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Articoli e note

n. 3/2007 - © copyright

SERGIO SALVATORE MANCA*

Il lavoro a termine “pubblico” e “privato”

Origini, differenze e analogie, nonché prospettive in ambito nazionale e comunitario del “lavoro flessibile”.

horizontal rule

1. Il rapporto di lavoro alla dipendenze delle PP.AA. nell’ambito del sistema di diritto pubblico “puro” antecedente all’avvento della Costituzione della Repubblica Italiana.

Una delle riforme di struttura attuate nell’era Giolittiana [1] ebbe ad oggetto il rapporto di lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che fino agli inizi del ventesimo secolo era disciplinato su base contrattuale.

E’, infatti, al T.U. n. 693 emanato il 22.11.1908 che si deve la prima definizione (peraltro, traslata da quella datane dal Consiglio di Stato) idonea ad enucleare lo stato giuridico “pubblico” degli impiegati civili dello Stato, successivamente fatta propria ed adottata anche dalla classe dirigente politica insediatasi nel nostro paese con l’avvento - all’inizio degli anni venti - di un regime politico caratterizzato da principi di accentuata autorità e da una costante presenza dello Stato nella società.

Tale “regime”, in particolare, delineò una disciplina per cui il rapporto di pubblico impiego risultava, tra l’altro, caratterizzato da un lato, dalla posizione di soggezione verso lo Stato che veniva, di fatto, imposta al dipendente pubblico e, dall’altro, dal “potere” che a quest’ultimo veniva riconosciuto all’esterno [2].

Invero, per effetto dei Regi Decreti nn. 1054–1058 adottati nel 1924 (c.d. riforme “De Stefani”) i pubblici impiegati vennero a dipendere dallo Stato non più in forza di un contratto di lavoro, ma sulla base della regolamentazione dettata da un ordinamento – in ogni sua manifestazione – speciale, interamente separato dal diritto comune e che trovava il proprio suggello nella attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie in materia di lavoro pubblico.

La specialità di questo ordinamento consisteva, segnatamente, nel fatto di essere delineato e costituito da norme aventi la stessa matrice e impronta [3] di quelle che lo Stato utilizzava per raggiungere le proprie finalità e, pertanto, da norme di diritto amministrativo.

La finalità del medesimo sistema giuridico, invece, poteva essere individuata nella volontà dell’esecutivo di disporre di un corpo amministrativo “sicuro”, disponibile ad immedesimarsi con lo stesso ed impermeabile ad ogni segnale di conflittualità proveniente dall’esterno.

Sicché, appunto, in una simile ottica i rapporti di pubblico impiego erano gestiti prevalentemente mediante atti amministrativi.

Non solo, già la costituzione del rapporto di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche avveniva sulla base di un provvedimento autoritativo adottato unilateralmente dalle medesime [4].

Pertanto, lo studio della materia del lavoro pubblico era sicuro appannaggio dei giuspubblicisti, pur dovendosi, comunque, rilevare che le regole del rapporto di pubblico impiego erano dettate da fonti pubblicistiche abilitate a recepire gli accordi e/o atti di concertazione eventualmente raggiunti tra la pubblica amministrazione e le rappresentanze dei dipendenti.

Trattavasi, in ogni caso, soltanto di abilitazione e non di necessità delle recezione di tali accordi, atteso che questi ultimi, anche qualora raggiunti, non acquisivano validità prima della relativa approvazione da parte del Consiglio dei Ministri che, nella pratica, rivoluzionava, nel primo periodo del “regime” autoritario dell’epoca, sulla scorta dei pareri ad esso forniti dal Consiglio di Stato, gli atti di “negoziazione”, riscrivendoli come riteneva più conveniente alla parte pubblica.

1.1. Corollario di tale impostazione: l’attribuzione della giurisdizione sul rapporto di pubblico impiego in via esclusiva al giudice amministrativo.

Come accennato, naturale conseguenza della configurazione del pubblico impiegato contemporaneamente quale prestatore d’opera alle dipendenze della P.A. e elemento essenziale di uffici esercenti potestà autoritative è stata l’attribuzione della giurisdizione nelle controversie che lo riguardavano ad un giudice speciale, qual’è quello amministrativo.

Mentre il fatto che la giurisdizione del giudice amministrativo fosse quella di tipo esclusivo discendeva dalla constatazione che in materia di pubblico impiego risultava – e risulta ancora oggi - talvolta difficile distinguere le ipotesi in cui venivano in rilievo interessi legittimi (come ad esempio sicuramente accadeva al cospetto di atti organizzativi e di gestione del rapporto di impiego pubblico posti in essere nell’esercizio di potestà autoritative pubblicistiche) da quelle nelle quali venivano a configurarsi diritti soggettivi (quali, ad esempio, erano quelli di credito relativi alla corresponsione della retribuzione concernente il lavoro prestato).

2. Il pubblico impiego nella prima fase post-repubblicana : il T.U. sugli impiegati civili dello Stato emanato con il D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

L’anomalia della contrattazione (come tale bilaterale o plurilaterale) recepita in un’atto unilaterale di una delle parti (quella pubblica) contraenti continua anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana.

Così come continua la visione centralistica ed unilaterale (da parte del soggetto giuridico pubblico) della Pubblica Amministrazione precedentemente introdotta [5].

Invero, il Testo unico degli impiegati civili dello Stato emanato attraverso il D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 ha adattato la disciplina del lavoro pubblico ad esso precedente allo spirito della nuova carta costituzionale, senza, però, procedere all’introduzione di effettive e significative innovazioni.

Tale Testo Unico, difatti, principalmente e fondamentalmente, ha proceduto ad una nuova organizzazione dei pubblici dipendenti attraverso l’articolazione del loro percorso professionale in quattro diverse carriere (ausiliaria, esecutiva, di concetto e direttiva) [6].

2.1. La mancata separazione tra ceto politico e ceto burocratico dirigenziale ed il conseguente effetto dell’impossibilità di individuare precise responsabilità in relazione agli atti amministrativi compiuti ed ai risultati raggiunti.

Assai limitata risultava per i dirigenti pubblici, anche dopo l’introduzione del nuovo ordinamento delineato dal Testo Unico del 1957, la facoltà di delegare ai funzionari intermedi della scala gerarchica la potestà di emanare atti a rilevanza esterna [7].

Questo quanto meno fino all’emanazione del D.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 sulla Dirigenza Pubblica, il quale procedette ad una prima riqualificazione del ceto dirigenziale pubblico, riconoscendo ad esso ulteriori – rispetto a quelle già previste - prerogative e la possibilità-capacità di imprimere all’amministrazione pubblica uno stile ed un’efficienza di tipo manageriale sulla falsariga di quelle invalse nel mondo del lavoro privato.

Tuttavia, tale nuova possibilità di azione veniva frustrata dal rapporto gerarchico che, per i dirigenti pubblici, permaneva rispetto al ceto politico, nonostante la nuova Carta Costituzionale, attraverso il proprio art. 97, lasciasse, sostanzialmente, aperta la strada sia alla previsione di un regime strettamente pubblicistico del pubblico impiego, sia ad una regolamentazione del medesimo su base – e di natura – contrattuale, pur con il limite del necessario acceso ai ruoli della P.A. per concorso pubblico.

Ciò, probabilmente, avvenne anche a causa del contesto sociale che caratterizzò gli anni del “dopo-guerra” e del modello del Welfare State che, anche nel nostro paese, venne ad essere adottato nell’organizzazione dei pubblici poteri.

Tali fattori, invero, con ogni probabilità, portarono, da un lato, a mantenere forte l’impronta statalista della società italiana e, dall’altro, ad evitare l’estendersi al pubblico impiego dello scontro – dai caratteri forti – sociale e sindacale negli anni settanta in atto.

2.2. Descrizione, sul piano sociologico, delle conseguenze dell’utilizzo attuato negli anni del “dopo-guerra” dello strumento del pubblico impiego.

La finalità di “Welfare” attribuita all’organizzazione statale italiana nel dopo-guerra e l’esigenza di escludere – il più possibile – il lavoro pubblico dalle battaglie sociali, soprattutto, negli anni ’70 condussero ad un’accentuazione del ruolo di volano occupazionale attribuito al pubblico impiego nell’ambito di un modello di Welfare State.

Tale accentuazione finì, sovente, con il ridurre a siffatto ruolo la finalità del lavoro pubblico e a far assumere a questo caratteristiche quasi esclusivamente clientelari.

Invero, non si può tacere il fatto che spesso, in passato, l’impiego pubblico è stato utilizzato quasi esclusivamente come strumento per creare occupazione, sia pure - altrettanto frequentemente - per scopi socialmente rilevanti, quali, ad esempio, nelle aree economicamente meno sviluppate quello di creare sviluppo economico e, quindi, capacità di consumo e, inoltre, il fine di ridurre condizioni sociali di povertà e degrado sulle quali, peraltro, potevano facilmente innestarsi fenomeni di criminalità, o, comunque, di conflitto.

Queste avvenne fino ad arrivare nelle ipotesi più deteriori quasi ad un’inversione dei termini del rapporto logico tra bisogni e fabbisogni di personale, conducendo, talvolta, alla preventiva (rispetto a quella del fabbisogno) individuazione del numero dei lavoratori da impiegare e ad una legislazione improntata all’ipergarantismo verso i pubblici impiegati indipendentemente dagli effettivi meriti.

Per alcuni decenni, invero, la pubblica amministrazione è stata considerata dalla classe politica quasi esclusivamente un calmiere della disoccupazione, specie nel Mezzogiorno [8].

3. L’esigenza di applicazione dei principi di matrice privatistica dell’efficienza, dell’efficacia e della produttività alle PP.AA.

Tuttavia, il riconoscimento di una finalità di welfare all’apparato statale del nostro paese delineava e richiedeva anche l’avvento di una pubblica amministrazione-struttura erogatrice di servizi pubblici a favore della collettività – e come tale efficiente, efficace e produttiva - e non più solo braccio burocratico del potere autoritario pubblico.

4. La – parziale – privatizzazione del pubblico impiego attuata nel 1983 : la comparsa, tra i doveri del pubblico impiegato, di quello di produttività.

La legge quadro sul pubblico impiego n. 93 del 29 marzo 1983 espresse l’esigenza di recepire nell’ambito del rapporto di impiego pubblico alcuni principi di carattere privatistico, quali, in particolare quello della contrattualizzazione – collettiva - nella regolamentazione della prestazione lavorativa ed il principio della produttività del lavoro pubblico.

Ambizione di tale legge fu – appunto – innanzitutto quella di stimolare la riforma dell’organizzazione amministrativa attraverso la negoziazione collettiva (ossia “sotto un unico tetto”) delle condizioni di lavoro del personale pubblico fino ad allora regolamentate da normative settoriali, spesso, anche molto distinte fra di loro.

La previsione di una legge quadro, però, rappresentò anche la cristallizzazione (appunto, a livello legislativo) della necessità di provvedere ad un ammodernamento della P.A., volto al raggiungimento della triade di obiettivi dell’efficacia, efficienza e produttività di essa, oltre che ad una revisione delle politiche di spesa pubblica, considerata la decurtazione significativa che le risorse economiche pubbliche subirono nei primi anni ottanta a causa delle tecniche di deficit spendig fino ad allora attuate.

Di qui, appunto, la legge-quadro del 1983 contenente tali – nuovi, per l’epoca – principi fondamentali in materia di relazioni sindacali e vera e propria “pietra miliare” per l’avvio dei processi di cambiamento dell'amministrazione pubblica, nonostante – la medesima legge - avesse risentito, nei suoi contenuti ed effetti, inevitabilmente dei forti e contrapposti interessi e condizionamenti rappresentati, durante la fase della sua gestazione, dai protagonisti della vicenda che andava a disciplinare.

Purtroppo, anche a tale riguardo, la storia si è incaricata di dimostrare che il pur lodevole tentativo dal legislatore così attuato, non riuscì, di fatto, a raggiungere il proprio obiettivo (di ammodernamento della Pubblica Amministrazione), introducendo, piuttosto, elementi di consociativismo (inteso nel senso deteriore del termine) che hanno reso difficile la distinzione dei ruoli tra i soggetti pubblici e quelli sindacali coinvolti nel processo e, quindi, l’individuazione delle responsabilità per l’eventuale mancato raggiungimento degli obiettivi di efficienza, efficacia e produttività programmati.

Tale – sostanziale – fallimento venne agevolato anche dal fatto che la legge-quadro del 1983 continuava a prevedere, pur a fronte dei meccanismi di contrattazione collettiva - e, quindi, plurilaterale – da essa introdotti, la possibilità di entrata in vigore delle determinazioni da questa (contrattazione) eventualmente raggiunte soltanto a seguito del loro recepimento in un provvedimento di tipo pubblicistico cristallizzato, al momento dell’adozione, sotto forma di Decreto del Presidente della Repubblica.

In realtà, il vero risultato raggiunto dalla legge-quadro n. 93 del 1983 pare essere stato quello di fornire – anche se in termini negativi – un’esperienza su cui successivamente costruire un reale processo di privatizzazione del pubblico impiego [9].

5. La “prima” vera privatizzazione del pubblico impiego : il D.Lgs. n. 29 del 1993.

Nella realtà l’avvio di un significativo processo di privatizzazione del pubblico impiego si è concretamente verificato soltanto a seguito dell’emanazione nel 1993 del D.Lgs. n. 29 recante “Norme in materia di razionalizzazione dell’organizzazione dell’amministrazione e revisione della disciplina del pubblico impiego”.

Invero, solo attraverso l’adozione di tale testo normativo il legislatore è riuscito a riformare strutturalmente, privatizzandolo, il lavoro prestato alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, dopo i precedenti menzionati tentativi che comunque avevano contribuito a ridurne la distanza e le differenze rispetto all’impiego “privato”.

5.1. Sue origini storico-politiche.

Un reale processo di privatizzazione del lavoro pubblico si rendeva necessario anche a seguito della diffusa constatazione della farraginosità, sul piano pratico, del funzionamento del sistema di regolamentazione dei rapporti di lavoro pubblico discendente dalla legge-quadro del 1983 [10].

Ciò soprattutto a causa della lentezza nello svolgimento delle trattative e dei ritardi con i quali il Governo provvedeva a emanare i decreti di recepimento degli accordi collettivi così, già a fatica, raggiunti.

I tempi della privatizzazione subirono un’accellerazione all’inizio degli anni ’90 a seguito di alcuni eventi che interessarono, sotto un profilo più generale, le scelte della politica italiana.

Tali eventi possono individuarsi, innanzitutto, nella stipulazione del Trattato di Maastricht che, invero, ha impresso nuovi imput non solo al cammino dell’integrazione europea, ma anche all’amministrazione pubblica dei vari paesi determinandone la necessità di adeguarsi, in maniera ancora più pregnante, agli standards di livello europeo [11].

Poi vennero in rilievo alcuni eventi contingenti : quali, innanzitutto, il manifestarsi, in modo sempre più chiaro, della crisi del sistema politico-partitico che per più di quarant’anni aveva governato la società italiana e spesso - come accennato – utilizzato in modo clientelare il pubblico impiego.

Inoltre, sempre maggiormente avvertite erano le preoccupazioni legate al minaccioso espandersi del debito pubblico e alla debolezza della lira, oggetto, peraltro, di una crisi valutaria nell’estate 1992.

A ciò si aggiunsero le inchieste giudiziarie che hanno reso evidente un sistema di corruzione (la c.d. “tangentopoli”) che, seppur ramificato sopratutto negli apparati pubblici politici, si ripercuoteva anche sull’efficienza del lavoro pubblico a causa dell’eccessiva invadenza in materia della classe politica, in un’epoca in cui, come detto, non ancora netta era la separazione tra attività (politica) di indirizzo e attività (dirigenziale) di raggiungimento degli obiettivi e, più in generale, di gestione.

Invero, è in questo contesto [12] che il Governo Amato ha presentato nel 1992 al Parlamento la richiesta di quattro maxi-deleghe legislative, una delle quali avente ad oggetto la (incisiva) riforma del pubblico impiego.

Quest’ultima delega, in particolare, è stata conferita al Governo attraverso la legge 23 ottobre 1992 n. 421, al cui art. 2, comma 1, lett. a), si legge che oggetto di essa è la riforma dei rapporti di impiego dei prestatori di lavoro degli enti pubblici affinché essi “siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e … regolati mediante contratti individuali e collettivi”.

5.2. Esplicazione pratica della “prima” privatizzazione del pubblico impiego : configurazione in termini privatistici di questo fin dalla relativa incardinazione e separazione tra politica e amministrazione e, quindi, previsione di una dirigenza effettivamente responsabile.

La riforma del rapporto di pubblico impiego in questione è avvenuta attraverso l’emanazione del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, il quale ha dettato una disciplina operativa che ha segnato l’inizio di una rivoluzione anche culturale nell’organizzazione di ciascun ente pubblico [13], avendo tale decreto un’ambito applicativo, di fatto, generale, atteso che nella disciplina dettata dal relativo art. 2 rientrano – praticamente – tutte le organizzazioni pubbliche.

Siffatta rivoluzione è avvenuta attraverso l’introduzione di principi che, invero, denotano un effettivo “cambiamento di rotta”, oltre ad inquadrarsi - dandovi ulteriore attuazione – in quell'ottica privatistica ed efficientistica di gestione delle PP.AA. auspicata già dalla menzionata riforma della Dirigenza pubblica attuata nel 1972.

Si tratta, ad esempio e innanzitutto, del principio della distinzione tra competenze di indirizzo e controllo riservate agli organi di vertice della P.A. e competenze gestionali e attuative delle direttive di ordine generale attribuite, appunto, per effetto di tale D. Lgs. in via esclusiva, alla Dirigenza.

Ma è soprattutto già nell’origine del rapporto di lavoro pubblico che si rinviene traccia della “privatizzazione” attuata dal D. Lgs. n. 29 del 1993.

Infatti, a seguito dell’emanazione di siffatto provvedimento legislativo il lavoro pubblico viene privatizzato “ab initio”, come, d’altronde, vuole la logica di un rapporto che si intende informare, appunto, a canoni privatistici, sia pure temperati da alcuni caratteri di specialità.

Sicché, mentre in un regime puramente pubblicistico – quale era quello precedentemente vigente - il rapporto di pubblico impiego nasceva in base ad un provvedimento unilaterale della P.A. nel nuovo sistema regolamentato, salvo le eccezioni che si diranno, dal diritto privato il rapporto d’impiego dei lavoratori pubblici viene a costituirsi per il tramite della sottoscrizione da parte dei medesimi di un contratto individuale di lavoro, assoggettato, anche nella sua concreta vigenza, alla disciplina dettata dalle norme del codice civile e dalle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, oltre che dallo “Statuto dei Lavoratori”.

Tuttavia ciò non avviene con riferimento a quelle categorie di dipendenti pubblici, che, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del D.Lgs. n. 29/93 “rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti” : vale a dire Magistrati, Avvocati dello Stato, Docenti Universitari, Diplomatici, Militari, appartenenti alle Forze dell’ordine e dipendenti delle Autorità Amministrative Indipendenti, per questo, appunto, detti “non contrattualizzati”.

Resto, inoltre, fermo l’assoggettamento dei dipendenti pubblici privatizzati ad una disciplina di carattere non privatistico con riferimento alla fase antecedente all’instaurazione del relativo rapporto, essendo rimasta regolamentata dal diritto amministrativo l’individuazione-scelta del dipendente pubblico.

5.2.1. Il reclutamento delle risorse umane nell’ambito del pubblico impiego “privatizzato” nel 1993.

Gli artt. 36 e 38 del D.Lgs. n. 29/93, già nella loro originale formulazione, enunciarono in materia di reclutamento dei pubblici impiegati alcuni principi fondamentali cui, ancora allo stato, devono attenersi le amministrazioni pubbliche al fine di procedere ad una scelta efficace ed efficiente delle proprie risorse umane.

Tali principi sono, innanzitutto, quello dell’adeguata pubblicità della selezione a tale scopo eventualmente indetta, il principio della previsione di modalità di svolgimento di questa che ne garantiscano l’imparzialità, oltre che l’economicità e celerità, e quello dell’adozione, nell’espletamento della selezione, di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire.

Inoltre, in proposito, viene in rilievo il principio del rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori e quello della composizione delle Commissioni giudicatrici esclusivamente attraverso il ricorso ad esperti di provata competenza scelti all’esterno dell’amministrazione pubblica interessata e con esclusione dei rappresentanti sindacali o delle associazioni professionali.

Questo sempre al fine di un agire imparziale in materia di reclutamento del personale pubblico, attraverso l’eliminazione di ogni possibile contaminazione nella scelta dei Commissari.

Infine, resta ferma anche nell’ambito del lavoro pubblico riformato nel 1993, la regola dell’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della Pubblica Amministrazione tramite concorso pubblico, salvo le eccezioni previste dalla legge.

Ciò, nonostante il D.Lgs. n. 29 del 1993 abbia abrogato l’art. 20 della menzionata legge-quadro sul pubblico impiego del 1983, il quale stabiliva l’obbligatorietà del concorso pubblico, definendolo, altresì, quale finalizzato alla “valutazione obiettiva del merito del candidato, accertato mediante l’esame dei titoli e/o prove selettive oppure per mezzo di corsi selettivi di reclutamento e formazione a contenuto teorico pratico volti all’acquisizione della professionalità richiesta per la qualifica cui inerisce l’assunzione”.

Obbligatorietà, peraltro, già sancita a livello di normativa primaria e in ossequio al dettato dell’art. 97 Cost., dal T.U. per gli impiegati civili dello Stato del 1957, che, invero, precisava come, salvo le eccezioni ivi previste, l’accesso ai ruoli delle pubbliche amministrazioni senza concorso doveva ritenersi nullo e non produttivo di alcun effetto a carico delle medesime, ferma restando la responsabilità di chi l’avesse consentita.

Infatti, pur non prevedendo tale principio espressamente, la privatizzazione operata nel 1993, per concorde opinione, lo ha ribadito implicitamente attraverso la previsione al relativo art. 36 di tre distinti – e deve ritenersi indicati in ordine di priorità – modelli di reclutamento:

- procedure di selezione, conformi ai principi menzionati, volte all’accertamento della professionalità richiesta (lett. a del comma 1 di tale articolo);

- avviamento dalle liste di collocamento per qualifiche e profili di livello inferiore (lett. b);

- ricorso alla chiamata numerica dalle apposite liste di collocamento delle categorie protette (comma 2 dell’art. 36).

Minoritaria è infatti la letteratura giuridica che ritiene che le procedure selettive di cui alla lettera a) del primo comma dell’art. 36 non si riferiscano, qualora volte a consentire l’accesso in pianta stabile alla P.A., esclusivamente a quelle concorsuali idonee al raggiungimento dei principi del “buon andamento” e “dell’imparzialità” di cui all’art. 97 Cost.

Imparzialità, in particolare, nel caso specifico da interpretarsi nel senso che per soddisfarla occorra procedere all’adozione di meccanismi di selezione tecnica neutrale dei più capaci.

Ciò anche considerato il fatto che, come più volte e anche di recente rilevato dal giudice delle leggi [14], il terzo comma dell’art. 97 della Costituzione che sancisce il principio del concorso pubblico deve essere posto in relazione con il successivo (articolo 98) che pone i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione.

Dunque, il principio del concorso pubblico o - in caso di impiego “a tempo” presso le PP.AA. - delle procedure paraconcorsuali, vale, in materia di reclutamento degli impiegati pubblici, salvo le eccezioni tassativamente stabilite dalla legge.

Tali eccezioni, sul piano pratico, potevano e possono (essendo le previsioni normative al riguardo previste dal D.Lgs. n. 29/1993 confluite nell’attuale T.U. sul pubblico impiego di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001) essere individuate in quegli strumenti diversi dal concorso o dalle procedure selettive paraconcorsuali che le PP.AA. hanno facoltà a tal fine di utilizzare a seconda della qualità delle risorse umane da reperire e delle circostanze organizzative che determinano, per esse, la necessità di provvedere alla provvista di tali nuove risorse.

Si tratta delle ipotesi – implicitamente già menzionate quando si è fatto riferimento ai modelli di reclutamento del personale pubblico previsti dalla lettera b) del primo comma dell’art. 36 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e dal secondo comma di tale articolo - per cui per le proprie esigenze manifestantisi in relazione alle qualifiche e ai profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo, le pubbliche amministrazioni posso ricorrere all’avviamento al lavoro degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della normativa vigente.

Ciò, anche in considerazione dell’onerosità tipica dello strumento concorsuale, che - deve ritenersi – già al Legislatore è apparsa eccessiva a fronte di impieghi richiedenti bassa capacità professionale.

Oppure si tratta dei casi in cui, ai sensi della normativa vigente, le PP.AA. hanno facoltà di procedere alla chiamata diretta nominativa del coniuge e/o dei figli del personale delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine, del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e della Polizia Municipale deceduto nell’espletamento del servizio, nonché dei prossimi congiunti delle vittime del terrorismo e di fatti di criminalità organizzata.

6. La “seconda” privatizzazione del lavoro pubblico avviata dalla legge n. 59 del 1997 (“prima Bassanini”).

Un’ulteriore “vera” privatizzazione del lavoro pubblico è avvenuta in base ad una seconda legge delega intervenuta in materia di riforma “generale” della pubblica amministrazione, la n. 59 del 1997 (meglio nota come “prima Bassanini” dal nome dell’allora Ministro per la Funzione Pubblica fautore della sua adozione) [15].

E’, infatti, in attuazione di essa che sono stati emanati i tre decreti legislativi n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998, tutti intervenuti a modifica ed integrazione di quello n. 29 del 1993 e, allo stato, confluiti nel D. Lgs. n. 165 del 2001 recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” (c.d. T.U. sul pubblico impiego).

Sottese a tale nuova privatizzazione vi erano varie ragioni, non ultima quella di rendere ancora più veloce il processo di avvicinamento della P.A. agli ormai – anche se soltanto sotto il profilo del relativo riconoscimento in linea astratta - tradizionali canoni di efficienza ed economicità dell’agire amministrativo pubblico.

Canoni, questi, che già negli anni ’90 rendevano sempre più difficile sostenere quelle politiche di “volano occupazionale” in materia di pubblico impiego, che, ora, in un contesto di sempre maggiore competizione tra varie aree geografiche caratterizzate – economicamente – dalla c.d. globalizzazione e - giuridicamente – dall’integrazione sopranazionale, appare assai arduo perseguire [16].

L’intervenuta globalizzazione dell’economia appena menzionata, invero, ha implicato, con il suo corollario dell’avvenuto aumento della competizione tra le imprese, l’esigenza – recepita e di cui si sono fatte carico le riforme degli anni ’90 – di un mutamento della mission dell’amministrazione pubblica.

La P.A. per effetto di tale mutamento viene – più che in passato – ritenuta un fattore chiave dello sviluppo economico e sociale – e, per usare un’espressione ora tanto in voga negli ambienti giornalistici, del “sistema paese”.

Ciò ha implicato e continua ad implicare, tra l’altro, la necessità del passaggio da una pianta organica “tradizionalmente” stabile e non direttamente correlata all’effettivo conseguimento di determinati obiettivi – sia pur in linea astratta, comunque - previsti ad una dotazione organica funzionalizzata alle varie esigenze - anche temporali – della specifica pubblica amministrazione che così viene in rilievo.

Pertanto, le PP.AA. sono venute a trovarsi di fronte all’esigenza di innovare la propria organizzazione, rendendola più snella e flessibile.

In particolare, la direzione del cambiamento è stata individuata in uno studio dell’OCSE [17], nella creazione di un’amministrazione pubblica più efficace, meno costosa e capace di rispondere meglio alle esigenze di realtà sociali, economiche e - anche - giuridiche in continuo mutamento e che tendono a farsi sempre più complesse e frammentate.

Per tentare di dare “nel concreto” risposte a queste nuove cristallizzate esigenze è stato, di fatto, avviato un trend di riforme tuttora in corso, nell’ambito del quale si colloca pure la previsione e introduzione – sia a livello di contrattazione collettiva che sul piano di quella decentrata - di sistemi retributivi non collegati in modo meccanicistico al modello gerarchico, ma, piuttosto, maggiormente focalizzati sul contributo dato al raggiungimento degli obiettivi del cui conseguimento si fa carico la pubblica amministrazione.

Si pensi al riguardo, a titolo esemplificativo, ai c.d. incentivi o alle varie indennità che possono essere riconosciute, a prescindere dalla relativa fascia di inquadramento, ai lavoratori pubblici sui quali si incentra, sempre a titolo di esempio, la responsabilità di uno o più determinati procedimenti amministrativi.

6.1. L’introduzione di un sistema di controlli interni alla P.A. nell’ambito del secondo processo di ispirazione ai canoni privati dell’agire pubblico.

Manifestazione di questo trend avente ad oggetto il continuo perseguimento, nel corso dell’agire amministrativo pubblico, di una sempre maggiore efficienza ed economicità è stato anche il riordino, nonché potenziamento, attuato da parte del D.Lgs. n. 286 del 1999, del sistema dei controlli gestionali interni (alla P.A.).

Vale a dire di quei meccanismi, c.d. (anche con riferimento alla loro applicazione in ambito privato) di internal auditing, aventi ad oggetto la verifica, attuata all’interno della stessa P.A. che così viene in rilievo, dell’attuazione, da parte di chi ne ha la responsabilità, dei programmi ed indirizzi dalla medesima perseguiti al fine di impedire un utilizzo, appunto, incontrollato delle risorse pubbliche.

Utilizzo, questo, che peraltro, potrebbe anche comportare l’illegittimità dell’azione giuridico-amministrativa nell’ambito della quale esso avviene, attesa l’avvenuta cristallizzazione tra i canoni di legalità dell’agire pubblico del valore dell’economicità da parte dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 [18].

Il riordino attuato nel 1999 ha, tra l’altro, distinto i controlli di tipo collaborativo da quelli repressivi, individuando, in particolare, tra i primi quattro diversi livelli :

il controllo interno di regolarità amministrativa e contabile dell’azione amministrativa;

quello avente ad oggetto la gestione, efficienza ed efficacia della medesima;

la valutazione da compiersi sul rendimento dei dirigenti;

il controllo strategico da effettuarsi sull’amministrazione in relazione agli obiettivi finali prefissati in sede politica.

Lo stesso riordino ha inteso anche garantire l’autonomia di tali quattro diversi livelli di misurazione della performance, prevedendone l’attribuzione ad organi (si pensi, ad esempio, ai nuclei di valutazione e ai servizi ispettivi) diversi, pur assicurando nel contempo adeguate forme di collegamento e coordinamento [19].

6.2. L’avvento della flessibilità.

Soprattutto però – per quel che qui interessa – ad inserirsi nel contesto menzionato è la definitiva introduzione, in materia di impiego delle relative risorse umane da parte della P.A., dei vari meccanismi – anche normativi – tipici del lavoro privato [20].

Ciò è avvenuto, in particolare, sulla base della previsione di cui al comma 7 dell’art. 22 del D. Lgs. n. 80 del 1998, il quale ha stabilito che “le pubbliche amministrazioni … si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa. I contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti a tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, in applicazione di quanto previsto dalla legge 18 aprile 1962, n. 230 …” e delle altre che prevedono limiti in materia.

Tra questi – limiti - viene in rilievo, innanzitutto, quello previsto dallo stesso art. 22 al comma seguente (l’ottavo) che espressamente prevede che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni.

Tale normativa, invero, ha allargato le maglie della possibilità (prima prevista - anche sulla base delle previsioni dei C.C.N.L. dei singoli comparti - soltanto in presenza di circostanze eccezionali o di carichi di lavoro congiunturali impossibili da fronteggiare con il personale in servizio) di ricorso da parte delle amministrazioni pubbliche all’utilizzo di personale reclutato mediante:

- contratti a tempo determinato, stipulati al termine di selezioni aperte a tutti e sottoposte a pubblicità almeno in ambito locale;

- contratti di fornitura di lavoro temporaneo (c.d. interinale) ex legge 196 del 1997;

- contratti di formazione e lavoro.

E tale tendenza all’allargamento – nell’utilizzo degli strumenti flessibili – è proseguita con la legge n. 448 del 1998 - collegata alla Finanziaria per l’anno 1999 - che ha imposto alle PP.AA. il ricorso ai contratti part-time o di formazione e lavoro in una misura non inferiore al 25% delle nuove risorse umane ad esse necessarie nel corso del biennio 1998-1999.

6.2.1. Le esigenze di imparzialità delle procedure selettive indette per soddisfare esigenze temporanee o, comunque, flessibili delle pubbliche amministrazioni.

Tuttavia un elemento di specialità – e, si potrebbe dire, di “stabilità” con riferimento a quanto previsto dalla precedente normativa – permane anche nell’ambito della “seconda privatizzazione” del pubblico impiego.

Si tratta dell’obbligo per le PP.AA. di rispettare nella scelta del lavoratore (futuro contraente del “patto di lavoro”) le modalità fissate per il reclutamento del proprio personale dal menzionato art. 36 del D. Lgs. n. 29/1993 già nella sua formulazione antecedente a quella derivata dalla relativa sostituzione operata dall’art. 22 del D. Lgs. n. 80/1998 menzionato.

Vale a dire quelle – modalità – volte, come detto, a garantire l’imparzialità e la capacità di selezione dei migliori tra i candidati al pubblico impiego in possesso dei requisiti richiesti in relazione alla posizione da ricoprire.

6.3. La farraginosità del meccanismo di selezione del concorso pubblico.

Il ricorso, talvolta effettuato da parte delle PP.AA., per soddisfare proprie esigenze temporanee di personale ad una procedura selettiva in toto uguale a quella dei pubblici concorsi ha determinato (a causa delle lungaggini ad essa connesse) il rischio – più volte evidenziato anche dalla più attenta dottrina [21] e in alcuni ipotesi concretizzatosi - di un risultato quasi paradossale.

Infatti, la rigidità, la lentezza e le complicazioni formali tipiche del concorso pubblico e delle regole che lo governano, in taluni casi, hanno finito con il determinare tempi di svolgimento delle procedure di selezione del personale a termine del tutto prossimi a quelli del “vero e proprio” concorso pubblico e, pertanto, hanno determinato la frustrazione delle finalità temporali contingenti per le quali tali selezioni erano state indette.

Il che, tuttavia, occorre osservare non sempre è accaduto.

Infatti, talvolta – ed in maniera (si potrebbe dire) lungimirante – le amministrazioni pubbliche ricorrono a procedure selettive preventive, in modo da dotarsi di liste di personale alle quali, all’occorrenza, attingere per le proprie esigenze di personale a tempo determinato.

E’ quanto succede, ad esempio, presso gli enti del comparto regioni–autonomie locali per effetto della prassi – ivi consolidatasi – che prevede l’effettuazione delle selezioni degli aspiranti a profili professionali medio-bassi [22], appunto, con congruo anticipo, in modo da definire in via preventiva una graduatoria di candidati idonei all’espletamento delle diverse mansioni attinenti ai medesimi profili che così vengono in rilievo.

Lo stesso pericolo – di frustrazione delle esigenze “contingenti” alle procedure di selezione di personale a termine sottese – è scongiurato qualora le PP.AA. ricorrono all’indizione di bandi di concorso che prevedono prove selettive più veloci rispetto a quelle tradizionali.

Tali prove, però, oltre ad essere maggiormente celeri, spesso risultano anche “più blande” sotto il relativo aspetto – più propriamente – selettivo.

Il che se appare coerente con la temporaneità delle esigenze di personale cui esse tendono a fare fronte, non lo appare più quando in virtù delle stesse – e sotto il paravento dell’espletamento, comunque, di una procedura selettiva – si provvede al reclutamento di personale destinato – sia pure in seconda battuta – a far parte a tempo indeterminato degli organici della P.A..

6.4. La non necessaria equivalenza tra procedure selettive indette al fine di procedere ad assunzioni a tempo determinato e concorso pubblico.

Pur riconoscendo l’opportunità e legittimità, in caso di assunzioni termine, di siffatte procedure di selezione più celeri e più blande, nell’ambito della letteratura giuridica si è giunti all’affermazione della non necessaria equivalenza di queste con il pubblico concorso, invece, richiesto dall’art. 97, comma 3, della Carta Costituzionale ai fini dell’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della Pubblica Amministrazione.

A tale affermazione-condivisione (di opinioni scientifico-giuridiche) [23] si è giunti nella consapevolezza della necessarietà di essa al fine di evitare forme di distorsione nella selezione dei pubblici dipendenti destinati a sopperire in via “fissa” alle esigenze delle PP.AA. e, quindi, della collettività utente, in ultima analisi, dello Stato-apparato.

Peraltro, alla medesima conclusione – circa la non necessaria equivalenza tra le altre procedure selettive a termine e il concorso pubblico ex art. 97/3 Cost. – era già, sia pure implicitamente, giunta anche la giurisprudenza amministrativa [24].

6.5. Permane il principio del concorso pubblico per l’accesso a tempo indeterminato alla pubblica amministrazione.

Dunque occorre osservare che i commi 1 e 2 dell’art. 36 del D. Lgs. 29/1993 (ora confluiti nell’art. 35 T.U. pubblico impiego), pur nel loro testo innovato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, seppure hanno consentito alle PP.AA. di indire, per le proprie esigenze temporanee, procedure volte a garantirne l’imparzialità e selettività a prescindere dalla forma del pubblico concorso, hanno continuato, così come interpretati da dottrina e giurisprudenza, a richiedere l’esperimento e il superamento di questo ai fini dell’accesso all’impiego pubblico a tempo indeterminato.

7. Verso la “terza” privatizzazione?

7.1. La legge delega (c.d. Biagi) n. 30 del 2003 e il D.Lgs. n. 276 del 2003 insistono sulla “flessibilità” nel rapporto di lavoro privato : applicabilità di alcuni istituti da tali normative previsti anche al lavoro pubblico.

La c.d. legge Biagi n. 30 del 2003 ha dato luogo, per il tramite del Decreto Legislativo del 10 settembre 2003 n. 276 che di essa costituisce attuazione, ad un’ulteriore riforma del mercato del lavoro.

Tale D.Lgs all’art. 1, comma 2, stabilisce che esso “non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”, salvo, comunque, poi, precisare all’art. 86, comma 8, che “il Ministro per la funzione pubblica convoca le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del presente decreto legislativo”.

Siffatta armonizzazione, allo stato, non si è tradotta in alcun significativo provvedimento legislativo.

Tuttavia, occorre osservare, che, nonostante l’affermazione di principio riportata, il D.Lgs. in questione contiene alcune disposizioni per effetto delle quali talune tipologie di lavoro dal medesimo provvedimento normativo disciplinate possono ritenersi applicabili anche al lavoro pubblico.

Segnatamente in base al D.Lgs. n. 276 del 2003 continua ad applicarsi anche al settore pubblico la disciplina del lavoro interinale prevista dagli artt. 1-11 della legge n. 196 del 1997, sia pure con alcune importanti novità.

Inoltre, il D.Lgs. del 2003 introduce – all’art. 86, comma 9 - la possibilità per le pubbliche amministrazioni di applicare le norme sulla somministrazione di lavoro a tempo determinato e non anche quelle per la somministrazione a tempo indeterminato.

Questo in base al risalente divieto di intermediazione della forza lavoro, cardine del nostro sistema, e con l’ulteriore precisazione che in caso di somministrazione illecita il lavoratore non potrà mai richiedere, quale sanzione, la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.

7.2. La Pubblica Amministrazione e i nuovi lavori.

Anche le – nuove – forme di lavoro, pur con i limiti cui si è accennato, dunque, trovano applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato.

Ciò a dimostrazione del fatto che pure nel sistema pubblico viene sempre più avvertita, come cogente, l’esigenza di efficienza e produttività.

Valori economici, questi ultimi, ai fini del cui perseguimento la legge c.d. Biagi ha previsto le forme innovative di lavoro in questione sia pure con riferimento, appunto, prevalentemente all’ambito privato.

7.3. Prime valutazioni sociali e giuridiche negative della legge c.d. Biagi.

Il fatto – innegabile – che l’avvento della flessibilità e delle nuove forme di lavoro, sotto il profilo del relativo drafting normativo, riconducibili all’imprinting di Marco Biagi ha significato, nel contempo, anche un aumento della precarietà ha condotto ad alcune valutazioni negative in materia.

Si è così affermato, ad esempio, che la legge c.d. Biagi ha spostato l’attenzione “dall’essere lavoratore” (uomo avente una personalità da tutelare anche nei suoi aspetti non patrimoniali) “all’avere il lavoro” (inteso come fonte di guadagno).

Ancora è stato sostenuto che l’impianto delineato dalla legge c.d. Biagi ha “disegnato una società caratterizzata dall’indiscussa ed indiscutibile supremazia delle ragioni dell’impresa, al fine di rendere la medesima libera di competere nella globalizzazione senza vincoli di costo e di diritti” [25].

Diffusi e noti risultano, poi, i commenti alla medesima secondo cui la legge in questione avrebbe solo sancito in via definitiva la precarizzazione del lavoro, già avviata e introdotta dalle riforme in materia di lavoro degli anni ’90, prima tra tutte quella avviata dal c.d. pacchetto Treu [26], dal nome dell’allora ministro del lavoro.

7.4. Gli estremismi, da un lato, del nuovo concetto di “sicurezza del posto di lavoro” enucleato da alcuni autori e, dall’altro, delle tesi che definiscono la flessibilità “ipocrita” e fonte della maledizione dell’incertezza”.

Secondo alcuni studi [27] il concetto di sicurezza starebbe andando assumendo una dimensione diversa.

L’idea non sarebbe più quella di garantire il posto di lavoro per tutta la vita, ma di permettere alle persone di rimanere e progredire sul mercato del lavoro.

Si tratta, però, di un’idea che, almeno nell’attuale momento storico, appare estrema e da non condividere se non si vuole considerare irrisolvibile l’attuale problema del precariato del mondo del lavoro.

In realtà, come ben osservato in dottrina [28], si tratta di evitare “la flessibilità (n.d.r.: se) ipocrita e la maledizione dell’incertezza”.

8. La globalizzazione e il conseguente aumento della competizione comportano l’avvio di tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica in tutti i paesi occidentali.

In una società, qual’è quella attuale, definita “della conoscenza [29]”, in quanto nell’ambito della medesima ciò che le organizzazioni e gli individui, appunto, conoscono diviene sempre più importante rispetto alle tradizionali fonti di potere economico, anche le istituzioni risultano coinvolte dalle innovazioni ed esigenze che i nuovi connotati del tessuto sociale pongono in rilievo.

Inoltre, la modernizzazione che le nuove conoscenze tecnologiche comportano e l’aumento di competizione che tra i soggetti privati si verifica in virtù della “globalizzazione” [30] intervenuta sul piano economico richiedono il possesso da parte delle amministrazioni pubbliche di una capacità di risposta sempre più rapida ed efficace.

Difatti, si assiste allo specializzarsi delle funzioni e dei servizi richiesti alle medesime da parte dei relativi utenti, i quali, invero, avendo sempre maggiormente accesso alle informazioni, richiedono servizi su misura e di qualità elevata.

Per affrontare queste sfide, in tutti i Paesi occidentali [31] si sono sviluppati tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica, finalizzati, da un lato, a recuperare – attraverso una lotta agli sprechi - risorse economiche da destinare al risanamento dei bilanci pubblici e, dall’altro, a modificare le politiche pubbliche in modo da migliorare l’efficacia dell’azione dello Stato-apparato e rendere effettivamente strategico il ruolo delle istituzioni.

In particolare, la strada maggiormente percorsa è stata quella dell’introduzione di nuove logiche di gestione delle risorse sia umane che economiche, basate sull’implementazione di alcuni principi propri del management privato (c.d. politiche di new public management [32]).

Altre linee di intervento – comunque a tali logiche strettamente collegate - sono state quelle aventi ad oggetto la razionalizzazione degli organici, le menzionate politiche retributive variabili e forme flessibili introdotte nell’ambito del lavoro pubblico e lo sviluppo di relazioni sindacali decentrate.

9. L’importanza della formazione del personale delle Pubbliche Amministrazioni.

Nell’ambito del contesto descritto è emersa, in tutta la sua evidenza, l’importanza della formazione delle risorse umane.

Presumibilmente nella consapevolezza di ciò le politiche di gestione e formazione del personale hanno rappresentato, pressoché in tutti i paesi europei, una delle principali leve su cui i programmi di innovazione delle PP.AA. sono venuti ad essere fondati.

Tali politiche, in particolare, si sono estrinsecate in varie tendenze tutte, appunto, dirette all’aggiornamento delle competenze delle risorse umane, seppur sotto denominazioni e formule differenti, essendosi parlato al riguardo, ad esempio, di “apprendimento organizzativo”, “sviluppo delle competenze”, “economia o mercato della conoscenza” o altro ancora [33].

Inevitabile, invero, è risultato individuare nelle risorse umane l’elemento centrale su cui impostare le politiche di innovazione della macchina amministrativa pubblica.

Anche il “messaggio” del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, più in generale, ossia con riferimento anche all’ambito del lavoro privato, ha indicato la strada maestra da seguire ai fini dello sviluppo e, pertanto, dell’innovazione in quella dell’aumento e moltiplicazione degli investimenti nella ricerca e nella conoscenza (e, quindi, formazione anche dei lavoratori).

9.1. La necessità di non disperdere – anche ai fini della formazione del personale più giovane - le conoscenze ed esperienze acquisite dai lavoratori anziani, e, pertanto, dal personale “stabilizzato”.

Una delle misure adottate per razionalizzare – più sotto il profilo del contenimento dei costi che in relazione a quello dell’efficienza – la macchina amministrativa pubblica è stata quella avente ad oggetto la riduzione degli organici.

Nell’utilizzo di questa misura occorre prestare attenzione a non correre il rischio di impoverire le organizzazioni pubbliche sotto il profilo delle professionalità acquisite.

Infatti, questo rischio non pare possa essere annullato dalle recenti innovazioni legislative e contrattuali che hanno ampliato le possibilità di ricorso da parte delle PP.AA. a consulenti esterni con professionalità nuove e diverse.

Questo a causa delle peculiarità – compresi i formalismi – delle modalità di estrinsecazione del lavoro pubblico.

Per le amministrazioni pubbliche, pertanto, si pone il problema di mantenere le risorse umane competenti, valorizzandone il ruolo anche ai fini della formazione del personale più giovane e sviluppandone le capacità individuali di innovazione.

10. La sempre maggiore rilevanza attribuita alla “Scienza dell’amministrazione”.

In materia di innovazione e modernizzazione della pubblica amministrazione ovvio appare, pertanto, che sia maturata sempre di più la convinzione dell’importanza della scienza dell’amministrazione, intesa come quella che tende all’organizzazione di qualsiasi, pubblica o privata, struttura operativa non elementare in modo da consentire alla medesima una razionale allocazione e combinazione di tutte le risorse umane, economiche e strumentali di cui dispone [34].

Combinazione, questa, finalizzata, a sua volta, a consentire all’organizzazione che così viene in rilievo di essere in grado di definire in tempi - quanto meno tendenzialmente - celeri politiche efficaci in merito alle esigenze che ad essa si rappresentano, nonché a permetterle di portarle ad esecuzione attraverso servizi che nel caso delle amministrazioni pubbliche saranno diretti a soddisfare bisogni sociali sempre più evoluti e mutevoli.

Sostanzialmente difatti il campo di indagine della scienza dell’amministrazione ha ad oggetto la ricerca dei criteri, delle regole generali e degli indirizzi volti ad orientare le scelte decisionali delle organizzazioni amministrative nel senso dell’efficienza, atteso che, come ha precisato Cerulli Irelli, le amministrazioni – siano esse pubbliche o private - costituiscono “una macchina che serve per decidere ed operare”.

11. L’affermarsi degli studi sulla motivazione del lavoratore.

In particolare, uno dei temi della scienza dell’amministrazione su cui si sono concentrate le attenzioni dei processi di cambiamento che hanno interessato, nei vari stati dell’Unione Europea, le pubbliche amministrazioni è stato quello avente ad oggetto la motivazione del lavoratore [35].

Tale tema, nonostante abbia da sempre costituito uno principali campi di indagine degli studi occupatisi del migliore funzionamento delle organizzazioni amministrative [36], sostanzialmente, fino agli ultimi due lustri, non era mai stato trattato in maniera approfondita con riferimento al lavoro prestato alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche [37].

Invero, i vari studi condotti al riguardo mai, nella pratica, prima degli ultimi decenni sono stati applicati al lavoro pubblico, nonostante proprio il relativo ambito risultasse – anche a livello di percezione sociale - come quello maggiormente bisognevole di essere “trattato” in un’ottica incentivante, anche sotto il profilo motivazionale, il personale ad esso addetto.

Non si può negare, infatti, che il pubblico impiego è risultato per lungo tempo assai meno incentivante e, quindi, motivante rispetto all’impiego privato.

Dalla nuova consapevolezza dell’importanza del lavoro pubblico è derivata l’attenzione prestata dagli studi sulle tecniche motivazionali anche a coloro che esplicano la loro attività presso le amministrazioni pubbliche.

Gia si è accennato all’introduzione nel pubblico impiego di politiche di retribuzione variabile in base ai risultati raggiunti.

A queste devono aggiungersi tutte le misure adottate al fine di consentire il c.d. benessere organizzativo, le quali nel nostro paese si sono concretizzate nella “Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica” sulle misure, appunto, finalizzate al raggiungimento di questo scopo del 24 marzo 2004.

Oramai condiviso è sia il rilievo che il processo di cambiamento avviato all’interno delle PP.AA. deve dispiegarsi necessariamente su linee di intervento che abbiano ad oggetto anche il comportamento degli stessi attori dell’agire amministrativo pubblico, sia quello concernente l’urgenza di tali interventi.

12. La diversità delle politiche concernenti la pubblica amministrazione ed il relativo personale adottate nei paesi occidentali.

Non tutti gli approcci all’innovazione nella pubblica amministrazione hanno le stesse caratteristiche, attese le differenze esistenti tra le tradizioni culturali e i sistemi giuridici e organizzativi dei vari stati che ad essa sono interessati.

Diverse sono state nei vari paesi occidentali le ricadute sulle politiche di gestione del personale avute dalle varie strategie di riforma del settore pubblico adottate nei differenti Stati europei, nonostante il comune obiettivo della innovazione e modernizzazione della macchina amministrativa pubblica perseguito da queste.

Ad esempio, spetta alla Spagna il record di lavoro precario nel pubblico impiego: difatti dei quasi 2,4 milioni di dipendenti impiegati presso le PP.AA. di questo paese oltre il 50% risulta non stabilizzato [38].

Questo dato pare consentire già una riflessione : quella avente ad oggetto l’inesistenza dell’equazione precariato-blocco dello sviluppo sociale e della crescita economica di un paese, atteso che la Spagna, a fronte di una percentuale pur così alta di lavoratori precari pubblici, rappresenta, allo stato, uno dei paesi europei in più forte crescita.

Inoltre, in materia di lavoro flessibile diffuso è in tutte le PP.AA. europee il ricorso al contratto a termine, ma con percentuali diverse da paese a paese.

Invero, in Italia l’incidenza media dei contratti a tempo determinato nel pubblico già nel 2000 era del 15,3%, ossia di circa tre punti superiore alla media europea attestatesi nello stesso anno intorno al 12,2% [39].

13. Le cause e le caratteristiche del “necessario” cambiamento in atto nelle pubblica amministrazione italiana comuni ai processi di innovazione del pubblico adottate negli altri paesi europei.

I processi di cambiamento avvenuti e ancora in atto sul piano economico e sociale hanno modificato in modo evidente lo scenario in cui opera la pubblica amministrazione [40].

In particolare, due aspetti di contesto hanno caratterizzato gli ultimi anni, condizionando le politiche pubbliche e caratterizzandone, anche nel nostro paese, il cambiamento.

Tali aspetti hanno ad oggetto la crisi dei modelli di welfare state e lo sviluppo dei processi di globalizzazione.

Questi ultimi, segnatamente, interessando soprattutto anche i mercati, ne hanno determinato un’interdipendenza economica che ha finito con il ripercuotersi sugli stessi stati giuridicamente – ma non più, pertanto, anche economicamente – sovrani.

Di qui l’ulteriore ripercussione sull’azione amministrativa dei singoli stati resi interdipendenti (sotto il profilo economico) dalla globalizzazione.

E’ questo un fenomeno che appare irreversibile anche perché ad esso ha dato e – deve ritenersi - continuerà a dare un forte contributo la liberalizzazione degli scambi e il conseguente progressivo smantellamento del precedente complesso sistema di barriere doganali insiti in tutte le attuali aggregazioni sopranazionali (a cominciare da quella dell’Unione Europea cui partecipa il nostro paese) e intercontinentali (si pensi, ad esempio, al W.T.O.).

Da tali fenomeni – di crisi del welfare state e di intervenuta globalizzazione – invero scaturisce la descritta ri-modulazione in chiave efficentistica [41] dell’azione amministrativa pubblica in atto nei paesi occidentali e di cui costituisce manifestazione l’avvento del lavoro anche flessibile.

14. Le difficoltà del cambiamento in atto nelle PP.AA. e le resistenze all’attuazione del medesimo.

Il settore pubblico rispetto a quello privato possiede caratteristiche che ne delineano contorni del tutto particolari e, più in generale, un peculiare contesto. Nel settore privato, infatti, gli obiettivi sono espliciti e la verifica del loro raggiungimento viene ad essere direttamente realizzata dal datore di lavoro.

Nel pubblico gli obiettivi da raggiungere sono, innanzitutto, molteplici e, comunque, più numerosi e variegati.

Inoltre, essi spesso risultano impliciti nell’azione amministrativa pubblica (pur convergendo tutti, in ultima analisi, verso la fornitura di un pubblico servizio) ed il controllo sull’azione svolta dai dirigenti e dal restante personale non è condotto dal “datore di lavoro”, ma demandato ad un insieme di norme e procedure atte a garantire (per quanto possibile) la correttezza dell’agire pubblico, la relativa efficacia ed il perseguimento dell’interesse della pubblica amministrazione e, quindi, almeno in teoria, del cittadino.

Infine, nel settore pubblico sono, talvolta, riscontrabili obiettivi di consenso politico che si mescolano a quelli aventi ad oggetto la qualità dei servizi e dei prodotti e che possono influenzare le logiche di reclutamento e gestione del personale, oltre che la cultura della legalità amministrativa.

Tutti questi fattori rallentano indubbiamente il cambiamento in atto.

14.1. La P.A. piange se stessa : ossia i vecchi e nuovi “clientelismi” e “formalismi”.

Le difficoltà che le pubbliche amministrazioni incontrano nel relativo cambiamento dipendono, pertanto, almeno in parte dai loro stessi “mali antichi”.

Innanzitutto, alla base delle resistenze alla relativa modernizzazione si pongono i vincoli citati e le rigidità menzionate, le quali, peraltro, per i destinatari dell’azione amministrativa pubblica generano servizi talvolta al di sotto degli standards minimi e, comunque, quasi sempre, delle attese dei relativi utenti, rispetto alle cui esigenze, invero, lo Stato-apparato dimostra, quasi sempre, bassa, quando non nulla, capacità di adattamento.

Poi sotto il profilo dell’impiego delle risorse umane ed economiche di cui le PP.AA. dispongono, il medesimo “formalistico” relativo modus operandi accentua e pone ancor di più in evidenza le carenze dell’azione amministrativa pubblica determinate dall’insufficienza di motivazioni dei pubblici dipendenti (quando non dalla loro, in alcune ipotesi, talvolta, bassa professionalizzazione) e, inoltre, la ridotta produttività e lo spreco di risorse che ne deriva [42].

Conseguenze, tutte queste, alla cui base si pongono, oltre ai menzionati formalismi, anche i meccanismi di volano occupazionale con cui, a prescindere dagli effettivi meriti dei destinatari dell’assunzione nella P.A., si è proceduto, come detto in modo spesso clientelare, al reclutamento delle risorse umane nel pubblico impiego soprattutto nei primi due decenni di ispirazione al welfare state.

15. La transizione da un’amministrazione pubblica immobile, quasi più attenta all’autoalimentazione di se stessa, ad una P.A. recettiva nel proprio modus operandi e vigile sulla verifica funzionale di tale modus.

Diffusa risulta la convinzione che la pubblica amministrazione, nel nostro così come negli paesi dell’Europa continentale, stia attraversando un periodo di transizione reso ancora di più inevitabile dalle menzionate resistenze al cambiamento di essa e dai tempi necessari per il superamento delle medesime.

La transizione in questione ha come punto di partenza la riscontrata esistenza di apparati pubblici che, seppure svincolati dal potere politico, hanno mantenuto, nella loro azione, l’ottica e la destinazione tipicamente perseguita dalle burocrazie - vere e proprie “Corti” - medievali ed ottocentesche [43], volte più all’autoalimentazione delle medesime che all’erogazione di servizi destinati ad utenti esterni alle medesime.

Il punto di arrivo della transizione in atto è invece costituito dall’avvicinamento – apparendo ancora prematuro parlare di vera e propria assimilazione - delle PP.AA. a tutte le altre organizzazioni private create al fine di soddisfare i bisogni e le esigenze ad esse rappresentate dall’esterno e, pertanto, aventi una mission al di fuori delle medesime, anche se motivata da finalità intrinseche alle stesse, che con riferimento alle organizzazioni amministrative pubbliche viene intesa non in termini di profitto – come per quelle private – ma semmai di erogazione di servizi pubblici (intesi in senso lato) con contestuale contenimento o, comunque, razionalizzazione dei relativi costi.

Di questa tendenza del cambiamento in atto pare costituire segnale, se non vere e propria testimonianza, l’evoluzione che ha interessato la nozione di ente pubblico nel diritto comunitario ove, invero, si è affermata in luogo di essa una definizione di organismo di diritto pubblico nell’ambito della quale sono state pure ricomprese aggregazioni avvenute utilizzando schemi-base, ad iniziare da quello societario, in tutto e per tutto analoghi a quelli tipici della tradizione privatistica.

Tale trasformazione – della nozione di ente pubblico – peraltro ha trovato manifestazione, sia pure a livello sostanziale, anche nel nostro diritto interno nell’ambito del quale, invero, sempre più labili sono divenuti i confini tra soggetto di diritto privato ed ente pubblico [44].

Utilizzando un’espressione più volte adottata con riferimento al pubblico impiego, pertanto, potrebbe parlarsi privatizzazione per descrivere il fenomeno che interessa, sia pure più labilmente, la stessa pubblica amministrazione sotto il profilo dell’ispirazione e di alcune caratteristiche del relativo agire.

Fenomeno, questo, cui, per converso, ha corrisposto nel settore privato la oramai quasi definitiva accettazione – prima invece controversa - del principio della neutralità della veste societaria, in passato, invero, ritenuta prerogativa, se non esclusiva, comunque tipica dell’agire delle organizzazioni del settore privato.

15.1. L’affermarsi dell’analisi per costi e benefici nella nuova “scatola degli attrezzi” della Pubblica Amministrazione.

Il rilievo che la pubblica amministrazione non può valutare la propria azione, attesa la relativa finalità sociale, facendo esclusivo riferimento agli esborsi e alle entrate monetarie connesse alla medesima non ha impedito, nella misurazione della relativa performance, l’utilizzo, tra le varie metodologie, dell’analisi c.d. per costi e benefici.

Tale analisi si fonda sull’esame – poi impiegato in chiave comparativa - degli effetti che l’investimento che così viene in rilievo produce sui soggetti che del medesimo dovrebbero beneficare.

Il soggetto in questione nel privato sarà la stessa organizzazione imprenditoriale privata che tale investimento effettua, mentre nel settore pubblico sarà la collettività destinataria dell’azione posta in essere dalla pubblica amministrazione che così viene in rilievo.

Di qui, appunto al fine di utilizzare tale meccanismo di analisi anche nell’ambito pubblico, l’effettuazione della valutazione dei costi e benefici dell’azione amministrativa pubblica tenendo presente non solo i valori monetari menzionati, ma anche i vantaggi e i sacrifici che dall’azione dell’operatore pubblico dovessero eventualmente derivare, direttamente o indirettamente, per la collettività dalla sua azione coinvolta [45].

Ciò, comunque e peraltro, con gli inevitabili problemi connessi alla “pesatura” di entità non appartenenti ad una scienza esatta, quali sono i vantaggi e i sacrifici in questione.

15.2. La sempre maggiore attenzione prestata alle politiche di budgeting.

Proprio per consentire una migliore allocazione delle risorse e soprattutto al fine di contenere gli sprechi (e nell’ambito della lotta ai medesimi) anche nell’organizzazione amministrativa pubblica notevole attenzione viene dedicata al budget, sia sotto il profilo della relativa costruzione che del relativo utilizzo.

Conseguenza e figlia di questa attenzione è stata nel settore pubblico anche l’acquisita condivisa consapevolezza dell’esigenza di razionalità delle scelte strategiche, nonché l’intervenuta manageralizzazione che ha interessato la Dirigenza e, più in generale, i funzionari pubblici.

Invero, nelle strutture di medio-grandi dimensioni, quali sono, generalmente, le pubbliche amministrazioni, il budget - non potendo le medesime, proprio per le loro dimensioni, “essere pilotate” a vista - viene ad inserirsi in un più ampio sistema di controllo direzionale attraverso il quale, oltre a venire ad essere fissati gli obiettivi e gli strumenti ad essi dedicati, si tenta di influire, al fine di perseguire i medesimi obiettivi, sul comportamento dei lavoratori interessati.

In tali strutture il budget può assumere anche l’ulteriore aspetto di strumento di direzione volto ad assicurare un adeguato livello di responsabilizzazione e motivazione dei dipendenti, oltre ai tradizionali e ormai consolidati profili di misura di programmazione e di supporto della gestione operativa della struttura che così viene in rilievo.

15.3. L’informatizzazione della Pubblica Amministrazione italiana.

Connessa al tentativo di attribuzione di maggiore efficienza (soprattutto sotto il profilo della relativa snellezza) alla pubblica amministrazione e, inoltre, volta alla modernizzazione della medesima ed a consentire un più efficace utilizzo degli strumenti di controllo su di essa appare l’informatizzazione avviata nel 1993 attraverso il D.Lgs. n. 39.

Tale provvedimento normativo, invero, ha, per sua stessa espressa previsione, quali obiettivi quelli di consentire un “miglioramento dei servizi” ed il “contenimento dei costi” dell’azione amministrativa pubblica, in funzione del cui raggiungimento il medesimo ha altresì provveduto ad istituire un’apposita Authority (appunto per l’informatica nelle pubbliche amministrazioni, AIPA).

Inoltre, alla base dell’informatizzazione della pubblica amministrazione pare porsi anche il tentativo di dare soddisfazione ad una domanda di prestazioni rivolta alla medesima che ha subito, come detto, un salto di qualità a seguito dell’accentuazione – e talvolta esasperazione – della competitività comportata dall’ancora in corso globalizzazione.

Tale accentuata competitività, invero, ha condotto gli stessi fruitori dell’azione amministrativa pubblica a divenire (in questo aiutati anche dagli interventi normativi inaugurati dalla legge n. 241 del 1990 nella sua prima formulazione) maggiormente consapevoli dei propri diritti ed attenti al livello delle prestazioni e dei servizi offerti dalle varie pubbliche amministrazioni [46].

15.4. Lo “spoil system”.

Una Pubblica Amministrazione più efficiente pare essere l’obiettivo perseguito anche dal meccanismo dello spoil system, così definito con un termine che appare corretto soltanto se utilizzato in relazione ai massimi dirigenti che possono essere rimossi, e quindi “perdere il posto”, a ogni cambio di ministro.

Meccanismo, questo, che è strettamente correlato alla separazione e distinzione di responsabilità tra politica e amministrazione, sempre, come detto, in tale ottica efficentistica introdotta.

Infatti, una volta prevista tale separazione e riservate, dunque, quasi tutte le decisioni puntuali ai Dirigenti di carriera, il legislatore dei primi anni 2000 ha ritenuto che non vi fosse altra strada che introdurre la natura fiduciaria del rapporto tra vertice politico e top management [47].

Nonostante, come ben rilevato da Cassese, “tutta l’esperienza di questo secolo avrebbe consigliato di intraprendere un’altra strada, di valorizzare il merito, la professionalità e la preparazione tecnica, non la fedeltà politica”, occorre osservare che la concreta esperienza amministrativa, nelle sue diverse manifestazioni positive, ha dimostrato che nella scelta non sempre esclusivamente di fede politica si è trattato.

16. La flessibilità contribuisce all’affermarsi di un’amministrazione, anche nel pubblico, per obiettivi e risultati.

Si è convenuto [48] sul fatto che in ambito pubblicistico la flessibilità è destinata a diventare uno strumento efficace ed un metodo di intervento per la riorganizzazione della macchina burocratica che deve essere efficiente e al tempo stesso attenta alle problematiche occupazionali,

Difatti, non si può sottacere che il tema delle flessibilità costituisce un tassello importante di un più ampio ragionamento sul cambiamento delle pubbliche amministrazioni.

Ragionamento, questo, legato alla valorizzazione delle risorse umane e all’abbandono di alcune regole – troppo - formali a favore del raggiungimento di risultati efficaci e tangibili, in modo da garantire il miglioramento nella qualità dei servizi erogati, pur nel contenimento della spesa pubblica.

16.1. Flessibilità e efficienza.

Condivisa è, altresì, l’osservazione che anche nella Pubblica Amministrazione può verificarsi quello che accade nel privato nel caso in cui le imprese tollerano impiegati od operai “fannulloni” [49] o comunque, demotivati in quanto non incentivati.

Tali conseguenze sono : costi maggiori e/o servizi di qualità inferiore e, pertanto, perdita di competitività.

Al fine di evitare tale rischio non basta “che le direzioni del personale nella Pubblica Amministrazione facciano il loro dovere con la stessa solerzia con cui lo fanno nel settore privato” [50].

Solerzia, questa, che, peraltro, nel pubblico, allo stesso modo di quanto avviene nelle imprese private monopolistiche, non sempre è riscontrabile.

Occorre anche incentivare la prestazione dei pubblici dipendenti e, fin dove possibile, la loro produttività pure attraverso il ricorso a meccanismi di flessibilità nella concreta articolazione della relativa prestazione lavorativa.

16.2. Flessibilità e posti di lavoro.

L’accettabilità e concretezza delle risposte che è possibile trarre dalla flessibilità si fonda sulla difficile coniugazione tra creazione di – nuovi - posti di lavoro” e “sicurezza” dell’impiego [51] dell’impiego che qualsiasi eventuale (ed auspicato) riesame della normativa su contratti di lavoro dovrà affrontare.

17. I problemi sociali del lavoro stabile e della conservazione del posto di lavoro.

Non si può nascondere, invero, che, a fronte di tutte le precedenti considerazioni di carattere giuridico-tecnicistico riguardo ai possibili benefici per l’efficienza ed efficacia delle imprese e anche PP.AA. di un approccio flessibile al mondo del lavoro, se ne pongono e contrappongono altre sul piano sociale.

Considerazioni e preoccupazioni che, proprio perché concernenti la societas, paiono, oltre che meritevoli della massima attenzione, degne di poter temperare i tecnici ragionamenti giuridici, anche nel caso in cui si dovesse trattare di quelli più rigorosi, peraltro, non essendo il diritto, al pari della sociologia, una scienza esatta.

Del resto, occorre ricordarsi che proprio il fine del diritto appare quello di recepire le istanze che provengono dalla società e regolamentarle in modo che vengano – tutte, comprese quello dello Stato, inteso come entità personificata al servizio della collettività – adeguatamente contemperate.

Le considerazioni e istanze sociali che si pongono e contrappongono all’odierna regolamentazione flessibile del lavoro – anche pubblico - sono quelle che rappresentano l’esigenza, utilizzando un’espressione propria delle scienze di matrice filosofica e antropologica, “per la liberazione dell’uomo” di un impiego stabile.

Pertanto, in proposito vengono in rilievo l’esigenza di un impiego e quella, avvertita come di pari importanza rispetto alla necessità dell’ingresso nel mondo del lavoro, della conservazione dell’impiego così eventualmente ottenuto.

Peraltro, tali esigenze appaiono ancora più evidenti al fine di poter pianificare, quanto meno, un’esistenza dignitosa nell’odierna società consumistico-edonistica.

Ciò, seppur non si sia ancora verificata nel nostro paese una situazione analoga o simile al c.d. – implicitamente menzionato – “caso spagnolo”, caratterizzato dall’avvenuto sorpasso degli impieghi stabili da parte di quelli a termine complessivamente – e, quindi, con riferimento sia al settore pubblico che a quello privato - considerati.

Difatti, nonostante nel nostro paese non si sia ancora in presenza di una simile situazione, non si può sottacere il fatto che anche in Italia chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro si incammina verso un tormentoso sentiero che quasi necessariamente delinea il passaggio dal lavoro in nero a quello a progetto, a tempo determinato, etc., prima di approdare, peraltro solo eventualmente, al tanto agognato impiego stabile, in una sorta di aberrante cursus honorum.

A ciò si aggiunge l’ulteriore preoccupazione di conservare il posto di lavoro eventualmente “conquistato”.

17.1. Gli effetti psicosociali dell’instabilità del lavoro.

Gli effetti psicosociali della costante instabilità del lavoro costituiscono oramai, anche a causa della loro diffusione, oggetto di studio [52].

Da tali studi emergono le conseguenze sulla vita personale, familiare e sociale degli individui che, per effetto della loro condizione di lavoratori non stabili, si trovano nell’impossibilità di programmare il proprio futuro e, comunque, ad avere una prospettiva di organizzazione sotto il profilo temporale più corta.

Invero, non si può sottacere che una sequenza prolungata di lavori a termine, per di più sovente scarsamente retribuiti, finisce per riflettersi negativamente sulla condizione del lavoratore, influenzandone le scelte di vita, compresa quella relativa alla paternità e maternità.

D’altro canto, è ragionevole ritenere che un lavoratore a termine costi di più alla collettività di uno, invece, impiegato stabilmente in quanto necessiterà, rispetto a quest’ultimo, di più interventi pubblici sia per sostenere il suo reddito, sia di politica attiva.

17.2. La precarietà, se limitata alla prima parte della vita professionale del lavoratore, appare preferibile alla disoccupazione.

Nonostante il concetto di flessibilità evochi nell’immaginario collettivo quasi esclusivamente nitide percezioni di precarizzazione dei rapporti di lavoro e, invero, soltanto raramente un idea di un nuovo assetto e di una modernizzazione delle relazioni giuridiche che disciplinano le forme di erogazione del lavoro [53], occorre soffermarsi anche sugli effetti positivi del lavoro flessibile, mettendo da parte la non costruttiva ed immatura logica del “tutto (in questo caso rappresentato dal lavoro a tempo indeterminato) e subito”.

Al riguardo non si deve dimenticare che il ricorso alla flessibilità è stato previsto nel nostro ordinamento seguendo le indicazioni delineate a livello comunitario in materia di lotta alla disoccupazione.

Già nella dimensione sovranazionale, invero, si era convenuto sul fatto che il lavoro flessibile, seppure non avrebbe di certo costituito l’antidoto alla disoccupazione e la panacea di tutti i mali di chi è senza lavoro, comunque avrebbe potuto, almeno nel breve termine, limitare gli effetti negativi derivanti da uno stato di inoccupazione e, nel contempo, agevolare l’inizio o la ripresa di un percorso di lavoro.

18. La tendenza nel pubblico impiego - socialmente apprezzabile e giuridicamente deprecabile - alla incardinazione di rapporti di lavoro stabili, senza il rispetto della rigorosa selezione imposta dall’art. 97/3 della Costituzione.

Alcuni autori in dottrina, nell’evidenziare il fenomeno in oggetto, hanno concluso nel senso che esso costituisce la manifestazione di uno dei mali storici della Pubblica Amministrazione, la quale, secondo gli stessi, sarebbe sperequata nella regolamentazione e gestione del rapporto di lavoro presso di essa incardinata poiché si preoccuperebbe quasi esclusivamente della posizione del lavoratore piuttosto che di quella del datore di lavoro, dalla medesima P.A rappresentato.

A prescindere dal fatto che tale fenomenologia costituisca o meno una riproposizione dell’utilizzo, effettuato soprattutto nel “dopo-guerra”, della Pubblica Amministrazione in chiave di “volano occupazionale”, non pare, comunque, potersi negare che questa deprecabile tendenza esista.

Una riprova della sua concretezza pare potersi riscontrare nella circostanza che la tendenza in oggetto si rinviene nel pubblico impiego (inteso in senso lato) anche in un campo diverso da quello del lavoro subordinato : quello del rapporto di lavoro autonomo alle dipendenze della pubblica amministrazione [54].

In proposito, infatti, si può ricordare quanto è avvenuto con riferimento ai c.d. co.co.co. (collaboratori coordinati e continuativi), la cui reiterata (e talvolta illimitata) proroga ha, di fatto, comportato un impiego stabile degli stessi nonostante i medesimi venissero sovente individuati medianti bandi pubblici che prevedevano “un esame comparativo dei curricula presentati, mirante ad accertare la migliore coerenza con le caratteristiche curriculari richieste, integrato eventualmente dal colloquio e, pertanto, legittimamente – venendo in rilievo, appunto, in questo caso, un diverso (rispetto a quello subordinato) rapporto di lavoro - sfuggivano alle regole dell’accesso (mediante procedura selettiva o concorso) ai ruoli dell’amministrazione pubblica.

Di tale fenomeno – della distorsione nell’utilizzo di fatto in pianta stabile del medesimo collaboratore coordinato – si è occupata anche la Corte dei Conti, la quale, al riguardo, ha anche elaborato una sorta di codice del corretto ricorso, da parte delle PP.AA., ai rapporti autonomi, a sua volta, utilizzato dal Dipartimento della Funzione Pubblica nella – nota - circolare n. 4 del 15 luglio 2004 avente a specifico riferimento le co.co.co..

Circolare, questa, anche nella quale, sia pure implicitamente, la Funzione Pubblica ha riaffermato il principio del concorso pubblico, così come inteso con riguardo alle relative eccezioni, dalla Corte Costituzionale, ad esempio nella sentenza n. 1 del 1999 in cui ha stabilito che “le deroghe alla regola del concorso, da parte del legislatore, sono ammissibili soltanto nei limiti segnati dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione … o di attuare altri principi di rilievo costituzionale, che possano assumere importanza per la peculiarità degli uffici di volta in volta considerati: ad esempio, quando si tratti di uffici destinati in modo diretto alla collaborazione con gli organi politici o al supporto dei medesimi” [55].

Infatti, in tale circolare, il Dipartimento della Funzione Pubblica ha precisato che “solo quando sia funzionale al raggiungimento dello scopo per il quale il contratto era stato posto in essere … è ammissibile la proroga dell’incarico di co.co.co. …, la necessità di ricorrere al quale … deve costituire rimedio eccezionale per far fronte ad esigenze peculiari per le quali l’amministrazione necessita dell’apporto di apposite competenze professionali (n.d.r. : non riscontrabili nel personale in servizio) … anche perché l’oggetto dell’incarico di collaborazione è circoscritto dall’ambito delle attività definite dall’articolo 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165 del 2001, il quale si riferisce ad esperti di provata competenza”.

Invero, le modalità utilizzate per la selezione dei co.co.co paiono determinare un’elusione alle regole del pubblico concorso quando vengono utilizzate per creare rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A., anche se non giuridicamente, di fatto stabili.

Tali rapporti di lavoro, in quanto appunto di fatto stabili, sono andati a colmare delle lacune di organico per riempire le quali sarebbe stato non solo più legittimo bandire un concorso, ma anche più opportuno, consentendo l’espletamento di una procedura concorsuale una possibilità di accesso al lavoro pubblico anche ad altri soggetti magari meno interessati ad un lavoro di collaborazione che, in linea astratta, si configurava come a termine e, inoltre, pertanto, una maggior scelta, nel reperimento delle risorse umane, da parte della pubblica amministrazione.

18.1. Procedure selettive per l’accesso temporaneo nelle PP.AA., concorso pubblico ex art. 97/3 Cost., loro commistione, confusione e, talvolta, elusione.

Le menzionate novità introdotte dalle diverse c.d. “privatizzazioni” che hanno interessato il pubblico impiego, pur consentendo, tra l’altro, alle PP.AA. di avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione del personale vigenti nel privato, non hanno, dunque, comportato a livello regolamentare alcuna – nuova – deroga alla necessità, per poter accedere agli organici “fissi” della Pubblica Amministrazione, del superamento di un pubblico concorso.

Riguardo a tale meccanismo di selezione e alla relativo caratterizzazione in chiave garantistica la corte delle leggi, invero, anche di recente [56], ha ricordato come la propria giurisprudenza individui “costantemente …la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego … nel concorso pubblico, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione.

Meccanismo la cui “regola … può dirsi rispettata solo quando le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dell’ambito dei soggetti legittimati a parteciparvi” e vengano seriamente attuate prevedendo, ad esempio, “oltre alla valutazione dei titoli, l’espletamento di prove d’esame volte all’accertamento della idoneità dei candidati ai posti da ricoprire, per i quali rimane ferma, comunque, l’esigenza del titolo di studio corrispondente al livello funzionale” [57].

Tuttavia, come detto, se pure tale risultato “di deroga” non è stato nemmeno auspicato né per via normativa, né tantomeno dai pratici del diritto, alcuni nuovi scenari in materia di accesso ai ruoli a tempo indeterminato delle Amministrazioni pubbliche “saltando” il pubblico concorso sono venuti, di fatto, a prospettarsi a seguito dell’utilizzo - anche - da parte delle PP.AA. delle c.d. forme di lavoro flessibile.

E questo è accaduto non soltanto con riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa (di fatto, reiterati “in automatico”) cui si è fatto riferimento.

Infatti, ciò si è verificato anche, ad esempio, in relazione alle selezioni per soli titoli o per quiz - implicanti un livello di difficoltà assai minore di quello del quale viene richiesto il superamento per l’accesso a tempo indeterminato ai ruoli della P.A. – indette al fine di ricoprire posti pubblici a tempo determinato poi, però, stabilizzati.

19. L’importanza e necessità della coesione sociale.

La necessità del rispetto dei limiti e delle forme previste, anche ai fini di garantistici dell’efficienza dello Stato-apparato, dell’impianto normativo che disciplina l’accesso al pubblico impiego non deve autorizzare a ritenere irrisolvibile o, comunque, secondario il problema sociale (della ricerca ed assenza) del lavoro stabile che connota, affliggendola, la contemporanea società non soltanto nel nostro ambito territoriale, ma più in generale in quello continentale europeo e non solo.

Questo senza che ciò significhi il ritorno a vecchie pratiche (spesso, come detto, clientelari) che interpretino il pubblico impiego sostanzialmente in una chiave di mera creazione di lavoro, la quale, peraltro, così congegnata non parrebbe nemmeno giovare alla stessa società, atteso che una tale formula, pur determinando lavoro e pertanto rispondendo all’istanza che in tal senso proviene dalla comunità, per altro verso determinerebbe un effetto di “droga” della medesima società impingendola di una sicuramente non sana e non utile mentalità assistenzialistica e non meritocratica.

Mentalità, questa non meritocratica, che, peraltro, anche sul piano economico e giuridico non condurrebbe la comunità da essa interessata lontano, in un’epoca, qual’è quella attuale, contraddistinta dalla sempre maggiore competizione tra tutti i vari soggetti determinata dall’intervenuta, accennata, globalizzazione dei mercati.

Il problema del lavoro stabile e la necessità della sua risoluzione pare, piuttosto, ribadire ed evidenziare ulteriormente rispetto a quanto già avvenuto in passato l’importanza del raggiungimento di una coesione sociale, peraltro, tipica espressione del principio di solidarietà sancito dall’articolo 2 della nostra Costituzione, nonché di quello teso al raggiungimento di una sostanziale eguaglianza di cui al successivo articolo 3, secondo comma.

Tale obiettivo - della coesione sociale - è ben presente anche in ambito comunitario, pure nel quale esso viene ad essere ricollegato ad un’esigenza solidarietà tra gli Stati membri e le varie regioni che compongono l’Unione europea.

19.1. Il rilievo in ambito comunitario della coesione sociale e il vertice di Lisbona del marzo 2000.

Nell’Unione Europea l’importanza del raggiungimento di una coesione sociale, nonché economica, è stata ben presente fin dal momento dell’istituzione della Comunità Economica Europea.

Invero, il trattato di Roma del 1957 istitutivo della medesima, nel relativo preambolo, faceva riferimento all’esigenza di equiparazione dei diversi livelli di sviluppo tra le regioni europee e, pertanto, le relative popolazioni.

Di qui, al fine del raggiungimento di essa diversi interventi finanziari nello specifico ambito dei Fondi strutturali e del Fondo non strutturale (appunto)di coesione.

Il Vertice di Lisbona del marzo 2000o, da ultimo, ha, in particolare, riconosciuto alla “coesione sociale” una valenza di pari grado rispetto allo sviluppo economico ed alla crescita dell’occupazione pure dall’azione europea perseguiti.

Inserire i risultati della ricerca sul messaggio di Lisbona del 2000.

20. La necessità di ammortizzatori sociali per i lavoratori c.d. flessibili.

In materia di coesione sociale vengono in rilievo anche i temi più specifici, strettamente correlati alla medesima materia, della previsione di effettivi ammortizzatori sociali per i soggetti impiegati sulla base delle nuove tipologie dei lavori c.d. flessibili e dell’elaborazione di uno “Statuto dei lavori”, già posti in agenda dal “libro bianco del lavoro” elaborato nel 2001 (cosiddetto Biagi)[58].

Ciò in quanto fino ad adesso tale tema non è stato normativamente affrontato.

Infatti, anche l’ultimo esecutivo di centro-destra (Governo Berlusconi 2001-2006), seppur di intera legislatura e pur nella consapevolezza del problema, non è riuscito a dare concretezza normativa alle misure proposte per affrontare questo tema.

Così emulando sul punto, quanto a risultati, il precedente governo di centro-sinistra che aveva promesso una protezione “minima” dei co.co.co. e sperimentato una forma di sostegno ai disoccupati (con il “Reddito minimo di inserimento”, acronimo : Rmi) in alcune zone del paese, senza poi proseguire e sviluppare tale sua iniziativa.

Al riguardo è stato proposta, ad esempio, la previsione in via normativa generale della ricongiunzione a fini pensionistici di tutti i percorsi lavorativi, precisando, peraltro, che tale proposta costituisce soltanto un’ipotesi << minima >> di tutela sociale del lavoratore a termine.

Infatti, appare evidente come ciò non possa cosituire “la panacea” di tutte le incertezze e i rischi cui vanno incontro i lavoratori non stabili.

Così come non è detto che altre misure rispetto a quelle più tradizionali non possano essere individuate in materia.

Ad esempio, invero, si potrebbe pensare al riguardo di facilitare la stabilizzazione del lavoro attribuendo diritti di seniority per chi è stato precario abbinati a meccanismi di fiscal-drug temporaneo per l’imprenditore che riconosce tali diritti, attuando una conversione.

Tra l’altro, occorre osservare che in proposito non si parte da zero.

Nel nord-Europa (in particolare in Svezia, Danimarca e Olanda) si sta da tempo cercando di individuare una linea garantistica ed universalistica che miri a rovesciare il senso e il significato della flessibilità così come attualmente, anche nel nostro paese, concepita.

Ciò, segnatamente, attraverso una sinergia di studi – “open method of coordination” - che l’Unione Europea ha già annoverato tra le c.d. best practises in materia di contrasto all’esclusione sociale e che hanno dato luogo ad una sorta di nuova materia di riflessione scientifica definita con l’acronimo “Flexicurity” per sintetizzare il binomio flessibilità e welfare[59] su cui si incentra.

Anche da tale nuova materia oggetto di studi non pare possano attendersi “paradisi in terra”, ma piuttosto complessi compromessi sociali, tra l’altro, allo stato, ad alto tasso di sperimentazione.

Tuttavia, essa pare costituire un modello più avanzato e coraggioso di quelli aventi ad oggetto la pura limitazione della temporalità, sui quali si incentrano, ad esempio, anche i programmi in materia dei nuovi esecutivi spagnolo (“Zapatero”) e (Prodi).

E di tali modelli pare doversi tenere conto in un’epoca come quella attuale, caratterizzata dall’avviata percorrenza di un sentiero “senza ritorno” verso una sempre maggiore competività e nella quale il “declino del modello del lavoro subordinato a tempo indeterminato” non è dovuto soltanto - come pure, invece, si è affermato[60] - all’astuzia delle attuali imprese << socialmente irresponsabili >>.

Infatti, pur nell’alternanza tipica dei sistemi politici bipolari e delle relative valutazioni, su un dato le forze politiche (oltre che imprenditoriali) concordano : l’esigenza di maggiore flessibilità nel mondo del lavoro.

21. Le dimensioni raggiunte dal lavoro a termine nel pubblico e l’attuale quasi esclusiva instaurazione nel settore privato dei rapporti di lavoro ex novo attraverso il ricorso alle forme flessibili di impiego.

Nell’ambito del pubblico impiego c.d. “privatizzato” i rapporti di lavoro atipici, secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato, nel corso dell’anno 2005 hanno raggiunto (pur escludendo dal computo il personale volontario delle Forze armate e dei corpi di polizia militare, quello scolastico e i docenti universitari a contratto) il numero di 152.000 unità, con una incidenza rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato pari all’8,6 %.e una netta prevalenza della tipologia del rapporto di lavoro a termine.

Tale tipologia, pertanto, costituisce quella cui, tra i lavori flessibili, la P.A. effettua maggiormente ricorso.

Nel privato, poi, costituisce un trend consolidatosi negli ultimi anni quello avente ad oggetto l’utilizzo, per l’instaurazione ex novo di rapporti di lavoro, degli schemi di lavoro flessibile e tra questi di quello del contratto di lavoro a tempo determinato, presumibilmente anche in considerazione dell’ampiezza delle causali (cui si effettuerà riferimento successivamente nel presente lavoro) in presenza delle quali ciò è consentito dalla normativa in materia.

In particolare, se si esclude il pubblico impiego, nel nostro paese dal 1997 a oggi i contratti temporanei di varia natura hanno dato occupazione a circa due milioni di lavoratori e costituito lo schema tipico di almeno il 50% delle nuove assunzioni.

Il ricorso in tali dimensioni a tale forma di lavoro nel privato si è verificato, secondo le dichiarazioni degli stessi imprenditori, in modo da poter consentire a questi di “saggiare” per un periodo congruo il lavoratore prima – almeno negli intenti ufficialmente dichiarati – di procedere alla relativa “stabilizzazione”.

Infatti, si rileva che nessun serio imprenditore avrebbe interesse a licenziare persone valide e formate all'interno della propria azienda (giovani o anziani che siano).

E la maggior parte degli economisti dichiara che la buona performance dell’occupazione verificatasi negli anni 1997-2005 (con Governi di centrosinistra e di centrodestra) non sarebbe stata possibile in assenza di questa e delle altre forme di lavoro flessibile.

21.1. Il paradosso della precarietà nel lavoro pubblico tradizionalmente caratterizzato dalla relativa stabilità.

Peraltro, occorre osservare che, poiché il meccanismo sanzionatorio che prevede la conversione-stabilizzazione del lavoro a tempo determinato in un impiego a tempo indeterminato nell’ipotesi – di cui appresso si dirà – di abuso dello strumento del lavoro a termine viene ad essere applicato soltanto con riferimento al lavoro privato, paradossalmente i rischi di un utilizzo della tipologia del lavoro a termine come modalità normale di impiego delle risorse umane e, pertanto, di un dilagare, del precariato si manifestano soprattutto nell’ambito del pubblico impiego.

Vale a dire nell’ambito di quell’impiego pubblico che quando risulta, sul piano sociale, ambito lo è soprattutto sulla base di considerazioni che prevalentemente si incentrano sulla garanzia di stabilità che – si continua tralatiziamente ad affermare – lo caratterizzerebbe.


22. Esigenza
di procedere ad un nuovo bilanciamento di interessi ugualmente rilevanti : efficienza e produttività dell’azienda – anche - pubblica e garanzia del lavoro.

Le rilevanti - e di frequente gravi – implicazioni che sul piano sociale comporta la precarietà del lavoro vengono, dunque, rese ancora più incidenti dalle dimensioni assunte dal fenomeno, anche in conseguenza dell’utilizzo (quanto meno di alcune) delle forme di lavoro flessibile pure da parte delle amministrazioni pubbliche.

Con riferimento al pubblico impiego tali implicazioni paiono dover costituire oggetto di riflessione nell’ambito di una più ampia analisi avente ad oggetto anche i rilievi e le considerazioni effettuate circa l’esigenza sempre più sentita, pure sul piano sociale, di una pubblica amministrazione efficiente, oltre che rispettosa dei canoni di economicità.

Infatti, all’utilizzo delle tipologie di lavoro flessibile nell’ambito del pubblico impiego non sempre si è accompagnato, un aumento di efficienza, efficacia ed economicità dell’azienda-Stato, al contrario di quanto avviene nelle imprese private.

In questo “discorso” si inseriscono anche i rilievi effettuati riguardo alle distorsioni determinatasi con riferimento alla regola del pubblico concorso e, quindi, alla necessità di un’effettiva selezione nell’acceso all’impiego a tempo indeterminato presso un’amministrazione pubblica.

Invero, i problemi della precarietà del lavoro e dell’auspicata e sempre più necessaria efficacia ed efficienza della P.A. si presentano strettamente correlati tra loro quando viene preso in analisi il pubblico impiego e, sia singolarmente che nel loro insieme considerati, risultano collegati all’esigenza di una selezione che consenta all’azienda pubblica di avvalersi dei – e “dare lavoro” ai - “migliori”.

Se è vero che socialmente rilevante appare la risoluzione del problema di rendere sempre meno (e possibilmente soltanto per un primo periodo di tempo) precarie le forme di impiego, è altrettanto vero che, sempre sul medesimo piano sociale e su quello dei rapporti Stato-cittadino, si avverte ogni giorno di più l’importanza, se non la necessità, che anche la “macchina pubblica” funzioni bene, senza sperperare risorse collettivamente finanziate ed assicurando, nel contempo, servizi rapidi ed efficienti.

Peraltro, tutte tali esigenze sociali trovano il loro fondamento in quella più generale – già tenuta presente dalla nostra Costituente - di assicurare all’uomo (intorno al quale tutto l’ordinamento e, pertanto, il diritto ruota) l’esplicazione della propria personalità.

A tale necessità possono essere riferiti non solo i principi fondamentali sanciti nella prima parte della nostra carta costituzionale (innanzitutto con riferimento all’importanza del diritto al lavoro e ai diritti inviolabili dell’uomo), ma anche le direttive previste dalla seconda parte del testo costituzionale in materia di pubblica amministrazione, ad iniziare dal principio che prescrive il necessario buon andamento della stessa, in ultima analisi, finalizzato, appunto, alla soddisfazione delle persone fisiche che di tale buon andamento beneficiano.

Sotto quest’ultimo profilo, inoltre, non si possono non ricordare i frequenti – soprattutto in questi ultimi tempi – richiami all’esigenza di una P.A. efficiente e capace di venire incontro anche alle necessità non solo del mondo imprenditoriale affinché tutto il “sistema Italia” funzioni [61].

Richiami che provengono non solo dal mondo politico, ma anche, e soprattutto, dalle parti sociali e, quindi, in definitiva, da tutta la società.

Sicché pare necessario porre le questioni fin qui, sia pure sommariamente, affrontate in altri – forse - più esatti termini.

22.1. I termini del nuovo bilanciamento da ricercare.

I termini in questione paiono poter essere individuati in quelli per cui deve valutarsi negativamente la menzionata – riscontrata - tendenza alla stabilizzazione nell’ambito del pubblico impiego soltanto nei limiti in cui essa viene ad essere auspicata - quando non attuata – senza prevedere meccanismi meritocratici, in quanto tali capaci di rispondere all’esigenza di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa pubblica sul piano oltre che giuridico, sociale ed etico.

Deve ritenersi che anche la solidarietà debba fare i conti con il “principio di efficienza” e con questo essere contemperato.

Le criticità e fragilità che colpiscono significative fasce di lavoratori pubblici precari non devono essere considerate in sé, né affrontate con spirito paternalistico, ma piuttosto deve ritenersi che debbano essere analizzate e risolte all’interno di un’azione di più ampio spettro, finalizzata a garantire la coesione sociale intesa, però, anche come condizione di sviluppo.

Lo sforzo, sia degli individui singolarmente considerati che della comunità, deve, pertanto, orientarsi verso investimenti “competitivi”.

Peraltro, occorre osservare che Gino Giugni, già circa trenta anni fa, qualche anno dopo l’emanazione dello “Statuto dei lavoratori” di cui è ritenuto padre, rappresentava l’esigenza di conciliare la protezione del lavoratore con la necessità di tutela anche dell’organizzazione dell’impresa, ora - deve ritenersi anche – pubblica.

23. La flessibilità nel pubblico impiego : da sinonimo solo di lavoro precario ad auspicata “esperienza – in quanto spendibile - da rivendere”.

Alla luce dei menzionati confini sovranazionali e comunitari dell’attuale lavoro flessibile, pertanto, la scelta obbligata pare essere quella – non di subire – ma di affrontare in termini pragmatici e costruttivi l’attuale lavoro (almeno nella fase iniziale del percorso professionale, quasi sempre) precario.

Importante, invero, appare accettare la flessibilità del lavoro non come un dato di fatto incontrovertibile ed immutabile nel medio e lungo termine, intendendo con tale dimensione temporale un lasso temporale più breve dell’intera vita lavorativa di ogni singola persona.

Dunque, preoccuparsi sì delle conseguenze del lavoro precario sulle condizioni reali delle persone, ma una volta considerate queste impegnarsi affinché esse siano ridotte, riducendo i tempi del precariato e, comunque, costruendo degli strumenti che consentano di vedere l’attuale (quasi necessario) lavoro a termine come una fase transitoria verso un impiego stabile e, soprattutto, come un momento di investimento sulla propria persona e sul proprio futuro lavoro.

Questo, comunque, contemperando tali esigenze di “liberazione dell’uomo” (in quanto lavoratore) con quelle di efficienza, efficacia e produttività del datore di lavoro anche pubblico.

Sicché l’obiettivo finale sarebbe quello di delineare meccanismi – siano essi di matrice esclusivamente normativa o, come auspicabile, anche, più specificatamente, contrattuale – che consentano non solo che la precarietà non sia “per sempre” ma anche che il superamento della medesima serva pure per dare efficienza al sistema, compreso quello pubblico.

23.1. Rendere, realmente, incentivante il lavoro temporaneo anche per il lavoratore (pure pubblico) al quale la flessibilità viene richiesta.

Tutte queste considerazioni, dunque, conducono a prevedere dei meccanismi che consentano di “spendere” – anche a beneficio del datore di lavoro – la competenza acquisita dal lavoratore temporaneo (e, in quanto tale, flessibile) in una nuova opportunità di lavoro, possibilmente, più stabile dal punto di vista della relativa durata.

Meccanismi che, allo stato, a livello di struttura non sono assolutamente riscontrabili nell’impiego che delle forme di lavoro flessibili si effettua nel lavoro pubblico, mentre, nell’ambito di quello privato, sono riscontrabili soltanto con riferimento ai contratti di formazione di lavoro, di apprendistato e di inserimento [62].

Si tratta, dunque, di prevedere dei correttivi all’attuale regolamentazione del lavoro flessibile.

Correttivi che, andando ancora oltre rispetto a quanto già consentito dai contratti di formazione e lavoro, apprendistato e inserimento eventualmente stipulati alle dipendenze di un datore di lavoro privato, conducano, quale primo obiettivo, alla stabilizzazione del lavoratore formato presso il datore professionalizzante.

Oppure correttivi che diano luogo ad un credito non solo formativo ma anche lavorativo immediatamente e realisticamente spendibile nel mercato del lavoro, quale potrebbe essere, ad esempio, la qualifica professionale, a prescindere dalla relativa stabilizzazione, eventualmente riconosciuta al lavoratore impiegato nell’ambito di un rapporto di lavoro flessibile.

Con riferimento al settore pubblico occorre, dunque, prevedere tali meccanismi ex novo in un’ottica “premiale” (sia per il lavoratore formatosi che per il datore professionalizzante).

In relazione al settore privato, invece, si tratta di prevedere siffatti meccanismi “premiali” non soltanto (e – se possibile - in maniera più efficace di quanto già avviene) con riferimento ai contratti di formazione e lavoro, di inserimento e di apprendistato menzionati.

In tale contesto occorre tenere presente e ricordare che, mentre nel privato nulla impedisce al datore di lavoro di stabilizzare “in qualsiasi momento” il lavoratore temporaneo che eventualmente dovesse aver conquistato la sua fiducia, questo non può avvenire nel pubblico impiego per effetto della regola del pubblico concorso più volte menzionata.

Per cui è soprattutto con riferimento al lavoro pubblico a termine che si dovrà lavorare al fine di eliminare o - quanto meno - ridurre e contenere in termini ragionevoli il fenomeno della precarietà, oltre che per conseguire l’altrettanto importante obiettivo – per l’intera societas e, quindi, pure per tutti i soggetti privati - di una P.A. efficiente.

23.2. L’auspicata interscambialità tra pubblico e privato delle esperienze professionali maturate e il precedente - con riferimento ai dirigenti - della legge n. 145 del 2002, c.d. Frattini.

L’ideale sarebbe l’individuazione di meccanismi che consentano di “valorizzare” l’esperienza flessibile pubblica anche nell’ambito del lavoro privato, quando non anche - almeno nell’imminente futuro – il contrario, considerate le distanze che ancora permangono tra i due settori.

Quanto appena detto potrebbe fornire un’ulteriore applicazione concreta alla commistione tra pubblico e privato sempre più pretesa dalla societas e a livello legislativo già prevista dalla legge c.d. Frattini n. 145 del 2002 recante “disposizioni per il riordino della dirigenza statale e (n.d.r. : appunto) per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra pubblico e privato” nell’ottica di una ormai – quasi - irrinunciabile considerazione della P.A. quale azienda, seppure eventualmente no profit.

23.3. Il lavoro flessibile quale “formazione sul campo” del lavoratore anche pubblico.

Procedendo nel senso menzionato troverebbe attuazione pratica anche la “formazione del personale” – pure pubblico - tanto sollecitata e richiesta dalla c.d. società civile.

Quest’ultima, invero, è divenuta consapevole del fatto che la formazione ormai riguarda tutti i ruoli di qualsiasi organizzazione che punta al raggiungimento di obiettivi quali l’economicità e, nel contempo, qualità del servizio fornito all’utente e, quindi, anche della pubblica amministrazione.

Poiché il raggiungimento della competenza, intesa come associazione di conoscenze, capacità e atteggiamenti costituisce un traguardo che riguarda l’unitarietà della persona e che, come tale, deve essere perseguito intervenendo su molteplici aspetti, seguendo un modello di gestione delle conoscenze non solo razionale ma anche emotivo, quanto detto riguardo alla rimodulazione dell’odierna flessibilità in una nuova seria auspicata ottica premiale o, comunque, incentivante può costituire un’ottima strategia di gestione del personale da parte delle PP.AA., solitamente e tradizionalmente “ingessate” e “ingabbiate” anche sotto questo profilo dalle varie formalità che – quando non costituiscono (e vengono percepite dal lavoratore) come effettive garanzie - rendono il lavoro pubblico demotivante.

23.4. L’assenza di una garanzia espressa al lavoro stabile nella nostra carta costituzionale.

E’ stato, peraltro, rilevato [63] come la nostra carta costituzionale non contenga alcuna espressa garanzia del lavoro stabile, piuttosto essa affermando l’esistenza di un diritto al lavoro sulla base di una norma programmatica inserita, ad ogni modo, tra i “principi fondamentali” del nostro ordinamento [64].

Tuttavia, l’esistenza di una simile garanzia non può essere esclusa alla luce della necessaria lettura sistematica del dettato costituzionale, complessivamente considerato.

Dettato costituzionale che, così complessivamente interpretato, può però prestarsi anche ad una conclusione nel senso della compatibilità con esso di un lavoro comunque garantito all’uomo, anche se non in forma stabile.

Invero, se a favore di un lavoro stabile opera una lettura dell’articolo 4 della Costituzione che tenga conto soprattutto del valore di principio fondamentale attribuito al diritto sancito da tale norma, nel senso della possibilità di soddisfazione del diritto in questione anche da parte di un lavoro non “fisso” depongono tutta una serie di altri indici desumili dal testo costituzionale, a cominciare, con riferimento al settore privato, dalla libertà di impresa e di iniziativa economica sancita dall’art. 41 Cost. e, in relazione al settore pubblico, dal principio che impone il buon andamento della pubblica amministrazione.

24. La necessità della previsione di un percorso verso la stabilità nell’interesse di entrambe le parti interessate dal rapporto di pubblico impiego.

La previsione di un percorso verso la stabilità, oltre a dare soddisfazione alle istanze sociali di stabilizzazione più volte menzionate, potrebbe, se opportunamente modulato, giovare pure alla parte datoriale pubblica e, quindi, in ultima analisi alla collettività – da tutti noi rappresentata – che fruisce dei servizi erogati dalla P.A., attribuendo, pertanto a tale sentiero una valenza, sotto tutti gli aspetti, sociale.

In particolare, verrebbe eliminato – se non, quanto meno, attenuato - il paradosso del fenomeno (effetto dell’attuale configurazione e regolamentazione del lavoro flessibile) che impedisce nei fatti alle Pubbliche Amministrazioni di potersi avvalere, in relazione alle proprie esigenze di personale, delle risorse umane - peraltro, immediatamente disponibili – dalle stesse formate ed inserite, seppure temporaneamente, nell’ambito delle proprie organizzazioni attraverso il ricorso alle forme di lavoro flessibile.

Ciò in quanto le competenze acquisite dal personale “temporaneo” delle PP.AA. vengono meno, per l’organizzazione pubblica, una volta che il relativo rapporto di lavoro si interrompe e, pertanto - considerata la durata, appunto, “temporanea”, del lavoro flessibile nelle amministrazioni pubbliche - proprio appena le medesime (competenze) – vengono ad essere acquisite.

24.1. Evitare, nell’ottica della previsione di un percorso di stabilizzazione meritocratica-premiale, di ricorrere al lavoro temporaneo come politica di gestione del personale e, quindi, al precariato “stabile”.

Affinché la prospettiva di un impiego stabile possa costituire, come auspicato, un fattore di motivazione e formazione del lavoratore inizialmente - e quasi necessariamente nell’attuale difficile epoca – flessibilmente impiegato occorre evitare che le forme di lavoro (compreso quello pubblico) temporaneo vengano reiteratemente e illimitatamente utilizzate nei confronti dello stesso lavoratore.

Peraltro, una politica di gestione del personale impostata nei suddetti termini o, comunque, accettante i medesimi, oltre ad essere eticamente priva di qualsiasi giustificazione e giuridicamente senza nessuna ratio degna di essere considerata tale, potrebbe dar luogo ad un “cannibalismo sociale” certamente non augurabile.

24.2. La futura legislazione sul lavoro pubblico a termine quale auspicato meccanismo di feedback sull’efficienza del pubblico impiego.

Le degenerazioni cui potrebbe condurre la flessibilità non devono portare a disconoscere la possibilità che il lavoro flessibile possa essere utilizzato nel settore pubblico come meccanismo di feedback sullo stato del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Difatti, il tradizionale percorso “bottom up” in virtù del quale la regolazione viene concepita come una sorta di razionalizzazione e assestamento di esigenze già concretizzatesi, potrebbe, con riferimento al pubblico impiego, essere invertito fino ad assumere uno sviluppo di tipo “top-down” nell’ambito del quale inserire e utilizzare anche l’auspicata futura legislazione, modulata in chiave premiale, sul lavoro a termine.

Già si è detto, infatti, come non irrealistico appaia ritenere che, anche in ambito pubblicistico, la flessibilità sia destinata a diventare un metodo di intervento per la riorganizzazione della macchina burocratica, la quale, come altresì detto, dovrà essere, al tempo stesso, efficace ed attenta alle problematiche occupazionali.

25. Diritto pubblico e diritto privato nella regolamentazione del rapporto di pubblico impiego.

Le problematiche descritte, ad iniziare da quella avente ad oggetto l’esigenza di un contemperamento in nuovi termini delle istanze sociali, da un lato, di stabilizzazione dei lavoratori temporanei e, dall’altro, di efficienza dell’agire pubblico, devono tener conto della disciplina ibrida tipica dell’impiego alle dipendenze delle PP.AA in quanto, appunto, pubblico e, allo stesso tempo, privatizzato.

Tale regime ibrido del pubblico impiego “privatizzato” ha comportato, a sua volta, numerose problematiche applicative quanto alla specifica regolamentazione.

Del resto, ciò era prevedibile attesa l’avvenuta (parziale) depubblicizzazione del rapporto di lavoro presso una P.A. al fine di configurarlo quale una prestazione alle dipendenze e sotto la direzione (ai sensi dell’art. 2094 c.c.) di un dirigente, comunque, organo di una struttura pubblica i fini perseguiti dalla quale comportano la presenza di aspetti di disciplina di diritto pubblico.

25.1. Discrasie conseguenti alla disciplina ibrida del rapporto di pubblico impiego privatizzato.

Riguardo alla differente regolamentazione di taluni istituti nell’ambito del lavoro privato e di quello, ancorché “privatizzato”, pubblico si può prestare attenzione, ad esempio, alla selezione di tipo comparativo richiesta, anche per l’accesso ai rapporti di lavoro temporaneo, nel pubblico impiego e non in quello privato.

In quest’ultimo, invero, è rimessa all’imprenditore la valutazione riguardo all’effettiva necessità dell’espletamento al riguardo di una procedura selettiva, che, peraltro, il medesimo potrebbe anche interpretare esclusivamente in termini di ulteriore costo per la propria azienda, nulla impedendo sotto il profilo giuridico, difatti, alla parte datoriale privata di assumere un dipendente, sia esso destinato all’impiego attraverso una forma di lavoro flessibile oppure a tempo indeterminato, senza procedere ad alcuna comparazione dello stesso con altri nell’ambito di un’apposita selezione.

Alla stessa necessità, in ultima analisi, del rispetto del principio che impone l’espletamento di una procedura concorsuale o, comunque, selettiva per l’accesso ad una data – sia essa quella iniziale o una superiore – qualifica nell’ambito del pubblico impiego, si ricollega la differente disciplina riscontrabile tra pubblico e privato in materia di mansioni superiori.

Infatti, nel pubblico impiego, nonostante anche nell’ambito del medesimo il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che il medesimo abbia successivamente acquisito per effetto dello sviluppo professionale o di procedure selettive, l’esercizio di fatto da parte del lavoratore di mansioni non corrispondenti (per eccesso) alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini del suo inquadramento e/o dell’assegnazione di incarichi di direzione [65].

Ciò ai sensi dell’art 52, primo comma, del D.Lgs. n. 165 del 2001.

Tale articolo, invero, ha in questi termini riordinato la materia delle mansioni superiori nel pubblico impiego, affermando in maniera netta il principio per cui l’esercizio di esse da parte del dipendente pubblico non attribuisce alcun diritto alla “promozione automatica”, ma soltanto quello alla retribuzione corrispondente, a prescindere dalla legittimità o meno dell’atto di assegnazione.

Dunque, un regime nettamente diverso da quello dettato con riferimento all’impiego privato dall’art. 2103 c.c. secondo cui “il prestatore di lavoro …nel caso di assegnazione a mansioni superiori … ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi”.

25.2. Riscontrabilità di discrasie anche nella regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico a termine.

Una delle discrasie conseguenti alla disciplina ibrida del pubblico impiego privatizzato riguarda il rapporto di lavoro a tempo determinato intrattenuto alle dipendenze di una P.A. [66] rispetto a quello prestato alle dipendenze di un datore di lavoro.

Si tratta di una differenza derivante dall’attuale regolamentazione di tali rapporti di lavoro, così come risultante dall’interpretazione adottata dalla giurisprudenza nazionale e dalla dottrina più tradizionale dei dati normativi in materia applicabili.

Dati normativi che, appunto, non sono identici nel caso dei due rapporti di lavoro a termine, posto che la regolamentazione del rapporto di lavoro a tempo determinato prestata presso una parte datoriale privata deve essere, con riferimento a quello “pubblico”, coordinata ed armonizzata con i principi costituzionali che vengono in rilievo in materia di PP.AA. e con la normativa di rango ordinario che è stata adottata in attuazione di essi.

Non di semplice soluzione sono le difficoltà di attuazione di siffatto coordinamento, atteso che il medesimo implica anche un’armonizzazione del rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato con altri principi, sempre di rango costituzionale, che paiono, per grado e livello di tutela assicurata dal lavoratore e, quindi, eguaglianza, opporsi ad una differente regolamentazione del rapporto di lavoro a termine a seconda della qualificazione pubblica o privata del datore di lavoro che così viene in questione.

A ciò si aggiunga che, anche quando tale armonizzazione viene raggiunta – così come avviene attualmente – attraverso la previsione di una regolamentazione differente del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, questa stessa diversa regolamentazione “deve fare i conti” con il rilievo che la vigente disciplina del rapporto di lavoro privato dipende dalla trasposizione nel nostro ordinamento di una direttiva (la n. 1999/70/CE) dell’Unione europea e, pertanto, risulta figlia di un diritto, qual’è quello comunitario, che, almeno in linea di principio, non effettua distinzioni tra pubblico e privato.

26. L’impiego pubblico a termine quale lavoro flessibile di qualità, nonché fattispecie tipicamente interessata dai fenomeni e dalle istanze di stabilizzazione : necessità, in una prospettiva de jure condendo, di concentrare l’attenzione, tra le varie tipologie di lavoro flessibile, su di essa.

Importante appare soffermarsi sullo schema contrattuale del rapporto di lavoro a termine nell’ambito dell’intrapreso discorso sull’opportunità – se non necessità – di una nuova configurazione delle forme di lavoro flessibile in un’ottica premiale o, comunque, incentivante l’utilizzo delle stesse anche da parte degli stessi lavoratori dalle medesime coinvolti.

Ciò non solo in considerazione delle menzionate dimensioni raggiunte dal fenomeno del contratto a tempo determinato che ne fanno la tipologia di lavoro precario più diffusa nel settore pubblico, oltre che in quello privato.

L’opportunità di concentrare una riflessione de jure condendo su tale fattispecie, invero, discende anche dal fatto che la medesima rappresenta, tra le forme di lavoro pubblico precario, quella maggiormente interessata dalla problematica della “stabilizzazione”, a sua volta, quanto alle relative prospettive di risoluzione, strettamente correlata, come detto, a quella dell’efficienza della macchina amministrativa pubblica.

Inoltre, non si deve dimenticare che il lavoro pubblico a tempo determinato rappresenta la tipologia di lavoro flessibile cui la P.A. più frequentemente ricorre qualora si trova a dover fronteggiare necessità contingenti di personale che assumano, per la stessa, una certa rilevanza sotto il profilo qualitativo, oltre che temporale [67].

Difatti, in tali ipotesi l’amministrazione pubblica non potrà, convenientemente, ricorrere ad altre forme di lavoro flessibile, quali ad esempio il contratto di formazione lavoro o il job splitting, che, in termini qualitativi le assicurerebbero – deve ritenersi - un risultato inferiore a quello cui – verosimilmente – da luogo il contratto a termine.

Risultato, questo, superabile soltanto attraverso la stipulazione di un contratto di lavoro autonomo con un professionista del settore in cui le rilevanti esigenze temporanee della P.A. si dovessero venire a manifestare e, quindi, mediante il ricorso ad una consulenza esterna, con tutto ciò che ne consegue in tema di problematica di spesa pubblica.

27. La necessità di adottare la disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato vigente nel settore privato quale base per una rimodulazione della regolamentazione del lavoro a termine pubblico.

Non solo logico ma anche opportuno, ai fini di una rimodulazione della regolamentazione del rapporto di pubblico impiego a termine, appare adottare quale punto di partenza la disciplina vigente con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato nel settore privato.

Logico risulta procedere in questi termini perché tale regolamentazione rappresenta, sotto il profilo tecnico, la “vera e propria” disciplina del lavoro a termine, in quanto dettata con riferimento al “tipo” di contratto che così viene in rilievo, a prescindere dai temperamenti che esso subisce a seconda del settore in cui deve essere applicato.

Temperamenti, questi, ai quali lato sensu possono essere ascritti anche quelli che all’applicazione integrale della disciplina in questione ostano qualora viene in rilievo un lavoro a termine pubblico.

Inoltre, opportuno risulta adottare la disciplina del lavoro a termine privato quale punto di partenza per un tentativo di rimodulazione del pubblico impiego a tempo determinato soprattutto nelle ipotesi in cui, come nel presente caso, tale rimodulazione si intenda effettuare in termini incentivanti anche il lavoratore da essa interessato.

Infatti, la disciplina del lavoro a tempo determinato applicata in ambito privato è stata delineata - come si spiegherà meglio nel proseguio del presente lavoro – in sede comunitaria nell’ambito di una strategia – appunto, europea – volta a favorire l’occupazione.

28. L’attuale disciplina del rapporto di lavoro a termine privato : il D.Lgs. n. 368 del 2001 emanato in attuazione della direttiva comunitaria 1999/70/CE.

Il 6 settembre 2001, il governo italiano ha adottato, fondandosi sull’art. 2, primo comma, lett. f), della legge delega n. 422/2000, il Decreto Legislativo n. 368, concernente l’attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato raggiunto in sede comunitaria [68].

Tale Decreto Legislativo contiene la disciplina del rapporto di lavoro a termine, allo stato, a livello di normativa primaria vigente ed a cui si devono, pertanto, adeguare, rispettandola, le eventuali “contrattazioni collettive” e – anche – individuali - nel nostro stato.

Il D. Lgs. 368/2001 ha abrogato la precedente disciplina nazionale del lavoro a tempo determinato dettata dalla legge n. 230 del 1962, sostituendola con una regolamentazione che comunque, per molto aspetti e soprattutto per quanto concerne gli istituti in cui essa si estrinseca, appare simile a quella previgente.

Un dato implicitamente già menzionato e - come si dirà - non irrilevante comunque differenzia la disciplina abrogata e quella oggi vigente.

Tale dato è costituito dal fatto che si tratta di normative che, seppur entrambe nazionali ed aventi la medesima collocazione - a livello di normativa primaria – nella gerarchia delle fonti del diritto italiano, hanno una matrice (a livello sostanziale) diversa, essendo la legge n. 230 del 1962 frutto di un’elaborazione anche a livello di scelte politiche effettuata sul piano nazionale e, invece, il D. Lgs. n. 368 del 2001 la trasposizione e il recepimento sul piano del diritto interno di valutazioni effettuate in sede comunitaria e sfociate nella direttiva di cui il medesimo D. Lgs, come detto, costituisce attuazione.

28.1. La proroga del contratto a termine e i limiti in cui essa è consentita.

Il Decreto Legislativo 368/2001, come detto, disciplina e contempla diversi istituti.

Tra questi vi è quello della proroga del contratto a termine, la quale ricorre nel caso in cui il rapporto di lavoro prosegue, oltre il termine originariamente fissato.

Essa è disciplinata dall’art. 4 del Decreto in questione che l’ammette “una sola volta”, a condizione che:

- vi sia al riguardo (cioè, con riferimento, appunto, alla proroga e non ad altre pattuizioni magari elusive della disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato) il consenso del lavoratore;

- la medesima sia motivata da ragione oggettive (sopravvenute alla stipula del contratto originario che si intende, appunto, prorogare e non volte a mascherare eventuali fabbisogni durevoli di manodopera che, in quanto tali, dovrebbero essere soddisfatti con tipologie contrattuali a tempo indeterminato);

- l’attività da svolgere sia la stessa oggetto dell’originario contratto a termine;

- il periodo di durata del contratto a termine, nonostante la relativa proroga, non sia superiore a tre anni.

28.2. La successione di più contatti a termine e la relativa differenziazione rispetto alla proroga dei medesimi.

La successione di più contratti a termine, detta anche “riassunzione successiva”, si verifica - in ciò differenziandosi dalla proroga - nell’ipotesi in cui un lavoratore a tempo determinato viene nuovamente riassunto a termine dopo che sia giunto a scadenza il suo precedente contratto di lavoro temporaneo e si sia effettivamente interrotto il rapporto di lavoro cui quest’ultimo aveva dato luogo.

Infatti, affinché tale successione avvenga e sia giuridicamente lecita, occorre il decorso tra il primo contratto a termine e il momento della successiva riassunzione di un intervallo temporale di almeno 10 giorni qualora il contratto originario era di durata inferiore a 6 mesi e di non meno di 20 giorni se il medesimo, invece, aveva una durata superiore a 6 mesi.

28.3. La prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro a termine privato : definizione e limiti.

La prosecuzione di fatto del lavoro a termine è riscontrabile quando il medesimo prosegue limitatamente al tempo necessario a completare l’opera intrapresa dal lavoratore ed in funzione della cui realizzazione la parte datoriale è ricorsa alla stipulazione del contratto di lavoro a tempo determinato.

Essa è consentita (e, pertanto, non sanzionata) dal D. Lgs. n. 368 del 2001 in caso di contratto a termine di durata inferiore a 6 mesi per un periodo massimo di 20 giorni e nell’ipotesi di rapporto di lavoro a termine di durata superiore a 6 mesi per un limite temporale di 30 giorni.

Tuttavia, nonostante, appunto, consentita e non sanzionata, la prosecuzione di fatto del rapporto di lavoro a tempo determinato comporta delle conseguenze economiche per il datore di lavoro, in quanto l’art. 5, comma 1, del D. Lgs. n. 368 del 2001 prevede, nel corso di essa, una maggiorazione della retribuzione pari al 20% per i primi 10 giorni di prosecuzione e pari al 40% per i restanti massimi 20 giorni.

Questo – deve ritenersi - sempre al fine di non snaturare la portata, appunto, “a termine” del rapporto di lavoro delineato dal D. Lgs. 368/2001 e di contribuire a rendere la parte datoriale consapevole del fatto che esso costituisce, appunto, un contratto avente una durata temporanea che deve essere rispettata e solo eccezionalmente – e con le conseguenze economiche descritte – può costituire oggetto di una prosecuzione di fatto.

28.4. Le sanzioni previste dal D. Lgs. n. 368 del 2001 per i casi di violazione delle disposizioni in materia di proroga, prosecuzione di fatto o successione di più contratti a termine.

In caso di proroga effettuata in assenza delle - menzionate - condizioni al riguardo richieste la sanzione è quella della conversione del contratto a termine in altro a tempo indeterminato a decorrere dal momento dell’illecita proroga.

La medesima sanzione è prevista nelle ipotesi di successione di contratti a tempo determinato avvenuta in totale assenza del rispetto dell’intervallo temporale, come detto, richiesto oppure con un intervallo di tempo più breve.

La decorrenza del lavoro a tempo indeterminato avverrà in caso di successione in totale assenza di intervallo temporale a far data della stipulazione del primo contratto a termine e nell’ipotesi di riassunzione successiva con intervallo più breve di quello normativamente richiesto dal momento della stipulazione del contratto successivo stipulato senza rispettare tale intervallo.

La trasformazione del contratto a termine in altro a tempo indeterminato è prevista anche per l’ipotesi di superamento dei limiti temporali di tolleranza entro i quali è consentita la prosecuzione di fatto dei contratti a termine.

In tale ultima fattispecie essa avverrà con decorrenza dallo scadere dei giorni di prosecuzione consentiti.

28.4.1. La conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato prevista quale meccanismo sanzionatorio degli eventuali abusi nell’utilizzo dello strumento del contratto a termine.

L’istituto della trasformazione del contratto a termine in altro a tempo indeterminato, dunque, in tutte le sue diverse ipotesi di operatività, viene ad essere previsto dal D. Lgs. n. 368 del 2001 in una chiave essenzialmente sanzionatoria volta a costituire – anche - da deterrente ad un utilizzo abusivo dello strumento dei contratti a tempo determinato [69].

28.5. ll diritto di precedenza di cui all’art. 10, comma 9, del D. Lgs. 368/2001 e le condizioni temporali e di tipologia al rispetto delle quali la sua possibilità di previsione è subordinata.

Il Decreto Legislativo attuativo della direttiva europea (1999/70/CE) in materia di lavoro a tempo determinato stabilisce al nono comma del relativo articolo 10 che “è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, la individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato per le ipotesi già previste dall’articolo 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56”.

Pertanto, tale disposizione ha una limitata portata innovativa in quanto ribadisce il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato già attribuito, in relazione a specifiche ipotesi di lavoro a termine (fondamentalmente “a carattere stagionale”) dall’art. 8 bis del D.L. n. 17 del 1983 convertito nella legge n. 79 dello stesso anno e successivamente confluito nell’art. 23 della legge n. 56 del 1987 cui fa riferimento, appunto, la stessa normativa allo stato vigente.

Il diritto di precedenza cui quest’ultima fa riferimento, qualora previsto dalla contrattazione collettiva alla quale il D. Lgs. n. 368 del 2001 al riguardo rinvia, “si estingue entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro” a termine e può essere esercitato dal “lavoratore a condizione che manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso”, analogamente – se si eccettua la riduzione del lasso temporale concesso al lavoratore per poter manifestare la volontà di volersene eventualmente avvalere – a quanto previsto dalla precedente menzionata normativa vigente in materia.

Pertanto, anche nell’attuale regolamentazione, il diritto di precedenza in questione – qualora effettivamente previsto dalla contrattazione collettiva - incontra dei limiti [70], i quali non riguardano soltanto le relative “modalità operative” ora ricordate, ma anche il suo eventuale ambito applicativo, invero, circoscritto alle medesime particolare tipologie di rapporto di lavoro a tempo determinato – concernenti le c.d. punte stagionali - cui faceva riferimento la precedente normativa richiamata sul punto dal D. Lgs. n. 368 del 2001.

Peraltro, occorre ancora osservare che quest’ultima ha soltanto previsto la possibilità di istituzione da parte della contrattazione collettiva del diritto di precedenza in questione che, invece, prima dell’intervento della normativa dettata dal D. Lgs. n. 368 del 2001 operava ope legis.

Ciò pertanto con, quanto meno apparente, violazione del principio del c.d. favor contemplato dalla direttiva comunitaria di cui il D.Lgs. in questione costituisce attuazione e per effetto del quale al legislatore nazionale nell’attuazione di tale direttiva non era consentito derogare in pejus rispetto a quanto previsto dalla precedente normativa ma soltanto, eventualmente, prevedere un trattamento più favorevole [71].

29. Tratti comuni nella regolamentazione del rapporto di lavoro a termine privato e di quello prestato alle dipendenze di una pubblica amministrazione.

Una delle discrasie riscontrabili tra regolamentazione del lavoro privato e disciplina di quello, ancorché privatizzato, pubblico riguarda, come si è detto, il rapporto di lavoro a tempo determinato.

Tuttavia, pare si debba precisare che, se si eccettua la differenza di disciplina in materia di apparato sanzionatorio di cui successivamente – più approfonditamente - si dirà, sostanzialmente analoga è la regolamentazione del lavoro a tempo determinato prestato alle dipendenze di una parte datoriale privata rispetto a quello intrattenuto con una pubblica amministrazione.

29.1. La – sostanziale – neutralità delle causali in presenza delle quali si può ricorrere al lavoro a tempo determinato.

Una vera e propria differenza tra pubblico e privato non pare potersi riscontrare se non sotto il profilo formale (e non, pertanto, anche sostanziale) con riferimento alle causali in presenza delle quali si può ricorrere alla stipulazione di un contratto di lavoro a termine.

Nel settore privato esse sono quelle tassativamente, al riguardo, previste dal D. Lgs. n. 368 del 2001.

Vale a dire le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo” ex art. 1, comma 1, di tale D. Lgs. in presenza delle quali è consentita l’apposizione del termine al contratto di lavoro e che devono essere indicate – anche per consentirne l’eventuale sindacato in sede giurisdizionale – nel medesimo, pena (anche in questo caso) la sostanziale trasformazione del contratto a termine in altro a tempo indeterminato.

Nel pubblico le causali in questione appaiono più ampie e larghe di quelle cui fa riferimento, almeno sotto il profilo della espressa dizione letterale, il D. Lgs. n. 368 del 2001 e risultano previste, con riferimento ai singoli comparti, dalla contrattazione collettiva [72].

Peraltro, tali causali - individuate dai vari C.C.N.L. - sono state ulteriormente, sotto il profilo sostanziale, ampliate dalle varie leggi finanziarie che si sono succedute negli ultimi anni, nonché dai relativi “collegati”.

Per effetto di questi provvedimenti normativi si è giunti al risultato per cui il lavoro a termine nella P.A. è consentito pressoché ogni qualvolta un’esigenza di contenimento della spesa pubblica impedisca la previsione di nuovi ruoli di spesa fissa, quali, in un senso impersonale e tecnocratico, possono essere definiti anche quelli cui danno luogo i costi sostenuti per le le risorse umane.

Tanto è che, talvolta, in dottrina si è parlato di “un’assenza di causali nell’ambito del rapporto di lavoro tempo determinato pubblico”[73], che comunque, verrebbe ad essere mitigata nei relativi effetti (che, se non temperati, potrebbero condurre ad un dilagare del precariato nel pubblico impiego) dal limite numerico-percentuale – già implicitamente menzionato - previsto con riferimento alla stipulazione nel settore pubblico di contratti di lavoro a termine.

Tale descritta diversità, sotto il profilo causale, delle possibilità di ricorso al lavoro a termine nell’ambito del settore pubblico e di quello privato risulta, però, nei fatti, drasticamente ridimensionata

Infatti, l’ampliamento dell’ambito delle causali avvenuto nel privato, anche per effetto dei rinvii all’autonomia collettiva effettuati al riguardo dall’art. 10 del D. Lgs. 368/2001, ha, di fatto, di molto avvicinato i margini entro i quali è possibile ricorrere al lavoro a termine da parte della parte datoriale privata.

A ciò deve aggiungersi la genericità insita nella formula “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo” utilizzata per descrivere siffatte causali del lavoro a termine privato.

30. Le principali differenze.

Già si è detto della necessità nel pubblico impiego e non anche nel settore privato del previo espletamento di una procedura selettiva comparativa per l’accesso pure a forme di lavoro a termine.

Tuttavia, non è questo l’aspetto – che, invero, concerne anche altre forme di pubblico impiego – in relazione al quale il lavoro a termine pubblico viene a differenziarsi rispetto a quello prestato alle dipendenze di un datore di lavoro privato sotto il profilo della concreta regolamentazione cui è sottoposto lo specifico tipo contrattuale (appunto, del rapporto di lavoro a tempo determinato) che così viene in rilievo.

30.1. La sanzione, per gli eventuali abusi nell’utilizzo dello strumento del rapporto di lavoro a tempo determinato, della conversione in uno a tempo indeterminato prevista nel settore privato e non nel pubblico impiego.

La vera e propria differenza tra disciplina del lavoro temporaneo privato e regolamentazione – ibrida – di quello eventualmente prestato alle dipendenze di un’amministrazione pubblica pare poter essere riscontrata, nell’ambito di un’analisi effettuata alla luce – e nella consapevolezza – del problema sociale determinato dalla eccessiva attuale precarietà del lavoro, nonché delle istanze, ugualmente sociali, di efficienza della P.A., nella conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in uno fisso prevista quale meccanismo sanzionatorio dell’eventuale abuso dello strumento del lavoro a termine dagli artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 368 del 2001 non applicabili al pubblico impiego a termine per effetto del divieto previsto dall’art. 36/2 del D.Lgs. n. 165 del 2001.

Il secondo comma dell’art. 36 del T.U. sul pubblico impiego, invero, in particolare, prevede che “la violazione di disposizione imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni”.

Tale disposto - deve ritenersi - mira ad evitare che, attraverso assunzioni “precarie”, si possano instaurare rapporti di lavoro stabili senza il rispetto d’idonee procedure selettive e, inoltre, nell’assenza di una previa attenta programmazione del fabbisogno personale.

Così disponendo l’art. 36 T.U. pubblico impiego, però, non si può sottacere la vistosa disparità di trattamento esistente, quanto meno sotto il profilo dell’ispirazione delle relative normative, tra il settore privato, nell’ambito del quale l’ordinamento riconosce il preminente interesse del lavoratore al mantenimento del relativo impiego e quello pubblico in cui prevale l’interesse della P.A. e, quindi, della collettività in applicazione del principio del buon andamento della stessa e di quello dell’accesso al lavoro fisso pubblico secondo procedure neutrali.

30.1.1. L’art. 36/2 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e lo scopo da esso perseguito.

La ratio dell’impossibilità della conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato eventualmente intrattenuto alle dipendenze di una PP.AA. in indeterminato può essere ravvisata nell’evitare che, attraverso il contemplare – sia pure quale sanzione - una simile possibilità, possa essere aggirato e violato il principio (sancito dall’art. 97, comma 3, della carta costituzionale) che prevede l’obbligo del superamento di un pubblico concorso - da ritenersi - appositamente indetto ai fini dell’accesso ai ruoli stabili della pubblica amministrazione.

Infatti, potrebbe – altrimenti - accadere che dietro l’escamotage dell’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, poi illegittimamente protratto, si venga ad accedere ai ruoli fissi dell’amministrazione pubblica eludendo tale obbligo e violando, altresì, il principio di eguaglianza nel caso specifico in materia di accesso ai pubblici impieghi a tempo indeterminato [74].

Il secondo comma dell’art. 36 del T.U. del pubblico impiego pare essere, appunto, volto ad evitare una simile eventualità.

30.1.2. Ispirazione ad una logica di tutela aziendale dell’impianto normativo che prevede l’inamissibilità della conversione con riferimento al pubblico impiego a termine.

Il sistema normativo panpubblicistico che determina, attraverso il menzionato secondo comma dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165 del 2001, l’inoperatività della sanzione della conversione nell’ambito del lavoro pubblico pare denotare – pur nella sua derivazione dal principio del pubblico concorso ex art. 97/3 Cost. più volte menzionato - una logica di tutela dell’organizzazione aziendale paradossalmente più marcata ed accentuata di quella (seppur con riferimento al solo tema del lavoro a tempo determinato) riscontrabile nel “tradizionale” campo in cui opera l’azienda; vale a dire quello privato.

Invero, in quest’ultimo trova applicazione la specifica sanzione della conversione del contratto a termine, in luogo del residuale strumento risarcitorio cui può ricorrere, almeno nelle ipotesi di responsabilità aquiliana, qualsiasi soggetto giuridico che dovesse ritenersi danneggiato dal comportamento non ius o contra ius di altro soggetto.

Dunque, in materia, pare giungersi ad un risultato, nel senso appena menzionato, paradossale, atteso che l’ottica della tutela dell’organizzazione aziendale – almeno fino ad adesso - è risultata “tipica” del mondo privato piuttosto che di quello pubblico.

30.1.3. Il segno del passaggio ad un’altra epoca e ad una visione efficientistica della macchina amministrativa pubblica : dalla tutela del solo lavoratore a quella “anche” della pubblica amministrazione, datore di lavoro.

La situazione descritta può essere ritenuta segno di un cambiamento dei tempi o, comunque, di un “nuovo corso” dell’organizzazione pubblica.

Invero, essa pare delineare una sorta di “fuga dal diritto del lavoro”, qualora inteso come branca del nostro ordinamento nata e sviluppatasi al fine di garantire, nell’ambito del rapporto contrattuale lavoristico, la tutela del contraente debole tradizionalmente individuato nel lavoratore.

“Fuga” di cui paiono costituire, altresì, indici il passaggio da una piattaforma di contratto di lavoro caratterizzata da una serie di diritti inderogabili in pejus riconosciuti al solo lavoratore ad un sistema basato su un’inderogabilità, per così dire, bilaterale, nel quale si inserisce a pieno titolo l’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165 del 2001 che delinea, invero, nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico a termine spazi sottratti alla libertà contrattuale delle parti a garanzia, però, a differenza di quanto avveniva nel passato, delle esigenze del datore di lavoro.

Tale cambiamento del diritto del lavoro è stato in parte determinato e, comunque, agevolato dalla ricomprensione nel relativo ambito del pubblico impiego, una volta privatizzato.

Di esso paiono costituire altre manifestazioni i più ampi margini di elasticità riconosciuti dalla dottrina e giurisprudenza giuslavoristica al potere dell’amministrazione pubblica intesa e configurata quale datore di lavoro [75].

30.2. Altra fondamentale differenza : la possibilità di conversione in un’ottica premiale dell’impiego a termine in lavoro fisso consentita dal D. Lgs. 368/2001 e - da ritenersi - esclusa nell’ambito del pubblico impiego.

La stessa esigenza del rispetto, ex art. 97/3 Cost., del principio del pubblico concorso che si pone a fondamento del divieto di applicazione della sanzione della conversione ex D.Lgs. 368/2001 nell’ambito del pubblico impiego deve ritenersi che impedisca, salvo ovviamente il superamento – appunto - di un concorso pubblico, nel medesimo settore pubblico, altresì, l’attuazione di una simile conversione in un’ottica volta a premiare il lavoratore a termine che dovesse eventualmente aver conquistato la fiducia del proprio – inizialmente temporaneo - datore di lavoro.

Tale possibilità non risulta, invece, in alcun modo impedita nel settore privato.

30.2.1. La conversione quale meccanismo premiale nel privato tra rischio di “cannibalismo sociale” e possibilità di competizione nell’ambito delle risorse umane.

Il rischio che un impiego dello strumento della conversione in chiave premiale possa provocare fenomeni di “cannibalismo sociale” (nel senso di un’insana ed esasperata competizione tra lavoratori) potrebbe sussistere.

Tuttavia, occorre osservare che tale rischio si riduce notevolmente e può arrivare a ridursi ad una “sana” o quanto meno accettabile competizione qualora la rimodulazione in chiave meritocratica del meccanismo della conversione conduca – come auspicabile, sia pure nelle previsioni più ottimistiche – all’instaurazione di un sistema che, nei fatti, possa dar luogo ad una conversione, per così dire, “a turno” dei lavoratori a termine meritevoli, secondo una sorta di circolo virtuoso alla cui instaurazione potrà sicuramente contribuire l’applicazione rigorosa della disciplina dettata dal D. Lgs. n. 368 del 2001.

Infatti, in un contesto di adozione da parte del datore di lavoro di una politica di gestione del personale di tipo premiale-meritocratico, il lavoratore a tempo determinato che dovesse eventualmente soccombere nella menzionata competizione con altro lavoratore temporaneo invece premiato, avrebbe sempre la consapevolezza di poter essere, a sua volta, valorizzato in occasione della prima successiva conversione che verrà ad essere attuata dal proprio datore di lavoro.

Ciò anche in considerazione dell’ulteriore esperienza professionale dal medesimo nel frattempo acquisita e del fatto che la parte datoriale, ad un certo momento, nell’ambito della sua politica di gestione non solo del personale, ad una stabilizzazione del posto di lavoro dovrà comunque provvedere (anche in considerazione dei limiti all’utilizzo del lavoro a termine già allo stato previsti dal D. Lgs. 368/2001) se non vorrà privarsi dell’ausilio di un lavoratore nel frattempo debitamente formatosi, peraltro nello specifico campo della propria realtà aziendale.

30.2.2. Garanzia della conversione quale sanzione contro i pericoli di “cannibalismo sociale” attuato da parte del datore di lavoro privato.

Lo scenario delineato dal D. Lgs. n. 368 del 2001 che prevede in caso di successione senza - o con irrisoria - soluzione di continuità dei rapporti di lavoro a termine la relativa conversione ex lege dovrebbe, peraltro, indurre il datore di lavoro privato ad adottare una politica virtuosa di gestione del personale, la quale implichi la possibilità di tale conversione quale premio, piuttosto che quale sanzione per il reiterato continuo o ravvicinato (nel tempo) utilizzo del lavoratore rivelatosi adatto alle esigenze della propria azienda.

Infatti, in presenza di una situazione di questo tipo l’alternativa per la parte datoriale, al fine di evitare l’ipotesi di una conversione del rapporto di lavoro in chiave premiale o comunque sanzionatoria, sarebbe quella di ricorrere all’assunzione di personale, di volta in volta, nuovo, rinunciando però così a quella ottimizzazione della produttività, competitività ed efficienza della propria azienda che la continuazione dell’impiego del lavoratore, nel frattempo, dalla medesima – parte datoriale - formato “sul (proprio specifico) campo”, invece, consentirebbe.

30.3. Il rischio del precariato a lungo termine, comunque, insito nella previsione nel nostro ordinamento della tipologia del lavoro a tempo determinato quale modello non eccezionale.

Non si può nascondere, ad ogni modo, un certo rischio di precarietà sociale una volta che si ammette nel nostro sistema giuridico (così come avviene, per le ragioni elencate) la possibilità di instaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato non solo in presenza di eccezionali ipotesi.

Potrebbe, infatti, verificarsi – ed è ciò che, di frequente, accade nella pratica – un ricorso allo strumento del contratto a termine con soluzioni di continuità tali da eludere la conversione di cui al D. Lgs. 368/2001 e, quindi, determinare un “cannibalismo sociale” da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore precario, che, poi, a sua volta, si potrebbe ripercuotere in un’altra manifestazione di tale “cannibalismo” tra gli stessi lavoratori a tempo determinato finalizzato ad una nuova assunzione, però, a termine sic et simpliciter.

31. L’impossibilità di una conversione a tempo indeterminato del pubblico impiego a termine sia come effetto di un meccanismo sanzionatorio che quale conseguenza dell’applicazione di un istituto di natura premiale.

Nel pubblico impiego la conversione del rapporto di lavoro a termine non può avvenire non solo quale sanzione ex D.Lgs. 368/2001, ma nemmeno nell’auspicata (già nel privato possibile) sua caratterizzazione, per così dire, “in positivo” anche per il lavoratore che da tale conversione dovesse eventualmente venire ad essere premiato in un’ottica meritocratico-incentivante.

Questo per effetto delle menzionate discrasie che differenziano, in alcuni importanti aspetti, il pubblico impiego dal lavoro privato nonostante anche il primo sia stato, come tralatiziamente si ripete, “privatizzato”.

Difatti, se è possibile affermare che nell’ambito del lavoro privato non esiste alcuna norma che impedisca (ma nemmeno imponga) alla parte datoriale di adottare una politica meritocratica-premiale di conversione, è, però, altrettanto possibile osservare che una simile eventualità risulta, allo stato, preclusa alle PP.AA. a causa del principio che prevede il necessario superamento di un pubblico concorso ai fini dell’accesso ai ruoli stabili della P.A., così come – si vedrà – tradizionalmente applicato.

31.1. La previsione nel pubblico impiego privatizzato del risarcimento del danno quale meccanismo sanzionatorio degli eventuali abusi nell’utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato.

L’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165 del 2001 già riportato prevede che l’eventuale violazione di “disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni” comporta esclusivamente implicazioni di carattere risarcitorio a favore del lavoratore pubblico “abusato”.

In particolare, tale comma stabilisce che “le amministrazioni interessate (da tale fenomeno illecito e, pertanto, anche illegittimo) hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave … ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

Pertanto, il Dirigente che abbia eventualmente disposto l’illecita trasformazione-stabilizzazione di contratti a termine risponderà verso la propria amministrazione pubblica di appartenenza secondo gli usuali principi in materia di responsabilità amministrativa, nonché sotto il profilo disciplinare, come espressamente ribadito ad abundantiam dall’articolo 36/2 del T.U. sul pubblico impiego.

31.1.1. Il “poco approfondito” danno concretamente risarcibile al lavoratore pubblico a termine “abusato”.

Il pubblico dipendente nei confronti del quale sono state perpetrare “violazioni di disposizione imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni”, pertanto, avrà titolo al risarcimento del danno.

L’incentrazione del petitum nelle cause instaurate dai lavoratori pubblici contraenti un patto di lavoro a tempo determinato poi eventualmente illecitamente (in quanto in contrasto con il D. Lgs. 368/2001 o, prima dell’entrata in vigore di quest’ultimo, con la legge n. 230 del 1962) non rispettato sulla richiesta di conversione del medesimo, sulla scorta di quanto previsto da tali normative con riferimento al settore privato, ha condotto ad uno scarso approfondimento del tema del risarcimento de quo.

Pare, comunque, potersi affermare che il lavoratore ad esso interessato avrà diritto al risarcimento del danno patrimoniale e che questo dovrà contemplare il corrispettivo delle prestazioni lavorative rese da tale lavoratore, così come incrementato in ragione di quanto previsto dall’art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 368 del 2001.

Infatti, in caso contrario, anche in considerazione dell’applicazione dell’art. 2126 c.c. effettuata dalla giurisprudenza con riferimento a tutte le prestazioni di lavoro di fatto, rimarrebbe priva di significato la previsione del risarcimento del danno contenuta nell’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165/2001.

Deve, altresì, ritenersi che il risarcimento del danno patrimoniale spettante al lavoratore a termine abusato debba comprendere la perdita di chances lavorative di tipo migliorativo.

Riguardo alle altre poco approfondite tipologie di danno sembra doversi escludere il danno morale, per la relativa nota connessione della possibilità di suo risarcimento all’accertamento di una fattispecie di reato (a meno che non si ritenga questa ipotizzabile, con riferimento alla figura dell’abuso di ufficio, in capo al Dirigente che in violazione del divieto di conversione dovesse, invece, aver disposto questa).

Quanto, poi, al danno c.d. esistenziale pare opportuno attendere il consolidamento dell’orientamento della giurisprudenza sugli attuali relativi incerti e discussi confini prima di pronunciarsi sulla possibilità di una sua correlazione con l’eventuale violazione delle disposizioni normative in materia di contratto a tempo determinato nell’ambito del pubblico impiego.

31.1.2. I dubbi riguardo alla riconducibilità delle responsabilità ex art. 36/2 D. Lgs. n. 165/2001 a quella precontrattuale.

Perplessità paiono potersi avanzare sulla possibilità di ricondurre – come, invece, effettua parte, però, minoritaria della dottrina [76] - il danno ipotizzato dall’art. 36/2 del D.Lgs. 165/2001 ad una forma e manifestazione della responsabilità precontrattuale ex articolo 1338 del codice civile secondo cui “la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto”.

Ciò in quanto, con riferimento a tale modulo di responsabilità civile, il secondo comma dell’articolo 36 del T.U. sul pubblico impiego, presenta la caratteristica della ravvisabilità, nell’ambito del suo dettato, dell’elemento di specialità costituito dall’irrilevanza, ai fini della valutazione dell’esistenza o meno del diritto al risarcimento da esso contemplato, della presunzione di conoscenza delle norme legali, al contrario, ritenuta fondamentale in materia di responsabilità precontrattuale.

Per effetto del dettato normativo in questione, difatti, il risarcimento a favore del lavoratore è sempre ammesso in caso di “prestazione del lavoratore resa in violazione di disposizioni imperative”, indipendentemente dall’attribuzione di qualsiasi rilevanza all’eventuale consapevolezza da parte del medesimo dell’invalidità del contratto che lo stesso si apprestava a stipulare.

Peraltro, in proposito, si deve anche rilevare come ritenere, da un lato, precontrattuale la tipologia di responsabilità che in materia viene in rilievo e, dall’altro, risarcibile il lavoratore anche nell’ipotesi di consapevolezza da parte del medesimo dell’invalidità del contratto pare voler significare premiarlo per una sua colpa, in palese contraddizione pure con i principi di autoresponsabilità e di buona fede soggettiva ed oggettiva.

Prova evidente della difficoltà della materia è la constatazione che, nonostante il decorso di un significativo lasso di tempo dall’introduzione nel nostro ordinamento della norma in questione, la misura risarcitoria da essa prevista non è stata applicata nei numerosi giudizi promossi dai lavoratori pubblici assunti a termine e reimpiegati con successioni temporali anomale rispetto ai criteri previsti dalla normativa al riguardo vigente.

31.2. La tutela ex art. 2126 c.c. riconosciuta dai giudici amministrativi al lavoratore a termine impiegato nel pubblico in violazione di norme imperative.

Già durante la vigenza della precedente disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato dettata dalla legge n. 230 del 1962, la giustizia amministrativa, nell’escludere l’applicabilità al pubblico impiego della sanzione – pure da tale disciplina prevista – della conversione-stabilizzazione, riconosceva, comunque, al lavoratore pubblico il diritto alla corresponsione del trattamento economico previsto per lo svolgimento della prestazione di lavoro dallo stesso eventualmente in violazione di norme imperative e, pertanto, di fatto, resa a favore di una determinata pubblica amministrazione.

Ciò in base all’applicazione al riguardo dell’art. 2126 del codice civile, che circoscrive gli effetti delle prestazioni lavorative “di fatto” alle sole situazioni giuridiche soggettive aventi ad oggetto la corresponsione del trattamento retributivo con riferimento alle medesime prestazioni previsto.

Tale tutela viene concretamente riconosciuta ancora allo stato, pur – come implicitamente detto - dopo l’intervenuta abrogazione della legge n. 230 del 1962 ad opera del D. Lgs. n. 368 del 2001 e nella vigenza di questo.

Anche di recente, invero, la giurisprudenza non solo amministrativa, argomentando in particolare dalla nullità di qualsiasi patto stabilito in violazione dell’art. 36/2 del T.U. sul pubblico impiego, ha concluso nel senso retribuibilità, quali prestazioni di lavoro di fatto ai sensi dell’art. 2126 c,c, di quelle eventualmente rese, per esempio, oltre la scadenza del periodo contemplato dal contratto di lavoro a tempo determinato inizialmente stipulato alle dipendenze di un’amministrazione pubblica [77].

L’applicabilità dell’art. 2126 c.c., operata dalla giurisprudenza con riferimento al pubblico impiego già prima della sua privatizzazione e, quindi, nella vigenza della disciplina della legge n. 230 del 1962, peraltro, è risultato di non poco rilievo anche sotto un ulteriore aspetto.

Infatti, con l’applicazione di tale articolo, nel tentativo di tutelare le prestazioni in via di fatto rese dai pubblici dipendenti, i giudici amministrativi indirettamente arrivarono ad ammettere la dimensione sostanzialmente di scambio e sinallagmatica del rapporto di lavoro prestato alle dipendenze di una P.A., così anticipando la riflessione sulla concreta natura di tale rapporto che, a decorrere dal 1993, ha dato luogo – non però senza inconvenienti - alla relativa “privatizzazione”.

31.3. La distanza tra la protezione assicurata ex artt. 36/2 D. Lgs. n. 165/2001 e 2126 c.c. e l’auspicata tutela della propria aspettativa di stabilizzazione percepita dal lavoratore pubblico a termine pubblico quale unica effettiva forma di garanzia del medesimo.

Non pare possa nascondersi come le descritte forme di tutela previste per il lavoratore pubblico assunto attraverso un contratto a termine oggetto di un eventuale suo successivo uso distorto esulino dal tema della “stabilizzazione” del pubblico impiegato temporaneo, andando, piuttosto, in una diversa inversa rispetto a quella della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in impiego fisso.

Esse, pertanto, non affrontano il problema sociale del lavoro stabile che, invero, paiono ignorare, nonostante sia proprio la prospettiva, in termini giuridici, della stabilizzazione del proprio impiego quella che viene ad essere auspicata dal lavoratore a tempo determinato - anche - pubblico quale misura volta a garantire realmente il medesimo.

Il fatto che questa sia la forma di garanzia maggiormente “sentita” e, quindi, auspicata dai lavoratori a termine pare sia dimostrato dai numerosi contenziosi dai medesimi instaurati proprio al fine di rivendicare la “stabilizzazione” in questione anche nelle ipotesi in cui la parte datoriale che così viene in rilievo risulta essere una pubblica amministrazione [78].

32. La permanente specialità del lavoro pubblico ancorché privatizzato e i fondamenti di essa individuati dalla Corte Costituzionale.

Alla luce di quanto sin qui rilevato, pertanto, si può affermare che permane, nonostante la relativa privatizzazione, una certa specialità del pubblico impiego rispetto al lavoro privato.

La ratio di tale specialità è stata individuata dalla Consulta, che quindi ne ha così anch’essa riconosciuta l’esistenza, nel rilievo che “gli artt. 97 e 98 Cost. vietano che il rapporto di pubblico impiego possa essere ridotto alla pura logica del rapporto privatistico di scambio” ed impediscono che il principio di tutela del lavoratore pubblico possa avere lo stesso “spessore” di quello posto a presidio del dipendente impiegato nel privato.

La specialità in questione si pone alla base delle (e giustifica le) differenze e discrasie riscontrabili nella disciplina di alcuni istituti a seconda che venga un rapporto di lavoro pubblico o privato.

33. I dubbi riguardo alla compatibilità con i parametri costituzionali del sistema che esclude la possibilità di conversione nel pubblico impiego.

La specialità del lavoro pubblico rispetto a quello prestato alle dipendenze di un datore di lavoro privato è stata affermata dal giudice costituzionale da epoca risalente e, più, precisamente fin dal 1980 con la sentenza n. 68 [79].

Nonostante tale specialità sia stata ribadita – peraltro, con riferimento a differenti profili della regolamentazione del lavoro pubblico – a più riprese da parte del giudice costituzionale, dubbi sono stati avanzati riguardo alla compatibilità con i parametri costituzionali dell’impianto normativo che esclude la possibilità di conversione del rapporto di lavoro a termine nell’ambito del pubblico impiego.

33.1. Divieto di conversione previsto dall’art. 36/2 T.U. pubblico impiego e principi di eguaglianza e buon andamento della P.A. sanciti dagli artt. 3 e 97 della nostra carta costituzionale.

I dubbi sulla compatibilità con i principi costituzionali della differente disciplina cui sotto il profilo sanzionatorio è assoggettato il lavoro a termine pubblico rispetto a quello privato hanno condotto la giurisprudenza di merito a sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001.

La censura di incostituzionalità di tale norma è stata portata all’attenzione del giudice delle leggi dal Tribunale di Pisa (Sezione Lavoro) con un’ordinanza del 07.08.2002, dopo un primo tentativo effettuato dal giudice del lavoro di Torino e dalla Corte Costituzionale ritenuto inammissibile per sostanziale difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della questione.

In particolare, attraverso l’ordinanza dell’agosto 2002 la Sezione Lavoro del Tribunale di Pisa ha sollevato la questione di compatibilità della menzionata normativa con riferimento agli articoli 3 e 97 della nostra carta costituzionale, rilevando come, a suo giudizio, interesse della pubblica amministrazione, al fine di assicurare il proprio buon andamento, dovrebbe ritenersi anche quello di escludere ogni forma di lavoro precario, atteso che il rapporto di lavoro a termine senza prospettiva di stabilizzazione risulterebbe caratterizzato anche dal disinteresse del dipendente temporaneo alla relativa crescita professionale considerata, appunto, la non utilizzabilità di questa da parte del medesimo in una successiva prestazione lavorativa presso lo stesso datore di lavoro.

Rilevava, inoltre, il giudice del lavoro toscano come il divieto di conversione del contratto a termine potrebbe consentire al datore di lavoro pubblico, a differenza di quanto avviene nel settore privato e con conseguente violazione del principio di eguaglianza, un uso disinvolto di tale tipologia contrattuale.

Non si può nascondere come i rilievi di tale giudice risultino contenere più che un fondo di verità : il primo sul piano della maggiore auspicata efficienza della P.A. ed il secondo con riferimento alla dimensione più propriamente sociale.

34. La ferma posizione assunta dal giudice delle leggi riguardo alla compatibilità con la carta costituzionale del divieto di conversione nel pubblico impiego.

La Corte Costituzionale, già ratione temporis nella vigenza delle varie – anche specifiche – discipline succedutesi in materia di lavoro a tempo determinato, ha avuto modo di pronunciarsi nel senso della compatibilità con i principi costituzionali dell’esclusione nell’ambito del pubblico impiego dell’operatività dell’istituto della conversione del rapporto di lavoro a termine in altro a tempo indeterminato.

Ciò, appunto, a giudizio di essa, in virtù della specialità rispetto al lavoro privato che contraddistingue quello prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

34.1. I precedenti storici in materia di pubblico impiego a termine : le sentenza del giudice delle leggi n. 40 del 1986.

Invero, già nel 1986 in relazione alle disposizioni del D.P.R. n. 276 del 1971 che escludevano la possibilità di trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine nel rispetto di tale disciplina eventualmente stipulati, la Consulta ha deciso, con la sentenza n 40, la questione della compatibilità di tale disciplina con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nel senso del rispetto da parte di tale normativa del dettato costituzionale.

Le argomentazioni adottate allora dalla Corte, per affermare la legittimità costituzionale di tale D.P.R., furono fondamentalmente basate sul rilievo che la disposizione del testo normativo in questione che impediva la trasformazione a tempo indeterminato del contratto a termine dalla medesima preso in considerazione doveva ritenersi legittima al fine di “evitare assunzioni indiscriminate, clientelari, destinate a trasformarsi in altre a tempo indeterminato, con pregiudizio per la pubblica amministrazione e per l’erario [80] ed in contrasto, pertanto, con i principi, sanciti dall’art. 97/3 Cost., di buon andamento della P.A. e dell’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato soltanto previo superamento di un pubblico concorso.

Le stesse considerazioni paiono poter valere ancora oggi.

34.2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 89 del 2003 che ha dissipato i dubbi circa la compatibilità con gli artt. 3 e 97 Cost. del divieto di conversione nel pubblico impiego previsto dal D. Lgs. n. 165/2001.

Il giudice delle leggi ha confermato la sua posizione in materia di divieto di conversione nel pubblico impiego proprio decidendo, attraverso la sentenza n. 89 del 2003, la menzionata questione di legittimità costituzionale dell’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165 del 2001 sollevata dal giudice del lavoro di Pisa.

Infatti, in tale sentenza, la Consulta ha ritenuto siffatta questione infondata in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., atteso che, a giudizio della medesima, la previsione costituzionale dell’accesso ai pubblici uffici mediante concorso, in ossequio ai principi di imparzialità e buon andamento, differenzia il momento genetico del lavoro pubblico da quello privato e giustifica la diversa disciplina (sotto il profilo della relativa convertibilità-inconvertibilità in altro a tempo indeterminato) del lavoro a termine.

Per cui, secondo la Corte Costituzionale, il principio di eguaglianza non potrebbe, nella specie, ritenersi vulnerato attesa la non omogeneità delle situazioni messe a confronto, posto che – anche dopo la cosiddetta “privatizzazione” – il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici conserverebbe fondamentali peculiarità tali da renderlo profondamente diverso da quello intrattenuto con i datori di lavoro privati, soprattutto con riferimento al profilo dell’accesso ad esso (qualora identificato con il pubblico impiego a tempo indeterminato), come più volte affermato dalla stessa Corte Costituzionale [81].

Dunque, nonostante sia indubbio che, allo stato, ci si trovi di fronte ad un sistema normativo molto distante da quello – caratterizzato, tra l’altro, dalla eccezionalità delle assunzioni temporanee - delineato dalla “legge-quadro” (in materia di pubblico impiego) del 1983 nell’ambito della cui vigenza intervenirono le prime pronunce in materia della Consulta, secondo il giudice delle leggi la lettura dell’assetto costituzionale che giustificava l’inapplicabilità dell’istituto della conversione in tale periodo storico vale a giustificarla ancora oggi, benché nel frattempo il divieto di conversione in questione sia divenuto l’unico elemento diatonico di una disciplina della flessibilità per il resto, sostanzialmente, comune al lavoro sia pubblico che privato [82].

34.3. Principio del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato delle P.A. e limite della non manifesta irragionevolezza sancito dalla Consulta riguardo alla possibilità di eccezioni ad esso.

Le eccezioni al principio del pubblico concorso posto, come detto, dalla Corte Costituzionale – anche - a presidio e giustificazione del divieto nel pubblico impiego della conversione in questione vengono dalla medesima rimesse, quanto alla concreta individuazione – alla discrezionalità del legislatore nei limiti della relativa non manifesta irragionevolezza [83].

Pertanto, esse paiono trovare il proprio specifico limite nella necessità di garantire ancor meglio il buon andamento della pubblica amministrazione [84] a presidio del quale è posto il principio del pubblico concorso.

34.3.1. Le eccezioni alla regola del pubblico concorso ritenute dal giudice delle leggi compatibili con la carta costituzionale.

Conformemente alla propria precedente giurisprudenza, nonché linea di pensiero, la Corte Costituzionale, di recente, con la sentenza n. 274 del 24 luglio 2003, ha ammesso la compatibilità con gli artt. 3/1 e 97/1 della nostra carta fondamentale, dell’art. 3 della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002 n. 11.

Tale legge, in particolare, ha previsto la stabilizzazione di soggetti che da significativi e - spesso molto - lunghi periodi di tempo si trovavano a prestare il proprio lavoro nell’ambito dell’amministrazione regionale in una posizione di precarietà in quanto assunti con contratti a termine o quali addetti ai lavori socialmente utili.

Secondo la Corte, la non irragionevolezza di tale normativa può essere dedotta dal fatto che essa è venuta ad incardinare nei ruoli fissi della P.A. regionale soggetti che verosimilmente nel corso della loro precarietà di lungo periodo avevano avuto modo di acquisire l’esperienza necessaria a farne ritenere la relativa stabilizzazione funzionale alle esigenze di buon andamento della P.A. e, quindi, rispettosa, dell’art. 97, comma 1, della Costituzione.

Dunque, non in base ad una generica affermazione della valorizzazione delle “specifiche professionalità acquisite” dal personale temporaneo.

34.4. La Corte costituzionale precisa che “la privatizzazione riguarda … solamente lo svolgimento del rapporto di lavoro, non il momento della sua costituzione”.

Fin dal 1981, attraverso la sentenza n. 193, il giudice delle leggi ha avuto modo di statuire come “nonostante il processo di osmosi che si è venuto verificando tra impiego pubblico e privato, tra i due rapporti sussistono differenze riconducibili a particolari e apprezzabili interessi ed esigenze della pubblica amministrazione, legittimanti diversità di disciplina dei rapporti medesimi”.

Tale sua precisazione la Consulta ha avuto modo di ribadire, in sede di argomentazione principale o attraverso obiter dicta, in diverse successive sue decisioni intervenute (alcune anche recentemente quali quelle n. 1 del 1999, n. 194 del 2002 e n. 34 del 2004) in materia di pubblico impiego.

35. Le perplessità della letteratura giuridica minoritaria riguardo al sistema – ritenuto compatibile con la carta costituzionale - che prevede l’inapplicabilità al pubblico impiego della conversione-stabilizzazione del lavoro a termine.

Nonostante la ferma posizione assunta sul punto dalla Corte Costituzionale, la dottrina ha continuato a studiare il fenomeno del rapporto di lavoro a tempo determinato pubblico, evidenziandone le discrasie comportate dal differente – rispetto al settore privato - apparato sanzionatorio con riferimento ad esso previsto.

35.1. Le tesi che argomenta a favore della conversione - anche – nel pubblico impiego in base alla qualifica di elemento accidentale attribuita al termine nell’ambito della teoria negoziale del contratto di lavoro a tempo determinato privato.

Al fine di sostenere che il meccanismo della conversione ex D.Lgs. n. 368 del 2001 potrebbe operare anche nell’ambito del pubblico impiego a termine, una parte della dottrina [85] rileva come nel modello del contratto a tempo determinato cui rinvia il primo comma dell’art. 36 del D.Lgs. 165/2001 il termine verrebbe a configurarsi quale elemento non attinente al profilo genetico del contratto di lavoro che così viene in questione.

Sicché l’esistenza del termine, al pari della relativa assenza fin dall’origine o eventualmente sopravvenuta, non inciderebbe in alcun modo sugli elementi essenziali del lavoro pubblico temporaneo allo stesso modo in cui sarebbe irrilevante nell’ipotesi di lavoro a termine “privato”.

Si tratterebbe, infatti, di un elemento accessorio e accidentale di un contratto che poggerebbe aliunde i propri fondamenti e che, pertanto, rimarrebbe ben saldo – e, quindi, valido – anche nel caso di rimozione del termine per effetto della conversione in questione.

Dunque, secondo i sostenitori di questa tesi, non sarebbe assolutamente condivisibile l’opinione della Consulta secondo cui il meccanismo concorsuale che caratterizza in area pubblica la fase propedeutica alla stipulazione del contratto di lavoro varrebbe a trasformare (pertanto, incidendo sul modello recepito dall’art. 36/1 del T.U. sul pubblico impiego) l’elemento accidentale rappresentato dal termine in uno essenziale e necessario, la cui eventuale – anche di fatto - rimozione non lascerebbe sopravvivere il rapporto obbligatorio a tempo determinato originariamente incardinato e imporrebbe, quindi, una sanzione diversa da quella privatistica “ordinaria” che, invece, consentendone la sopravvivenza, ne determina la conversione a tempo indeterminato.

Inoltre, secondo i fautori della tesi in questione, nel ragionamento della Corte Costituzionale sarebbe ravvisabile un evidente limite costituito dalla stessa proposizione, sotto il profilo argomentativo del medesimo ragionamento, nonostante l’intervenuta, rispetto all’epoca delle prime pronunce della Consulta sul punto, “privatizzazione” del pubblico impiego.

“Privatizzazione” all’esito della quale la disciplina, nonché la ratio, del lavoro pubblico avrebbe subito, a giudizio di tali autori, un’impressionante torsione, poiché, allo stato, verrebbe ad essere permeata anch’essa – così come il rapporto di impiego presso un privato - della missione storica di tutela del contraente debole, la quale rimodellerebbe, pur tentando di assecondarne le necessità, l’esigenza di garantire l’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa tradizionalmente posta a base della disciplina del pubblico impiego.

Senonché occorre osservare che alle conclusioni cui giunge tale tesi si contrappone il dato (divieto) normativo di cui all’art. 36, comma 2, del T.U. sul pubblico impiego.

Dato che, appunto perché normativo e quindi frutto di una valutazione effettuata dal legislatore, ben può condurre ad una sostanziale mutazione – da accidentale a essenziale - di un elemento previsto da una certa fattispecie contrattuale.

Ciò, soprattutto, peraltro, nel caso in cui siffatto mutamento costituisce il frutto di una ponderazione effettuata a livello di fonte normativa primaria in ossequio e nel rispetto di un puntuale e preciso dettato costituzionale qual’è quello che impone – ex art. 97/3 Cost. – un pubblico concorso per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della P.A.

Inoltre, come se ciò non bastasse, alla tesi qui riassunta si oppone il filone della letteratura giuridica che, del resto pure con riferimento all’impiego privato, individua, nell’ambito delle “nuove forme” di contratti di lavoro temporaneo flessibile affermatesi, il termine quale elemento “non accidentale ma quanto meno coessenziale” dei contratti di lavoro che così vengono in questione [86].

35.2. Estrinsecazione e limiti della teoria che sostiene la superfluità, nell’ambito del pubblico impiego, del divieto di conversione-stabilizzazione una volta ammessa anche nel settore pubblico la possibilità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Una parte minoritaria della dottrina sostiene che, una volta introdotta nel lavoro pubblico, a seguito della relativa “privatizzazione”, la possibilità di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo [87], non avrebbe più senso impedire l’operatività nel pubblico impiego della sanzione della conversione prevista dal D. Lgs. n. 368 del 2001, atteso che la pubblica amministrazione che eventualmente si dovesse venire a trovare gravata – magari in conseguenza di eventuali intervenute conversioni – da rapporti a tempo indeterminato del tutto eccedenti le proprie effettive esigenze potrebbe, appunto, ricorrere (così come il datore di lavoro privato) all’istituto del licenziamento in questione al fine di interrompere il rapporto di lavoro non più – in alcun modo – funzionale alle relative esigenze necessario [88].

Occorre osservare però che tale tesi non tiene conto del fatto che, come detto, il principio costituzionale del pubblico concorso è posto a tutela di un’esigenza (quella di efficienza) della P.A. che si pone a monte dell’instaurazione del rapporto di pubblico impiego, mentre i vari meccanismi di licenziamento – compreso quello per giustificato motivo oggettivo – operano se non a valle, quanto meno nel corso della concreta gestione del rapporto di lavoro pubblico e, pertanto, su piani diversi, come visto, regolamentati sulla base discipline diverse (rispettivamente, di pubblicistica e privatistica ispirazione e, quindi, non interscambiabili).

Inoltre, si devono ricordare i già menzionati obiettivi di consenso politico che nell’azione amministrativa pubblica si mescolano a quelli aventi ad oggetto la qualità dei servizi e dei prodotti e che, di fatto, si frappongono – anche - al concreto operare del meccanismo del licenziamento in questione.

35.3. Impossibilità di conversione nel pubblico impiego ed “esistenza libera e dignitosa del lavoratore” di cui all’art. 36 della Costituzione.

Del tutto eccessivo appare ritenere (come pure talvolta però è stato effettuato) il divieto di conversione vigente nel pubblico impiego incostituzionale in quanto in contrasto con l’esigenza di assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa” cui fa riferimento l’art. 36 della nostra carta fondamentale.

Ciò non soltanto in considerazione della discussa natura programmatica o - come prevalentemente si ritiene - precettiva della norma costituzionale in questione e delle ulteriori discussioni verificatesi in dottrina con riferimento all’applicabilità di essa alla sola retribuzione del lavoratore oppure, più in generale, a tutte le misure lato sensu ricollegabili ad ogni tipo di emolumento spettante al medesimo e, quindi, non soltanto alla retribuzione in senso tecnico singolarmente intesa.

Infatti, riguardo all’inconferenza dell’art. 36 Cost. rispetto al tema del divieto di conversione in questione, occorre ricordare come pure la Corte di Cassazione, peraltro anche di recente, ha precisato come il divieto di conversione non incida sulla garanzia costituzionale del diritto al lavoro e, pertanto - deve ritenersi - nemmeno sulla garanzia che, in connessione a quella del diritto al lavoro, l’art. 36 della Costituzione mira ad assicurare.

36. La posizione delle altre giurisdizioni in relazione al divieto normativo di conversione, secondo il giudice delle leggi, costituzionalmente legittimo.

Minori critiche all’impianto normativo che impedisce la conversione nel pubblico impiego provengono dalla giustizia ordinaria e amministrativa, sostanzialmente, se si eccettuano le pronunce della giurisprudenza di merito che hanno dato luogo alle riportate decisioni in materia della Consulta, aderenti all’interpretazione che ritiene il medesimo - impianto - compatibile con la nostra carta costituzionale.

36.1. La giustizia amministrativa : posizioni possibilistiche riguardo alla conversione affermatesi negli anni ’80 e loro superamento.

L’analisi delle pronunce del giudice amministrativo intervenute riguardo al divieto di conversione del contratto di lavoro pubblico a termine eventualmente illegittimamente prorogato permettono di riscontrare una posizione sostanzialmente univoca e netta in materia.

La giurisprudenza dei T.A.R. e del Consiglio di Stato, infatti, ha sempre negato la possibilità di tale conversione, se si eccettua la breve parentesi temporale circoscritta agli inizi degli anni ottanta, nel corso della quale il massimo consesso di giustizia amministrativa assunse talune posizioni dapprima possibilistiche con l’ordinanza della Sezione VI n. 688 del 1980 e poi addirittura favorevoli attraverso le decisioni della medesima - sesta - Sezione nn. 165 del 1982 e 870 del 1983 e della V sezione n. 254 del 1984.

In particolare in quest’ultima il massimo consesso di giustizia amministrativa stabilì che “La disciplina della legge 18 aprile 1962 n. 230 sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato si applica anche ai rapporti che fanno capo agli enti pubblici diversi dallo Stato e dalle sue aziende autonome. Pertanto è illegittimo il provvedimento con il quale l’ente pubblico disponga di soprassedere all’immissione in ruolo di un dipendente assunto a tempo determinato e successivamente confermato in servizio, senza soluzione di continuità, per oltre sei anni e di limitarne l’ulteriore trattenimento in servizio per un solo semestre”.

Tali pronunce, tuttavia, rimasero isolate.

Esclusa tale parentesi, infatti, la giustizia amministrativa in tutte le ipotesi di prosecuzione, formale o di fatto, del rapporto di lavoro intrattenuto con le PP.AA. dopo la relativa scadenza (eventualmente anche prorogata) ha negato la conversione in questione.

Ciò fondamentalmente considerando quale limite invalicabile alla trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro originariamente incardinato a termine con una data P.A. la tipicità-specialità cui da luogo, ancorché ora “privatizzato”, il pubblico impiego pure e soprattutto – sotto il profilo che qui interessa – per effetto dell’obbligatoria osservanza delle procedure appositamente previste ai fini dell’ingresso in pianta stabile nei ruoli delle PP.AA. [89].

36.2. Le pronunce del giudice civile in materia di divieto di conversione nel pubblico impiego.

Fondamentalmente analoga alla posizione assunta riguardo al divieto di conversione nel pubblico impiego dalla giustizia amministrativa è quella dei giudici ordinari.

36.2.1. La suprema corte di Cassazione e il lavoro pubblico a termine.

Sulla stessa linea della giustizia amministrativa si pone, per quanto riguarda il divieto di conversione nell’ambito del pubblico impiego, anche la Cassazione.

Per esempio, con la sentenza della relativa Sezione Lavoro n. 10605 del 2004, la suprema Corte, ha affermato che il principio di non convertibilità delle assunzioni temporanee da parte degli enti locali in rapporti a tempo indeterminato “risponde a criteri di ragionevolezza ed è ispirato alla tutela di superiori interessi pubblici di natura generale, mirando a garantire esigenze di risanamento della finanza locale”.

In questi termini il giudice civile di legittimità ha perpetuato la posizione sul punto dal medesimo già espressa nelle decisioni della medesima Sezione – Lavoro – numero 13528 del 2002 e 6699 del 2003.

Tale posizione è stata, peraltro, di recente ribadita, sia pure attraverso un obiter dicta, nel corpo della sentenza della Cassazione n. 12654 del 2004.

Peraltro già nella vigenza, ratione temporis, della legge n. 230 del 1962 la Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 2730 e 3350 del 1986 e n. 6566 del 1988, aveva avuto modo di precisare che il divieto di conversione previsto per i rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati con le PP.AA. non viola il precetto costituzionale di cui all’art. 3 Cost. per ingiustificata disparità di trattamento in danno dei lavoratori assunti a termine dai privati in quanto “risponde a criteri di ragionevolezza ed è ispirato alla tutela di superiori interessi pubblici di natura generale (tra i quali la garanzia del concorso ex art. 97, 3 comma, Cost.)”.

Dunque, nelle decisioni menzionate la suprema Corte individua quale ratio al divieto di conversione in questione le esigenze di efficienza, anche sotto il profilo della selezione del relativo personale, della Pubblica Amministrazione, di imparzialità del relativo agire – pure, invero, a presidio della quale risulta essere posto il principio del pubblico concorso – e di contenimento – o, comunque, razionalizzazione – della spesa pubblica.

36.2.2. La giurisprudenza di merito.

La ratio garantistica del divieto di conversione nel pubblico impiego volta, da un lato, ad evitare discriminazioni nell’accesso al pubblico impiego e, dall’altro, almeno sul piano astratto, a salvaguardare l’efficienza della macchina amministrativa pubblica trova conferma nelle decisioni della giurisprudenza di merito [90].

Il Tribunale di Agrigento, Sezione Lavoro, ad esempio, in una recente sentenza [91] ha rilevato come dall’esame della normativa in materia di lavoro a tempo determinato emerga e permanga - sotto il profilo che qui interessa - “un profondo divario tra le due tipologie di lavoro (n.d.r. : a termine privato e pubblico); infatti, mentre nel settore privato l'ordinamento riconosce preminente l'interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, nell’ambito delle pubbliche amministrazioni l’interesse prevalente è quello pubblico, che si sostanzia nel principio del buon andamento e dell’accesso secondo procedure neutrali”.

37. Inapplicabilità nel pubblico impiego della sanzione della conversione e diritto comunitario.

La stessa giurisprudenza di merito uniformatasi all’interpretazione fornita dal giudice delle leggi riguardo alla conformità alla nostra Costituzione del sistema di diritto interno che nell’ambito del nostro ordinamento impedisce di applicare, in relazione al pubblico impiego a termine, la sanzione della conversione prevista dal D. Lgs. n. 368/2001 attuativo della direttiva comunitaria 1999/70/CE si è, per altro verso, posta dei dubbi con riferimento al rispetto della medesima - direttiva - da parte di tale sistema.

Un tale profilo di analisi - della conformità alla normativa europea - del diritto interno esulava dall’esame cui il giudicante era chiamato nella vigenza della legge n. 230 del 1962, attesa la, già menzionata, matrice interna di quest’ultima normativa, la quale, invero, ne imponeva soltanto una verifica della compatibilità con i principi della nostra carta costituzionale.

Allo stato, invece, la matrice comunitaria del D.Lgs. n. 368 del 2001 impone un’analisi del sistema normativo cui l’applicazione di esso – combinata con l’art. 36/2 T.U. pubblico impiego – da luogo anche in relazione alla normativa europea.

37.1. Il tema del rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato richiama i ragionamenti per “massimi sistemi” (normativi) concernenti la relazione tra “primazia” del diritto comunitario e “principi fondamentali” del nostro ordinamento.

Il fatto che il divieto di conversione nel pubblico impiego e, pertanto, il limite all’applicabilità integrale nel nostro ordinamento della disciplina di matrice comunitaria che tale conversione invece prevede derivi da una norma interna dettata dal legislatore italiano al fine di assicurare il rispetto di un preciso principio (quello, più volte menzionato, del pubblico concorso) previsto dalla nostra carta fondamentale implica la venuta in rilievo in materia non soltanto delle tradizionali regole che disciplinano i rapporti tra diritto interno allo stato membro e normativa comunitaria.

Regole, queste che – ormai – pacificamente vengono in rilievo nelle ipotesi di applicazione del diritto comunitario, tra le quali assume rilievo innanzitutto quella, elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia fin dal 1977 [92], del primato delle fonti comunitarie sul diritto interno e della conseguente diretta applicabilità delle prime, previa disapplicazione, da parte del giudice nazionale dello stato membro, delle norme interne eventualmente contrastanti con esse.

Invero, la problematica inerente al lavoro pubblico a termine, investendo – anche - una norma interna dettata in attuazione di un principio costituzionale, importa il riproporsi del – delicato - problema dei c.d. limiti alla tollerabilità delle incidenze comunitarie sul nostro sistema costituzionale e, in particolare, sui principi fondamentali posti a base del nostro sistema costituzionale.

Difatti, a parte i rilievi effettuati da alcuni autori in dottrina riguardo alla enucleabilità tra tali principi di quello del concorso pubblico, l’esistenza dei limiti in questione viene ammessa, sia dalla giurisprudenza che dalla letteratura costituzionale, sulla base del dettato dell’art. 11 Cost. tradizionalmente posto a fondamento dei rapporti tra “sovranità” nazionale e ordinamenti sopranazionali (ivi compreso quello comunitario) e del concetto, appunto, di limitazione della sovranità nazionale che lo stesso articolo impiega.

Tale concetto (di limitazione - e, quindi, non cessione – della sovranità nazionale), per costante giurisprudenza costituzionale, non può comportare la compromissione dei valori fondamentali del nostro ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana cui quest’ultimo si ispira

Pertanto, il concetto di limitazione della sovranità di cui all’art. 11 Cost. viene a porsi quale barriera invalicabile al recepimento nel nostro sistema di qualunque disposizione comunitaria che tale risultato volesse eventualmente comportare [93].

Il problema in questione è stato comunque attenuato nella sua rilevanza dalla circostanza che i diritti inviolabili e i principi fondamentali cui si ispirano l’ordinamento italiano e quello comunitario risultano, allo stato, in gran parte comuni, sicché – è stato rilevato – se diversità può esservi, questa riguarderà eventualmente l’interpretazione di tali valori nel contesto comunitario e in quello italiano.

Peraltro, sul piano giuridico-interpretativo esso trova già una soluzione – magari non soddisfacente su quello politico – nell’art. 234 del Trattato istitutivo della CEE, per effetto del quale la Corte Costituzionale eventualmente investita della questione concernente il rispetto di un principio fondante del nostro ordinamento da parte di una normativa nazionale adottata in attuazione di una direttiva comunitaria dovrà, quale giudice di ultima istanza, sempre operare un rinvio pregiudiziale – appunto, in quanto verrebbe in rilievo una questione che coinvolge l’interpretazione e la validità delle norme comunitarie – alla Corte di Giustizia.

37.2. I rinvii alla Corte di Giustizia Europea da parte dei giudici di merito in materia di lavoro pubblico a tempo determinato.

Il Tribunale di Genova, in particolare, ha recentemente, con due ordinanze del 2004 intervenute in distinti giudizi instaurati da alcuni ex impiegati pubblici a tempo determinato, richiesto alla Corte di Giustizia europea la propria interpretazione pregiudiziale circa la conformità all’accordo quadro sottoscritto dalle organizzazioni europee dell’industria e dei lavoratori nel 1999 e allegato alla direttiva comunitaria 1999/70/CE della legislazione italiana e, in particolare, dell’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165 del 2001.

Legislazione italiana – quella sottoposta al vaglio della Corte comunitaria - riassunta dal giudice del lavoro genovese come quella “che differenzia i contratti di lavoro stipulati con la P.A. rispetto ai contratti con datori di lavoro privati, escludendo i primi dalla tutela derivante da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazione di regole imperative sulla successione dei contratti a termine”.

Segnatamente per la Sezione Lavoro del Tribunale ligure dubbi possono essere sollevati riguardo al carattere equivalente del diritto al risarcimento del danno riconosciuto al lavoratore pubblico a termine in caso di violazione di tali regole rispetto alla reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato prevista a tutela del lavoratore privato il cui contratto a termine sia stato eventualmente oggetto delle medesime violazioni.

Ciò tenuto conto soprattutto dei problemi determinati dall’onere della prova che così viene in questione.

La protezione che assicura la misura sanzionatoria della conversione, pertanto, secondo il giudice di rinvio italiano risponderebbe meglio all’esigenza di prevenire gli abusi cui potrebbe dar corso il datore di lavoro – anche pubblico – che eventualmente stipulasse una serie di contratti a tempo determinato nell’inosservanza della normativa di riferimento.

37.3. L’attesa pronuncia in materia della Corte di Giustizia Europea : la sentenza della Grande Sezione del 4 luglio 2006.

La Corte di Giustizia Europea con la sentenza della relativa Grande Sezione depositata il 4 luglio 2006 (causa C-212/04, Adeneler e altri) [94], nel decidere una questione di interpretazione pregiudiziale sollevata dal giudice interno greco, ha interpretato l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato trasposto nella direttiva europea 1999/70/CE, proprio occupandosi della tematica della compatibilità con tale direttiva di una normativa nazionale di recepimento della stessa che – quale nel caso specifico era quella ellenica – dovesse eventualmente provvedere ad escludere in modo assoluto nel solo settore pubblico la possibilità di conversione del contratto a termine in uno a tempo indeterminato; così anticipando, di fatto, la risoluzione delle questioni interpretative pregiudiziali sollevata dalla nostra giurisprudenza di merito.

37.3.1. L’applicabilità, rilevata dal giudice comunitario, della direttiva 1999/70/CE anche al lavoro pubblico a termine.

Nella decisione del 4 luglio 2006 pronunciata in relazione al sistema normativo ellenico il giudice comunitario ha precisato che la direttiva 1999/70/CE e l’accordo quadro nella medesima trasposto si applicano anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni del settore pubblico, in quanto “le disposizioni di questi due atti non contengono alcuna indicazione dalla quale possa dedursi che il loro campo di applicazione si limiterebbe ai contratti a tempo determinato conclusi dai lavoratori con datori di lavoro del solo settore privato”.

In tale decisione la Corte di Giustizia ha, inoltre, rilevato come l’accordo quadro non individui alcun settore d’attività che possa essere sottratto al relativo campo di applicazione, ad eccezione di alcuni rapporti di formazione professionale o di lavoro considerati dal punto 2, clausola 2, del medesimo, estranei all’oggetto dell’interpretazione pregiudiziale ad essa richiesta.

Tale interpretazione-conclusione – deve osservarsi – pare costituire conferma del rilievo (talvolta effettuato in dottrina) secondo cui l’Unione Europea quando legifera effettua ciò senza distinguere tra pubblico e privato, rimanendo ad essa estranea, in coerenza con la relativa ispirazione, sotto il profilo economico, liberale e liberalizzatrice, siffatta distinzione, invece particolarmente avvertita in taluni suoi stati membri, quali appunto quello ellenico ed il nostro.

37.3.2. “L’accordo quadro – trasposto nella direttiva 1999/70/CE, per il giudice comunitario, comunque – “non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato”.

Oltre all’affermazione dell’applicabilità pure al settore pubblico della direttiva in questione, la Corte di Giustizia, nella medesima decisione del 4 luglio 2006, ha ulteriormente precisato che “l’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato di quelli a tempo determinato, così come esso nemmeno stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi”, così delineando, di fatto, l’esatta portata di tale accordo e, quindi, della direttiva in cui esso è stato trasposto.

Inoltre, partendo da tale assunto il giudice comunitario ha statuito che “quando, come nel caso di specie, il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche, nell’ipotesi in cui siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, le quali devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate” nel caso di specie in attuazione dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato.

37.3.3. Conseguenze dell’esatta portata della direttiva comunitaria sul lavoro a tempo determinato, così come precisata dalla Corte di Giustizia : compatibilità con la normativa europea di quella nazionale che dovesse eventualmente prevedere altri meccanismi sanzionatori con efficacia applicabili in alternativa a quello della conversione del rapporto di lavoro a termine.

Sulla base delle precisazioni dalla medesima effettuate riguardo all’effettiva portata della direttiva 1999/70/CE, il giudice comunitario è giunto a concludere che l’accordo quadro in questione “osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta in maniera assoluta nel solo settore pubblico di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare fabbisogni permanenti e durevoli del datore di lavoro (n.d.r. : soltanto) qualora l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro non preveda, nel settore considerato, altra misura effettiva per evitare e, se necessario, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo successivi”.

Ipotesi, questa, che la Corte di Giustizia ha riscontrato proprio con riferimento all’ordinamento ellenico sulla cui conformità al diritto comunitario era stata richiesta l’interpretazione pregiudiziale da essa – poi - formulata con la decisione del 4 luglio 2006, atteso che il sistema normativo greco, con riferimento al settore pubblico non prevedeva, quanto meno al momento di adozione di tale decisione, né la misura sanzionatoria della conversione, né, in luogo di questa, alcun’altra volta a sanzionare l’eventuale abuso nell’utilizzo di successivi contratti di lavoro a tempo determinato.

37.3.4 Spetta al giudice nazionale – secondo la Corte di Giustizia Europea – valutare l’effettività, efficacia e proporzione dello strumento sanzionatorio alternativo alla conversione eventualmente previsto dall’ordinamento nazionale dello stato membro.

Nella pronuncia in materia di rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato del 4 luglio 2006 la Grande Sezione della Corte di Giustizia si è, altresì, preoccupata di ribadire come la stessa “non sia competente a pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, spettando tale compito esclusivamente al giudice del rinvio”.

Pertanto, con riferimento alla fattispecie che qui interessa, sarà il giudice dello Stato membro a dover accertare se gli obblighi imposti dal diritto comunitario al legislatore nazionale – e precisati nel paragrafo precedente – vengono ad essere effettivamente soddisfatti dalle disposizioni della normativa nazionale che così viene in rilievo.

Sicché secondo la Corte Europea “se detto giudice nazionale dovesse riscontrare che ciò non si verifica, si dovrebbe concludere che l’accordo quadro osta all’applicazione di tale normativa nazionale [95].

37.4. La Corte di Giustizia Europea conferma e precisa ulteriormente il suo orientamento in materia di conversione del contratto a termine ritenendo conforme al diritto comunitario la regolamentazione del pubblico impiego a tempo determinato vigente nel nostro ordinamento.

Il giudice comunitario ha confermato il proprio orientamento in materia attraverso le relative successive decisioni [96] delle menzionate questioni pregiudiziali sollevate innanzi ad esso dal Tribunale di Genova (procedimenti C-53/04 «Marrosu» e C-180/04 «Vassallo»).

In tali decisioni, pubblicate nel settembre 2006, la Corte di Giustizia ha riconosciuto la legittimità della normativa italiana che impedisce, nel settore pubblico, di trasformare l’eventuale ripetizione di un contratto di lavoro temporaneo avvenuta nell’inosservanza dei limiti al riguardo previsti in un impiego a tempo indeterminato, prevedendo, invece, al riguardo un risarcimento per il lavoratore da essa interessato.

La misura sanzionatoria del risarcimento prevista nel nostro ordinamento (a differenza di quello ellenico nel quale nessun meccanismo sanzionatorio veniva previsto in luogo della conversione pure nell’ambito del medesimo esclusa con riferimento al settore pubblico) è stata, infatti, dal giudice comunitario ritenuta sufficiente (a raggiungere “l’effetto utile” perseguito in materia dalla normativa europea), sia pure con le precisazioni che subito si diranno.

In particolare, la Corte in tali decisioni ha stabilito che, sebbene (come detto e come si preciserà nel proseguio più approfonditamente) non spetti ad essa pronunciarsi sull’interpretazione del diritto nazionale, la legislazione italiana alla medesima “sembraprima facie presentare le, effettive e – quanto meno - equivalenti a quelle che assicura la sanzione della conversione, garanzie di tutela dei lavoratori richieste dalla direttiva, così come dallo stesso giudice comunitario interpretata.

Ciò in quanto il risarcimento previsto dall’art. 36/2 del T.U. sul pubblico impiego pare, al giudice comunitario, in grado di poter assicurare un convincente effetto dissuasivo rispetto alla possibilità di abuso dello strumento del contratto a tempo determinato.

37.5. Il paradosso per cui ritorna al giudice interno dello stato membro la decisione riguardo alla conformità all’ordinamento comunitario della normativa nazionale in materia di lavoro a tempo determinato e, pertanto, la valutazione circa il raggiungimento, nello stato membro italiano, del proprio “effetto utile” da parte della direttiva comunitaria 1999/70/CE.

La Corte di Giustizia, dunque, precisa che le sanzioni che la normativa nazionale eventualmente dovesse prevedere in alternativa a quella della conversione del contratto a termine devono, comunque, essere in grado di assicurare un effetto (deve ritenersi, sia sotto il profilo preventivo-dissuasivo che, appunto, consequenziale-sanzionatorio) equivalente a quello garantito dalla prima.

Pertanto, l’eventuale misura alternativa alla conversione prevista dal diritto interno deve rispondere ai principi di equivalenza ed efficacia, oltre che, ovviamente, rispettare tutti le regole elaborate in materia di applicazione diretta o derivata del diritto comunitario, ad iniziare da quella che impone, comunque, il raggiungimento dell’effetto utile da esso perseguito.

Inoltre, come detto, la stessa Corte di Giustizia, pur affermando che la normativa italiana di cui all’art. 36/2 T.U. Pubblico Impiego pare soddisfare tali requisiti, precisa come il giudice europeo non possa andare nella propria sentenza oltre ad una prima e sommaria analisi del diritto interno in quanto non compete ad esso pronunciarsi sulla normativa nazionale, bensì a quello dello stato membro.

In definitiva, la valutazione in termini di equivalenza ed efficacia del sistema risarcitorio previsto nell’ordinamento italiano in relazione al pubblico impiego in luogo di quello cui da luogo la conversione del contratto a termine viene ad essere rimessa allo stesso giudice interno autore del rinvio alla Corte di Giustizia e che, pertanto, già si era manifestato dubbioso sulla compatibilità di tale sistema con il diritto comunitario.

Tuttavia, occorre osservare che in questa sua nuova valutazione il giudice nazionale sarà oggettivamente chiamato ad effettuare la medesima tenendo conto delle valutazioni comunque al riguardo espresse, sia pure sulla base di un’istruzione sommaria del diritto interno, dalla Corte di Giustizia nella decisione della questione pregiudiziale ad essa sottoposta.

Infatti, costituisce principio – ormai - consolidato del diritto comunitario quello per cui “la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni dirette a guidare nella sua interpretazione il giudice nazionale”.

Inoltre, è affermazione comune, oltre che logica, quella per cui il giudice nazionale nell’applicare il diritto interno di matrice comunitaria dovrà sempre preoccuparsi di interpretarlo, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo – anche eventualmente precisato e individuato dalla Corte di Giustizia - della direttiva che in questo modo assume rilevanza, onde conseguire il risultato da quest’ultima perseguito.

37.6. Il contratto a tempo determinato e l’ordinamento comunitario : “le fonti dell’accordo quadro riconoscono … che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, alle esigenze sia dei datori di lavoro, sia dei lavoratori”.

Nella sentenza del 4 luglio 2006 pronunciata dalla Corte di Giustizia con riferimento all’ordinamento ellenico, la medesima ha, inoltre, espressamente riconosciuto l’importanza, almeno in determinate fasi storiche, del contratto di lavoro a tempo determinato, vera e propria “caratteristica (n.d.r. : osserva il giudice comunitario) dell’impiego in alcuni settori e per determinate occupazioni e attività”, pur ammettendo comunque, che “l’accordo quadro parte dalla premessa secondo la quale i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro”, atteso che “il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori”.

38. L’attuale disciplina del lavoro pubblico a termine non affronta seriamente le istanze sociali di efficienza della P.A. e di lavoro stabile, ignorando le sue stesse potenzialità in materia di formazione nel pubblico impiego.

Il lavoro pubblico a tempo determinato così come congegnato dal combinato disposto D.Lgs. 368/2001-art. 36/2 T.U. pubblico impiego, non pare interessarsi e, pertanto, tanto meno fornire “risposte serie” alle istanze sociali che assumono rilevanza in materia e precedentemente descritte.

Infatti, il pubblico impiego a termine non pare in alcun modo collegato – se non per la procedura selettiva che necessariamente se ne pone a monte – alla risoluzione del problema dell’efficienza che dovrebbe connotare i tratti dell’agire amministrativo pubblico.

Invero, esso, nella sua attuale configurazione, pare condurre a disperdere, nel momento della conclusione della sua esperienza, le professionalità acquisite, proprio durante il corso del pubblico impiego a tempo determinato, dai lavoratori da tale tipologia contrattuale interessati.

Nella sua vigente modulazione, quindi, il lavoro pubblico a termine sembra ignorare anche le sue stesse potenzialità sul piano della formazione delle risorse umane, la quale, peraltro, nell’ipotesi di venuta in rilievo della tipologia contrattuale in questione, potrebbe risultare particolarmente qualificata perché avvenuta “sul campo” (di lavoro) [97].

Per altro verso, l’attuale modulazione del lavoro pubblico a tempo determinato dimentica anche le tradizionali istanze sociali di “stabilizzazione” che il lavoro precario di qualunque tipo comporta.

39. L’auspicato utilizzo del lavoro pubblico a tempo determinato al fine di soddisfare, contemperandole, le istanze sociali di “stabilizzazione” del lavoratore e di efficienza e produttività della pubblica amministrazione.

Le considerazioni effettuate riguardo alla consentita possibilità nel privato di un utilizzo dell’istituto della conversione del rapporto di lavoro a termine in un’ottica volta a premiare – appunto, con la stabilizzazione del relativo impiego – il lavoratore temporaneo meritevole evidenziano, altresì, la rilevanza del ricorso ad una tale ottica non solo quale possibile strumento – non unico - di aiuto alla risoluzione del problema della stabilizzazione dei lavoratori precari, ma anche come modus operandi capace di aumentare l’efficienza e, pertanto, la competitività dell’azienda che all’impiego in una simile ottica del lavoro a tempo determinato dovesse eventualmente ricorrere, condividendone, quindi, con il lavoratore la sua possibile – ed auspicata – ratio premiale.

Difatti, il datore di lavoro privato premierà con la conversione, verosimilmente, il lavoratore che contribuirà a dare maggiore produttività ed efficienza alla propria impresa.

Gli stessi rilievi riguardo alla bivalenza (sia, cioè, a favore della parte datoriale che del prestatore d’opera) dei benefici di un impiego del lavoro a termine nell’ottica - premiale - descritta pare possano effettuarsi anche con riferimento al settore pubblico.

Invero, anche nell’ambito del pubblico deve ritenersi che un utilizzo dell’impiego temporaneo in un’ottica incentivante il lavoratore che si vorrà, nel corso del rapporto di lavoro a termine, “formare” per poi eventualmente dimostrarsi e risultare meritevole di un impiego stabile, possa comportare maggiore produttività ed efficienza della macchina amministrativa.

Senonché nell’ambito del lavoro pubblico, per le ragioni - normative ed interpretative - dette, è tassativamente esclusa l’operatività dello strumento della conversione, nel settore privato, invece, utilizzabile dalla parte datoriale, oltre che per limitare i costi, quale strumento “principe” per un eventuale impiego del lavoro temporaneo in una sua modulazione volta a premiare il lavoratore durante l’impiego a termine rivelatosi meritevole di una stabilizzazione del proprio posto di lavoro [98].

Pertanto, con riferimento al pubblico impiego occorre individuare altri – rispetto a quello della conversione - strumenti ed istituti al fine di premiare, pur nel rispetto del principio del pubblico concorso, il lavoratore a termine che si dovesse eventualmente rilevare meritevole di un impiego stabile e con il medesimo, per effetto del relativo guadagno di efficienza e produttività, anche la stessa P.A. che delle prestazioni di tale lavoratore si avvarrà [99].

40. Principio del pubblico concorso e utilizzo in chiave premiale del rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato.

Il rispetto del principio del pubblico concorso si impone comunque.

Tale principio, invero, si impone anche nell’ipotesi dell’auspicata e descritta – nei termini indicati nel precedente paragrafo – utilizzazione in chiave premiale (per entrambe le parti del rapporto di lavoro pubblico temporaneo) dell’impiego a tempo determinato presso una data pubblica amministrazione.

Infatti, siffatto principio, richiedendo, ai fini dell’incardinazione in pianta stabile di un rapporto di lavoro con le PP.AA., il superamento di un pubblico concorso anche da parte del lavoratore a termine, previene, di fatto, nel contempo altresì il rischio di un intervento solo “di facciata” premiale in quanto, magari attuato “a pioggia” a favore di tutti i pubblici impiegati temporanei, quasi che esso fosse comportato dalla sola considerazione del loro status di precari, a prescindere da una valutazione della meritevolezza dei lavoratori che così vengono in questione.

Il principio di cui all’art. 97/3 Cost., peraltro, potrebbe e dovrebbe costituire inoltre la garanzia (sia per la P.A. che per il lavoratore, nel corso dell’esperienza temporanea, adeguatamente – in tutti i sensi – formatosi) dell’auspicato utilizzo in chiave premiale del lavoro pubblico a termine, in quanto richiederà lo svolgimento, appunto, di un concorso nell’ambito del quale – se opportunamente congegnato – i lavoratori temporanei potrebbero (e deve ritenersi dovrebbero) essere messi in condizione di sfruttare la propria precedente esperienza lavorativa a tempo determinato non soltanto attraverso meccanismi formali ma anche, sotto il profilo sostanziale, valorizzando appieno nell’ambito dello svolgimento delle prove del concorso ciò che avranno eventualmente, anche a livello di prassi amministrativa, appreso nella propria temporanea esperienza professionale.

40.1. Buon andamento della P.A. rispettato, sotto il profilo dell’accesso ai ruoli stabili della medesima, soltanto in caso di superamento di un pubblico concorso.

Nonostante al quesito circa la necessità di una corrispondenza ai contenuti e alle modalità dei concorsi pubblici delle procedure selettive eventualmente indette dalle PP.AA. per far fronte alle proprie esigenze temporanee venga generalmente data, dalla dottrina [100], risposta negativa, una risposta dello stesso tenore non pare possa essere fornita qualora si dovessero invertire i termini della domanda.

Invero, le pubbliche amministrazioni soltanto con riferimento alle ipotesi di assunzioni a termine potranno prevedere procedure selettive eventualmente in forma semplificata ed aventi gli specifici contenuti che le medesime riterranno più idonei e compatibili con le finalità da soddisfare e le particolari caratteristiche del rapporto da instaurare.

Per l’accesso in pianta stabile al lavoro presso le PP.AA., invece, si ritiene non si possa prescindere dal principio del – e dal superamento di un - concorso pubblico.

Ciò anche in considerazione del rilievo, più volte effettuato dalla corte delle leggi [101], che l’art. 97 della Costituzione deve essere posto in necessaria correlazione con il successivo (articolo 98) che pone “i pubblici impiegati …a servizio esclusivo della nazione”, sicché – è stato, altresì, rilevato – l’individuazione degli stessi deve avvenire in maniera indipendente da qualsiasi considerazione connessa alle condizioni personali dei candidati all’impiego pubblico a tempo indeterminato.

Soltanto il concorso pubblico, difatti, appare, almeno allo stato, assumere i connotati di una procedura in grado di assicurare alla P.A. il reclutamento di organi in grado di esercitare le proprie funzioni in condizioni di piena imparzialità.

Inoltre, la selezione concorsuale, in quanto caratterizzata, almeno di regola, dalla partecipazione ad essa di un numero di candidati notevolmente superiore a quello dei posti da ricoprire, pare consentire l’ottimale individuazione di quelli maggiormente capaci, con indubbi benefici per l’efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

40.2. Identificazione tradizionale del pubblico concorso ex art. 97/3 Cost. con quello indetto per l’accesso in pianta stabile nella P.A. e procedure selettive bandite per sopperire a esigenze temporanee della macchina amministrativa pubblica – talvolta - particolarmente severe.

La giurisprudenza amministrativa appare ferma nell’affermare il diverso “peso” dei concorsi banditi dalle pubbliche amministrazioni al fine di reperire personale da inserire a tempo indeterminato nei propri ruoli rispetto a quello delle selezioni paraconcorsuali dalle medesime, invece, eventualmente indette per soddisfare fabbisogni di personale di carattere temporaneo.

Occorre, però, osservare che l’attuale e tradizionale interpretazione per cui, come detto, il principio del buon andamento della P.A. conduce ad identificare il concorso pubblico di cui all’art. 97/3 Cost. soltanto con quello appositamente indetto per l’accesso ai ruoli stabili dell’amministrazione pubblica, seppur assolve alla ratio garantistica più volte menzionata, può altresì, per converso, determinare una sostanziale disuguaglianza di trattamento con riferimento a coloro che hanno superato procedure selettive che risultino caratterizzate – ad un esame obiettivo - da particolare severità e serietà, nonostante indette per fronteggiare fabbisogni temporanei di personale.

Si pensi, al riguardo, ai bandi indetti dalle c.d. Autority caratterizzati dalla previsione di prove d’esame particolarmente severe anche qualora adottati al fine di consentire alle medesime la incardinazione di rapporti di lavoro a tempo determinato.

40.2.1. Opportunità di una maggiore valutazione in sede di accesso in pianta stabile nella P.A. dell’eventuale superamento di procedure per posti a tempo determinato particolarmente severe. Necessità di evitare l’adozione di una pericolosa nozione “sostanziale” di concorso pubblico.

Il buon andamento della P.A. se, da un lato, impedisce, al fine di evitare pericolose valutazioni sostanzialistiche, l’equiparazione delle procedure descritte al paragrafo precedente ai concorsi pubblici indetti per l’accesso in pianta stabile al lavoro pubblico, dall’altro lato non pare impedire l’eventuale attribuzione, in sede di espletamento di questi ultimi, di una maggiore valutazione di partenza – rispetto a quella riconosciuta agli altri partecipanti - ai candidati che dovessero eventualmente aver superato tali selezioni connotate da particolare severità.

Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, creando un sistema di valutazione che abbia ad oggetto sia le precedenti esperienze professionali eventualmente maturate nel pubblico impiego che il grado di difficoltà della selezione che le ha necessariamente precedute.

Sistema, questo, che, magari attraverso un meccanismo di riconoscimento di crediti del tipo di quello adottato nel nostro sistema universitario, dovrebbe essere in grado di delineare una sorta di scala di valore tra tali precedenti esperienze e selezioni ai fini del successivo impiego delle valutazioni così ottenute nell’ambito delle procedure indette per l’accesso in pianta stabile nella pubblica amministrazione.

In assenza di un meccanismo e valorizzazione di questo tipo, invero, il lavoratore precario che così viene in questione, paradossalmente, anziché beneficiare di una preferenza, si troverebbe nella condizione di dover vincere due – sostanzialmente “veri e propri” – concorsi per accedere al lavoro pubblico stabile.

41. L’interpretazione tradizionale del buon andamento della P.A. non pare tener conto dell’importanza per il conseguimento di tale obiettivo della motivazione del pubblico impiegato e dell’esperienza acquisita sul campo da questo.

Altro dato che pare emergere dall’analisi dell’attuale interpretazione attribuita al principio di buon andamento della pubblica amministrazione è quello dell’assenza di considerazione al riguardo della motivazione – e soddisfazione riguardo al proprio lavoro – del pubblico impiegato.

Invero nell’attuale modo di intendere il buon andamento della P.A. non pare si tenga in alcun modo conto della compatibilità con esso dell’eventuale fatto di avere a disposizione un lavoratore pubblico motivato nel proprio lavoro, magari anche dalla prospettiva e speranza di una sua possibile stabilizzazione, attraverso la valorizzazione dell’esperienza da lui maturata sullo specifico campo del pubblico impiego, anche se a tempo determinato.

Inoltre, occorre rilevare che la tradizionale interpretazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione (nei termini in cui impone, come più volte detto, il superamento di un pubblico concorso ai fini dell’accesso in pianta stabile nella P.A.) contrasta con la dispersione delle competenze acquisite dal personale temporaneamente impiegato dall’amministrazione pubblica che esso determina, atteso che il concorso pubblico dalla medesima interpretazione tradizionale richiesto ai fini dell’accesso in pianta stabile nella P.A. risulta, almeno allo stato, di carattere prevalentemente teorico e che, anche nel caso in cui nell’ambito del medesimo viene – talvolta – ad essere data rilevanza alle precedenti esperienze a termine, questa si configura come minima.

42. L’esigenza di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica alla base della disciplina di diversi istituti del pubblico impiego, compreso quello del lavoro pubblico a termine.

Oltre che sulla necessità, delineata dalla nostra carta costituzionale, del rispetto del principio concorsuale, le motivazioni della diversità dell’apparato sanzionatorio previsto con riferimento al pubblico impiego a termine dall’art. 36/2 del D. Lgs. n. 165 del 2001 poggiano sulla necessità di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica.

La razionalizzazione di questa tende al raggiungimento di una maggiore efficienza nell’agire amministrativo pubblico sotto il profilo della relativa economicità.

Una conferma del fatto che – anche - obiettivi di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica si pongono alla base della regolamentazione del lavoro pubblico, compreso quello a tempo determinato, si può rinvenire nella circostanza che questi stessi – obiettivi – sono stati alla base della delega parlamentare conferita al governo al fine di attuare la (poi avvenuta) “privatizzazione” del pubblico impiego [102].

A tale medesima ratio peraltro pare ispirarsi anche l’insussistenza del diritto alla qualifica superiore nell’ipotesi di svolgimento di mansioni superiori ai sensi del menzionato art. 52, commi 1 e 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001.

Così come ragioni di contenimento – più che di razionalizzazione – della spesa pubblica paiono porsi alla base del c.d. blocco delle assunzioni.

43. La rimodulazione del lavoro pubblico a tempo determinato dovrà continuare a tener conto delle esigenze di razionalizzazione della spesa pubblica, oltre che rispondere alle istanze - parimenti provenienti dalla società – di stabilizzazione e di maggiore efficienza della pubblica amministrazione.

Alle tradizionali istanze sociali di lavoro stabile e di efficienza ed efficacia dell’agire amministrativo pubblico, pertanto, viene ad aggiungersi anche in materia di pubblico impiego a tempo determinato quella del contenimento della spesa pubblica.

Anche l’interesse a tale contenimento, quindi, dovrà essere tenuto presente e contemperato dalla nuova auspicata regolamentazione del lavoro pubblico a termine.

44. Necessità di una funzionalizzazione del lavoro pubblico a termine alla soddisfazione di tutte le varie istanze sociali di cui tale fattispecie contrattuale comporta la venuta in rilievo.

Il tema della rimodulazione del rapporto di lavoro a termine è stato affrontato anche con riferimento al settore privato, in relazione al quale comunque la disciplina di matrice comunitaria di cui al D.Lgs. n. 368/2001 ha provveduto a dotare, relativamente di recente, di una nuova veste e di un nuovo abito il rapporto di lavoro a tempo determinato in tale settore eventualmente incardinato.

Di rimodulazione del lavoro a termine si parla, però, soprattutto con attenzione al pubblico impiego, presumibilmente anche in conseguenza dell’inapplicabilità in via integrale in tale ambito della disciplina dettata da tale D.Lgs. e dell’insoddisfazione che, come detto, soprattutto in dottrina genera l’inoperatività nel pubblico impiego dell’istituto della conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

Tuttavia, nonostante l’ampio dibattito al riguardo sviluppatosi, nel campo del lavoro pubblico il tema della rimodulazione dell’impiego a termine tutte le volte in cui viene affrontato pare costituire oggetto di riflessioni e proposte che paiono trattarlo, per così dire, in modo unilaterale, con riferimento alla soddisfazione soltanto di una delle parti di cui il rapporto di lavoro temporaneo comporta la venuta in rilievo.

44.1. La dubbia legittimità costituzionale e l’inopportunità di “sanatorie generalizzate” : l’esigenza di adeguate selezioni per l’accesso a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione.

I limiti che caratterizzano i tentativi di affrontare e risolvere i problemi determinati dal rapporto di lavoro pubblico a tempo determinato soffermandosi soltanto su alcune delle istanze sociali che in proposito vengono in rilievo sembrano riscontrabili anche in tutte le proposte (quando non accordi con le parti sociali in materia) di “stabilizzazioni (sanatorie) più o meno generalizzate” [103] periodicamente e tuttora al riguardo ricorrenti.

Invero, appare evidente come tali sanatorie, seppur indubbiamente recepiscono le istanze sociali in tema di lavoro stabile, non effettuano altrettanto con riferimento a quelle – parimenti provenienti dalla società – di efficienza (anche e soprattutto sotto il profilo della formazione e, quindi, pure efficacia) dell’agire amministrativo pubblico.

Tali stabilizzazioni generalizzate del resto, non paiono nemmeno costituire e dare luogo ad una rimodulazione “in senso proprio” dello strumento del lavoro pubblico a tempo determinato, intervenendo, invero, esse ex post non su tale medesimo strumento nella sua configurazione tecnico-normativa, ma, appunto, soltanto sulle sue conseguenze, cercando di attenuarle e limitarle.

Per questo motivo le stabilizzazioni in questione, se pure paiono apprezzabili da un punto di vista prettamente sociale e vengono ad essere auspicate da una parte significativa delle società, incontrano l’opposizione della pressoché unanime dottrina e dello schieramento politico trasversale che avverte come prioritario il problema dell’attribuzione di reale efficienza alla macchina amministrativa pubblica ai fini dello sviluppo o, comunque, del mantenimento di competitività del paese.

Peraltro, occorre anche osservare che tali eventuali maxi sanatorie risulterebbero incompatibili con il principio del concorso pubblico così come attualmente interpretato, allo stesso modo della conversione del rapporto di lavoro a termine, proprio in considerazione di tale incompatibilità nell’ambito del pubblico impiego esclusa.

Infatti, quest’ultima obiezione non pare possa ritenersi a priori superata dai termini in cui le “stabilizzazioni” dei precari nella pubblica amministrazione sono state negli ultimi tempi e anche di recente auspicate : vale a dire a condizione che il pubblico impiegato a termine che si intende stabilizzare abbia già superato un concorso, oltre ad aver maturato un’esperienza significativa dal punto di vista temporale nel lavoro pubblico [104].

Ciò anche in considerazione del fatto che, come si è detto, le selezioni per posti a tempo determinato nel pubblico impiego potrebbero nell’attuale assenza di un preciso dato normativo che questo impedisca essere espletate secondo modalità che ne determinano ed evidenziano la diversa valenza rispetto al pubblico concorso previsto per l’accesso a tempo indeterminato nella P.A. e soltanto in presenza del quale la giurisprudenza della Corte Costituzionale, presumibilmente proprio in considerazione di ciò, limita le ipotesi, sotto il profilo dell’accesso in pianta stabile al lavoro pubblico, di rispetto del buon andamento delle pubbliche amministrazioni.

Tra l’altro, ammettere la possibilità di un’eventuale stabilizzazione di personale a tempo determinato individuato in base a selezioni effettuate in modo blando potrebbe anche costituire l’occasione ed il pretesto per la formazione di nuove clientele di lavoratori pubblici temporanei destinati ad essere stabilizzati a prescindere dal superamento di un’adeguata selezione.

Inoltre, si deve rilevare che le maxi sanatorie in questione frusterebbero il meccanismo incentivante e, quindi, le esigenze di efficienza della P.A. all’auspicata rimodulazione del lavoro pubblico a termine sottese, oltre che quelle di contenimento della spesa pubblica.

45. Un percorso “verso la stabilizzazione” del lavoratore a termine che consenta nella sua articolazione, altresì, di dotare le PP.AA. di personale adeguatamente formato e, pertanto, capace di assicurare maggiore efficienza alle stesse, razionalizzando così anche la spesa pubblica.

Una seria rimodulazione del lavoro pubblico a termine dovrà, come detto, tenere conto di tutte le istanze che in relazione alla fattispecie di lavoro temporaneo alle dipendenze di una data pubblica amministrazione provengono dalla società.

Peraltro, soltanto una rimodulazione effettuata in questi (omnicomprensivi e non settoriali) termini potrà apparire realmente incentivante il ricorso alla tipologia del lavoro pubblico a tempo determinato, appunto, perché essa coinvolgerà tutte le parti del contratto che così viene in rilievo, tentando di renderlo conveniente per ciascuna di loro e non soltanto per una di esse.

Del resto, un “ripensamento” dello strumento del lavoro a termine pubblico in un’ottica tesa a soddisfare tutte le istanze che in materia provengono dalla società appare - del tutto - possibile, atteso che le esigenze (e gli obiettivi) sociali che in proposito vengono in rilievo risultano tra di loro, quanto alla relativa soddisfazione, capaci di coesistenza [105].

46. Possibili configurazioni premiali del lavoro pubblico a termine : la previsione, negli accessi al pubblico impiego a tempo indeterminato, del servizio precedentemente prestato presso la P.A. quale titolo di preferenza “a parità di merito”, a prescindere dall’eventuale ottenimento di un’attestazione di lodevole servizio.

Una prima possibile ipotesi di correttivo per la rimodulazione del lavoro pubblico a termine in un’ottica che porti il lavoratore ad accettare “in positivo” – e non subire – una simile tipologia contrattuale, salvaguardando, nel contempo, le esigenze di formazione della P.A. e, quindi, anche di valorizzazione delle esperienze professionali presso di essa eventualmente compiute, potrebbe essere quella di una modifica della normativa in tema di titoli di preferenza nell’accesso ai ruoli fissi del pubblico impiego.

La modifica in questione sarebbe quella per cui tra tali titoli verrebbe ad essere inserito anche quello avente ad oggetto la precedente esperienza professionale eventualmente maturata, appunto a termine presso la P.A., a prescindere dall’eventuale ottenimento, in relazione ad essa, di un’attestazione di lodevole servizio.

Allo stato, infatti, tale tipo di esperienza viene ad essere valutata ai fini in questione – di preferenza – nell’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato soltanto nel caso di “aver prestato lodevole servizio … per non meno di un anno nell’amministrazione che ha indetto il concorso”.

Si tratterebbe, ovviamente, soltanto di un primo passo nella direzione di un “ripensamento”, nei termini descritti ed auspicati, del lavoro pubblico a termine.

Primo passo cui dovrebbero seguirne altri, anche al fine di superare alcuni dei difetti che appaiono come “congeniti” nel possibile correttivo in questo paragrafo descritto.

Infatti, si deve – per completezza - precisare che la misura in questione porterebbe ad uniformare tutte le precedenti esperienze di lavoro pubblico a termine, a prescindere dalla loro durata e dalla loro “significatività”, anche sotto il profilo (cui si è implicitamente accennato) della difficoltà – talvolta assai prossima a quella prevista per un pubblico concorso a tempo indeterminato – delle selezione che se ne pone “a monte”.

46.1. Altri possibili correttivi : esonero dalle eventuali prove preselettive previste per l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato della P.A. del personale con una precedente esperienza nel pubblico impiego.

Al fine di contribuire ad un utilizzo “premiale” anche per il lavoratore del pubblico impiego a termine un’altra possibile correzione – rispetto alle attuali modalità di impiego di tale fattispecie contrattuale nel settore pubblico - potrebbe essere individuata nella previsione in linea generale dell’esonero del lavoratore pubblico a termine dalle eventuali prove preselettive contemplate dai concorsi indetti ai fini dell’accesso a tempo indeterminato al pubblico impiego.

Previsione, questa dell’esonero dalle preselezioni, che dovrebbe essere contemplata, appunto, in via generale e quindi normativa con riferimento a tutti i meccanismi preselettivi, non affidandosi al riguardo alle valutazioni delle singole amministrazioni e ai bandi da esse indetti per il reclutamento di personale a tempo indeterminato.

Anche questa misura, come quella del diritto di precedenza cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente, tuttavia, non permetterebbe di distinguere tra esperienze ed esperienze, uniformando, sotto il profilo, appunto, del “salto” della preselezione, tutti i precedenti lavori a termine.

Ciò con conseguente – analoga al primo correttivo ipotizzato - impossibilità di soppesare e, quindi, premiare e valorizzare ulteriormente e più equamente (e non soltanto sic et simpliciter) tutte le precedenti esperienze di lavoro a termine nel settore pubblico.

Si tratterebbe, inoltre, di un’ipotesi che, per quanto eventualmente prevista in via normativa e, quindi, con riferimento a tutte le procedure preselettive indette dalle varie PP.AA., non consentirebbe di premiare sempre e comunque – seppure con il difetto di eccessiva uniformità menzionato – l’eventuale precedente lavoro pubblico a termine in quanto non opererebbe nelle ipotesi in cui le prove preselettive non dovessero essere previste.

46.2. Previsione di una preselezione per soli titoli tra i quali valutare adeguatamente il precedente servizio prestato presso la pubblica amministrazione.

Un altro strumento che potrebbe essere utilizzato per cercare di valorizzare (e, quindi, incentivare o far, comunque, “accettare”) un’eventuale precedente esperienza di lavoro a termine nell’ambito del pubblico impiego potrebbe essere ravvisato in quello - talvolta già previsto da alcuni dei bandi indetti dalle singole pubbliche amministrazioni - dell’articolazione dell’eventuale prova preselettiva in una valutazione per soli titoli nell’ambito della quale “far valere il peso” dell’esperienza professionale temporanea in questione.

La possibile previsione di una preselezione per soli titoli così congegnata, seppure, a differenza di quelle in nuce descritte nei precedenti paragrafi, potrebbe consentire, nell’ambito della valutazione dei titoli da essa comportata, di soppesare le differenti esperienze di lavoro pubblico a termine a seconda della loro effettiva – per durata e/o portata – significatività, presenta in comune con i correttivi prima ipotizzati il difetto di essere collegata ad un meccanismo – quello preselettivo – che è solo eventuale.

Pertanto, nel caso della non previsione di una prova preselettiva, l’eventuale precedente esperienza temporanea di lavoro pubblico di cui il partecipante al concorso senza preselezione dovesse risultare in possesso risulterebbe irrilevante.

46.3. La possibile previsione dell’obbligo della indizione di concorsi per posti a tempo indeterminato non solo per esami ma anche (necessariamente) per titoli tra i quali valutare obbligatoriamente il precedente servizio a termine presso l’amministrazione pubblica.

Al fine di evitare l’eventualità di cui al paragrafo precedente - e, quindi, la totale assenza di valutazione dell’eventuale precedente esperienza temporanea di pubblico impiego – si potrebbe pensare di “spostare” la valutazione dei titoli in questione dalla fase – eventuale – della preselezione a quella – necessaria – della procedura concorsuale vera e propria, prevedendo in via normativa una modifica alla disciplina dei concorsi che ne imponga l’espletamento necessariamente anche per titoli tra i quali valutare obbligatoriamente il precedente servizio a termine presso la pubblica amministrazione eventualmente prestato.

Ciò, senza per questo voler configurare tutte le procedure concorsuali alla stregua degli attuali c.d. “concorsi di secondo grado” (come, ad esempio, quelli per le magistrature speciali, amministrativa e contabile) e, quindi, anticipare il livello di difficoltà di questi ultimi a qualsivoglia procedura concorsuale indetta per l’accesso a tempo indeterminato nell’amministrazione pubblica, atteso il differente livello del titolo che per partecipare a qualsivoglia concorso – se si dovesse adottare il correttivo qui ipotizzato – sarebbe richiesto rispetto a quello necessario per i concorsi di secondo grado.

Si tratterebbe, peraltro, di prevedere in via normativa e, dunque, generale uno strumento che, con riferimento alla prassi, invalsa soprattutto tra le amministrazioni del comparto enti locali, di riconoscere nelle selezioni per posti a tempo indeterminato un punteggio di partenza superiore al candidato che ha intrattenuto con le stesse un precedente rapporto di lavoro a termine, ha ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 1999.

46.4. Eventuale cumulatività e non alternatività dei meccanismi incentivanti il pubblico impiego a termine.

Le misure descritte nei paragrafi precedenti, seppure incentivano e premiano il ricorso al lavoro a termine prima facie soltanto dal punto di vista del lavoratore, implicitamente, consentono un impiego dello strumento del lavoro a tempo determinato in un’ottica premiale i cui benefici si dispiegano anche a favore della parte datoriale pubblica.

Infatti, tutti i meccanismi descritti, oltre ad agevolare il lavoratore nella prospettiva dell’accesso al lavoro pubblico stabile, potrebbero consentire alla P.A. che li dovesse eventualmente applicare sul piano concreto di avvalersi, sotto il profilo delle proprie risorse umane in piante stabile, di personale, nel frattempo e segnatamente nel corso del pubblico impiego a termine, sul campo formatosi.

Inoltre, occorre osservare che le misure descritte – e le altre che più compiuti studi sicuramente condurrebbero ad individuare – potrebbero essere utilizzate, almeno in parte, cumulativamente, anche al fine di permettere quella effettiva valutazione comparativa e “pesatura” che alcune di esse (uniformando, sotto il profilo della relativa valorizzazione, tutti i precedenti lavori pubblici a termine) se singolarmente considerate ed applicate, come detto, non consentono.

47. Altri scenari più difficoltosi di rimodulazione dello strumento del lavoro pubblico a termine.

Sicuramente esiste la necessità di studiare altre forme incentivanti - nell’ottica di una chance concreta di stabilizzazione – l’accettazione non passiva del contratto a tempo determinato nell’ambito del pubblico impiego.

Questo, poiché, come detto, individuando tali ulteriori eventuali forme incentivanti – deve ritenersi – si individua altresì una chiave per dotare di maggiore efficienza la pubblica amministrazione, quanto meno sotto il profilo della formazione del relativo personale.

Di certo, tuttavia, non si tratta di un’opera facile, atteso che molti degli strumenti utilizzati nel settore privato al fine di applicare il modulo contrattuale del lavoro a tempo determinato in un’ottica incentivante non paiono poter essere trasposti al lavoro pubblico.

47.1. I dubbi, alla luce del principio del concorso “pubblico”, riguardo alla possibilità di procedure concorsuali “riservate” ai precari e la sentenza della Corte Costituzionale n. 205 del 2004.

La possibilità, di cui pure si parla periodicamente e - deve ritenersi anche – in considerazione del principio di cui all’art. 97/3 Cost., della previsione di concorsi cui potrebbero partecipare soltanto i lavoratori a tempo determinato pare presentare anch’essa talune difficoltà di configurazione, sia sotto il profilo giuridico che a livello di previsione concreta.

Infatti, eventuali concorsi così congegnati, verrebbero a configurarsi come riservati (appunto ai precari) e, pertanto, dovrebbero soggiacere ai limiti ai quali la Corte Costituzionale assoggetta la possibilità di previsione dei medesimi.

Il giudice delle leggi, invero, anche di recente, attraverso la sentenza n. 205 del 2004 ha precisato che “il principio del concorso pubblico, pur non essendo incompatibile – nella logica di agevolare il buon andamento dell’amministrazione – con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nell’amministrazione, non tollera tuttavia – salvo circostanze del tutto eccezionali – la riserva integrale dei posti disponibili in favore di personale interno.

A tale statuizione la Consulta è pervenuta dopo aver più volte affermato[106] che “la regola del pubblico concorso può dirsi rispettata solo quando le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dell’ambito dei soggetti legittimati a parteciparvi”.

Pertanto, considerate le “circostanze del tutto eccezionali” cui rinvia in proposito il giudice costituzionale, preferibile pare, per non incorrere in censure di incostituzionalità della normativa che eventuali procedure concorsuali riservate ai precari dovesse prevedere, indire dei concorsi “veri e propri”, come tali aperti anche ai non precari e nell’ambito dei quali, al fine di premiare i soggetti con una precedente esperienza a termine nella P.A. e quindi maggiormente formati, magari riconoscere un punteggio iniziale aggiuntivo ai medesimi.

Peraltro, sul piano concreto, occorre osservare che, allo stato attuale, la possibilità per le singole amministrazioni pubbliche di bandire concorsi “riservati” è subordinata e rimessa alla destinazione, da parte della stessa P.A. che così viene in rilievo, di risorse economiche di almeno pari entrata a procedure volte a consentire l’accesso al pubblico impiego dall’esterno.

Ipotesi, quest’ultima, che, pragmaticamente, appare di difficile praticabilità, stante, oltre che le menzionate esigenze di contenimento della spesa pubblica, le attuali, in genere, limitate risorse economiche disponibili per le varie pubbliche amministrazioni.

48. Un esempio concreto – però riferito al settore privato – di valorizzazione del lavoro a termine : la legge della regione Emilia Romagna n. 17 del 2005.

Utili spunti in proposito paiono potersi trarre da una recente legge regionale.

Tale legge è quella della regione Emilia Romagna n. 17 del 1 agosto 2005, recante norme per la promozione dell’occupazione, qualità, sicurezza e regolarità del lavoro.

Essa disciplina alcuni strumenti non alternativi tra di loro e volti, con riferimento al lavoratore, a favorire una visione del futuro non legata a scenari di precarietà e incertezza ed in relazione ad entrambe le parti coinvolte dal lavoro a termine l’acquisizione di condizioni lavorative stabili nell’interesse, appunto, anche dell’impresa che eventualmente dovesse procedere alla stabilizzazione del lavoratore a tempo determinato.

Il primo di tali strumenti si estrinseca nell’attribuzione al lavoratore a termine di una serie di assegni formativi che il medesimo potrà impiegare per la frequenza di attività formative destinate a favorirne, attraverso il rafforzamento delle relative competenze, un’occupazione più stabile eventualmente anche presso altri datori di lavoro.

La legge regionale in questione, pertanto, tende a sostenere il lavoratore temporaneo nella costruzione di una sorta di carriera non necessariamente interna all’azienda presso la quale è, sia pure a termine, impiegato.

Inoltre, la legge della regione Emilia Romagna n. 17 del 2005 prevede, a favore delle imprese, incentivi in caso di “stabilizzazione” dei rapporti di lavoro a tempo determinato con le stesse intrattenuti, soprattutto qualora si tratti di quelli che presentano un forte rischio di precarizzazione.

49. Alcune proposte de jure condendo.

Nell’attualità e fertilità del dibattito in materia di lavoro precario [107] alcune tra le molteplici e differenti riflessioni effettuate [108] sono state concretizzate in chiave propositiva, talvolta sotto forma di proposte di riforma del vigente quadro normativo formulate con un grado di approfondimento (anche tecnico) e di condivisione tale da non escludere la successiva riflessione su di esse da parte dello stesso legislatore.

49.1. Il disegno di legge n. 848-bis presentato nella XIV legislatura persegue la strada dell’incentivazione dell’impresa all’incardinazione di rapporti di lavoro stabili, preoccupandosi, con riferimento al lavoratore – nel frattempo, ancora – a termine, della previsione di adeguati ammortizzatori sociali.

Nella legislatura – n. 14 - che ha avuto termine nella primavera del 2006 è stato presentato, in materia di revisione del quadro normativo (allora) vigente in materia di lavoro flessibile, il disegno di legge n. 848-bis.

Tale disegno, in particolare, aveva ad oggetto una legge-delega al governo.

Dall’esame del medesimo e, in particolare, dei relativi articoli 2 e 3, è possibile evincere come già nel corso della XIV legislatura – almeno – una parte delle forze politiche avesse ben presente alcune delle tradizionali esigenze rappresentate dalla società in materia di lavoro a termine pubblico e privato.

Infatti, tale disegno di legge, tenendo presenti le istanze sociali di stabilizzazione del rapporto di lavoro e di misure volte a rendere meno gravose sul piano sociale le conseguenze del lavoro temporaneo, mirava a delegare il governo alla “revisione degli ammortizzatori sociali, avuto riguardo anche alle tipologie di trattamento su base assicurativa e a quelle su base solidaristica” e, nel contempo, all’adozione di incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato, anche attraverso “politiche le quali implichino il non computo nel numero dei dipendenti occupati delle unità lavorative assunte nel primo biennio in deroga all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300”.

Il disegno di legge in questione delineava, quindi, una visione “tradizionale”, oltre che (riferendosi esso ad un’auspicata legge-delega) non particolarmente dettagliata degli interventi da effettuare in materia.

Visione questa, comunque, capace di evidenziare come le istanze di lavoro stabile e di revisione del sistema di ammortizzatori sociali per i lavoratori precari, avessero, già nel corso della quattordicesima legislatura, ottenuto il riconoscimento di un livello di importanza tale da determinare il legislatore ad interessarsi delle medesime.

49.2. Il contratto Temporaneo Limitato (CTL) ipotizzato dalla dottrina delinea con riferimento all’impiego privato un percorso di accesso graduale al regime di stabilità.

Una proposta particolarmente interessante in materia pare provenire dagli ambienti accademici.

Tale proposta [109] sostanzialmente ha ad oggetto la previsione della possibilità per il datore di lavoro di procedere ad un’assunzione a termine soltanto con un contratto di durata non inferiore a tre anni, non rinnovabile presso il medesimo (datore di lavoro) se non sotto forma di contratto di lavoro a tempo indeterminato e, pertanto, attraverso la relativa conversione.

Tale contratto, da parte del lavoratore sarebbe fruibile fino a un massimo di tre volte presso imprese diverse e con costi di transazione ridotti al minimo.

Pur nella consapevolezza del fatto che il termine di tre anni potrebbe apparire eccessivamente lungo per il datore di lavoro che si dovesse trovare a dover fronteggiare esigenze temporanee di lavoro di minor durata, non si possono sottacere alcune potenzialità che, ai fini di una rimodulazione del contratto a termine che conduca il lavoratore dal medesimo interessato ad accettarlo e non a subirlo, tale piattaforma potrebbe contenere.

Infatti, un contratto (temporaneo limitato - CTL) di questo genere innanzitutto implicherebbe e permetterebbe al datore di lavoro la possibilità di sperimentare seriamente il lavoratore a termine destinato eventualmente alla successiva assunzione a tempo indeterminato e nel contempo garantirebbe a quest’ultimo un orizzonte temporale, quanto meno, significativo di impiego.

Inoltre, pare potersi affermare che i costi di formazione e il capitale umano specifico costituitosi nel corso dei tre anni di durata massima del CTL dovrebbero rendere oggettivamente improbabile che il datore di lavoro possa trovare più conveniente non trasformare un tale contratto, al fine di ritentare la strada di un nuovo Contratto Temporaneo Limitato.

Nonostante la proposta in questione, per i termini in cui è formulata, non può che riferirsi all’ambito privato, essa pare contenere anche delle utili indicazioni riguardo al possibile – e qui auspicato – impiego in un’ottica premiale del lavoro pubblico a tempo determinato.

Infatti, essa evidenzia come un effettivo cambiamento “in positivo” (sia per il lavoratore che per la parte datoriale, anche pubblica) dell’attuale regolamentazione del lavoro flessibile pare poter derivare solo dalla strada dell’incentivazione della cui percorrenza più volte è stata evidenziata la necessità, piuttosto che da quella dell’imposizione, anche se eventualmente attuata non in via formale attraverso un apposito comando ma, di fatto, attraverso l’assenza di alternative ad un unico modello proposto (e, pertanto, appunto imposto).

50. Il lavoro a termine necessario strumento nell’attuale economia globalizzata nell’ambito della quale anche alla P.A. è richiesto un agire – quanto meno, di tipo - imprenditoriale.

Il lavoro a termine, allo stato, pare risultare necessario per una serie di ragioni [110].

Affermazione condivisa, anche nell’ambito della scienza dell’amministrazione, è innanzitutto, invero, quella secondo cui nella prima fase dell’attuale dimensione della vita professionale i rapporti di lavoro dovranno necessariamente avere un grado di stabilità minore rispetto alle ulteriori fasi.

Questo, in primo luogo, al fine di consentire una migliore allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, la quale – si afferma - talvolta può richiedere più di un tentativo di inserimento aziendale della stessa persona, in considerazione anche dell’interesse della medesima alla migliore valorizzazione delle sue capacità [111].

Inoltre, si rileva che una gradualità nell’accesso al lavoro stabile appare necessaria per impedire un drastico effetto depressivo sulle possibilità di accesso al mondo del lavoro da parte dei più giovani.

Difatti, è stato osservato che in un sistema nel quale la prima assunzione fosse consentita soltanto con un rapporto di lavoro ad alto grado di stabilità essi verrebbero ad essere penalizzati rispetto a chi già lavora e ha, pertanto, alle spalle una storia professionale che, seppure non particolarmente lunga, gli consentirebbe di fornire al datore di lavoro informazioni specifiche sulle proprie qualità professionali [112].

Al riguardo, non pare doversi dimenticare che, proprio effettuando un ragionamento simile, nella seconda metà degli anni Settanta, fu uno dei sindacati maggiormente rappresentativi [113], a chiedere l’introduzione del contratto di formazione e lavoro [114].

Le considerazioni qui effettuate vengono ad aggiungersi a quelle già svolte riguardo all’attuale internazionalizzazione (e oramai globalizzazione) dei mercati e sulla necessità che la medesima comporta di risorse umane sempre più formate e, quanto alle modalità di impiego, flessibili.

Anche tale ultima esigenza evidenzia l’importanza – se non la necessarietà –del lavoro a termine pure nel campo dell’impiego presso la macchina amministrativa pubblica, atteso il – già, anch’esso menzionato – sempre maggiore coinvolgimento di questa come parte attiva dai processi di politica economica.

51. Conclusioni.

51.1. Necessario un cambio di mentalità che conduca a ritenere realmente “l’efficienza” della macchina amministrativa pubblica un bene primario alla pari del diritto al lavoro costituzionalmente tutelato.

Occorre convincersi e non soltanto affermare tralatiziamente che la pubblica amministrazione deve necessariamente assumere i connotati di uno dei propulsori per lo sviluppo del Paese e non, invece, come spesso accade, ritardarne la crescita [115].

Infatti, un eventuale settore privato sviluppato se abbinato ad uno pubblico inefficiente non solo non va da nessuna parte, ma, inoltre ne subisce i costi in via indiretta e talvolta anche diretta.

Pertanto anche l’azienda pubblica (così come le altre più propriamente profit) e non solo i lavoratori, deve essere tutelata [116], adottando una strategia (politica e, poi, giuridica) capace di prevedere con pragmaticità protezioni per entrambe le parti del rapporto di lavoro coinvolte e le esigenze di queste.

Di ciò, peraltro, sembra essersi reso conto, più in generale, anche lo stesso diritto del lavoro che, nato e sviluppatosi sull’antico tronco del diritto civile al fine di attenuare e contrastare le conseguenze negative derivanti dalla disparità di condizioni economiche delle parti coinvolte dal rapporto di impiego, vive, ormai da più di un decennio, un profondo cambiamento, figlio di un altro avvenuto sotto il profilo economico.

Quest’ultimo ha comportato una configurazione dei mercati lato sensi intesi quali caratterizzati da una sempre maggiore competitività, la quale, a sua volta, conduce coloro che impiegano le risorse sia umane che economiche e, pertanto, anche la P.A. ad interessarsi sempre meno del controllo disciplinare delle energie lavorative e sempre di più dei risultati e della razionalizzazione dei costi che queste comportano [117].

Pertanto, in un simile contesto, pare doversi affermare che l’obiettivo (divenuto ormai quasi un “tormentone politico-sindacale”) della “lotta al precariato” debba essere depurato dall’aurea quasi mitologica che lo circonda e ricondotto e perseguito sulla strada di una nuova regolazione della flessibilità che dovrà essere il più possibile ragionevole, equilibrata ed incentivante - in un’ottica premiale - entrambe le parti dal rapporto di lavoro flessibile coinvolte.

51.2. La speranza della trasformazione dei contratti di lavoro flessibile in “effettivi” ammortizzatori sia sociali che dell’esigenze di efficienza della pubblica amministrazione.

Una rimodulazione, ma anche rivalutazione, del lavoro flessibile – compreso quello a termine – appare, sulla scorta di quanto detto, necessaria.

Essa dovrà avvenire in un’ottica premiale di cui, come detto, possa beneficiare sia il lavoratore che in un’esperienza professionale temporanea si dovesse impegnare, sia l’impresa che la medesima dovesse richiedere e che potrebbe, in un’ulteriore chiave di utilizzo, farne un uso aggiuntivo al fine di individuare il lavoratore cui ricorrere in pianta stabile per le proprie esigenze, premiando così, nel contempo, anche quest’ultimo.

Dunque, la rimodulazione dovrà avvenire in modo da soddisfare o, quanto meno, ammortizzare le istanze provenienti da entrambe la parti interessate dal lavoro a tempo determinato.

Tali istanze, nell’ipotesi di venuta in rilievo del lavoro pubblico, avranno entrambe, seppure provenienti da parti diverse e contrapposte, valore sociale, atteso che una rilevanza per l’intera collettività deve essere riconosciuto sia a quelle di “stabilizzazione” provenienti dal lavoratore che alla richiesta di efficienza della P.A., datore di lavoro.

Peraltro, come accennato, la soddisfazione di quest’ultima richiesta non pare incompatibile con una trattazione del problema del lavoro stabile pragmaticamente attenta anche ai risultati cui la sua risoluzione deve condurre [118].

51.3. In ultima analisi : “ripensare” il lavoro pubblico.

Atteso che un cambiamento in materia di lavoro temporaneo si impone e considerata l’esigenza, di cui la società civile diviene sempre più consapevole, di una P.A. efficiente, non resta che augurarsi una nuova stagione legislativa, giurisprudenziale e di mentalità che consenta di ripensare, in linea generale, il lavoro pubblico, compreso anche quello a termine, permettendo così, attesa la stretta correlazione esistente tra i temi, di dotare di maggiore competitività l’intera economia nazionale.

Ciò anche in considerazione di quanto finora ha prodotto il sistema pubblico, sulla base delle regole di sempre, rispettose del dettato costituzionale forse nella forma ma non nella sostanza, soprattutto con riferimento al buon funzionamento della macchina amministrativa pubblica richiesta dall’art. 97 della nostra carta fondamentale.

D’altro canto, attesa l’importanza dei temi, deve ritenersi che al cambiamento auspicato debba essere concesso, almeno nel breve termine, un credito di pazienza sotto il profilo dei relativi - auspicati – risultati.

Doveroso, infatti, appare mettere in conto che occorrerà assecondare gli agenti del cambiamento, predisponendosi eventualmente anche a tollerare, come in tutti i processi, una prima fase in cui sarà inevitabilmente presente un certo margine di errore e di insuccesso.

Lo stesso credito di pazienza non pare debba essere concesso al cambiamento in questione sotto il profilo del relativo avvio.

Infatti, una rimodulazione del lavoro pubblico si impone urgentemente.

Essa, nella parte in cui avrà ad oggetto il lavoro a termine, se possibile, dovrà avvenire nell’ottica incentivante e premiale più volte auspicata nel presente lavoro.

52. Prospettive.

52.1. Cambio di “sistema” attraverso il passaggio ad un ordinamento non di diritto amministrativo ma paritario.

Una soluzione alternativa per dare più efficienza alle PP.AA. potrebbe essere quella del passaggio, in materia di impiego alle dipendenze di un’amministrazione pubblica, ad un modello privatistico puro, dando così luogo, di fatto, ad una completa inversione del percorso storicamente seguito nel nostro paese dal rapporto di pubblico impiego.

L’adozione di un modello privatistico puro comporterebbe il completo assoggettamento dei dipendenti pubblici alla disciplina prevista dal diritto privato, in un modo similare a quanto avviene, in sede comparativa, esclusivamente in Svezia, ove vige un sistema monistico fondato sulla pressoché “piena equiparazione” della disciplina del pubblico a quella del privato, non solo a livello di rapporto di lavoro ma anche sotto il profilo dell’organizzazione (che avviene, appunto, in via negoziale) dell’agire delle amministrazioni statali.

Infatti occorre osservare che negli altri sistemi tradizionalmente definiti “a diritto privato”, quali sono quelli dell’area anglo-americana, l’ampiezza e l’importanza delle riserve e delle deroghe nell’applicazione della disciplina comune all’azione amministrativa dello Stato si sono venute sempre di più accentuando, fino a finire per dare luogo esse stesse (in considerazione del fatto che risultano ormai ordinate intorno a principi e concetti uniformi) ad un diritto pubblico-amministrativo (administrative law).

Comunque, si deve rilevare che il diritto amministrativo non è (sempre) una necessità, ben potendo – deve ritenersi - concepirsi ed organizzarsi uno Stato anche in base a regole di diritto privato.

Già la societas romana, invero, era retta quasi esclusivamente da regole di diritto privato che cedevano ad una forma embrionale di diritto pubblico soltanto in circostanze patologiche (determinate per lo più da eventi bellici) [119].

Quella di un “cambio di sistema” è, ad ogni modo, un’ipotesi che richiede ancora più pazienza e pare essere ancora di più difficile attuazione della nuova stagione legislativa, giurisprudenziale e di mentalità auspicata nei termini descritti nel presente lavoro.

 


 

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(*) Settore Legale, Contenzioso del Lavoro, della Università di Roma - La Sapienza.

[1] Vedi, a titolo esemplificativo, A. GIARDINA, G. SABATTUCCI, V. VIDOTTO, Storia contemporanea, Bari, 1999, pp. 427 e ss.

[2] Cfr. FORTI, Lezioni di diritto amministrativo, Parte generale, 1926, I, p. 77.

[3] Sul tema LUCIFREDI, In tema di principi generali dell’ordinamento giuridico fascista in Stato e Diritto, Milano, 2000.

[4] Sull’atto di nomina, quale titolo, in passato, del rapporto di pubblico impiego, vedi per tutti A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, pp. 242 e ss.

[5] G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, 1996.

[6] F. CARINGELLA, L. DELPINO, F. DEL GIUDICE, Diritto amministrativo, Napoli, 2002, pag. 171.

[7] Si veda in materia M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966.

[8] Cfr. M. PACI, Il mutamento della struttura sociale italiana, Bologna, 1992.

[9] F. BATTISTELLI (a cura di), La pubblica amministrazione tra riforma e mutamento culturale, Milano, 2001.

 [10] Sul punto si può vedere, ad esempio, il celeberrimo “Rapporto Giannini” (documento trasmesso al Parlamento) in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1,1982.

 [11] Vedi A. VERRILLI, Diritto dell’Unione Europea, Napoli, 2003, pag. 27-30.

 [12] In relazione al quale si può vedere P. MIELI, Storia della Prima Repubblica. Con una cronologia di Matteo Moneta,

 Torino, 2006.

[13] Si veda, in proposito, S. CASSESE, La riforma della Pubblica Amministrazione italiana, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 6/2000.

[14] Tra le tante si veda, a titolo esemplificativo, Corte Costituzionale n. 218 del 2002, peraltro, oggetto del commento alla stessa effettuato (in termini analoghi a quelli utilizzati nel presente lavoro) da G.M. DI LIETO nell’articolo Impieghi pubblici e accesso alle qualifiche superiori pubblicato su Diritto & Giustizia, n. 26/2002.

[15] In proposito si può vedere, ad esempio, M. RUSCIANO – L. ZOPPOLI, Diritto del mercato del lavoro, Napoli, 1999.

[16] Z. BAUMAN, Globalization : the human consequences (traduzione italiana di O. PESCE, Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone), Roma- Bari, 2001.

[17] Riferimenti al quale possono essere individuati in DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA – PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Flessibilità e Lavoro Pubblico, 1° Report. Analisi ed esperienze, Roma, 2000.

[18] F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, IV Ed., Milano, 2005, pag. 1715 e ss.

[19] Sul punto si può vedere, a titolo esemplificativo, F. CARINGELLA - L. DELPINO - F. DEL GIUDICE, Diritto amministrativo, Napoli, 2002, pag. 500.

 [20] Z. GRANDI, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, 1993.

[21] Z. GRANDI, Il lavoro a termine nel pubblico impiego, Milano, 1993.

[22] R. SALOMONE, Contratto a termine e lavoro pubblico, in M. BIAGI (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Milano, 2002.

[23] In relazione alla quale si può vedere M. D’ANTONA, Lavoro pubblico e diritto del lavoro : la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle leggi Bassanini, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n.1/1998.

[24] Si veda, in proposito, ad esempio, la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 13.11.1997 n. 1293.

[25] Riprendendo un concetto già espresso da L. GALLINO, Il costo umano della flessibilità, Bari, 2001.

[26] Vedi T. TREU, Le politiche del lavoro del Governo in Diritto delle relazioni industriali, n. 2/1995.

[27] A.VALLEBONA, C. PISANI, Il nuovo lavoro a termine, Padova, 2001

[28] A. VALLEBONA, Evoluzione del diritto del lavoro e crimini contro i giuslavoristi, relazione al Convegno su Il ruolo del sindacato nel nuovo diritto del lavoro tenutosi presso il CNEL il 26 marzo 2002.

[29] In materia si può vedere, ad esempio, A. ALBERICI, Imparare sempre nella società della conoscenza, Milano, 2002.

[30] In relazione al cui fenomeno si può vedere G. TASSINARI, La globalizzazione, Il problema dell’unità del mondo. Storia e attualità di un processo che non finirà mai, Milano, 2006.

[31] Vedi DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA – PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Benchmarking dei sistemi contrattuali flessibili in Europa, Il lavoro pubblico in Europa e negli Stati Uniti in Flessibilità e lavoro pubblico, Roma, 2000.

[32] F. BATTISTELLI (a cura di), La pubblica amministrazione tra riforma e mutamento culturale, Milano, 2001.

[33] M. ALAM, Public sector performance: perception versus reality, Helsinky 1994.

[34] Per una definizione della Scienza dell’amministrazione vedi Compendio di scienza dell’amministrazione, Napoli, 2001, pag. 7.

[35] Si pensi, in particolare, agli studi sui bisogni del lavoratore di A. MASLOW (reperibili nella traduzione italiana della pubblicazione dal medesimo redatta in materia in materia del 1954, dal titolo Motivazione e personalità, Roma, 1973) e sulla relazione tra esigenze della personalità umana e esigenze dell’organizzazione formale.

[36] M. WEBER, Economia e società, Milano, 1922.

[37] Si vedano, in proposito, gli scritti di M. CROZIER, Il fenomeno burocratico, Milano, 1969; M. ALBROW, La burocrazia, Milano, 1973; P.M. BLAU, La dinamica della burocrazia, Milano, 1973.

[38] Si tratta di dati generali ricavati dall’Eurostat Databases – European Social Statistics – Labour Force – Survey Results 1999-2000, European Communities, Luxembourg, 2001, frutto di comparazioni che vanno valutate con prudenza in quanto costituite su basi statistiche che risentono chiaramente della diversità delle discipline giuridiche nei vari paesi ma che, comunque, consentono di cogliere le tendenze generali

[39] DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA – PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Flessibilità e Lavoro Pubblico, 1° Report. Analisi ed esperienze, Roma, 2000.

[40]DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA – PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, BENCHMARKING DEI SISTEMI CONTRATTUALI FLESSIBILI IN EUROPA – Il lavoro pubblico in Europa e negli Stati Uniti in Flessibilità e lavoro pubblico, Roma, 2000.

[41] In relazione alla quale si può vedere anche C. DELL’ARINGA, Una regia nazionale per la P.A. in lavoceinfo.it del 27.11.2006.

[42] Sul punto già T. ALTAN, La nostra Italia, Milano, 1986.

[43] Per un approfondimento, Compendio di Scienza dell’Amministrazione, Napoli, 2001, pag. 170 e ss.

[44] Cfr. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, IV Ed., Milano, pag. 695 e ss..

[45] Cfr. Compendio di Scienza dell’Amministrazione, Napoli, 2001, pag. 190.

[46] C. GIURDANELLA – E. GUARNACCIA, Amministrazione digitale: leggiamo il Codice, su Interlex, Diritto, Tecnologia, Informazione del 25.11.2004.

[47] Vedi A. BLASCO, Spoil system: lo stato della giurisprudenza in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 3/2003; A. CORSACI, Il nuovo regime di conferimento degli incarichi dirigenziali e la giurisdizione sugli incarichi dirigenziali in Il lavoro nella pubblica amministrazione, n. 5/2003; G. D’ALESSIO e B. VALENSISE, Incarichi di funzione dirigenziale in F. CARINCI e L. ZOPPOLI, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Diritto del Lavoro - Commentario diretto da F. CARINCI, vol. V, Torino, 2004, pag. 1058.

[48] M. CLARICH – D. ILARIA, La riforma del pubblico impiego, Milano, 1999.

[49] Vedi P. ICHINO, Il sindacato e i nullafacenti. Tagli di spesa ed efficienza nel pubblico impiego in Corriere della Sera del 29.08.2006.

[50] M. SALVATI, Statali pigri e dirigenti prudenti in Corriere della Sera del 03.09.2006.

[51] U. POTI (a cura di), Lavoro pubblico e flessibilità, Catanzaro, 2002.

[52] Si veda, a titolo esemplificativo, D. DE MASI, Il futuro del lavoro, Milano, 1997; U. GALIMBERTI, Il male di vivere da precari, Milano, 2005.

[53] BIAGI M, Il dado è tratto: modernizzazione o conservazione ?, in Il Sole 24 Ore del 21 marzo 2002.

[54] Vedi AA.VV., I lavori atipici, in Democrazia e Diritto, Vol. I, Roma, 1990; ACCORNERO A., Una ricerca sui lavori coordinati e continuativi. Fra subordinazione e autonomia, su Lavoro Informazione del 30 novembre 1998.

[55] Consultabile, così come le altre decisioni della Consulta, all’indirizzo internet http : //www.giurcost.org.

[56] Sentenza della Corte Costituzionale n. 205 del 2004.

[57] Così espressamente la sentenza della Consulta n. 477 del 1995.

[58] Anche perché, come scrive M. GUANDALINI, nell’articolo dal titolo Il lavoro instabile pubblicato su Metro del 07.12.06 “il precario non è il figlio della serva”.

[59]G. FARREL., Una sfida da raccogliere, Milano, 2000.

[60] D. GOTTARDI, Un contratto “atipico” per lavoratori atipici, in Lavoro Informazione del 30 settembre 1998.

[61] Si veda, al riguardo, a titolo esemplificativo, l’articolo di M. DONADDIO, I pesanti fardelli di un paese bloccato pubblicato su Il Sole 24 Ore del 11 novembre 2005, nonché S. SEPE, Stato legale e stato reale, Milano, 2000.

[62] S. CIUCCIOVINO, Il contratto di inserimento professionale in Argomenti di Diritto del Lavoro, 1995.

[63] A. VALLEBONA , La riforma dei lavori, Padova, 2004.

[64] L. PALADIN, I principi fondamentali della Costituzione repubblicana : una prospettiva storica in Giurcost.it, 1997.

[65] Su tale tematica e sulle altre relative al pubblico impiego privatizzato, si può vedere F. BUFFA, Il Pubblico impiego privatizzato nella giurisprudenza. Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, Piacenza, 2004.

[66] vedi C. FRANCOMANO, Le peculiarità del contratto a termine nel lavoro pubblico privatizzato, in Rivista del diritto del lavoro n.1/2006.

[67] E. GHERA, La flessibilità : variazioni sul tema, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, n. 6/1996.

[68] A. BELLAVISTA, La direttiva sul lavoro a tempo determinato in AA.VV., Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Torino, 2003.

[69] M. BIAGI (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine : prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano in Il lavoro a termine – Commentario al D.Lgs. 6 settembre 2001, Milano, 2002.

[70] L.M. DENTICI, Abrogazioni, disciplina transitoria e sanzioni nel D.Lgs. n. 368/2001 in A. GARILLI, M. NAPOLI (a cura di), Il lavoro a tempo determinato in Italia e in Europa, Milano, 2002, pag. 167.

[71] Sul punto si può vedere l’ordinanza n. 899 del 17 maggio 2004 con cui il Tribunale di Rossano ha sollevato questione di legittimità costituzionale per presunta violazione (per eccesso di delega) dell’art. 76 della Costituzione da parte degli artt. 10, comma 9, 10 e 11, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 368 del 2001 pubblicata nella G.U. n. 45 del 17.11.2004. Inoltre, M. DELFINO, Il principio di non regresso nelle direttive in materia di politica sociale in Giornale del diritto del lavoro e delle relazioni industriali, n. 12/2002.

[72] Si vedano, sul punto, ad esempio, le previsione del C.C.N.L., comparto Università, 1998/2001.

[73] N. DE MARINIS, Brevi note a margine della legge n. 30/2003 in Massimario Giurisprudenza lavoro, 11/2003.

[74] DE FELICE, L’assunzione senza concorso nel settore pubblico in Rivista italiana di diritto del lavoro, n. 5/1986.

[75] Si pensi alle possibilità di licenziamento ad essa riconosciute. Si veda anche A. SUIPOT, Au-delà de l’emploi. Transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe, Paris, 1999.

[76]N. SAPONE, Assunzioni illegittime e risarcimento del danno del lavoratore : osservazioni sull’articolo 36 TUPI, citato in A. SCARASCIA, La successione anomala del contratto a termine nel settore pubblico dopo le sentenze comunitarie del 2006 in Lexitalia n. 11/2006.

[77] Si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 5024 del 2003 e Sezione VI, n. 1234 del 2004.

[78] R. SALOMONE, Contratto a termine e lavoro pubblico in M. BIAGI (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Milano, 2002.

[79] Reperibile, così come le altre decisioni della Consulta, all’indirizzo internet http : //www.giurcost.org.

[80] Vedi Corte Costituzionale n. 40 del 1986.

[81] Al riguardo si possono confrontare, a titolo esemplificativo, le sentenze della Consulta n. 205 del 1996 e n. 320 del 1997.

[82] A. TAMPIERI, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni in Il Lavoro nella Giurisprudenza, n.6/1995.

[84] Cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 190 del 2005.

[85] P. CHIELI, I contratti flessibili della P.A. : l’inapplicabilità della sanzione << ordinaria >> della conversione : note critiche a margine della sentenza n. 89/2003 della Corte Costituzionale in Il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, n. 6/2003.

[86] L. MONTUSCHI, L’evoluzione del contratto a termine,. Dalla subalternità all’alternatività : un modello per il lavoro in Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, n.1/2002 e G. PROIA, Forme di impiego flessibile nel lavoro pubblico in G. SANTORO-PASSARELLI (a cura di), Diritto del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Milano, 2000.

[87] In proposito si può vedere, L. DE ANGELIS, Il contratto a termine con le pubbliche amministrazioni: aspetti peculiari in Rivista critica di diritto del lavoro, n.4/2002.

[88] M. PAPALEONI, Luci ed ombre nella riforma del contratto a termine in Rivista italiana di diritto del lavoro n. 4/2001.

[89] Si veda Consiglio di Stato, V Sez., n. 5419 del 2002, n. 5024 del 2003 e IV Sez. n. 2560 del 2004 che hanno, di recente, ribadito l’orientamento sul punto affermatosi nella vigenza della legge n. 230 del 1962.

[90] Si veda, ex plurimis, Tribunale Napoli, 4 aprile 2003 secondo cui “l’interesse alla conservazione del posto di lavoro è sacrificato in presenza di vincoli costituzionalmente rilevanti - art. 97 Cost. - imposti alla p.a. nella costituzione di rapporti di pubblico impiego, anche se in regime di diritto privato”.

[91] Emessa in data 4 giugno 2003, appunto dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Agrigento, Giudice Gatto.

[92] Nella causa 106/77 (c.d. caso Simmenthal) la cui decisione è stata pubblicata in Foro Italiano, n. 4/1978.

[93] Cfr. sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 1973 (c.d. “Frontini”).

[94] Reperibile all’indirizzo istituzionale internet della Corte di Giustizia Europea : http://www.curia.europa.eu/it.

[95] Cfr., ancora, sentenza Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, del 4 luglio 2006.

[96] E precisamente in data 7 settembre 2006 intervenute.

[97] A. MARESCA, Il contratto a termine per la formazione dei giovani in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n.1/1984.

[98] MANGANELLO, La disciplina sanzionatoria del contratto a tempo determinato in E. GHERA (a cura di ), Occupazione e flessibilità, Napoli, 1993.

[99] B. IACONO, Ruoli organici e lavoro temporaneo in M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro pubblico, Bologna, 1993.

[100] Però, si vedano, in senso contrario alcune recenti pronunce della giustizia amministrativa e i recenti intenti manifestatisi nel mondo politico in materia di eliminazione del precariato entro il termine della XV legislatura iniziata nell’aprile 2006.

[101] Al riguardo si può vedere M. ROCCELLA, Spunti sulla disciplina del lavoro temporaneo nel pubblico impiego in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 1989.

[102] Si confronti l’art. 2, comma 1, della legge-delega n. 421 del 1992, nella parte in cui esplicita che la profonda riforma della disciplina del lavoro e la privatizzazione del pubblico impiego da essa prevista è stata consentita quale strumento per pervenire “al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza, della produttività nonché alla sua riorganizzazione”.

[103] Cfr. in proposito, M. RUSCIANO, Il lavoro pubblico, Bologna, 1996 e A. TAMPIERI, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 10 del 1995.

[104] Si veda, al riguardo, G. SCAFURO, La fabbrica dei precari, articolo pubblicato su Avvenire del 22.11.06.

[105] P. ROMEI, L’incentivo alla produttività nel pubblico impiego, Studi organizzativi, n. 2, 1985 e M. BIAGI, Il dado è tratto : modernizzazione o conservazione, articolo pubblicato in Il Sole 24 ore del 21 marzo 2002.

[106] Si possono vedere in proposito, tra le numerose sentenze, la n. 1 del 1999, n. 194 del 2002 e 34 del 2004 tutte consultabili all’indirizzo internet http : //www.giurcost.org.

[107] Per i precedenti a questo dibattito si veda, a titolo esemplificativo, B. VENEZIANI, Flessibilità del lavoro e suoi antidoti. Un’analisi comparata in Giornale di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, n. 5/1993.

[108] Si veda, ad esempio, il progetto di legge di iniziativa popolare “contro il lavoro precario”, primo firmatario Stefano Rodotà, sostenuto dalla “sinistra” dei Democratici di Sinistra, consultabile all’indirizzo internet : http://www.precariarestanca.it/proposta-di-legge.

[109] formulata da Andrea Ichino.

[110] A. ACCORNERO, Era il secolo del lavoro, Bologna, 1997.

[111] A. ACCORNERO, L’ultimo tabù in AA.VV., Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Roma, 1999.

[112] P.G. ALLEVA, I lavori atipici : pericolo o opportunità in Rivista Giuridica del lavoro e della Previdenza Sociale, n.6/2000.

[113] La C.G.I.L. sulla scorta soprattutto di un’idea di Bruno Trentin.

[114] In materia si veda F. DI LASCIO, I contratti di formazione e lavoro nella P.A. in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n.5/2001

[115] Sull’importanza di un’amministrazione pubblica efficiente si può vedere S. CASSESE, La riforma della Pubblica Amministrazione italiana, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, n. 6/2000.

[116] G. VARDARO, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro in Itinerari, Milano, 1986

[117] ALTIERI G, Le nuove forme di lavoro post-fordista: il caso italiano, in G. ALTIERI – M. CARRIERI (a cura di ), Il popolo del 10%, Milano, 2000.

[118] S. CASSESE Il sorriso del gatto, ovvero dei metodi nello studio del diritto pubblico, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico n. 3/2006.

[119] R. DAVID – C. JAUFFRET SPINOSI, I grandi sistemi giuridici contemporanei, IV ed., Padova, 1994.


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