumenti di controllo.

5. Il rapporto tra motivazione e revoca nella novella.

Quanto, infine, al rapporto tra motivazione e le figure tipiche dell’autotutela amministrativa [96], si può dire che anche in questo caso vengono codificati approdi giurisprudenziali consolidati, anche se non mancano alcune aperture a soluzioni innovative.

La figura juris della revoca[97], ad esempio, elaborata pur in assenza di organiche previsioni normative e codificata dal legislatore del 2005, costituisce una tipica manifestazione del potere di autotutela [98]. A tal proposito va ricordata la tradizionale prospettazione teorica secondo la quale proprio la revocabilità sarebbe il tratto che maggiormente caratterizza il provvedimento e, di conseguenza, “tale caratteristica, che è in relazione alla necessità di soddisfazione dell’interesse dell’amministrazione, non può venir meno avendo carattere qualificatorio” [99].

L’orientamento della giurisprudenza, d’altro canto, è sempre stato pacifico nell’ammettere, in via di principio, pur in difetto di specifica base normativa, la revocabilità degli atti amministrativi, riferendosi ad una prerogativa dell’amministrazione funzionale alla tutela degli interessi pubblici. Inoltre in forza del richiamo al principio del contrarius actus, predicato come di carattere generale nel campo amministrativo, si conclude che l’autorità dotata del potere di provvedere in una determinata materia deve ritenersi parimenti dotata del potere di provvedere nella stessa materia in senso inverso al precedente.

Tuttavia la dottrina più recente ha inaugurato un nuovo orientamento esprimendo una serrata critica nei confronti dell’impostazione tradizionale e di affermazioni spesso apodittiche che – come abbiamo visto - sostenevano l’esistenza di un generale potere di revoca senza però preoccuparsi di giustificare il principio di revocabilità, sorto in assenza di un preciso riferimento normativo[100].

Inoltre, l’affidamento dei cittadini sarebbe stato rafforzato proprio dal mutato rapporto che si è venuto a creare tra cittadino e Amministrazione pubblica - a seguito dell’emanazione della legge n. 241 (e ancor più – dovrebbe dirsi - in ragione delle modifiche apportate dalla legge n. 15 del 2005) volto all’inserimento stabile degli interessi del destinatario del provvedimento all’interno del procedimento amministrativo. In virtù di tale nuova e più accentuata collaborazione tra cittadino e potere pubblico sarebbe di conseguenza lecito attendersi che un provvedimento scaturito da una proficua partecipazione possa ingenerare una “ragionevole aspettativa di stabilità della decisione per lui favorevole assunta a seguito del procedimento” [101]. Tale maggiore stabilità della determinazione amministrativa renderebbe di conseguenza ingiustificata – diremmo prudentemente più difficilmente motivabile - nella maggior parte dei casi, una futura modificazione del provvedimento emesso: se infatti la p.A. riesce a svolgere un’istruttoria completa, soddisfacente e che tenga conto degli interessi coinvolti nel procedimento e dei “fatti cui quegli interessi ineriscono e da cui emergono” [102], difficilmente si potrà verificare la necessità di adottare un provvedimento di revoca, ciò naturalmente ad eccezione del caso in cui sopraggiunga un mutamento della situazione di fatto.

Le norme contenute nell’art. 21 quinquies si discostano parzialmente dalla giurisprudenza maggioritaria e dalla dottrina che aveva contribuito a tracciare limiti ben precisi per il potere della p.a., rinvenibile nei provvedimenti costitutivi di diritti soggettivi, creati dall’atto che si intende revocare [103]. Nelle norme della novella relative alla revoca non è infatti menzionato il limite, generalmente accolto, all’esercizio di tale potere: ciò renderebbe configurabile dunque sia un’interpretazione favorevole al mantenimento di tale limite, sia un’interpretazione contraria, che si potrebbe rivelare d’altro canto in linea con il disegno generale della legge [104].

Tuttavia se è vero che riconoscere all’Amministrazione un’illimitata potestà di revoca rappresenterebbe un aggravio eccessivo e – nel quadro delle garanzie generali offerte al cittadino dall’ordinamento amministrativo – sostanzialmente inammissibile per i singoli, ed un venir meno di ogni garanzia per i loro diritti, anche dei più meritevoli di tutela, è anche vero che ritenere i diritti soggettivi come confine invalicabile per la potestà di revoca costituirebbe una troppo stretta limitazione della sfera di azione dell’Amministrazione, a favore della quale deve essere riconosciuta – se pur in circostanze e a condizioni determinate - la potestà di sacrificare i diritti dei privati.

Alla luce di queste brevi considerazioni relative agli effetti dell’istituto sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati, va condivisa quell’affermazione della dottrina secondo la quale nell’autotutela per revoca si rinviene l’unico vero momento in cui si realizza una netta subordinazione dell’interesse sostanziale del cittadino rispetto all’interesse pubblico[105].

D’altra parte, va sottolineata anche quella tendenza giurisprudenziale garantista che da tempo ha affermato la necessità che l’annullamento e la revoca debbano essere adeguatamente motivati non solo con l’indicazione delle norme e dei principi di diritto che si assumono violati, ma anche delle ragioni di pubblico interesse, riferite alla situazione attuale e concreta cui si provvede, che abbiano indotto l’organo amministrativo al ritiro del proprio atto[106].

Da una iniziale tendenza ad indicare semplicemente e tautologicamente l’inopportunità dell’atto amministrativo oggetto di revoca si è infine giunti – soprattutto in giurisprudenza - alla richiesta della “puntuale dimostrazione della sussistenza dei motivi determinanti l’eliminazione o il ritiro di un atto dalla vita giuridica” [107]. Unica eccezione a tale rigore si incontra nei casi in cui l’interesse sotteso all’attività di autotutela consista nell’evitare l’esborso di denaro pubblico senza titolo: in tali casi, secondo una costante giurisprudenza [108], non è necessaria una diffusa motivazione dell’interesse pubblico alla base del provvedimento di autotutela, essendo questo in re ipsa. Infatti, la necessità di evitare le conseguenze finanziarie negative derivanti dalla determinazione originaria consente di superare sia la valutazione delle posizioni dei destinatari dell’indebita elargizione, sia il requisito dell’attualità dell’interesse.

Tranne queste limitate ipotesi è evidente che la motivazione e il sindacato giudiziale che diviene per quella via possibile restano in realtà gli unici strumenti che consentono il necessario controllo del potere di revoca, tuttora forte e immutato, attribuito alla pubblica Amministrazione per il perseguimento degli interessi pubblici.

La motivazione serve in questo caso a contemperare il potere di revoca, attribuito all’organo pubblico al fine di realizzare la costante rispondenza all’interesse pubblico delle attività rimesse alle sue cure, con la garanzia dei terzi rispetto ad un uso arbitrario ed eccessivo di quello strumento. Dunque viene richiesta la sussistenza e la puntuale indicazione dei motivi concreti e attuali di interesse pubblico che possano giustificare la revoca, da valutare comparativamente con il sacrificio imposto al privato. La dimostrazione di tale interesse deve essere tanto più puntuale e congrua quanto più la revoca sia destinata ad incidere nella sfera giuridica dei privati che abbiano riposto il loro legittimo affidamento sulla validità e permanenza dell’atto revocato. A questo scopo la norma prevede la possibilità dell’indennizzo se dalla revoca sia derivato pregiudizio in danno dei soggetti interessati.

La norma pare infine rappresentare un decisivo passo avanti per la tutela del cittadino che si trovi a subire un provvedimento di revoca: in tal caso il legislatore ha codificato un progresso sul piano del rapporto libertà-autorità, volto al conseguimento di un (pur parziale) ristoro per il cittadino che incontri il potere.[109]

Va dedicato, infine, un cenno all’ostilità dimostrata dal diritto comunitario verso l’autotutela amministrativa, proprio perché intimamente contrastante con il principio che protegge l’affidamento del privato.

Il principio dell’affidamento riceve un difforme riconoscimento e diversa tutela nei singoli Stati membri, pertanto l’azione della Corte di giustizia [110] si è concentrata inizialmente sul tentativo di armonizzare le diverse istanze provenienti da ordinamenti differenti, giungendo infine – al termine di una evoluzione giurisprudenziale di spiccato interesse per il progresso degli studi amministrativistici – a garantire una tutela molto estesa della posizione del privato nei rapporti con l’Amministrazione nell’esercizio del potere di revoca [111]. E’ opportuno specificare a questo punto che nell’ordinamento comunitario resta in ombra la distinzione tra categorie autonome di provvedimenti eliminatori; in linea con l’approccio sostanzialistico e pragmatico proprio del diritto comunitario, si può dire, piuttosto, che nella giurisprudenza relativa alla “revoca”, intesa in senso ampio, si fa perlopiù riferimento a due categorie di provvedimenti: provvedimenti amministrativi legittimi attributivi di diritti e provvedimenti illegittimi. Per i primi si è consolidata la regola della irrevocabilità, a meno che non sussistano ragioni eccezionali, per i secondi è prevista invece la possibilità di revoca, anche ex tunc. Questa particolare circostanza ha indotto alcuni studiosi a intravedere analogie con le disposizioni dell’ordinamento francese, dove si distingue la rimozione retroattiva di atti illegittimi (retrait) dall’eliminazione ex nunc dell’atto legittimo (abrogation).

Sin dal 1957 si possono registrare pronunce in materia di autotutela – si pensi alla sentenza Algera [112] – in cui la Corte indica, quale unico limite al potere di revoca, il rispetto da parte dell’Amministrazione di un termine ragionevole, decorso il quale la situazione del privato si ritiene consolidata e la revoca inammissibile.

In seguito, almeno nelle pronunce più recenti [113], viene posto in secondo piano il criterio del termine ragionevole per affermare che la violazione del legittimo affidamento risulta primaria ed assorbente e preclude dunque la possibilità di revoca, ancorché avvenga entro un termine ragionevole.

Tuttavia un settore in cui sembra delinearsi una vera e propria zona franca rispetto al rigore mostrato dalla Corte nell’affermazione del principio stare decisis in senso critico rispetto all’autotutela amministrativa si può rinvenire in materia di aiuti di Stato, materia nella quale si sono evidenziati sovente contrasti con il principio di tutela dell’affidamento. Invero in questo settore sono previsti poteri tipizzati di revoca ed in definitiva la Corte ha riconosciuto alla Commissione la facoltà, ampiamente discrezionale, di revocare esenzioni dal divieto di pratiche restrittive da essa stessa erroneamente accordate. Si assiste conseguentemente, in questo settore, ad una ridimensionamento quasi integrale dell’attenzione per l’affidamento ingenerato nel privato: circostanza che risulta comprensibile, però, ove si ponga mente, ad esempio, alla situazione del beneficiario di una sovvenzione illegittima che possa in ogni caso trattenerla, anche se fonte di lesione del principio di parità nella concorrenza, regola di base della competizione comunitaria [114].

Da questa base critica si può ora tornare all’ordinamento interno dove si delinea un problema di non scarso momento: affiora, infatti, a fronte di questo incremento di autoritarietà, che proprio nella codificazione della revoca ha un punto di emersione, la possibilità che la motivazione, pur legittimamente composta, non sia sufficiente ad arginare il potere dell’Amministrazione, né a garantire il diritto del privato.

Il rischio cui si va incontro – inevitabilmente - è che la motivazione possa risolversi in un riscontro estrinseco ed unicamente formale, poiché alla correttezza degli enunciati può talvolta non corrispondere la legittimità intrinseca della decisione, verificandosi non di rado l’evenienza per la quale uno schermo motivazionale ben costruito possa nascondere una realtà del tutto differente [115].

Nonostante ciò sembra che d’altra parte non possano sottacersi i rischi derivanti da una progressiva perdita di rilevanza per la forma, in via di principio strumento di garanzia del legittimo esercizio del potere, tanto più che verosimilmente si potrebbe verificare, ad opera del giudice, un’ulteriore estensione della categoria dei vizi formali anche ai provvedimenti discrezionali, come già accaduto nell’esperienza tedesca [116].

Siffatte contraddizioni e problematiche giuridiche finiscono per prospettarsi come un inevitabile riflesso delle altrettanto profonde contraddizioni sociali proprie del contesto storico in cui ci troviamo; allora – partendo da queste premesse - può avviarsi una riflessione abbastanza evidente, relativa alla esigenza di garanzia del cittadino. Tale esigenza si configura soltanto come una delle tante che “si affacciano alla ribalta della vita amministrativa”: infine sembra emergere chiaro un dato che involge il mondo giuridico, ma anche socio-politico, il concetto cioè che “la partecipazione democratica all’esercizio della funzione amministrativa abbia un contenuto o un insieme di forme di estrinsecazione che vanno assai oltre il problema della garanzia” e, del resto, quest’affermazione sarebbe confermata anche dalla circostanza per la quale “la stessa storia dell’evoluzione dei problemi legati alle procedure amministrative…pare indicare come a quest’ultime, fin dall’origine si siano connesse o in esse si siano rispecchiate esigenze diverse e finanche opposte” [117].

Le possibilità di successo delle norme appena adottate dunque si misurerà in concreto sulla capacità di reggere il “confronto continuo tra le richieste sociali e i mezzi che l’amministrazione può fornire per soddisfarle”[118], profilandosi in tal modo il nuovo diritto amministrativo come un necessario rapporto di dipendenza dell’amministrazione dalla società.

 


 

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(*) Ricercatrice di diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Bari.

[1] La letteratura sul tema della motivazione è molto ampia, tuttavia si possono indicare – oltre a quelli che saranno citati più avanti - almeno alcuni contributi fondamentali: F.CAMMEO, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur.it., 1908, III, 253,  C.M.JACCARINO, Studi sulla motivazione, con particolare riguardo agli atti amministrativi, Roma, 1933, G.MIELE, L’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in Foro amm., 1942, p. 9, L.RAGGI, Motivi e motivazione dell’atto amministrativo, in Giur. it., 1941, III, 163, G.ROHERSSEN, Note sulla motivazione degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1941, p. 129,  C.MORTATI, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, in Giur. it., 1943, III, 2, R.JUSO, Tratti caratteristici della giurisprudenza sulla motivazione degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, p. 661, M.RIVALTA, La motivazione degli atti amministrativi in relazione al pubblico e al privato interesse, Milano, 1960, L.VANDELLI, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1973, p. 1595, M.S.GIANNINI, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, p. 257, G.BERGONZINI, La motivazione degli atti amministrativi, Vicenza, 1979, A.ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano, 1987, ID., Motivazione nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino, 1997, 683, R.SCARCIGLIA, La motivazione dell'atto amministrativo, Milano, l999. 

[2] Sull’evoluzione giurisprudenziale relativa all’affermazione dell’obbligo di motivare gli atti amministrativi cfr.  G.BERGONZINI, La motivazione degli atti amministrativi, cit, e di R.SCARCIGLIA, La motivazione dell'atto amministrativo, cit. Secondo gli autori appena citati si possono distinguere tre periodi storici della giurisprudenza sulla motivazione: il primo parte dalla istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (l. 31 marzo 1889, n. 5992) e giunge sino agli anni trenta, il secondo si riferisce alle decisioni degli anni quaranta, il terzo riguarda le pronunce successive.

[3] In realtà la IV sezione mostrava, almeno in un momento iniziale, “di non porre particolare attenzione al rapporto tra obbligo di motivazione ed eccesso di potere, se non in talune ipotesi, come nel caso di contrasto tra provvedimento e situazione fattuale, oppure di falsità della motivazione e bisognò attendere il primo decennio del secolo perché si affermasse in maniera più netta il collegamento con l'eccesso di potere”, come nota R.SCARCIGLIA, La motivazione dell'atto amministrativo, cit., spec. p. 171.  Tuttavia, quanto al rapporto tra motivazione ed eccesso di potere, non va sottovalutato – come ha rimarcato la dottrina – che rileva come talvolta “l’eccesso di potere può essere denotato tra una sovrabbondanza della motivazione. Quando il compilatore di un provvedimento reca a giustificazione una farragine di fatti e di considerazioni prolissa ma non concludente, è fondato il sospetto che la sua decisione sia in realtà il frutto di una scelta i cui veri motivi si è preferito tenere nascosti”. Così P. GASPARRI, Eccesso di potere (diritto amministrativo) , in Enc. dir., XIV, 1965, p. 132. Sulla “sufficienza” della motivazione mediante punteggio cfr. in senso critico della giurisprudenza amministrativa G.BARONE, Di alcuni problemi della motivazione degli atti amministrativi: la motivazione mediante punteggio numerico, in Una Facoltà nel Mediterraneo, Milano, 2000, II, 103-115, che postula l’esigenza di risultanze istruttorie (come le correzioni o i segni a matita sui temi dei concorrenti) ulteriori rispetto al punteggio numerico per evitare la violazione dell’articolo 3. Soltanto di recente è stata accolta questa posizione dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato – dopo anni in cui si era consolidato l’opposto orientamento favorevole a ritenere sufficiente il mero voto finale ai fini di una motivazione adeguata – che ha adottato una soluzione intermedia, ritenendo che al punteggio numerico debbano accompagnarsi ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo la motivazione del giudizio valutativo, quali apposizione di note a margine dell’elaborato o segni grafici che consentano di individuare gli aspetti della prova non valutata positivamente dalla Commissione d’esame, così Cons. St., VI, 30 aprile 2003, n. 2331, in www.giustizia-amministrativa.it. Sul punto cfr. inoltre A.ROMANO TASSONE, La motivazione dei “giudizi d’esame” davanti alla Corte costituzionale (Commento a Corte cost. ordinanza 3 novembre 2000, n. 466), in Giornale di dir. amm., 2001, p. 352 e ID., Il Consiglio di Stato muta indirizzo circa la motivazione delle valutazioni concorsuali (Commento a Consiglio di Stato, sez. VI, 30 aprile 2003, n. 2331), in Giornale di dir. amm., 2003, p. 848.

[4] Si ritiene tuttavia di menzionare anche quella impostazione originale - che si deve a G.MIELE, L’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, cit. - secondo la quale l'obbligo di motivazione discenderebbe dal carattere esecutorio dell'atto amministrativo: infatti la prerogativa, propria della pubblica Amministrazione, di portare coattivamente ad esecuzione i suoi atti, prescindendo dalla fase dichiarativa del diritto da essa vantato, e corrispettivamente l'obbligo di adempimento del destinatario degli atti stessi, devono avere una contropartita nella necessità di fornire la motivazione, allo scopo di rendere plausibile l’atto a coloro cui esso si indirizza, e facilitare ai predetti l'allestimento della difesa.

[5] Così M.S.GIANNINI, Motivazione dell'atto amministrativo, cit. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha in questi anni offerto una definizione, poi accolta dalla successiva giurisprudenza, relativa alla funzione della motivazione del provvedimento amministrativo: “è quella di consentire al cittadino la ricostruzione dell'iter logico-giuridico attraverso cui l'amministrazione si è determinata ad adottare un determinato provvedimento, controllando, quindi, il corretto esercizio del potere ad essa conferito dalla legge e facendo valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali e  giurisdizionali, le proprie ragioni. L'ampia discrezionalità riconosciuta ad una pubblica amministrazione in una determinata materia non sottrae i relativi provvedimenti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, volto a controllare, proprio attraverso l'esame della motivazione, l’esercizio del potere sotto il profilo della logicità, la razionalità e la congruità, per evitare che esso possa scadere nel mero arbitrio”. Cfr. Cons. Stato, IV, 29 aprile 2002, n. 2281, in www.giustizia-amministrativa.it.

[6] Ci si riferisce ad esempio al porto d’armi, patente di guida, iscrizione ad albi professionali, ecc.

[7] In una fase precedente all’introduzione dell’obbligo generale di motivare gli atti amministrativi la giurisprudenza aveva infatti cristallizzato un obbligo di motivazione per alcune categorie, ben individuate, di atti amministrativi: provvedimenti di diniego, provvedimenti di secondo grado (annullamenti, conferme, riforme e revoche), provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del privato (provvedimenti ablatori personali, provvedimenti sanzionatori), provvedimenti positivi aventi istruttoria complessa (autorizzazioni, concessioni), provvedimenti dichiarativi-valutativi. Così M.S.GIANNINI, Motivazione dell'atto amministrativo, cit. Non mancava tuttavia chi autorevolmente riteneva che l'obbligo della motivazione potesse sussistere, “anche all'infuori di tassative prescrizioni, tutte le volte che un atto discrezionale tocchi una pretesa ad un comportamento legittimo della pubblica amministrazione”. Così C.MORTATI, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, cit., loc. cit., spec. p. 13.

[8] F.CAMMEO, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, cit., loc. cit., p. 253.

[9] Cfr. A.ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, cit. e ID., Contributo sul tema dell’irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993, spec. p. 102, dove l’a. definisce l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3 un inutile intralcio all’attività amministrativa, frutto della scelta volta a reinserire un formalismo ormai fine a se stesso. L’orientamento della giurisprudenza sul tema si può invece suddividere in due fasi storiche: nella prima si è registrata una valorizzazione della funzione della motivazione del provvedimento, fino raggiungere momenti di aperto formalismo, in una seconda fase si è assistito ad una revisione della posizione precedente, con una conseguente dequotazione della motivazione. E’ noto questo ultimo termine adottato da M.S.GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, cit., loc. cit., per descrivere il fenomeno relativo ad una attenuazione della finalità garantistica della motivazione, quando il giudice si convinca comunque della sostanziale legittimità del provvedimento, ed infatti l’a. a questo proposito sostiene che “quel che conta è ciò che si è fatto, non ciò che si è dichiarato di voler fare”, spec. p. 266. 

[10] Proprio il collegamento operato dalla norma alle risultanze istruttorie sarebbe in grado di impedire deviazioni della volontà dell'autorità che viene esternata nella motivazione, posto che tale collegamento è rivolto ad “ancorare il provvedimento conclusivo all'intera vicenda che ne ha preceduto l'emanazione, alla somma degli apporti interni ed esterni che hanno consentito l'adeguata ponderazione degli interessi. Ognuno di essi dovrà trovare una sua collocazione almeno implicita nell'emanazione dell'atto quale risultanza del lavoro partecipativo ed elaborativo che l'ha preceduta”. Così V.CAPUTI JAMBRENGHI, L'accesso nel corso del procedimento amministrativo e il problema della motivazione dell'atto conclusivo, in Studi Benvenuti, 1996, Modena,  spec. p. 380-381.

[11] Cfr. sugli effetti positivi che potranno derivare dall’applicazione della disposizione in commento S.CASTELLAZZI, Responsabilità amministrativa del funzionario responsabile del procedimento alla luce delle modifiche introdotte all'articolo 6 della legge sul procedimento amministrativo, Comunicazione al Convegno “Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme)”, Varenna 15-17 settembre 2005.

[12] Così S.CASTELLAZZI, Responsabilità amministrativa del funzionario responsabile del procedimento alla luce delle modifiche introdotte all'articolo 6 della legge sul procedimento amministrativo, cit., spec. p. 5.

[13] G.MONTEDORO, Potere amministrativo, sindacato del giudice e difetto di motivazione, in www.giustamm.it.

[14] Sul punto si vedano le riflessioni di M. P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Milano 2004 il quale, in relazione alla violazione delle forme sostanziali come forma di illegittimità di difficile distinzione rispetto a quella che  l'art. 230 del Trattato CE definisce come “violazione del trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione”, rileva come “i giudizi comunitari hanno riportato alla violazione di forme sostanziali” la violazione dei principi generali del diritto comunitario, come quello dell'audi alteram partem e quello della motivazione.

[15] L’art. 253 del Trattato sull’Unione europea recita: “I regolamenti, le direttive e le decisioni adottate congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, nonché detti atti adottati dal Consiglio o dalla Commissione sono motivati e fanno riferimento alle proposte o ai pareri obbligatoriamente richiesti in esecuzione del presente trattato”. Il controllo sul rispetto dell'obbligo di motivazione, molto rigoroso in una fase iniziale, si è in seguito attenuato nella giurisprudenza più recente della Corte di giustizia, ritenendo ad esempio ammissibile una motivazione sommaria, a patto che gli elementi essenziali del ragionamento e l'obiettivo cui l’atto mira siano sufficientemente precisi. Tuttavia il principio di base rimane quello secondo il quale la motivazione deve far risultare in maniera chiara e non equivoca le ragioni sulle quali l’atto è fondato. Inoltre, sempre nel solco dell'interpretazione meno rigorosa e impostata sui canoni della ragionevolezza, si può sottolineare da ultimo la tendenza a considerare la motivazione in relazione alla natura dell'atto stesso: “una motivazione estremamente succinta non può considerarsi in violazione dell'articolo in esame, se adeguata alla natura dell’atto e risulti in modo chiaro e non equivoco l'iter logico seguito dall'istituzione da cui promana l'atto” (Corte giustizia Ce, 14 marzo 2002, C-340/98, Italia c. Consiglio, Racc. I-2663). Cfr. per un’estesa rassegna della giurisprudenza comunitaria sulla motivazione A.TIZZANO, a cura di, Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Milano, 2004, spec. p. 1194.

[16] V.CAPUTI JAMBRENGHI, L'accesso nel corso del procedimento amministrativo e il problema della motivazione dell’atto conclusivo conclusivo, cit., loc. cit., spec. p. 380-381.

[17] Che recita: “Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali.”

[18] Così si esprime G.BOTTINO, Articolo 10 bis, in L’azione amministrativa. Commento alla legge 7 agosto 1990, n. 241 modificata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Milano, 2005, p. 394.

[19] Il riconoscimento della rilevanza della nullità dell’atto amministrativo non è stato immediato, anzi: per gran parte della dottrina l’invalidità degli atti amministrativi si risolveva tout court nell’annullabilità, sulla base del regime stabilito dall’art. 26 del testo unico sulle leggi del Consiglio di Stato (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054). Va del resto considerata quella posizione volta a sostenere l’autonomia del diritto amministrativo, rivendicandone la specialità strutturale e teleologica e che dunque non ammette la trasposizione nel diritto amministrativo della categoria della nullità, tranne che quella testuale. Ciò contrasterebbe in particolar modo con il principio di certezza giuridica, di efficienza, di efficacia e di economicità, nonché con il connesso principio di presunzione di legittimità dell'atto amministrativo che ne presuppone l'esplicazione di effetti reali, e non solo virtuali come per la nullità, incompatibile con l'inefficacia ab origine dell'atto nullo.

 La nullità appare dunque in alcuni testi positivi tra cui il testo unico sul pubblico impiego n. 3 del 1957 che stabiliva la nullità delle assunzioni senza concorso, e l’art. 288 del t.u. della legge comunale e provinciale del 1934 che prevedeva la nullità per le delibere prese in adunanza illegale o su oggetti estranei alle attribuzioni dell’organo.

   Soltanto in seguito con una decisione dell’Adunanza plenaria del 1992, la giurisprudenza del Consiglio di stato ha inaugurato una nuova fase: ammette cioè  la nullità degli atti amministrativi, intesa come nullità in senso civilistico e pertanto imprescrittibile, insanabile e rilevabile d'ufficio da chiunque.

 Nella citata decisione è stata inoltre definita la funzione della categoria nullità: “La nullità, intesa come illegittimità forte, risponde all’esigenza di tutela della legalità, con uno spostamento della garanzia dal polo privatistico a quello pubblicistico, nei casi in cui il provvedimento non conforme a legge favorisce il singolo, attribuendogli utilità che non gli spettano e lede, con effetti continuativi, principalmente interessi pubblici, con la conseguenza che, stante tale situazione, la qualificazione di illegittimità, sia per la presumibile mancanza di soggetti legittimati all'impugnazione sia per l'improbabile esercizio da parte dell'amministrazione dei poteri di autotutela, non sarebbe idonea alla tutela della legalità” (Cons. Stato, Ad. plen., 29 febbraio 1992, n. 2).

   D'altro canto, anche in ambito comunitario, la terminologia usata dai trattati e dalla giurisprudenza induce ad una confusione tra nullità ed inesistenza: la stessa norma di cui all’art. 231 del trattato Ce dispone che la fondatezza del ricorso impone alla Corte di giustizia di dichiarare l’atto impugnato “nullo e non avvenuto”, sebbene debba ritenersi si tratti di atti annullabili piuttosto che nulli e che “la relativa sentenza abbia carattere costitutivo e non dichiarativo”. In questi termini M.P.CHITI, Diritto amministrativo europeo, cit. spec. p. 460, il quale sottolinea come in ambito comunitario “si parla di inesistenza per casi di nullità dell’atto, dato che gli atti così caratterizzati sono pur sempre esistenti, ma non producono effetti giuridici”. Sicché soltanto da ultimo dottrina e giurisprudenza hanno sollecitato il legislatore al riconoscimento della categoria generale della nullità sul piano del diritto positivo, considerato che sino a poco tempo fa (forse qualche lustro) la nullità trovava sì cittadinanza quale forma di invalidità dei provvedimenti amministrativi, ma restava confinata ad ipotesi del tutto marginali, rappresentando l’annullabilità il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido. Le norme di cui all’art. 21-septies sanciscono per la prima volta l’esistenza della nullità quale categoria di carattere generale, riferita a qualsiasi atto amministrativo, rispondendo in tal modo a questa esigenza legalista che trova conferma anche in altre norme della legge 15: si pensi all’articolo 21 ter, in tema di esecutorietà.

[20] Così A.ROMANO TASSONE, Prime osservazioni sulla legge di riforma della legge n. 241/1990, in www.giustamm.it, spec. p. 6.

[21] G.VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura, in www.lexitalia.it.

[22] V’è una letteratura molto vasta sulla partecipazione al procedimento amministrativo, considerato anche che il momento più alto del dibattito dottrinale si può collocare verso la metà degli anni sessanta, in un’epoca ben precedente rispetto alla legge 241 del 1990. Cfr., senza alcuna pretesa di completezza, almeno i contributi di F.BENVENUTI, Contraddittorio (dir. amm.), cit.; ID., Il nuovo cittadino, Venezia, 1994; S.CASSESE, Il privato e il procedimento amministrativo, in Arch. giur., 1970, p. 25; G.GHETTI, Il contraddittorio amministrativo, Padova, 1971; M.CHITI, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977; F.LEVI, Partecipazione e organizzazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, p. 1625; M.NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 3165, ora anche in Scritti Nigro, II, Milano, 1996, p. 1413 e ss.; A.ROMANO, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in Studi in memoria di V. Bachelet, I, Milano, 1987, p. 521; E.DALFINO, L.PACCIONE, Basi per il diritto soggettivo di partecipazione nel procedimento amministrativo, in Foro it., 1992, V, 377.; A.ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996; G.VIRGA, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, 1998; M.A.SANDULLI, Il procedimento amministrativo fra semplificazione e partecipazione. Modelli europei a confronto, Milano, 2000; R.CARANTA, L. FERRARIS, La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano, 2000; S.COGNETTI, “Quantità” e “qualità” della partecipazione. Tutela procedimentale e legittimazione processuale, cit.; F.TRIMARCHI, Considerazioni in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2000, p. 627; A.CROSETTI, F.FRACCHIA, (a cura di) Procedimento amministrativo e partecipazione. Problemi, prospettive ed esperienze, Milano, 2002; F.MANGANARO, A.ROMANO TASSONE, a cura di, La partecipazione negli enti locali, Torino, 2002; M.OCCHIENA, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002; M.A.SANDULLI, Partecipazione e autonomie locali, in Dir.amm., 2002, p. 555; M.R.SPASIANO, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, in Dir. amm., 2002, 2, 283.

[23] L’espressione è di M.R.SPASIANO, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, cit. Cfr. sul punto anche C.E.GALLO, Soggetti e posizioni soggettive nei confronti della p.a., in Dig. disc.pubbl., Torino, 1999.

[24] Il riferimento è a S.COGNETTI, “Quantità” e “qualità” della partecipazione, cit., spec. p. 13. Cfr. inoltre il contributo di E.DALFINO, L.PACCIONE, Basi per il diritto soggettivo di partecipazione nel procedimento amministrativo, cit., per una lettura della partecipazione in senso ampio, volta a ricomprendere “qualunque soggetto parte di una comunità attinta dall’oggetto del procedimento, come tale titolare delle aspettative sociali ad esso sottese, cui possa derivare un pregiudizio”.

[25] Così S.COGNETTI, “Quantità” e “qualità” della partecipazione, spec. p. 135.

[26] G.VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura, cit.

[27] A.ROMANO TASSONE, Prime osservazioni sulla legge di riforma della l. n. 241/1990, cit.

[28] S.TARULLO, L’art. 10 bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, in www.giustamm.it

[29] G.MONTEDORO, Potere amministrativo, sindacato del giudice e difetto di motivazione, cit., loc. cit.

[30] Cfr. TAR Veneto, sez. II, 20 maggio 2005, citata da LUCCA M., Il c.d. preavviso di rigetto tra buona fede e legittima aspettativa del privato, in www.lexitalia.it, n. 6/2005. Cfr. inoltre TAR Lazio, sez. II bis, 18 maggio 2005, n. 3921, in www.lexitalia.it, che annulla il provvedimento impugnato perché si ritiene che alla parte interessata sia stata preclusa  la partecipazione al procedimento amministrativo. Si tratta infatti del provvedimento di diniego (di rilascio di un permesso di costruire) che avrebbe dovuto prevedere la partecipazione dell’istante, in virtù della comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis, prima di esprimere detto diniego.   

[31] “La pregnanza della motivazione richiesta deriverà dal peso degli elementi forniti dal privato”, così G.MONTEDORO, Potere amministrativo, sindacato del giudice e difetto di motivazione, cit.

[32] M.S.GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, cit.

[33] S.TOSCHEI, Maggiori poteri al responsabile del procedimento, in Guida al diritto, n. 10, 2005, p. 61.

[34] Così V.CAPUTI JAMBRENGHI, Procedimento efficace e funzione amministrativa giustiziale, in StudiVignocchi, I, Modena, 1996, p. 319, spec. p. 321, il quale nota che la sostanziale scomparsa della funzione amministrativa giustiziale nel diritto vivente – ed in particolare dei ricorsi ad organi collegiali, c.d. gerarchici impropri o atipici, in realtà definibili secondo l’a. “di diritto singolare” - non ha incontrato resistenza alcuna, nonostante la giustizia resa nell’amministrazione e la giustizia del giudice non presentino in realtà differenze rilevanti in punto di garanzie, allorché vengano rispettati i principi della collegialità e del disinteresse personale dell’organo decidente. Dello stesso autore cfr. altresì lo studio monografico La funzione giustiziale nell’ordinamento amministrativo, Milano, 1991.

[35] G.MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, I, Bologna, 2005, spec. p. 645.

[36] G.MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, cit., p. 646.

[37] In questo senso S.TARULLO, L’art. 10 bis della legge n. 241/90: il preavviso di rigetto tra garanzia partecipativa e collaborazione istruttoria, cit. 

[38] “Il nostro ordinamento non conosce un principio generale che imponga alla p.a. un onere di clare loqui spinto fino al punto di esplicitare, in modo esaustivo e con effetto preclusivo, tutti i motivi che possono supportare una determinata conclusione”, cfr. su questo orientamento Cons. Stato, IV, 26 gennaio 1998, n. 66, Cons. Stato, IV, 22 dicembre 1998, n. 1866, Cons. Stato, V, 6 febbraio 1999, n. 134, Cons. Stato, VI, 25 febbraio 2003, n. 1054 e Cons. Stato, V, 20 ottobre 2004, n. 6814, in www.giustizia-amministrativa.it

[39] G.VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura, cit.

[40] Cfr. V.CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, in Astrid Rassegna, n. 4, 2005, nonché rinvenibile sul sito telematico www.giustamm.it

[41] F.BENVENUTI, Contraddittorio (dir. amm.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, spec. p. 738. Cfr inoltre G.GHETTI, Il contraddittorio amministrativo, Padova, 1971, F.P.PUGLIESE, Il contraddittorio nel procedimento, in Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell’amministrazione, in Atti del Convegno Messina-Taormina 25-26 febbraio 1988, Milano, 1990 e tra gli studi monografici più recenti sul principio del contraddittorio F.FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo dal processo al procedimento con pluralità di parti, Napoli, 1996.

[42] Così F.BENVENUTI, Contraddittorio, cit. spec. p. 739.

[43] Cfr. F.BENVENUTI, Contraddittorio, cit. spec. pp. 739-740.

[44] Cfr. la posizione di F.BENVENUTI, Disegno dell'amministrazione italiana. Linee positive e prospettive, Padova, 1996, pp. 226 – 227. Né va trascurata quell'impostazione per la quale gli stessi artt. 97 e 98 della Costituzione “sono indubbiamente modellati sull’attività ed organizzazione amministrativa di carattere tradizionale (autoritativa, unilaterale e burocratica)”, pur risultando evidente che “i criteri del buon andamento e dell’imparzialità risultano connaturali anche all’attività che non si estrinseca nell’esercizio tipico di poteri amministrativi”. Così G.CAIA, I servizi pubblici, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2005, II, spec. p. 137.

[45] Cfr.R.FERRARA, Il procedimento amministrativo visto dal terzo, in Dir. proc.amm., 2003, p. 1024. L’autore rileva un fenomeno peculiare “come se l’immissione di elementi di obiettiva complessità (le garanzie) nel sistema producesse il risultato di irrigidirlo e bloccarlo, quasi per una sorta di indesiderato cortocircuito dell’intelligenza e della capacità auto-regolativa che gli dovrebbe essere propria”.

[46] Cfr. sul punto lo studio, che contiene anche ampi riferimenti giurisprudenziali, di U.POTOTSCHNIG, I problemi dell’organizzazione amministrativa, in Diritto amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, Rimini, 1987, p. 823. 

[47] Così R.FERRARA, Il procedimento amministrativo visto dal terzo, cit.

[48] Così G.BERTI, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, p. 801-802.

[49] Per questa impostazione cfr. i contributi di A.ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996 e F.FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo dal processo al procedimento con pluralità di parti, cit., spec. p. 187.

[50] V.CAPUTI JAMBRENGHI, L'accesso nel corso del procedimento amministrativo e il problema della motivazione dell’atto conclusivo, cit., spec. p. 384.

[51] Così V.CAPUTI JAMBRENGHI, L'accesso nel corso del procedimento amministrativo e il problema della motivazione dell’atto conclusivo, cit., spec. p. 385, che rintraccia la soluzione del problema suscitato da una inversione o deviazione rispetto alla tendenza manifestata chiaramente dal procedimento al momento dell’accesso con l’obbligo di una motivazione infortiata che illustri adeguatamente le ragioni della “sorpresa” per il cittadino accedente.

[52] Corte di giustizia CEE, sez. I, 4 luglio 1963, in causa n. 32/62, M.Alvis c. Consiglio, in Racc., 1963, p. 99. Cfr. inoltre Corte di giustizia CEE, 23 ottobre 1974, in causa 17/74, Transocean Marine Paint Association c. Commissione, in Racc., 1974, II, p. 1063.  Per un utile approfondimento sul tema dei principi comunitari relativi al procedimento amministrativo cfr. M.P.CHITI, Mutazioni del diritto pubblico nello spazio giuridico europeo, Bologna, 2003, ID., Diritto amministrativo europeo, cit, e ID., Principio di sussidiarietà, pubblica amministrazione e diritto amministrativo, in Dir. pubbl., 1996, p. 517. L’a. non trascura di rilevare una certa diffidenza di parte della dottrina nei riguardi dell’esistenza di un diritto amministrativo europeo, sebbene alcune opere fondamentali degli anni settanta ritengano il diritto amministrativo il cuore dell’intero sistema giuridico comunitario. Cfr. inoltre G. DELLA CANANEA, L’amministrazione europea, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di S.CASSESE, II ed., Milano, 2003, II, p. 1797, e ID., I procedimenti amministrativi della Comunità europea, in Trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di M.P.CHITI, G.GRECO, Milano, 1997, I, p. 225.  

[53] Per una visione comparata del principio del contraddittorio, nonché per l’aspirazione ad introdurre un contraddittorio orale anche nel nostro ordinamento, v. M.D’ALBERTI, La “visione” e la “voce”: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, p. 1.

[54] Cfr. M.CLARICH, Garanzia del contraddittorio nel procedimento, in Dir. amm., 2004, p. 59. Sulla necessità di interpretare in maniera rigorosa il principio del contraddittorio in materia antitrust cfr. inoltre M.RAMAJOLI, Il contraddittorio nel procedimento antitrust, in Dir. proc. amm., 2003, p. 665.

[55] Cfr. F.MERUSI, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, spec. p. 28 e p. 83.

[56] Art. 14, comma 1, art. 16, comma 4, legge 287 del 1990; art. 6, commi 1-12, d.p.r. 1998, n. 217.

[57] R.GAROFOLI, Procedimento, accesso e autorità indipendenti, in Foro amm., 1998, p. 3335. Afferma l’autore che “l'art. 10, comma 5, l. n. 287 del 1990, nel demandare ad apposito regolamento governativo la disciplina delle procedure istruttorie, indica i parametri cui la stessa deve uniformarsi, tra cui non solo quello della «piena conoscenza degli atti istruttori» da parte degli interessati, ma anche il rispetto delle regole del «contraddittorio»: regole che, peraltro, costituiscono un quid pluris rispetto a quelle sancite in via generale dalla l. n. 241 del 1990 nell'assicurare la partecipazione procedimentale, atteso che, diversamente dalla normale attività amministrativa, nel cui ambito si profilano forme di partecipazione degli interessati in funzione di rappresentanza dei propri interessi potenzialmente coinvolti ovvero di collaborazione all'esercizio della potestà pubblica, in quella disciplinata dalla l. n. 287 del 1990 e dal successivo d.P.R. 10 settembre 1991 n. 461, come sostituito dal d.P.R. 30 aprile 1998 n. 217, invece, occorre assicurare non già la mera partecipazione, bensì lo svolgersi del confronto, innanzi all'organo terzo, dei soggetti in conflitto”.

[58] Così M.RAMAJOLI, Il contraddittorio nel procedimento antitrust, cit., spec. p. 669.

[59] Cfr. per un’interessante comparazione tra i due istituti M.LUCCA, Il c.d. preavviso di rigetto tra buona fede e legittima aspettativa del privato, in www.lexitalia.it, n. 6/2005.

[60] Cfr. l’ordinanza n. 460 del 2002, in www.giurcost.org.

[61] Corte cost., ord. n. 460 del 2002, cit. Cfr. inoltre sulla stessa linea l’ordinanza n. 441 del 2004 “E’ manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 409, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che — nel caso di formulazione dell’imputazione su ordine del giudice, a seguito di rigetto della richiesta di archiviazione — il pubblico ministero, prima di provvedere a tale adempimento, debba notificare all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, di cui all’art. 415-bis del medesimo codice. Premesso che, come già affermato dalla Corte, la funzione dell’avviso di conclusione delle indagini, di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., è chiaramente quella di consentire una «fase di contraddittorio» tra l’indagato ed il pubblico ministero, in ordine alla completezza delle indagini, con conseguente espressa limitazione dell’obbligo di notificazione dell’avviso ai casi in cui il pubblico ministero non debba formulare richiesta di archiviazione, allorquando l’esercizio dell’azione penale consegua all’ordine del giudice di formulare l’imputazione, previsto dall’art. 409, comma 5, cod. proc. pen. nel caso di mancato accoglimento dell’anzidetta richiesta di archiviazione, il contraddittorio sulla eventuale incompletezza delle indagini si esplica necessariamente nell’udienza in camera di consiglio che, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, il giudice è tenuto a fissare ove non accolga la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, sicché deve escludersi la prospettata violazione degli artt. 3 e 24 Cost.”

[62] Per un’interessante comparazione tra i diversi istituti cfr. F.LORENZONI, L’invito a dedurre fra garanzia processuale e partecipazione amministrativa, Comunicazione al Convegno “Responsabilità amministrativa e giurisdizione contabile (ad un decennio dalle riforme)”, Varenna 15-17 settembre 2005.

[63] Che recita: “Prima di emettere l'atto di citazione in giudizio, il procuratore regionale invita il presunto responsabile del danno a depositare, entro un termine non inferiore a trenta giorni dalla notifica della comunicazione dell'invito, le proprie deduzioni ed eventuali documenti. Nello stesso termine il presunto responsabile può chiedere di essere sentito personalmente. Il procuratore regionale emette l'atto di citazione in giudizio entro centoventi giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle deduzioni da parte del presunto responsabile del danno. Eventuali proroghe di quest'ultimo termine sono autorizzate dalla sezione giurisdizionale competente, nella camera di consiglio a tal fine convocata; la mancata autorizzazione obbliga il procuratore ad emettere l'atto di citazione ovvero a disporre l'archiviazione entro i successivi quarantacinque giorni”.

[64] Così O.SEPE, Aspetti procedurali del giudizio di responsabilità, in Per aspera ad Veritatem, n. 5, 1996. 

[65] Così R.FERRARA, Il procedimento amministrativo visto dal terzo, cit. 

[66] Cfr., per le nozioni di procedimento e processo, ed i relativi caratteri distintivi, l’impostazione di E.FAZZALARI, Procedimento e processo (teoria generale), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, spec. p. 827.

[67] Il riferimento è a E.GUICCIARDI, Il contraddittorio nel ricorso gerarchico, in Foro it., 1943, III, 181.

[68] Come puntualizza F.LEDDA, Problema amministrativo e partecipazione al procedimento, cit., spec. pp. 152 e 153. Infatti, sostiene l’a., “l’informazione del partecipante non è mai immediatamente utilizzabile ai fini della deliberazione finale”, poiché essa va controllata ed interpretata dall’Amministrazione. L’attività di controllo e di rielaborazione risulta dunque riservata all’Amministrazione pubblica per un principio di responsabilità giuridica che trova fondamento anche nell’art. 28 della Costituzione. 

[69] Rileva questa contraddizione, pur sottolineando l’aspetto positivo dell’istituto relativo alla notevole estensione della partecipazione procedimentale V.CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa. Un primo commento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241”, cit. 

[70] Proprio in relazione a questo nuovo istituto, che forse rappresenta l’unico caso in cui è consentita un’eccezione alla regola dell’efficacia, del far presto anche correndo il rischio di sbagliare - e del resto è condivisibile che si tenda a garantire poco e presto piuttosto che promettere molto e non mantenere nulla alla resa dei conti - il legislatore scrive delle norme che sembrano quasi in controtendenza con l’evoluzione dell’ordinamento. In questo senso si esprime, in tempi non sospetti, quando cioè non ancora si registravano quelle istanze di efficienza ed efficacia della p.a., presenti dagli anni ’90 in modo sempre crescente sino ai nostri giorni, V.BACHELET, Evoluzione del ruolo e delle strutture, in Scritti in onore di C.Mortati, Milano, 1977, II, 3. L’istituto di cui all’art. 10 bis, ad una lettura più attenta, appare ben inserito in un altro solco percorso dalla novella: la ricerca di una legittimazione dell’esercizio del potere. Si fa riferimento a quella ricostruzione dottrinaria che pone la partecipazione quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: si ritiene in tale prospettiva che esso sia funzionalizzato al perseguimento di quegli scopi che ne legittimano l’esercizio. Dunque a fronte di siffatte considerazioni le norme di cui all’articolo 10 bis, pur essendo del tutto nuove per il diritto amministrativo ben si innestano nell’ambito dell’impostazione legalista della novella e pertanto possono essere giustificate da questa impostazione dottrinaria appena richiamata, volta cioè al recupero del principio di legalità per il tramite del procedimento amministrativo. Cfr. l’impostazione di M.R.SPASIANO,  La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell’esercizio del potere: un’ipotesi ricostruttiva, cit. Tuttavia nello stesso senso si può ricordare l’insegnamento di G.ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1958, II, p. 76, il quale afferma che le deduzioni e le opposizioni degli interessati durante l'iter di elaborazione dell’atto costituiscono un apporto alla formazione di un atto legittimo, giusto e opportuno.  In siffatta prospettiva legalista si può annoverare anche l’orientamento di G.MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, spec. p. 639.

[71] Cfr. altresì l’impostazione di chi ritiene che dall’applicazione dell’art. 10 bis deriverà un probabile ampliamento della funzione difensiva della partecipazione (ai procedimenti ad istanza di parte), tradizionalmente intesa come connotato proprio dei soli provvedimenti che incidono negativamente sulla sfera giuridica del cittadino, così D.VAIANO, Procedimento amministrativo e partecipazione, Seminario tenuto nell’ambito del dottorato di ricerca in “Pubblica amministrazione dell’economia e delle finanze”, 6 luglio 2005, Università di Bari. Nonostante la giurisprudenza sia ormai consolidata nel cogliere una intima connessione tra i due volti della partecipazione, “le due funzioni svolte dalla partecipazione (da una parte la funzione di garanzia e di tutela in favore di chi riceve dall'amministrazione considerazione e cura per i propri beni individuali; dall'altra la funzione di collaborazione e di cooperazione da parte di chi, lungo la direttrice inversa, offre alla medesima il proprio contributo di conoscenza, di idee e di esperienza per la determinazione della fattispecie) vengono normalmente considerate in modo separato, in termini di prevalenza o, perfino, di reciproca incompatibilità ed esclusione, l’una nei riguardi dell'altra”. Così S.COGNETTI, “Quantità” e “qualità” della partecipazione, cit., spec. p. 123.

[72] Cass., ss.uu., 1° aprile 2000, n. 82, in Cons. Stato, 2000, II, 1364, citata da M.R.SPASIANO, La partecipazione, cit., loc. cit.

[73] Cfr. sul punto i contributi di L.IANNOTTA, Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica amministrazione: dagli interessati ai beni, in Dir. amm., 1999, p. 57; ID., La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall'interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, p. 299; ID., Principio di legalità e amministrazione di risultato, in Studi in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001, II, p. 741. Cfr. inoltre M.R.SPASIANO, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003.

[74] E’ di questo avviso G.SORRENTINO, Spunti di riflessione su partecipazione del privato e amministrazione di risultato, in L.IANNOTTA, Economia, diritto e politica nell'amministrazione di risultato, Torino, 2003, spec. p. 186.

[75] Possibilità contemplata, anche se solo in via ipotetica, da G.BOTTINO, Articolo 10 bis, cit. Ed inoltre non può non riconoscersi che “La partecipazione al procedimento rappresenta comunque un rilevante progresso lungo la strada dell'amministrazione democratica ed anche dell'amministrazione produttiva: basterebbe considerare il risvolto squisitamente pubblicistico di un’istruttoria finalmente approfondita e concretamente utile agli interessi stessi dell'amministrazione”, così V.CAPUTI JAMBRENGHI, Procedimento efficace e funzione amministrativa giustiziale, cit., spec. p. 327.

[76] Il riferimento è all’opera di V.CAPUTI JAMBRENGHI, La funzione giustiziale nell’ordinamento amministrativo, cit., spec. pp. 13-14 e passim.

[77] V.CAPUTI JAMBRENGHI, La funzione giustiziale nell’ordinamento amministrativo, cit., p. 14. Del resto la dottrina ha rimarcato il mutamento sostanziale di contenuti dell’azione amministrativa, che ha visto affiancarsi all’attività tipica mediante esercizio di poteri l’attività di prestazione di servizi ai cittadini. Il riferimento è al contributo di G.CAIA, I servizi pubblici, cit, loc. cit., spec. p. 136.  

[78] Occorre rifarsi anche per questa problematica agli istituti del diritto privato, in particolare alle disposizioni che riguardano la prescrizione. L’articolo 2945 (Effetti e durata dell'interruzione) infatti recita: “Per effetto dell'interruzione si inizia un nuovo periodo di prescrizione. Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell’art. 2943, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio. Se il processo si estingue, rimane fermo l’effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia dalla data dell'atto interruttivo. Nel caso di arbitrato la prescrizione non corre dal momento della notificazione dell’atto contenente la domanda di arbitrato sino al momento in cui il lodo che definisce il giudizio non è più impugnabile o passa in giudicato la sentenza resa sull’impugnazione”.

[79] Cfr. D.CHINELLO, Portata e limiti della partecipazione al procedimento amministrativo dopo la legge n. 15 /2005, in www.lexitalia.it, n. 5/2005, ove si afferma che - nonostante dubbi e perplessità su una interruzione dei termini e sulle conseguenze di una siffatta lettura - il legislatore sembra essere stato chiaro nell’esprimere la sua volontà di consentire che i termini comincino nuovamente a decorrere ab initio.

[80] Cfr. ex multis Cons. Stato, VI, n. 592 del 2003, in www.giustizia-amministrativa.it.

[81] Cfr. per uno studio di ampio respiro, completo di riferimenti giurisprudenziali F.SAITTA, L’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: profili sostanziali e processuali, in Dir. amm., 2000, p. 449.

[82] Questa è la posizione di V.CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell'azione amministrativa, cit., il quale ritiene che la comunicazione dei motivi ostativi non si applichi ai procedimenti a carattere vincolato.

[83] Cfr. M.C.ROMANO, L’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento nella più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in Foro amm., CDS, 2003, p. 1921.

[84] Tar Veneto, II, 13 settembre 2005, n. 3418, in www.giustizia-amministrativa.it.

[85] Tar Lazio, III ter, 2 agosto 2005, in www.giustizia-amministrativa.it.

[86] Tar Veneto, II, 13 settembre 2005, n. 3430, in www.giustizia-amministrativa.it.

[87] Cfr. T.TESSARO, Preavviso di rigetto e art. 21 octies secondo comma: un matrimonio possibile?, in Gazzetta Enti loc., 25 luglio 2005. L’a., che ha rilevato una disparità di trattamento ingiustificata tra i due istituti ispirati ad una medesima ratio, considera più opportuna la ricomprensione della comunicazione dei motivi ostativi nell’ambito di applicazione del 21 octies.  

[88] Sul punto v. le osservazioni di  T.TESSARO, Preavviso di rigetto e art. 21 octies secondo comma: un matrimonio possibile?, cit.

[89] Un’analisi assai rigorosa sembra concludersi con l’esclusione di qualsiasi lato positivo nella novella proposta dall’istituto della motivazione anticipata F.FRANCARIO, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo (sulle modifiche ed integrazioni recate della legge 15/2005 alla legge 241/1990), in www.giustamm.it.  Dello stesso avviso quanto al timore che si preferisca adire il giudice senza instaurare alcun contraddittorio A.CERRETO, Prime osservazioni sulla L. n.15/2005 di modifica della legge 241/1990: “Il nuovo ruolo delle pubbliche amministrazioni”, in www.giustizia-amministrativa.it.

[90] Cfr. T.DI NITTO, Il termine, il responsabile, la partecipazione, la d.i.a. e l’ambito di applicazione della legge, in Giornale dir.amm., n.5/2005, p. 498.

[91] F.BENVENUTI, Per un diritto amministrativo paritario, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, p. 807.

[92] Tar Lazio, sez. I, 16 gennaio 2002, n. 398, in Giornale di dir. amm., 2002, p. 641, con commento di V. CERULLI IRELLI. La decisione è stata confermata in seguito dal Consiglio di Stato, VI, 25 febbraio 2003, n. 1054, in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr. inoltre Cons. giust. amm. reg. sic. 20 aprile 1993, n. 149 in Dir. proc. amm., 1994, p. 507, con nota di G.VIRGA, Integrazione della motivazione in corso di giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità sostanziale del provvedimento impugnato.

[93] Cons. St., VI, 25 febbraio 2003, n. 1054, cit.

[94] Cfr. sul punto i contributi di F.G.SCOCA, I vizi formali nel sistema di invalidità dei provvedimenti amministrativi, in Vizi formali, procedimento e processo, Milano, 2004, spec. p. 74 e di A. POLICE, La c.d. invalidità formale dei provvedimenti amministrativi tra mito e realtà, in Vizi formali, procedimento e processo, cit., spec. p. 148.

[95] Il riferimento è agli autori appena citati nella nota precedente.

[96] Si vuol riportare a tal proposito la nota definizione di Benvenuti: “quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti con gli altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti od alle sue pretese”. Così F.BENVENUTI, Autotutela, (dir.amm.), Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 537.

[97] La letteratura sull’istituto della revoca - provvedimento con il quale la stessa p.a. elimina, con effetto ex tunc, i propri precedenti atti che, senza essere illegittimi, presentino profili di inadeguatezza - è molto ampia, tuttavia è utile consultare almeno: L.RAGGI, La revocabilità degli atti amministrativi, in Riv. dir. pubbl., 1917, p. 217; R.RESTA, La revoca degli atti amministrativi, Milano, 1935, R.ALESSI, La revoca degli atti amministrativi, Milano, 1942; F.PAPARELLA, Revoca, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 204, A.CORPACI, Revoca e abrogazione del provvedimento amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino 1996, p. 324; E.FERRARI, Revoca nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., XIII, Torino 1996, p. 335;  M.IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, Torino, 1999.

[98] La novella del 2005, quando codifica fattispecie giuridiche frutto di lunghe elaborazioni giurisprudenziali e dottrinarie, è mossa dall’intento evidente di rafforzare il quadro delle garanzie dei soggetti privati che intersecano e subiscono gli effetti sfavorevoli dell’esercizio del potere della pubblica amministrazione, come osserva M.T.P.CAPUTI JAMBRENGHI, Studi sull’autoritarietà nella funzione amministrativa, Milano, 2005, spec. p. 118-119.

[99] Così F.BENVENUTI, Autotutela, (dir.amm.), cit., spec. p. 542.

[100] Cfr., per una ricostruzione del percorso effettuato da dottrina e giurisprudenza, M.IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, cit., spec. p. 154.

[101] Così M.IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, cit., spec. p. 157.

[102] M. IMMORDINO, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell'affidamento, cit., spec. p. 185-186. A fronte di siffatte considerazioni non è chi non veda - volendo tentare un accostamento con quanto accade nel processo amministrativo – come anche la stabilità della sentenza dipenda in sostanza dal contraddittorio previo che deve essere consentito a tutti coloro che devono essere toccati dalla stessa sentenza. In tal modo la parte vittoriosa non vedrà il giudicato a sé favorevole suscettibile di contestazioni da parte di coloro contro cui esso viene fatto valere. Cfr. sul punto D.CORLETTO, La tutela dei terzi nel processo amministrativo, Padova, 1992 e A.LOLLI, I limiti soggettivi del giudicato amministrativo. Stabilità del giudicato e difesa del terzo nel processo amministrativo, Milano, 2002, spec. p. 70-71.

[103] Cfr. A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 720.

[104] A.ROMANO TASSONE, Prime osservazioni sulla legge di riforma della L. n. 241/90, cit.

[105] A.ROMANO TASSONE, Prime osservazioni sulla legge di riforma della L. n. 241/90, cit.

[106] B.G.MATTARELLA, La nuova legge sul procedimento amministrativo, in Giornale di dir. amm., 5, 2005, p. 469.  In realtà va sottolineato che nella legge 15 del 2005 gli istituti dell’annullamento e della revoca sono stati dissociati -secondo l’autore si tratta di una scelta condivisibile - sebbene abitualmente giurisprudenza e dottrina li accomunassero: infatti “nella sistematica del nuovo capo della legge, è abbastanza netto il confine tra efficacia del provvedimento (fino all'articolo 21-sexies) e la sua invalidità (a partire dal 21-septies). La revoca rientra nella prima, l'annullamento d'ufficio nella seconda”.

[107] F. PAPARELLA, Revoca, cit., spec. p. 214.

[108] Cons. St., VI, 28 ottobre 2002, n. 5893, in Foro amm., CDS, 2002, p. 2577; Cons. St., VI, 4 aprile 2003, n. 1748, in Foro amm., CDS, 2003, p. 1350; Cons. St., V, 8 aprile 2003, n. 1849, in Foro amm., CDS, p.1310; Cons. St., IV, 22 ottobre 2004, n. 6956, in Foro amm., CDS, p. 2854.

[109] Tuttavia, questa conquista “limitata” per il cittadino che abbia riposto il suo legittimo affidamento crea forti contrasti con i principi del diritto comunitario, come sottolinea B.G.MATTARELLA, La nuova legge sul procedimento amministrativo, cit. 

[110]  Il principio di irrevocabilità degli atti amministrativi si traduce in “un fattore di certezza del diritto e di stabilità delle situazioni giuridiche”, e tuttavia “si discute se il principio abbia una indiretta base nei trattati, ovvero nelle molte disposizioni che usano termini come “richiesto”, “giustificato”, “minor sacrificio possibile”; oppure se non derivi direttamente dagli artt. 8–11 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”. In realtà, in assenza di basi legali nel trattato, l’elaborazione e la progressiva affermazione del principio si devono prevalentemente alla costruzione della Corte di giustizia. Si esprime in tali termini M.P. CHITI, Il mediatore europeo e la buona amministrazione comunitaria, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2000, p. 303.  

[111] Per un inquadramento approfondito della revoca nell’ordinamento comunitario e per il suo contrasto con il principio del legittimo affidamento cfr. J. SCHWARZE, European Administrative Law, London, 1992. Sul punto risulta utile inoltre la lettura di R. CARANTA, La comunitarizzazione del diritto amministrativo: il caso della tutela dell’affidamento, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, p. 439 e A.DAMATO, Revoca di decisione illegittima e legittimo affidamento nel diritto comunitario, in Dir. Unione eur., 1999, p. 299.

[112] Sentenza 12 luglio 1957, Algera ed altri c. Assemblea comune, cause congiunte 7/56 e 3-7/57, in Racc., 1957, p. 81.

[113] Cfr. Corte di giustizia CE, sentenza 17 aprile 1997, De Compte c. Parlamento europeo, causa C-90/95, in Racc. 1997, p. I-1999.

[114] V. per una trattazione critica del tema P.M. HUBER, Aiuti ex art. 87 e 88 del Trattato Ce 1999 e tutela dell’affidamento nel diritto comunitario e nel diritto amministrativo nazionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, p. 321. Più in generale cfr. l’ampio contributo di A.ESPOSITO, La revoca degli atti amministrativi comunitari, in www.iussit.it, sintesi del saggio pubblicato nella collana Europapers della Università degli Studi Roma Tre, n. 11 del 2001.

[115] Anzi, la motivazione fungerebbe da vero e proprio schermo, che vede da un lato autorità amministrativa e dall’altro destinatario del provvedimento e giudice, secondo la chiarissima prospettazione di F.BASSI, Brevi note sull’eccesso di potere per difetto di motivazione, in Scritti per Mario Nigro, Milano, 1981, p. 65.

[116] Questa è una possibilità non remota per il regime dei vizi formali secondo G. CORSO, G. FARES, Il nuovo procedimento amministrativo dopo la l. 11 febbraio 2005, n. 15: i punti salienti della riforma, in Studium Juris, 2005,  p. 675.   

[117] Cfr. F.P. PUGLIESE, Il procedimento amministrativo tra autorità e “contrattazione”, in Riv. trim. dir. pubbl., 1971, p. 1469.

[118] G. BERTI, Diritto e Stato: riflessioni sul cambiamento, Padova, 1986, spec. pp. 368 e 369.


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