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Articoli e note

n. 7-8/2007 - © copyright

GERARDO GUZZO*

Società miste: nuovo start up del Consiglio di Stato
e successiva evoluzione giurisprudenziale

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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Il parere dell’Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato n. 456 del 18 aprile 2007. 3. La sentenza del Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 2932, dell’1 giugno 2007. 4. La sentenza del Tar Napoli, VII Sezione, n. 6479, del 4 luglio 2007. 5. Considerazioni finali.

1. Premessa.

 Il settore dei servizi pubblici locali sembra interessato da una nuova “stagione riformista” esattamente un anno dopo il varo del d.l. n. 223/06, poi convertito nella legge n. 248/06.

Da quel “lontano” luglio dello scorso anno, che rappresentò agli occhi di molti osservatori una sorta di spartiacque tra la precedente disciplina in tema di affidamenti in house e quella futura, peraltro ancora all’esame del Parlamento (ddl Lanzillotta), molte cose sono cambiate. Infatti, da allora, si sono succedute, a ritmo incalzante, pronunce della Corte di Giustizia ed interventi del Consiglio di Stato, non sempre apprezzabili per coerenza interpretativa, con conseguente indebolimento del principio della certezza del diritto.

Lo stesso Parlamento europeo, poi, con la Risoluzione n. 2043/2006 (INI), del 26 ottobre 2006, ha trovato il modo di ammonire gli Stati membri evidenziando l’utilità dei moduli societari misti in una prospettiva di maggiore efficienza, speditezza e competitività dei servizi pubblici locali. Si è trattato di una sortita certamente non in linea con la giurisprudenza più recente della Corte di Lussemburgo che ha registrato, proprio recentemente, anche il significativo recepimento del Consiglio di Stato con il parere espresso dall’Adunanza della II Sezione, rubricato n. 456, del 18 aprile 2007, oggi commentato.

Il decisum del supremo Organo di giustizia amministrativa nazionale, interpretando i principi codificati dalla giurisprudenza comunitaria, a partire dalla storica sentenza “Teckal” del 18 novembre 1999, ha inteso, qualora ricorrano determinate condizioni, di voler riabilitare i moduli societari misti considerando, più in generale, le ipotesi di partnariato pubblico - privato decisamente sovrapponibili ai principi di tutela della concorrenza, parità di trattamento e divieto di discriminazione.

I due successivi arresti, oggetto di scrutinio, quello della VI Sezione del Consiglio di Stato, n. 2932, del dell’1 giugno 2007 e quello del Tar Campania – Napoli – del 4 luglio 2007, invece, affrontano il delicato problema del “controllo analogo” in materia di affidamenti in house, consolidando un orientamento ormai stabile in base al quale la totale detenzione del capitale sociale dell’affidataria in mano pubblica costituisce condizione necessaria ma non sufficiente a garantire che quest’ultima si atteggi a longa manus dell’amministrazione affidante. In definitiva, allo stato, si può affermare che, mentre la disciplina delle società miste vive una sorta di fase di assestamento, il discorso cambia radicalmente per quella relativa agli affidamenti in house che sembra aver trovato una fragile ma duratura “quadratura” giurisprudenziale almeno nei suoi caratteri essenziali (“controllo analogo” e “parte più importante dell’attività”).

2. Il parere dell’Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato n. 456, del 18 aprile 2007.

Il parere reso dall’Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato, n. 456, del 18 aprile 2007 ha costituito indubbiamente un vero e proprio punto di svolta della giurisprudenza nazionale. Esso si apprezza per la sostanziale discontinuità rispetto ai precedenti arresti dei giudici di Palazzo Spada, tutti caratterizzati da una sorta di “bulgaro” appiattimento ai talvolta contraddittori principi comunitari dettati in materia di affidamento diretto del servizio a società miste[1].

La ben nota vicenda che ha stimolato il parere in commento riguardava proprio l’affidamento diretto della gestione del sistema informativo agricolo nazionale da parte dell’Agea ad una società mista pubblico – privata.

In quella occasione, la Sezione, discostandosi dal principio codificato dalla Corte di giustizia con la sentenza “Stadt Halle” dell’11 gennaio 2005 [2] e successivamente dallo stesso Consiglio di Stato [3], ha dettato le regole nel rispetto delle quali è possibile procedere all’affidamento diretto di un servizio pubblico locale a favore di un modulo societario misto pubblico – privato. In sostanza, i giudici del massimo organo di giustizia amministrativa, al pari del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia [4], hanno ritenuto indispensabile l’esperimento di una procedura di evidenza pubblica nella scelta del partner privato da associare all’ente affidante nella gestione del servizio.

L’assunto muove dalla considerazione che l’intera produzione giurisprudenziale della Corte di giustizia si è andata formando scrutinando casi di affidamento diretto a moduli societari misti costituiti senza la preventiva selezione del soggetto privato attraverso l’espletamento di una gara pubblica. Gli stessi magistrati hanno avuto cura di precisare che il partner privato non deve essere un semplice “socio finanziatore”, la cui funzione si esaurisce nel conferimento del capitale e, dunque, di risorse finanziarie e patrimoniali, ma deve aver ben altro spessore; in altri termini, esso deve atteggiarsi a “socio industriale”. In estrema sintesi, i giudici del Consiglio di Stato ritengono che il privato selezionato debba essere perfettamente in grado di svolgere le prestazioni che caratterizzano l’oggetto della società mista affidataria del servizio [5].

L’opera di definizione delle condizioni che renderebbero possibile l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale a una società mista non si esaurisce, però, nella indispensabilità della procedura selettiva del partner privato e nella qualifica di quest’ultimo alla stregua di un “socio industriale o operativo”. Infatti, i magistrati di Palazzo Spada ritengono che ai fini della tutela del principio di libera concorrenza l’affidamento diretto ad una società mista debba necessariamente essere a tempo determinato evitando che il socio divenga socio stabile della società mista. Secondo la Sezione, la sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e per la scelta del socio, impedirebbe che vi siano distorsioni nel libero gioco della concorrenza e violazioni del principio della parità di trattamento in danno di tutti i soggetti economici operanti nel settore interessato dall’oggetto dell’affidamento [6].

Si tratta di una presa di posizione sensibilmente diversa da quella assunta dai giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia i quali, con la citata decisione del 27 ottobre 2006, n. 589, ponevano, al contrario, la necessità di una doppia gara di evidenza pubblica stigmatizzando la diversità ontologica e teleologica tra la procedura di selezione del partner privato e quella di affidamento del servizio. I magistrati siciliani, in quella occasione, hanno ritenuto che, a differenza della procedura di scelta del partner privato, finalizzata ad accertare il possesso dei requisiti tecnico – organizzativi in capo al soggetto selezionato, la gara strumentale all’affidamento del servizio è, invece, volta alla individuazione del soggetto che dimostri di possedere la capacità di gestire in modo ottimale il servizio e, in definitiva, di soddisfare nel migliore dei modi l’interesse della collettività. In conclusione, la seconda non potrebbe essere assorbita dalla prima in considerazione della differente natura degli interessi sottesi.

Tale ricostruzione è stata “criticata” dai giudici del Consiglio di Stato i quali hanno osservato come la duplicazione della procedura selettiva presenti elementi di indubbia pericolosità e illogicità. Infatti, l’amministrazione aggiudicatrice ben potrebbe essere tentata di affidare il servizio proprio a quel modulo societario misto del quale detiene parte del capitale con inevitabile vulnus ai principi di parità di trattamento e di libera concorrenza. Inoltre, sarebbe paradossale ipotizzare che la stessa amministrazione aggiudicatrice possa bandire una gara aperta anche a un soggetto economico da essa stessa partecipato.

Si tratta di un’obiezione certamente condivisibile che, tuttavia, non supera lo sbarramento posto dalla Corte di giustizia con la arcinota sentenza Stadt Halle, vale a dire che la partecipazione del privato ad un modulo societario misto, proprio perché obbedisce a interessi diversi da quelli pubblicistici, impedisce, di fatto, alla PA di perseguire in via esclusiva l’interesse della collettività. In questa ottica va, pertanto, apprezzata la coraggiosa sentenza del CGA della Sicilia che, mediante la previsione dell’esperimento della doppia selezione, ha cercato di garantire massimamente il libero gioco della concorrenza tenendo in debito conto il fatto che la presenza di risorse private svii i fini istituzionali propri dell’ente affidante. In definitiva, se non cambia l’orientamento dei giudici lussemburghesi, l’art. 113, comma 5, lett. b) del Tuel non dovrebbe trovare applicazione nel nostro sistema ordinamentale in quanto esso, in contrasto con i principi posti dalla sentenza Stadt Halle, prevede l’affidamento diretto del servizio a moduli societari caratterizzati dalla presenza di apporti partecipativi privati.

Ciononostante, va rilevata l’importanza del parere dell’Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato che, pur suscitando qualche perplessità, consente, oggi, con maggior precisione, ai giudici nazionali di identificare le condizioni in presenza delle quali sia possibile affidare direttamente un servizio pubblico locale ad una società mista. In conclusione, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’affidamento di un servizio pubblico locale ad una società mista sarebbe possibile qualora: a) il partner privato sia stato scelto all’esito di una procedura di evidenza pubblica; b) il privato assuma l’habitus del “socio industriale” o “socio operativo”, vale a dire sia concretamente in grado di svolgere le prestazioni oggetto del servizio affidato; c) l’affidamento diretto abbia una durata limitata nel tempo, possibilmente già determinata nel bando di gara. Fissando delle coordinate certe, i magistrati del supremo Organo di giustizia amministrativa hanno compiuto una scelta di campo volta a riabilitare lo strumento dei moduli societari a partecipazione mista, mostrando, con questo, di voler seguire i moniti provenienti da Strasburgo in tema di partnariato pubblico – privato [7].

3. La sentenza del Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 2932, dell’1 giugno 2007.

L’importanza della sentenza della VI Sezione del Consiglio di Stato, rubricata n. 2932, risalente allo scorso 1 giugno 2007, risiede nella circostanza che con essa, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale inaugurato con il precedente arresto n. 1514, del 3 aprile 2007, avente ad oggetto lo spinoso problema della definizione del concetto di “controllo analogo”[8]. In particolare, i magistrati del supremo Organo di giustizia amministrativa, interpretando estensivamente i principi codificati dalla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, hanno sostenuto che la semplice previsione nello statuto dell’affidataria della mera possibilità di apertura del capitale sociale a privati, non costituisce indice rivelatore di una intrinseca vocazione commerciale del soggetto affidatario del servizio [9]. Questo consente di affermare che ci troviamo di fronte ad un orientamento giurisprudenziale destinato a consolidarsi nel tempo, con buona pace di quanti temevano che il decisum dello scorso aprile, n. 1514, potesse essere archiviato come l’ennesima pronuncia estemporanea caratterizzata dalla storica temporaneità.

Del resto, come già precedentemente osservato proprio dalle pagine di questa Rivista, le due sentenze in parola del giudice nazionale non sono espressione di frettolose dinamiche ermeneutiche dei principi comunitari, in quanto esse trovano un preciso riferimento giurisprudenziale a livello comunitario costituito dal dictum della Corte di giustizia del 10 ottobre 2005, meglio conosciuto come “Parking Brixten”. I giudici lussemburghesi, infatti, discendevano la vocazione commerciale del soggetto affidatario, inter alia, dalla semplice possibilità, prevista in statuto, di aprire il pacchetto societario a partners privati, mostrando di ritenere pregiudizievole ai fini dell’esercizio del “controllo analogo” la diversa previsione della obbligatoria cessione di parte del capitale pubblico a soggetti privati [10].

Un ulteriore elemento di continuità giurisprudenziale rinvenibile nella sentenza in commento, poi, è costituito dal fatto che i giudici del Consiglio di Stato hanno ritenuto che la totale partecipazione dell’ente pubblico al capitale sociale dell’affidataria rappresenti condizione indispensabile ma non sufficiente a garantire il “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, occorrendo che i poteri riconosciuti alla PA siano maggiori di quelli riconosciuti dal codice civile agli amministratori di una società. In estrema sintesi, oltre alla totale detenzione in mano pubblica del capitale sociale occorre anche l’assenza di significativi poteri gestionali in capo al consiglio di amministrazione del soggetto affidatario [11].

In definitiva, la sentenza in commento sembra consolidare alcune “conquiste giurisprudenziali” in tema di “controllo analogo” fornendo agli operatori del diritto elementi di maggiore certezza derivanti dalla fissazione di imprescindibili punti fermi.

4. La sentenza del Tar Napoli, VII Sezione, n. 6479, del 4 luglio 2007.

A conferma della momentanea stabilità raggiunta dalla giurisprudenza amministrativa in materia di “controllo analogo” sovviene anche la recentissima sentenza del Tar Campania – Napoli - VII Sezione, n. 6479, del 4 luglio 2007. I giudici partenopei, allineandosi alle coordinate giurisprudenziali cristallizzate dal Consiglio di Stato, a far data dalla citata sentenza n. 1514 della VI Sezione, risalente allo scorso 3 aprile 2007, hanno affermato che il requisito del “controllo analogo” viene meno non solo nell’ipotesi in cui la società affidataria “esporti” il proprio know how al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente affidante, partecipando a gare bandite da altri soggetti pubblici - con conseguente alterazione della libera concorrenza e violazione del principio comunitario della parità di trattamento - ma anche nel caso in cui sia stato accertato un ampliamento dell’oggetto sociale o, semplicemente, sia stata registrata la previsione nello statuto della obbligatoria apertura del pacchetto societario a risorse private [12].

Si tratta di una sentenza che va nella direzione di una “stabilizzazione” della posizione della giurisprudenza nazionale e che, per una volta, non offre spunti polemici legati a posizioni divergenti rispetto a quanto stabilito a livello comunitario in tema di affidamenti in house. L’importanza di questo nuovo corso, dunque, risiede proprio in una sorta di “pax iuris” raggiunta all’interno del plesso giurisdizionale amministrativo Tar – Consiglio di Stato, al momento unito nella sacrosanta battaglia costituita dall’individuazione di precisi punti cardinali entro i quali orientare e definire gli astratti concetti di “controllo analogo” e di “destinazione prevalente dell’attività” coniati dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla storica sentenza “Teckal”.

5. Considerazioni finali.

A circa otto anni dalla prima pronuncia della Corte di giustizia in materia di affidamenti in house (18 novembre 1999) e dopo innumerevoli interventi chiarificatori degli stessi giudici europei, si può, oggi, affermare, con buona approssimazione, che i concetti di “controllo analogo” e “destinazione prevalente dell’attività” abbiano assunto dei connotati sufficientemente delineati, almeno nelle linee essenziali. In particolare, il controverso problema della definizione del requisito del “controllo analogo” sembra decisamente avviato a rapida soluzione. In questa complessa opera di “strutturazione ermeneutica” un ruolo centrale ha certamente assunto anche il recente parere dell’Adunanza della VI Sezione del Consiglio di Stato, brevemente commentato con l’odierno lavoro.

La lucida e coerente analisi compiuta dai magistrati di Palazzo Spada avente ad oggetto essenzialmente la legittimità dell’affidamento diretto del servizio a beneficio di moduli societari misti, si apprezza sotto diversi aspetti. In primo luogo, vengono finalmente fissate in modo chiaro e netto le condizioni in presenza delle quali è possibile procedere ad un affidamento diretto dei servizi pubblici locali in favore di società miste. A differenza di quanto finora predicato dai giudici comunitari, il Consiglio di Stato ha ritenuto che la legittimità dell’affidamento diretto del servizio dipenda essenzialmente dalla previa selezione del partner privato mediante procedura di evidenza pubblica. L’inevitabile corollario che ne discende è che il privato selezionato non dovrà atteggiarsi a mero “socio finanziatore” ma, nell’ottica di un miglioramento del servizio in termini di efficacia ed efficienza, dovrà assumere le vesti di “socio industriale”. In sostanza, il privato deve essere selezionato in ragione delle proprie capacità tecnico – gestionali, uniche condizioni che lo rendono idoneo a svolgere le prestazioni strumentali alla realizzazione dell’oggetto sociale. Infine, i giudici comunitari, allo scopo di non determinare il consolidarsi all’interno del settore frequentato dall’affidataria di una posizione dominante in capo al partner privato selezionato, hanno precisato che il bando di gara deve contenere l’espressa previsione della durata dell’affidamento diretto.

La II Sezione, dunque, fissando le regole nell’osservanza delle quali è possibile procedere all’affidamento diretto di un servizio pubblico locale ha, in un sol colpo, riabilitato la scelta delle PA in favore del modulo societario misto e, nello stesso tempo, “assolto” il legislatore nazionale dalle accuse mosse dal CGA della Sicilia che ha disapplicato l’art. 113, comma 5, lett.b) del T.u.e.l., per violazione dei principi codificati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza Stadt Halle).

Ciononostante, proprio questo ultimo snodo argomentativo del parere non convince fino in fondo. Infatti, se è vero che l’interesse privato risponde a logiche di mercato che mal si conciliano con l’interesse pubblico di cui è portatore l’amministrazione affidante, non si comprende come la selezione di un partner privato, da affiancare a quello pubblico, possa costituire elemento sufficiente a sviare l’istintiva e naturale tendenza di un imprenditore a servire interessi eminentemente economici, dimenticando, per così dire, quelli più strettamente pubblici. Sotto altro profilo, è certamente condivisibile la preoccupazione espressa dal Consiglio di Stato il quale ha rinvenuto nella duplicazione della gara prospettata dal CGA, con la sentenza n. 589, del 27 ottobre 2006, il rischio di affidamenti pilotati a beneficio del modulo societario del quale l’ente detiene parte del capitale sociale.

Sarebbe stato, allora, più ragionevole se il CGA avesse ipotizzato – nell’ottica di una più penetrante tutela dei principi di libera concorrenza e di parità di trattamento - la doppia gara, a condizione, però, che la commissione preposta alla valutazione delle offerte, presentate ai fini dell’aggiudicazione del servizio, non fosse composta da personale amministrativo - burocratico appartenente all’ente affidante.

In questo modo, sarebbero stati osservati i principi posti dalla sentenza Stadt Halle dell’11 gennaio 2005 e, nello stesso tempo, si sarebbe evitata la disapplicazione dell’art. 113, comma 5, lett. b) del T.u.e.l., per presunta violazione del portato comunitario. In conclusione, nonostante qualche inevitabile perplessità, legata, soprattutto, alla consapevolezza che la disciplina degli affidamenti in house - così come quella delle società miste – costituisce una sorta di perenne “work in progress”, il parere espresso dalla Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato, lo scorso 3 aprile 2007, rappresenta, al momento, la mappa più precisa per potersi orientare nella intricata selva delle pronunce nazionali e comunitarie che si sono succedute negli ultimi anni, talvolta anche in maniera palesemente caotica e contraddittoria.   


 

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(*) Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical e partner in New York dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates.

[1] Infatti, l’Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato, al punto 8.2.3. dei considerata in diritto, ha affermato che “(…) Appare, infatti, illogico ammettere, in alternativa all’affidamento del 100% del servizio all’esterno, la (sola) rinuncia totale al mercato con la società pubblica in house e non consentire, invece – in settori specifici, individuati dalla legge considerando la peculiarità di una data materia e quindi l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire il servizio interamente alla “parte pubblica” – un'apertura parziale a più flessibili “forme di collaborazione” pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente ma in quella di socio e – soprattutto – sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che sole possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello ad un affidamento all’esterno (sia pure per certi aspetti peculiare) e non come un affidamento in house (…)”.

[2] In quella occasione il giudice comunitario affermò che “(…) qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente (…)”.

[3] Il supremo consesso di giustizia amministrativa, con decisione della V Sezione n. 5072 del 30 agosto 2006, ha stabilito che   “(…) la partecipazione, anche minoritaria, di un ‘impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi. In altri termini, solo il possesso dell’intero capitale da parte della mano pubblica, consente di ravvisare un assetto idoneo all’esercizio del controllo analogo, tale da consentire l’affidamento diretto del servizio senza gara (…)”.

[4] Sull’argomento si rimanda a G.Guzzo: Consiglio di Stato e giurisprudenza comunitaria: prove tecniche di intesa in tema di “controllo analogo”.;  in www.lexitalia.it, n. 5/2007. I giudici siciliani, con una sentenza molto coraggiosa e garantista dell’osservanza dei principi comunitari, hanno affermato l’indispensabilità della doppia gara vale a dire sia di quella finalizzata alla selezione del partner privati che di quella relativa all’affidamento diretto del servizio, sancendone la differenza ontologica.

[5] Secondo la Sezione, l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale ad una società mista è possibile qualora il modulo societario in parola si atteggi “( a modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con la gara, al socio operativo della società (…) che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o a fasi di esso (…) ”.

[6] In particolare, la Adunanza della II Sezione del Consiglio di Stato, ha ritenuto che “(…) grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata sentenza C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti (…)”.

[7] Sul tema G. Guzzo: Società miste: assemblea di Strasburgo e legislazione nazionale; in www.lexitalia.it, n. 3/2007; 

[8] Sull’argomento cfr. G. Guzzo: Consiglio di Stato e giurisprudenza comunitaria:prove tecniche d’intesa in tema di controllo analogo; in www.lexitalia.it; n. 5/2007.

[9] In particolare, il Consiglio di Stato ha ricordato che, al fine di accertare la presenza del requisito del “controllo analogo”, “(…) giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

- il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

- l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero

[10] Cfr. G. Guzzo: Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale; in www.lexitalia.it; n. 7-8/2006;

[11] In particolare, i giudici di Palazzo Spada hanno affermato che ai fini della sussistenza del “controllo analogo” occorre che l’ente pubblico possieda “(…)   maggiori strumenti di controllo da ( omissis) rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

- il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale (…)”;

[12] Più nel dettaglio, i giudici napoletani hanno ritenuto che la vocazione commerciale dell’affidataria può “(…) rinvenirsi nell'avvenuto ampliamento dell'oggetto sociale; nell'apertura obbligatoria della società ad altri capitali, nell'espansione territoriale dell'attività della società a tutto il territorio nazionale e all'estero (…)”.


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