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Articoli e note

n. 4/2006 - © copyright

FRANCO MASTRAGOSTINO
(Ordinario di diritto amministrativo
nell'Università di Bologna)

La riforma del procedimento amministrativo e i contratti della P.A.

(Considerazioni sull’art. 1, comma 1 bis della legge n. 241/1990 e ss.mm.).*

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Non posso nascondere che allorché, un paio di mesi fa, mi fu gentilmente proposto di partecipare all’incontro di oggi non ebbi a preoccuparmi di definire nello specifico gli argomenti oggetto della mia trattazione, nel convincimento che essi avrebbero riguardato profili inerenti la nuova disciplina del procedimento amministrativo e/o l’attività contrattuale della P.A., temi su cui siamo oggi chiamati a confrontarci quotidianamente sia in ambito universitario che nell’attività professionale.

Senonchè, dopo l’invio del programma definitivo e in prossimità della scadenza, la conferma quale titolo della mia relazione “La riforma del procedimento amministrativo e i contratti della P.A.” di entrambi gli argomenti generali che ritenevo costituissero il filo conduttore dell’intera sessione, mi hanno fatto prendere consapevolezza della gravosità dell’impegno che mi era stato affidato e della necessità di estrapolare dall’apparente omnicomprensività del riferimento sia alla riforma del procedimento amministrativo, che ai contratti della P.A. e dall’apparente separatezza delle rispettive trattazioni il mimino comune denominatore, che ho ritenuto di individuare nell’art.1, comma 1 bis della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge 11 febbraio 2005, n.15, in uno con ulteriori e altrettanto incisivi principi generali sull’azione amministrativa, con una del tutto nuova disciplina generale sul provvedimento amministrativo, sulla sua efficacia e sua invalidità e, altresì, con una serie di cospicue ed assai rilevanti innovazioni riguardo al procedimento in quanto tale e alle modalità della sua conclusione, dalla disciplina del silenzio a quella degli accordi sostitutivi ed integrativi, alle conferenze di servizi, all’intera riscrittura delle disposizioni sull’accesso. In uno, cioè, con un corpus normativo che per il suo carattere pervasivo e trasversale, per lo più suscettibile, per la sua valenza anche processuale, di incidere sui poteri del Giudice amministrativo e sul relativo processo, richiederebbe, a soli fini descrittivi (e a tacere delle dense problematiche interpretative ed applicative che esso sottende), ben più del tempo che potrebbe essermi, con ogni plausibile benevolenza, concesso. Anche ad ammettere che una tale operazione, giocoforza meramente enunciativa delle complesse problematiche interpretative che la gran parte di tali disposizioni sottendono, possa ritenersi utile e necessaria.

Basti pensare alla sola disciplina sulla invalidità degli atti amministrativi, che il legislatore del 2005 ha per al prima volta codificato nell’ambito di disposizioni di carattere sostanziale, innovandola profondamente sia attraverso la individuazione di violazioni formali o procedimentali che non comportano l’annullabilità del relativo atto sia allorché ha elevato la nullità a categoria generale della invalidità degli atti amministrativi, mentre per molto tempo si era ritenuto – nonostante le sempre più pressanti ed incisive puntualizzazioni della giurisprudenza – che l’invalidità, alla luce di quanto stabilito dal T.U. sul Consiglio di Stato, si esaurisse nella sola annullabilità o, ancora, allo speciale procedimento giurisdizionale sul silenzio rifiuto/inadempimento che la legge n.15 ha svincolato dalla previa diffida, stabilendo soprattutto che il giudice amministrativo può in tali casi conoscere della fondatezza dell’istanza e, quindi, della pretesa sostanziale del ricorrente, aspetti di cui, peraltro, avranno ad occuparsi direttamente o indirettamente i relatori che fra breve mi seguiranno.

Quanto, poi, ai contratti della P.A. la seconda sessione di questa mattinata già contempla l’autorevole intervento dei colleghi Clarizia e Chiti sul Codice degli Appalti, approvato in via definitiva nella seduta del Consiglio dei ministri del 23 marzo scorso, che rappresenta, nell’attuale contesto normativo, la novità più significativa in materia dopo la Direttiva Unificata del 2004.

Il che è valso a rafforzare in me il convincimento che la prospettiva da cui ho inteso prendere avvio è quella giusta e che, in ultima analisi, essa dovrebbe corrispondere anche ai propositi e agli intendimenti degli organizzatori, sul presupposto che i rapporti fra diritto pubblico e diritto privato paiono oggi suscettibili di essere ridefiniti attraverso la codificazione, fra i principi generali dell’azione amministrativa, della formula secondo cui “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge non disponga diversamente” (art.1, comma 1 bis), che parrebbe voler elevare il diritto privato ad elemento paradigmatico dell’azione amministrativa, con la sola eccezione dell’attività che si esprime attraverso l’esercizio di poteri autoritativi.

In verità, sulla effettiva portata innovativa dell’art.1, comma 1 bis, punto di arrivo di un graduale, ma inesorabile processo di privatizzazione di vasti settori del diritto amministrativo e di parziale ricalibratura dell’azione amministrativa secondo moduli di diritto comune, o più propriamente sulla sua capacità/idoneità ad esprimere con efficacia immediata una reale inversione di tendenza rispetto all’impostazione tradizionale, secondo la quale è il diritto pubblico (e non il diritto privato) a rappresentare il diritto comune della Amministrazione, più di un Autore ha avanzato dubbi e perplessità. Ben altro effetto – si è osservato (V. Cerulli Irelli) – avrebbe prodotto sull’assetto del diritto amministrativo italiano (e non solo per il rango costituzionale della fonte) la disposizione contenuta nell’art.106 del progetto di riforma costituzionale della Commissione Bicamerale (che per le ben note vicende, non ha avuto ulteriore seguito), secondo cui “Le pubbliche amministrazioni, fatti salvi i casi previsti dalla legge per ragioni di interesse pubblico, agiscono in base alle norme del diritto privato”, sul presupposto che in mancanza di specifiche indicazioni legislative sulle ragioni di pubblico interesse (espressione di discrezionalità legislativa, come tale sindacabile dalla Corte costituzionale) e salvo le deroghe motivatamente ammesse, l’attività dell’Amministrazione sarebbe stata, in via generale ed ordinaria, assoggettata al diritto privato, in tale prospettiva elevato a pieno titolo a “diritto comune” a pubblici e privati operatori.

Resta, allora, da verificare se il comma 1 bis dell’art. 1, pur nella sua almeno apparentemente più circoscritta portata innovativa, valga ad esprimere soltanto una linea di indirizzo politico legislativo, un principio/valore tendenziale dell’ordinamento, destinato ad essere gradualmente sedimentato ed assorbito ovvero se, al contrario, rappresenti un principio generale dotato di immediata “vis dispositiva”, al di là delle ambiguità che taluno non ha mancato di manifestare, assumendo fra l’altro che esso non avrebbe alcuna forza derogatoria rispetto alla disciplina vigente (B.Cavallo) o della sua riferibilità unicamente all’attività amministrativa unilaterale non autoritativa della P.A..

C’è, infatti, chi ritiene che la disposizione in parola non abbia a riguardare l’attività di diritto privato e, in particolare, i contratti della p.a. (che, peraltro, in ragione della omnicomprensività del titolo della relazione, avevo in premesso assunto quale elemento giustificativo, nel loro raccordo con la legge di riforma del procedimento amministrativo, della opzione in favore dell’illustrazione delle sole problematiche scaturenti appunto dal comma 1 bis dell’art.1), bensì primariamente, se non esclusivamente il modulo di azione mediante atti amministrativi unilaterali, mediante cioè atti “aventi rilevanza esterna, adottati dall’amministrazione come soggetto pubblico, nell’esercizio di un potere amministrativo non autoritativo”; atti amministrativi assoggettabili, dunque, al diritto privato “e non direttamente e immediatamente di diritto privato” (L. Iannotta). Fra essi sarebbero ricompresi, ma con qualche distinguo e, a onor del vero, con un certo margine di indeterminatezza, i tradizionali atti di gestione del personale non privatizzato, quelli che l’Amministrazione si sia impegnata ad emanare a seguito di un accordo pubblicistico con il privato, stipulato in base all’art.11 della legge n.241, compreso l’accordo negoziale avente valore di piano attuativo in campo urbanistico o le sanzioni pecuniarie erogate dall’Autorità antitrust, mentre ne resterebbero fuori, perché attratti totalmente nel diritto privato gli atti nei quali la P.A. si presenta come mero obbligato ovvero assume obbligazioni e acquista diritti nell’esercizio della capacità di diritto privato (pagamento di prestazioni rese dal gestore in base al contratto di servizio) ovvero in cui formalizza comportamenti posti in essere in carenza di qualsiasi potere (L. Iannotta).

Il che, se vale a dare conto di una prospettiva di indagine tendente ad accentuare, se non ad enfatizzare, il profilo della generale fungibilità del diritto privato e del diritto pubblico come regola dell’azione amministrativa, se non addirittura ad esprimere una dichiarata indicazione di preferenza per il ricorso al primo “in applicazione di quell’idea di implementazione estrema dell’uso del diritto privato nella pubblica amministrazione che sembra essere …” un obiettivo quasi irrinunciabile (una sorta di ossessione, l’ha definita Fabio Merusi) “dell’attuale diritto positivo italiano” (F.Merusi, D.de Pretis), non pare, in verità, corrispondere neppure al dato letterale della norma, oltre che alla sua ratio, non sembrando che da essa – per la genericità delle espressioni utilizzate “atti”, “adozione”, “agisce”, ritenute al contrario, sintomatiche di un agere unilaterale – sia dato desumere un reale ostacolo alla riferibilità della norma stessa all’intera gamma delle multiformi attività non autoritative delle pubbliche amministrazioni e, quindi, alla sua applicabilità anche alla categoria dei contratti (D.de Pretis).

Se, quindi, il comma 1 bis riguarda (anche) l’attività contrattuale, come pare plausibile a meno di non voler attribuire allo stesso una portata tutto sommato circoscritta e, quindi, non utile ad una ridefinizione, a fini generali, del rapporto tra diritto pubblico e diritto privato, la correlazione fra nuova norma e contratti della p.a. può costituire il filo conduttore su cui impostare una più attenta riflessione sulla portata della norma stessa, senza che ciò significhi escludere le altre categorie di atti non autoritativi dal novero delle attività su cui essa disposizione è suscettibile di incidere. E, più in particolare, la categoria degli atti amministrativi non autoritativi che, per involgere il tema della dequotazione del potere autoritativo, ritenuto da alcuni retaggio dello Stato assoluto e di privilegi incompatibili con un ordinamento democratico, piuttosto che presidio della funzione a garanzia del soddisfacimento degli interessi pubblici (R.Villata), comporta però un ampliamento della prospettiva e la presupposta riqualificazione del contesto in cui situare la norma in questione.

Resta il fatto che dal punto di vista del suo contenuto letterale l’art.1, comma 1 bis, allorché precisa che la pubblica amministrazione, nell’adozione degli atti di natura non autoritativa (e secondo la nostra prospettiva) anche nell’adozione di atti di diritto privato, “agisce secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”, parrebbe prima facie avere una portata assai circoscritta limitandosi a ribadire, codificandolo, ciò che costituisce patrimonio comune di conoscenza in tema di utilizzabilità del diritto privato da parte della pubblica amministrativa. E, soprattutto, parrebbe insuscettibile di incidere significativamente sulle cd. aree di privilegio della p.a. nell’applicazione del diritto privato, dal momento che la norma registra e avalla (“salvo che la legge disponga diversamente”) l’esistenza di deroghe e condizionamenti pubblicistici all’attività di diritto privato, fondati sul riconoscimento della imprescindibilità di adattamenti dettati dalla particolare natura dell’attività e del soggetto che la svolge e destinati, in quanto tali, ad influire snaturandola sulla piena operatività della regola privatistica.

Senonchè, proprio la collocazione della cit. disposizione nel bel mezzo della norma che reca i principi generali dell’azione amministrativa pare voler esprimere un segnale forte e chiaro da parte del legislatore in ordine alla contestualizzazione e all’uso del diritto privato da parte della pubblica amministrazione, che non va ovviamente enfatizzato quale misura suscettibile di incidere precettivamente e dirompentemente sull’intera gamma degli atti non autoritativi dell’amministrazione, ma neppure sottostimata nella sua portata tendenzialmente innovativa, sia pure in un contesto in cui il legislatore, non ritenendo a ragione di poter prescindere da quel principio di specialità, che ha storicamente caratterizzato l’attività di diritto privato dell’amministrazione, si propone tuttavia di attenuarne e stemperarne, ma solo gradualmente, la portata.

Le aree cd. di “privilegio della p.a. nell’applicazione del diritto privato” - storicamente fondate sull’imprescindibilità del rispetto del vincolo del fine e, in ultima analisi, sull’esigenza che l’attività dell’amministrazione, anche se svolta nelle forme del diritto privato, sia comunque preordinata al soddisfacimento dell’interesse pubblico – risultano così circoscritte nella loro portata generale e tendenziale, sul presupposto che, ove le stesse “debbano essere mantenute, non sono più aree di ampiezza e confini variabili, a volte imperscrutabili nel susseguirsi degli eventi dottrinali e, soprattutto, nelle mutevoli interpretazioni dei giudici” (D.Memmo).

In tale prospettiva, la formula “salvo che la legge disponga diversamente”, lungi dal costituire una conferma impropria e indiscriminata della possibilità di introdurre deroghe ai principi e alle norme del diritto privato, esprime al contrario un forte ridimensionamento del momento pubblicistico e della sua funzione di supplenza rispetto a segmenti di attività non disciplinati da norme giuridiche, essendo per il futuro affidato al solo legislatore e alla sua discrezionalità (in quanto tale sindacabile, se contrastante con i principi generali dell’azione amministrativa e, quindi, anche di quella non autoritativa, quali verranno affermandosi, secondo la linea di tendenza evocata dal comma 1 bis, in virtù di una progressiva, quanto inesorabile erosione del momento pubblicistico), la sia pur ammissibile previsione di deroghe alle regole del diritto privato.

Tornando ai contratti della p.a., non par dubbio che l’inserimento nel modello civilistico della cd. evidenza pubblica sia valsa ad imprimere ai relativi contratti quel carattere di specialità di cui si è dato più sopra conto, che si traduce nell’integrazione della disciplina di diritto privato con norme speciali, di diritto pubblico, preordinate, però, a regolare profili dell’attività di cui il diritto privato per lo più non si occupa, che sono, cioè, libere, non regolamentate (dall’organizzazione interna del soggetto pubblico agente, alla formazione della sua volontà, alle procedure di scelta del contraente, alle approvazioni, ai controlli), ma che in un’ottica squisitamente pubblicistica consentono di assicurare e garantire il rispetto dei principi che presiedono all’azione amministrativa, primo fra tutti del principio di legalità (D.de Pretis).

Senonchè, nella prospettiva della nuova norma occorre chiedersi se tale disciplina speciale non si sia storicamente estesa e diffusa oltre i limiti della relativa disciplina legale sino a ricomprendere rapporti di carattere negoziale che, in quanto neppure strumentalmente pertinenti ad una specifica destinazione pubblicistica, ben potrebbero in ipotesi fuoriuscire dall’ambito delle procedure dell’evidenza pubblica per essere assoggettati ad attività di selezione pubblica delle offerte nel contesto di trattative negoziali. In questi termini si è, di recente, espresso Vincenzo Cerulli Irelli, riferendosi a rapporti di godimento e di uso di beni demaniali, al di fuori della loro specifica destinazione, di esercizi commerciali, di ristorazione o altrimenti serventi ad una p.a., ma collaterali rispetto alla sua funzione principale e non espressamente previsti dalla relativa normativa.

Emblematica, d’altronde, di tale evidenziata prospettiva è la vicenda che ha riguardato l’attività contrattuale delle Aziende sanitarie ed ospedaliere (e, segnatamente, i contratti di fornitura di beni e servizi, collocabili per importo al di sotto della soglia comunitaria), che l’art.3, comma 1 ter del d.lgs.n.502/1992, così come modificato dal d.lgs.n.229/1999, nella logica di un modello privatizzato, tanto fumoso quanto indefinito nei suoi contorni, ha stabilito che andassero “appaltati o contrattati direttamente secondo le norme di diritto privato indicate nell’atto aziendale”, dando adito per l’intempestività dell’intervento legislativo, a problemi interpretativi ed applicativi rimasti per lo più irrisolti circa la sua reale portata derogatoria rispetto all’evidenza pubblica (essendo apparso sin da subito chiaro che all’evidenza pubblica la norma si riferiva e non al modello contrattuale – contratto di fornitura e appalto di servizi – pacificamente da sempre riconducibile alla disciplina codicistica), a cui la nuova norma avrebbe potuto fornire finalmente colore e spessore, rendendo le aziende sanitarie interlocutori privilegiati di quel processo di dequotazione dell’evidenza pubblica auspicata da V.Cerulli Irelli e dallo stesso ricondotta ad ambiti non espressamente disciplinati dalle relative regole pubblicistiche (o, addirittura, come nel caso di specie, caratterizzate da un regime derogatorio in favore delle norme di diritto privato). Senonchè l’art.3, comma 1 ter cit. è stato abrogato dall’art.256, comma 1 del nuovo “Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi, forniture”, di cui al d.lgs. 12 aprile 2006 n.163 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.100 del 2 maggio 2006), senza che la nuova disciplina dei contratti di fornitura e degli appalti di servizi sotto soglia (contenuta nell’art.124 del Codice) rechi alcuna regolamentazione specifica per le Aziende sanitarie, per le quali al pari di quanto stabilito per le altre Amministrazioni è contemplata unicamente una procedura di evidenza pubblica semplificata, con buona pace di quanto auspicato poco sopra in relazione alla linea di tendenza desumibile dal più volte richiamato art.1, comma 1 bis.

Per altro verso, occorre dare altresì conto del fenomeno, invero abbastanza ricorrente nel caso della p.a. e, quindi, significativo di una prassi amministrativa fortemente consolidata e radicata, del tendenziale assorbimento nel momento pubblicistico dell’evidenza pubblica (che si è detto riguardare profili dell’attività, per lo più, indifferenti per il diritto privato) di elementi che si riverberano sul contratto, traducendosi nella predeterminazione unilaterale del suo contenuto da parte della Amministrazione; il che concreta un limite evidente all’autonomia contrattuale del contraente privato, su cui si innesta la complessa problematica delle condizioni generali di contratto e, più in particolare, delle clausole vessatorie e delle clausole abusive nei contratti della p.a. Fenomeno che, largamente tollerato quale inevitabile espressione dell’area di privilegio riconosciuta alla p.a., ma più di recente sempre più diffusamente ridimensionato dalla giurisprudenza alla luce dell’art.1341, secondo comma cod.civ., che sottopone le clausole ritenute vessatorie sui contratti dalla p.a. a specifica approvazione per iscritto, pena la loro inefficacia e, in prosieguo, dell’art.1469 bis ss. cod.civ., introdotto in attuazione della direttiva 93/13/CE, in tema di clausole abusive nei contratti stipulati con il consumatore, riferibile anche al contraente pubblico soprattutto nel settore dei servizi pubblici di somministrazione di energie elettrica e, in genere, dei contratti di utenza pubblica “dove è evidentemente assai ricorrente la pratica della predisposizione unilaterale di moduli contrattuali e dove ulteriori complicazioni sono indotte dalla particolare natura del soggetto erogatore dei servizi, che pur essendo prevalentemente un soggetto formalmente privato (s.p.a.), rimane tuttavia esclusivamente o parzialmente in mano pubblica” (D.Memmo), parrebbe oggi suscettibile di essere definitivamente superato dal più volte ricordato art.1, comma 1 bis.

Anche qui ricordo come emblematica del mutamento di rotta di una giurisprudenza, soprattutto di quella amministrativa, per lo più avvezza all’unilateralità della evidenza pubblica e, pertanto, ad una rigorosa, a volte addirittura formalistica, salvaguardia della vincolatività degli atti di gara e, segnatamente, delle clausole del bando e del capitolato, la vicenda che ha riguardato le disposizioni sui ritardati pagamenti, introdotte dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n.231 in attuazione della Direttiva 2000/35/CE e la deroga alla disciplina legale circa il termine di pagamento e il tasso di interesse da computare in caso di ritardato pagamento, consentita sì dalla legge su accordo tra le parti, ma a condizione che l’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento (pena la sua nullità) non sia gravemente iniquo in danno del creditore. La giurisprudenza ha, infatti, escluso che tale deroga possa avvenire attraverso un procedimento ad evidenza pubblica, sul presupposto che la predisposizione unilaterale delle relative clausole contrattuali da parte della Amministrazione e la doverosa accettazione delle medesime quale condizione per la partecipazione al prosieguo della gara e per addivenire alla stipula del contratto, lungi dal poter assumere il significato giuridico, obiettivamente esorbitante rispetto alle finalità tipiche della lex specialis della gara, di rinuncia preventiva ad una eventuale azione di nullità parziale del contratto successivamente stipulato dall’aggiudicataria, concreterebbero un abuso di posizione dominante ad onta della libertà di autodeterminazione nel partecipare alla gara, violando nel contempo il principio di autonomia contrattuale e di libera formazione della volontà negoziale (Cons.Stato, Sez.V, 11 gennaio 2006, n.43; 12 aprile 2005, n.1638; TAR Piemonte, Sez.II, 5 gennaio 2004, n.4; 14 febbraio 2004, n.250).

La deroga alla disciplina legale può, cioè, aver luogo unicamente attraverso l’accordo delle parti e di accordo fra le parti è dato parlare nei soli casi in cui la volontà contrattuale è appunto libera per entrambi i contraenti.

Un secondo e ancor meno plausibile (nell’ottica di cui sopra) fattore di specialità riguarda singoli aspetti della disciplina contrattuale ordinaria, che risultano sostituiti da una disciplina speciale e derogatoria. In questo caso, la specialità non consiste nell’andare “oltre” il diritto comune dei contratti, come avviene attraverso la procedura dell’evidenza pubblica che precede il contratto, ma addirittura nell’andare “contro” il diritto comune (R.Caranta). Esempi vistosi di deroga legale al regime civilistico si rinvengono nella disciplina sui contratti di appalto di opere pubbliche e nel potere assegnato alla amministrazione di risolvere unilateralmente il contratto, di recedere da esso, di rescinderlo per frode o grave negligenza, di sospendere l’esecuzione dei lavori e addirittura di sostituirsi all’appaltatore inadempiente (D.de Pretis). Fattore di specialità che nell’ottica del sindacato di costituzionalità sulla sussistenza delle ragioni giustificatrici della deroga rispetto all’effettiva e attuale portata dei principi generali dell’azione amministrativa, nella prospettiva della loro evoluzione dell’azione amministrativa, suscettibili di riguardare specificamente l’attività non autoritativa, potrebbe essere significativamente ridefinito e gioco forza ridimensionato alla luce di un differente rapporto fra diritto pubblico e diritto privato, che veda il diritto privato (e non il diritto pubblico) rappresentare il diritto comune dell’Amministrazione.

Il che varrebbe ad involgere non soltanto le nuove disposizioni che, nella sua discrezionalità, il legislatore avesse a proporre in deroga alla disciplina contrattuale ordinaria per specifiche ragioni di interesse pubblico, bensì (grazie all’incidente di costituzionalità) l’intera area di privilegio desumibile dall’attuale corpus normativo.

In buona sostanza, il comma 1 bis dell’art.1 è suscettibile, in prospettiva, di produrre un adeguamento in via interpretativa del dato normativo e, soprattutto, quel ridimensionamento dell’area di privilegio che taluno, a torto, ritiene di poter considerare come effetto immediato della norma stessa.

Ben differente rilevanza prescrittiva, se non precettiva pare dover assumere la norma rispetto alle deroghe frutto della elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che hanno riguardato da un lato la pretesa non applicabilità alla Amministrazione di disposizioni di diritto comune in materia di contratti, quali, ad esempio, l’art.1337 del cod. civ. sulla responsabilità precontrattuale, il già richiamato art.1341 sulle clausole vessatorie, in ragione del presunto carattere speciale del potere esercitato dall’Amministrazione nel corso delle trattative (orientamento poi successivamente superato) e soprattutto, dall’altro, la tendenza (oggi sicuramente in via di superamento) della stessa giurisprudenza – e, in specie di quella amministrativa – spesso avallando una prassi amministrativa che si fondava, anziché su norme più o meno esplicite da cui desumere la disciplina applicabile al caso concreto, su mere “ricostruzioni concettuali delle condizioni di potere dell’amministrazione” (D.de Pretis), ad apprezzare la vicenda oggetto del contendere secondo una logica prettamente pubblicistica e a valorizzare in funzione di supplenza, a fronte degli spazi lasciati vuoti dalle norme, la regola pubblicistica piuttosto che la disciplina di diritto comune, anche allorché il sindacato abbia a cadere su atti non autoritativi.

Anche rispetto a tali situazioni, l’inversione di tendenza rispetto alla impostazione tradizionale ascrivibile alla norma è chiara e definitivamente acquisita per il tramite della codificazione del relativo principio fra i principi dell’azione amministrativa. Il che varrà a corroborare e a consolidare quell’indirizzo giurisprudenziale già in atto, di cui si è tentato di dare più sopra conto.

 

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* Relazione tenuta al Congresso Giuridico per l’Aggiornamento forense del Consiglio Nazionale Forense – Roma 28-29-30 marzo 2006.


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