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Articoli e note

n. 7-8/2006 - © copyright

GERARDO GUZZO*  

Affidamenti in house: controllo analogo,
extraterritorialità e lesione di interessi legittimi

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SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. La sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440 del 13 luglio 2006; 3. La sentenza del T.A.R. Puglia – Lecce n. 3533 del 23 giugno 2006; 4. La sentenza del T.A.R. Campania – Salerno n. 892 del 29 giugno 2006; 5. Il d.l. n. 223 del 4 luglio 2006 e il d.d.l. di delega del 30 giugno 2006; 6. Considerazioni finali.

1. Introduzione.

L’odierno lavoro affronta l’analisi di alcuni recentissimi interventi dei Giudici nazionali in tema di in house providing che hanno riguardato tematiche particolarmente dibattute all’interno della comunità scientifica. Esse possono individuarsi: a) nella definizione del concetto di “controllo analogo”; b) nella individuazione delle condizioni richieste perché le società miste affidatarie della gestione di servizi pubblici locali possano operare in ambiti extraterritoriali; c) il momento in cui si consuma la lesione degli interessi legittimi dei soggetti economici interessati alla gestione di servizi pubblici locali. 

Si tratta di aspetti vivacemente dibattuti nell’ottica della più generale trattazione dell’affidamento dei servizi pubblici locali, soprattutto alla luce dei frequenti interventi “additivi” della Corte di Giustizia del Lussemburgo che, negli ultimi diciotto mesi, hanno condizionato, in modo quasi frenetico, la più attuale giurisprudenza interna.

La prima sentenza in commento è quella del Consiglio di Stato, V Sezione, rubricata n. 4440 depositata lo scorso 13 luglio 2006. In quella occasione i magistrati di Palazzo Spada, riformando la sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa per il Trentino Alto - Adige, Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n. 211 del 20 maggio 2003, hanno fornito una interpretazione particolarmente restrittiva del concetto di “controllo analogo”, recependo dogmaticamente quanto affermato, in particolare, nella sentenza “Parking Brixen” del 13 ottobre 2005.

 Di seguito ci si occuperà della sentenza del T.a.r. – Lecce, n. 3533, del 23 giugno 2006. Essa assume grande rilievo proprio perché, al pari della decisione del Consiglio di Stato in commento, dalla quale, tuttavia, si discosta nettamente, segue da vicino, l’ultima sortita dei giudici comunitari in  materia di in house providing, risalente alla decisione dell’11 maggio 2006, C-340/04. I giudici salentini, con l’arresto in parola, hanno sviluppato funditus un aspetto trattato dai magistrati lussemburghesi mediante un semplice obiter dictum: la possibilità per le società considerate in house providers di garantire, extra moenia, il servizio di cui risultano affidatarie.

Infine, a chiusura dell’esame delle più attuale giurisprudenza amministrativa formatasi in materia di affidamenti in house, si intende approfondire il percorso logico argomentativo seguito di giudici campani del T.a.r. - Salerno i quali hanno individuato il momento della lesione effettiva degli interessi delle imprese che aspirano alla gestione del servizio, da affidarsi ad una società mista, nelle delibere di costituzione del modulo societario e di successiva selezione del partner privato, riconoscendo all’affidamento diretto del servizio la natura di atto meramente consequenziale.

A chiusura del presente contributo verranno succintamente esaminate le disposizioni contenute negli artt. 13 e 15 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, in aggiunta alle norme contenute nel d.d.l. di delega licenziato dal Governo lo scorso 30 giugno 2006, destinato a disciplinare l’intera materia degli affidamenti dei servizi pubblici locali.  Si tratta di un ventaglio di norme che, a quanto è dato sapere, sono destinate ad introdurre significativi elementi di novità, in qualche modo, configgenti proprio con quanto disposto nell’art. 13 del citato d.l. n. 223/06, come meglio si spiegherà in seguito.     

In conclusione, si ritiene che le tre sentenze in commento, in uno agli interventi normativi evidenziati, dimostrino l’attuale difficoltà della legislazione italiana e della giurisprudenza interna a recepire in chiave più liberista le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria in materia di affidamenti in house, finendo per creare un clima di sostanziale incertezza del diritto e di scetticismo in tutti quegli operatori privati interessati a creare sinergie con i soggetti pubblici.   

2. La sentenza del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440 del 13 luglio 2006.

La decisione del massimo Organo di giustizia amministrativa in commento costituisce il primo importante precedente giurisprudenziale del Consiglio di Stato dopo la rivoluzionaria stagione “additiva” della Corte di Giustizia in tema di in house providing. I giudici di Palazzo Spada, con l’arresto in parola, sono stati chiamati a valutare la legittimità dell’affidamento del servizio di gestione di alcuni parcheggi a pagamento disposto dal Comune di Bolzano a favore della SEAB S.p.a., società a capitale interamente pubblico. In particolare, l’appellante deduceva che l’affidamento diretto del servizio, non preceduto da alcuna procedura di evidenza pubblica, si poneva in contrasto con gli articoli 12, 45, 46, 49 e 86 del trattato dell’Ue, in quanto costituiva violazione dei principi di non discriminazione, di libera prestazione dei servizi pubblici e di libera concorrenza.

La Sezione autonoma del Tribunale amministrativo di Bolzano, in primo grado, con la sentenza del 20 maggio 2003, n. 211, aveva rigettato il ricorso facendo propri i principi codificati dalla Corte di Giustizia del Lussemburgo a partire dalla nota sentenza “Teckal” del 18 novembre 1999, in quanto il possesso della totalità del capitale sociale da parte dell’amministrazione aggiudicatrice sarebbe stata condizione sufficiente a consentire a quest’ultima di esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi.

Il Consiglio di Stato, invece, accogliendo l’appello, ha riformato la decisione del Tribunale amministrativo della Provincia autonoma di Bolzano, dopo aver posto alla Corte di Giustizia dell’Ue un quesito pregiudiziale in ordine alla compatibilità dell’art. 44 della legge della Regione Trentino Alto -Adige n. 1, del 4 gennaio 1993 - nel testo sostituito dall’art. 10, comma 1, della legge regionale n. 10 del 23 ottobre 1998 – con i principi fissati dal Trattato dell’Unione europea di divieto di discriminazione, di libera prestazione dei servizi pubblici locali e di libera concorrenza. Nello specifico, la Corte di Giustizia, lasciando intendere che la questione sottoposta al Suo esame era già stata risolta mediante la famosa sentenza del 13 ottobre 2005, cosiddetta “Parking Brixen”,  ha finito quasi per rimproverare l’Organo a quo, evidenziando l’inutilità di una propria pronuncia. I magistrati di Palazzo Spada, dopo aver ripercorso l’asimmetrico viatico giurisprudenziale seguito dai giudici lussemburghesi, a cominciare dalla sentenza dell’11 gennaio 2005, meglio conosciuta come “Stadt Halle” - a tenore della quale la presenza di capitale privato in un modulo societario misto, anche se minoritaria, sarebbe stata in grado di sviare l’agere dell’affidataria dai tradizionali fini pubblicistici - hanno concluso che anche un soggetto economico a capitale interamente pubblico, resosi direttamente affidatario di un servizio pubblico locale, potrebbe dare corpo ad un assetto societario non idoneo a garantire all’amministrazione aggiudicatrice la possibilità di esercitare un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, secondo quanto ritenuto dai giudici della Corte di Giustizia con l’arresto del 13 ottobre 2005 (caso “Parking Brixen”).

Nel dettaglio, il Consiglio di Stato ha rinvenuto i germi della contaminazione della libera concorrenza nella circostanza che lo statuto della SEAB S.p.a. prevedeva la possibilità che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, potesse essere ceduta a terzi (soggetti pubblici o privati). A questo si aggiunga che, sempre secondo i giudici del supremo Consesso amministrativo, i poteri attribuiti dal diritto societario alla maggioranza dei soci non sarebbero stati sufficienti a garantire all’ente un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, con la conseguenza che, ricorrendo entrambe le condizioni descritte nel caso esaminato, occorreva che l’affidamento della gestione del servizio fosse stata preceduta dallo svolgimento di una procedura di evidenza pubblica [1].

Se la trama argomentativa sviluppata può considerarsi in linea con quanto affermato in sede di elaborazione giurisprudenziale comunitaria, tuttavia, non convince il successivo snodo logico giuridico seguito dai supremi giudici amministrativi. Infatti, i magistrati di seconde cure, richiamando le sentenze della Corte Costituzionale n. 113 del 1985 e n. 389 del 1989, a tenore delle quali le pronunce della Corte di Giustizia “hanno efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della Commissione”, hanno ipotizzato la disapplicazione delle norme interne con esse confliggenti.

L’assunto, seppur condivisibile in linea di principio, è stato, in realtà, disatteso proprio dagli stessi magistrati amministrativi i quali si sono limitati a riformare la sentenza gravata e, per l’effetto, ad annullare il deliberato comunale di affidamento diretto del servizio di gestione del parcheggio senza con questo disporre alcuna disappicazione della norma incriminata (art. 44 comma 6, lett. b) della legge della Regione Trentino Alto – Adige, n. 1 del 4 gennaio 1993, come modificato dall’art. 10, comma 1, della l.r. n. 10 del 23 ottobre 1999). Forse del tutto inconsciamente i supremi giudici hanno inteso conformarsi a quanto hanno avuto modo Essi stessi di chiarire in sede di stesura della sentenza, dal momento che ai medesimi non è sfuggito affatto che all’epoca della deliberazione, oggetto di gravame in primo grado, trovavano ancora applicazione i principi codificati dalla nota sentenza “Teckal”. In sostanza, in quella occasione la Corte di Giustizia del Lussemburgo escluse la necessità di una procedura di evidenza pubblica nell’ipotesi in cui la società affidataria fosse costituita con capitale interamente pubblico, ritenendosi tale circostanza elemento sufficiente a consentire all’amministrazione aggiudicatrice l’esercizio di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Proprio tale elemento consente di affermare, oggi, che il ragionamento svolto dai giudici amministrativi appare decisamente fuorviante e contraddittorio, giacché la legittimità del deliberato comunale, annullato con la decisione in commento, troverebbe il suo riconoscimento proprio nella giurisprudenza operante al momento dell’affidamento che, come ha riconosciuto lo stesso Consiglio di Stato, all’epoca poteva avvenire direttamente.

Diversamente opinando, infatti, si assisterebbe alla violazione del generale principio del tempus regit actum che tollera, quale unica eccezione, l’ipotesi in cui la norma che detta criteri determinativi della giurisdizione venga successivamente dichiarata illegittima [2], ovvero, venga disapplicata. In sostanza, il principio “sinistro” stabilito dal Consiglio di Stato sembra deludere e eludere apertamente l’avvertita esigenza di certezza del diritto e la stessa effettività della tutela da riconoscere sempre e comunque a tutti i soggetti incisi (pubblici o privati che siano). Si tratta di garanzie, poi, particolarmente sentite in un settore estremamente “turbolento” quale quello degli affidamenti in house, soprattutto alla luce delle recenti sortite dei giudici europei che sembrano, paradossalmente, disconoscere proprio quelle fondamentali guarentigie, scolpite tre le pieghe dello stesso diritto comunitario, di cui si sono fatti paladini.   

3. La sentenza del T.A.R. Puglia – Lecce, n. 3533 del 23 giugno 2006.

L’arresto in commento colpisce in quanto sembra prendere le distanze da certa recente giurisprudenza della Corte di Giustizia e, a posteriori, del Consiglio di Stato.

In particolare, i giudici pugliesi, pur riconoscendo l’astratta possibilità per una società mista pubblico – privata “ (…) di utilizzare la sua capacità imprenditoriale svolgendo la propria attività in ambito extraterritoriale (anche partecipando a gare pubbliche extra – moenia)”, finiscono per vincolare tale opzione “ (…) al migliore perseguimento dell’interesse della collettività locale di riferimento”, senza che ciò costituisca un “(…) ingiustificato aumento dei costi per la comunità stessa”.

Il principio scolpito dalla sezione si discosta da quanto affermato dai giudici europei non solo nella sentenza dell’11 maggio 2006, C-340/04, ma anche da quanto i medesimi magistrati comunitari hanno avuto modo di precisare nelle note sentenze “Stadt Halle”, dell’11 gennaio 2005, “Modling”, del 10 novembre 2005 e, nell’ultima dell’11 maggio 2006, meglio conosciuta come “Agesp” [3].

Infatti, proprio con il decisum dello scorso maggio, la Corte chiarì che il vincolo funzionale che lega l’affidataria alla p.a. aggiudicatrice, in qualche modo, obbliga la prima a svolgere la propria attività essenzialmente all’interno del territorio della seconda, pur non considerando l’extraterritorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del requisito del “controllo analogo” [4].

Il T.a.r. Lecce, invece, sembra ancorare la possibilità di svolgere l’attività d’impresa al di fuori dei confini territoriali dell’amministrazione aggiudicatrice non alla puntuale e concreta verifica che quest’ultima non si sia privata della chance di esercitare un controllo analogo a quello svolto sui propri servizi, ma all’inalterata capacità di perseguire “l’interesse della collettività locale di riferimento”; il che non necessariamente significa che l’amministrazione aggiudicatrice debba esercitare sull’affidataria un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi come richiesto dalla sentenza dell’11 maggio 2006 e, prima ancora, dalla storica sentenza “Teckal” del 1998.

Ma vi è di più. I giudici leccesi assumono decisamente una posizione più tollerante rispetto ai loro colleghi lussemburghesi anche in ordine ad un altro aspetto: l’affidamento in house a moduli societari misti.

Com’è  noto, la Corte di Giustizia con la richiamata sentenza n. 2603/05 dell’11 gennaio 2005, meglio conosciuta come “Stadt Halle”, così come con la successiva decisione del 10 novembre 2005, cosiddetta “Modling”, aveva escluso categoricamente la possibilità di procedere a degli affidamenti diretti di servizi pubblici locali a rilevanza economica a beneficio di società miste a capitale pubblico – privato.

In entrambe le occasioni i giudici ritennero che la presenza di un apporto partecipativo privato inevitabilmente avrebbe introdotto all’interno del modulo societario dinamiche eminentemente imprenditoriali, poco compatibili con le finalità tipiche della pubblica amministrazione.

Pertanto, l’amministrazione aggiudicatrice non sarebbe stata in grado  di esercitare alcun controllo assimilabile a quello esercitato sui propri servizi nei confronti di un soggetto in parte costituito con capitale privato.

Il concetto è stato portato alle estreme conseguenza dalla stessa Corte, proprio con la sentenza dell’11 maggio 2006, più volte richiamata, dal momento che con l’arresto in questione i giudici europei hanno escluso l’esercizio del controllo analogo da parte dell’ente affidante nei confronti della società affidataria (la Agesp S.p.a.), a capitale detenuto nella misura del 99,98 % dalla Agesp holding S.p.a. - a sua volta costituita con capitale integralmente di proprietà dell’amministrazione aggiudicatrice - mentre il rimanente 0,02% era posseduto da altre pubbliche amministrazioni.

All’epoca, i giudici comunitari ritennero che, nonostante la totale composizione del capitale sociale fosse riconducibile a soggetti pubblici, l’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione dell’affidataria escludeva la possibilità per l’affidante di esercitare un controllo analogo sovrapponibile a quello esercitato sui propri servizi; di qui la necessità dell’espletamento di una procedura di evidenza pubblica per la scelta del gestore del servizio [5].           

Risulta di meridiana evidenza, dunque, come la sentenza del T.a.r. Lecce in parola prenda le distanze dalla più recente giurisprudenza comunitaria giacché non considera, aprioristicamente, l’apporto partecipativo privato come asservito a logiche che sviano dalle tradizionali finalità pubblicistiche ma, addirittura, riconosce la possibilità che il modulo societario misto, affidatario in house di un servizio pubblico locale, possa svolgere la propria attività anche extra – moenia, purché  non venga compromesso l’ottimale perseguimento dell’interesse della collettività e l’affidamento non si traduca in un ingiustificato costo a carico della comunità locale.

Questa ricostruzione lasciando sullo sfondo il parametro del “controllo analogo”, che appare assorbito e superato da quello più sostanziale del pieno soddisfacimento dell’interesse della collettività appartenente all’ente affidante, si distacca anche dalla recente posizione assunta dal Consiglio di Stato commentata nell’odierno lavoro.

4. La sentenza del T.A.R. Campania – Salerno n. 892 del 29 giugno 2006.

La decisione in commento si apprezza per la ricchezza delle argomentazioni e la puntualità dei riferimenti legislativi e giurisprudenziali che hanno inciso profondamente, negli ultimi quindici anni, nella regolamentazione della materia degli affidamenti in house. Si tratta di una sentenza che, partendo dall’affrontare il problema della individuazione dell’atto lesivo degli interessi degli operatori economici che aspirano alla gestione del servizio - nello specifico trattavasi di una società mista individuata ex art. 113, comma 5, lett. b) del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i. – giunge a qualificare l’affidamento ad un modulo societario misto come gestione diretta del servizio da parte dell’ente locale, coerentemente con quanto a suo tempo stabilito dalla V Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3864 del 30 giugno 2003 [6].

Lo specifico aspetto della vulnerazione di differenziate posizioni giuridiche, facenti capo a quei soggetti economici in qualche modo interessati all’affidamento del servizio, viene risolto dai giudici salernitani richiamando quanto già chiarito dallo stesso Consiglio di Stato con la sentenza n. 1543/04 [7], puntualmente riportata nella parte motivazionale del decisum in parola.

Secondo i giudici amministrativi, infatti, la lesione degli interessi delle imprese che ambiscono all’assegnazione della gestione del servizio risale al momento dell’adozione delle delibere di costituzione della società mista e di selezione del partner privato, in quanto, è in quella sede che l’ente pubblico cristallizza la scelta del modulo gestorio, mentre il successivo atto di affidamento assume una natura meramente conseguenziale [8], perché teso a dare esecuzione alla opzione organizzativa già compiuta a monte. Interessante è anche il successivo snodo argomentativo sviluppato dal tribunale salernitano, il quale, ripercorrendo, analiticamente, tutte le tappe legislative e giurisprudenziali che hanno interessato il tema degli affidamenti in house, conclude che il mero possesso dell’intero capitale sociale dell’affidataria da parte dell’ente pubblico non costituisce affatto condizione sufficiente a garantire un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, occorrendo, invece, la ricorrenza di ulteriori indici rivelatori.

In particolare, i giudici amministrativi, coerentemente con quanto già affermato dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza del 13 ottobre 2005 (C-458/03) [9], meglio conosciuta come “Parking Brixen”, hanno ritenuto che la natura pubblica dell’intero capitale della società affidataria della gestione del servizio non bastasse a garantire all’amministrazione aggiudicatrice un “controllo analogo” nei termini fissati dalla famosa sentenza “Teckal” del 1998, ma che occorresse un ulteriore elemento: che ente affidante esercitasse un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti assunte dal gestore. In questo modo, il tribunale amministrativo ha mostrato di condividere la tesi del controllo cosiddetto di sostanza, finalizzato a verificare in concreto che moduli societari così strutturati non introducano nel mercato dinamiche distorsive, in grado, cioè, di violare i principi comunitari della parità di trattamento, della non discriminazione e della libera concorrenza.            

5. Il d.l. n. 223 del 4 luglio 2006 e il d.d.l. di delega del 30 giugno 2006.

I principi fissati dal legislatore con i commi 15 –bis e ter dell’art. 113 del d.lgs. n. 267/00 e s.m e i., in tema di regime transitorio applicato ai soggetti affidatari di servizi pubblici locali, sono stati, recentemente, oggetto di “rivisitazione” da parte del Governo attraverso due controversi provvedimenti legislativi.

Infatti, con il d.l. del 4 luglio scorso, n. 223/06, l’Esecutivo ha avuto modo di stabilire, con una norma piuttosto contraddittoria, rubricata “Disposizione sulla gestione del servizio idrico integrato”, che i termini di cui all’art. 113, commi 15 – bis e ter - relativi a società affidatarie di servizi pubblici locali a rilevanza economica, selezionate mediante concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica [10] - sono prorogati di un anno, cioè, al 31 dicembre 2007.

Questo significa che il termine del 31 dicembre 2007 potrà essere ulteriormente differito ove verrà raggiunto un accordo con la Commissione europea, secondo quanto previsto proprio dall’art. 113, comma 15 – ter [11] del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i.. Ma vi è di più. Lo stesso d.l., all’art. 13 [12], rubricato “Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza”, ha disposto l’assoluto divieto per le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite da amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi nell’interesse degli enti che vi hanno dato vita, di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati. Si tratta di un divieto che ha una portata generale, dal momento che trova applicazione anche nei confronti di quei soggetti economici selezionati mediante l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica.

Tale norma, pertanto, appare fortemente restrittiva della libertà di iniziativa economica privata, soprattutto perché essa viene a incidere su una ipotesi di apporto partecipativo teleologicamente indirizzato al soddisfacimento dell’utilità sociale, in linea con quanto dettato dall’art. 41 della Costituzione, che fissa i limiti dei controlli da esercitarsi sull’iniziativa economica pubblica e privata.

Non convince, pertanto, la previsione contenuta nel comma 4 del citato art. 13 che prevede la nullità dei contratti conclusi in violazione dei commi 1 e 2.

Ancora. Il precetto in esame risulta in stridente contrasto anche con la giurisprudenza più restrittiva della Corte di Giustizia. Infatti, i giudici europei, proprio con l’ultima sentenza dell’11 maggio 2006, meglio conosciuta come “Agesp” [13], non avevano negato affatto la possibilità che le società affidatarie in house potessero esercitare la propria attività al di fuori del relativo ambito territoriale di riferimento, purché ciò non costituisse alterazione del libero gioco della concorrenza e, dunque, violazione dell’art. 86 del Trattato. Tesi, questa, sostenuta, recentemente anche dal T.a.r. Lecce, con la decisione commentata nell’odierno lavoro.

Ad ogni modo, il legislatore, preoccupato degli effetti devastanti che potrebbero derivare dalla presenza nel mercato di una compagine societaria strutturata con capitale interamente o parzialmente pubblico, al comma 3 dell’art. 13 del d.l. in parola, ha stabilito che entro un anno dalla entrata in vigore del provvedimento legislativo, dunque, il 3 luglio 2007, “(…) le società di cui al comma 1 cessano (…) le attività non consentite”. Il  modo suggerito è quello della cessione delle attività a terzi, si suppone con relativo avviamento da corrispondersi al cedente, oppure lo scorporo dell’attività stessa mediante la costituzione “(…) di una separata società da collocare sul mercato (…)”. La soluzione anche in questo caso non convince. Non si comprende, infatti, come il cessionario possa differenziarsi, almeno nel breve periodo, dal cedente e non rappresentare anch’esso un elemento destabilizzante l’ordinario assetto mercantile.

Quanto al d.d.l. di delega approvato dal Governo lo scorso 30 giugno 2006 [14], coerentemente con la scelta di operare un serrato controllo sull’affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica, esso prevede che la gestione di questi ultimi avvenga mediante lo svolgimento di una procedura selettiva e, soltanto eccezionalmente, o attraverso l’impiego di un modulo societario misto, con il partner privato scelto all’esito di una regolare gara improntata all’evidenza pubblica, oppure mediante affidamento in house.

In sostanza, mentre, da un lato, il legislatore con l’art. 13 del d.l. n. 223/06 mostra di temere che i moduli societari a capitale interamente pubblico o misto - pubblico privato - possano destabilizzare il normale andamento del mercato, con buona pace della libera concorrenza, con il d.d.l. di delega, licenziato dallo stesso Esecutivo il 30 giugno scorso, al contrario, sembra riconoscerne la legittimità a condizione, però, che tali soggetti economici siano individuati mediante o una procedura concorsuale, se moduli societari a capitale interamente pubblico, oppure mediante l’espletamento di una vera e propria gara, tesa a selezionare il partner privato, se trattasi di compagini societarie costituite anche con apporto partecipativo privato. La contraddizione che si annida nei due provvedimenti governativi è evidente e svilisce la lodevole previsione di una carta dei servizi a tutela dei cittadini che il gestore è tenuto ad osservare, pena la perdita della titolarità del servizio, oltre che lo stesso obbligo stringente di motivazione a carico della p.a. nell’ipotesi in cui questa decida di affidare il servizio pubblico a rilevanza economica  mediante l’impiego di una società mista o attraverso un vero e proprio affidamento in house.     

6. Considerazioni finali.

Le sentenze in commento rientrano, sotto diverso profilo, nell’affannoso tentativo operato dalla giurisprudenza nazionale di adattarsi alla frenetica codificazione comunitaria in tema di in house providing.

Come si è già avuto modo di segnalare in altra occasione [15], il compito è tutt’altro che agevole attesa la discontinua linearità che accompagna l’esegesi dei giudici comunitari.

Tuttavia, le decisioni in parola si apprezzano per equilibrio e puntualità di argomentazioni prendendo le distanze, in particolare quella del T.a.r. Lecce, anche a causa del profilo scrutinato, dalla più restrittiva giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di public utilities [16].

Infatti, i magistrati pugliesi, nell’affrontare il tema della extraterritorialità dell’azione di una società affidataria della titolarità di un servizio pubblico locale, non negano affatto tale possibilità ma si limitano ad ancorarla alla condizione che l’interesse della collettività di riferimento della p.a. affidante non sia in qualche modo pregiudicato.

Nel ragionamento svolto dai giudici non compare alcun riferimento al concetto di “controllo analogo”, ritenuto determinante dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e da qualche altro T.a.r. nazionale [17].  

In sostanza, proprio la circostanza che per i giudici pugliesi rilevi esclusivamente l’effettività dell’interesse pubblico perseguito, ai fini di un legittimo affidamento dei servizi in house, significa ridimensionare l’impatto ed il ruolo di un concetto piuttosto astratto quale quello del “controllo analogo” che resta, irrimediabilmente, sullo sfondo.

Sembra, infatti, che i magistrati del T.a.r. Puglia vogliano dire che il soddisfacimento dei bisogni della collettività dell’amministrazione aggiudicatrice possa avvenire anche attraverso l’affidamento diretto del servizio a un modulo societario misto non soggetto ad alcun “controllo analogo” da parte dell’ente pubblico affidante, assimilabile a quello esercitato sui propri servizi, e che la presenza di capitale privato nel soggetto economico affidatario non necessariamente obbedisca a logiche imprenditoriali che sviano dai tradizionali fini pubblici.

Se cogliamo nel segno, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio rifiuto di quanto codificato dalla giurisprudenza comunitaria e accettato, forse un po’ troppo passivamente, da alcuni giudici nazionali, con in testa il Consiglio di Stato, e dallo stesso legislatore, come dimostrato dalle ultimissime sortite sopra commentate.

Del resto, come ha già avuto modo di sottolineare autorevole Dottrina [18], se si priva la società pubblica della possibilità di produrre per il mercato, vincolando la propria attività in modo esclusivo al soddisfacimento dell’interesse del partner pubblico, viene naturale chiedersi come il concetto di società commerciale possa continuare ad essere simmetrico a quello di impresa (vd. art. 2247 c.c.). Sarebbe opportuno, allora, che il legislatore intervenisse funditus, approntando una specifica disciplina che, in qualche modo, fissi le caratteristiche strutturali e funzionali delle atipiche società affidatarie dei pubblici servizi locali, ancora oggi così differenti, per causa contrattuale, da quelle disciplinate dal codice civile.

Di questo non sembra averne tenuto conto il Consiglio di Stato il quale, appiattitosi sulla più recente giurisprudenza comunitaria, ha ritenuto, con assoluta certezza, che anche la natura pubblica dell’intero capitale sociale dell’affidataria di un servizio pubblico locale potesse essere foriera di effetti destabilizzanti il libero gioco della concorrenza, evitando di differire il proprio giudizio negativo alle ineludibili di verifiche sul campo, secondo quanto, peraltro, già affermato proprio dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 10 novembre 2005 (caso “Modling") [19].

In sostanza, a parere dei giudici comunitari, la violazione delle norme del Trattato dell’Ue dettate in tema di concorrenza può discendere soltanto dal modo in cui concretamente l’impresa affidataria del servizio pubblico locale si pone all’interno del mercato di riferimento e dal reale assetto societario che la caratterizza, e non certamente dalla dalla particolare configurazione dello statuto.

 Il clima di sostanziale incertezza giurisprudenziale sembra aver contagiato la stessa produzione legislativa, a giudicare dalla palpabile contraddittorietà esistente tra le norme contenute nell’art. 13 del d.l. n. 223/06 e quanto previsto dal d.d.l. di delega del 30 giugno 2006, soprattutto in tema di effetti distorsivi prodotti sul mercato dalle società a capitale interamente pubblico. Infatti, mentre il d.d.l. in parola ne ammette sul piano strettamente concettuale la costituzione, unitamente ai moduli societari misti, configurandoli alla stregua di utili strumenti deputati alla gestione dei servizi pubblici locali, seppur limitandone l’impiego alla ricorrenza di determinate condizioni, l’art. 13 del d.l. n. 223/06, dal canto suo, sembra, invece, considerarle estremamente pericolose. La sensazione che si ricava dall’analisi dei due interventi legislativi scrutinati è di un sostanziale disorientamento del legislatore nazionale, evidentemente combattuto tra il desiderio di evitare effetti degenerativi sul piano della stretta concorrenzialità e l’ineludibile bisogno di avvalersi sempre più di risorse private, attesa la cronica difficoltà della p.a. di reperire risorse finanziarie.  

Sarebbe opportuno, allora, cercare di individuare un punto di stabile equilibrio tra queste due esigenze contrapposte, magari facendo tesoro di quanto chiarito recentemente dal T.a.r. Piemonte - Torino con la sentenza n. 2304 del 12 giugno 2006.

Infatti, in quella occasione, il giudici piemontesi, con un inciso molto stringente, hanno evidenziato come neanche il prevalente interesse pubblico ad un vantaggio economico derivante dal diniego della proroga costituisca per la p.a. elemento decisivo per determinarsi in senso negativo nei confronti del privato, dovendosi attribuire, al contrario, pari dignità alla tutelata aspettativa dell’affidatario a vedersi prorogato l’affidamento [20].

E’ facile gioco cogliere quanta differenza vi sia rispetto alle sentenze della Corte di Giustizia “Stadt Halle”, “Modling” e “Agesp”, dove il semplice apporto partecipativo del privato veniva considerato “scientificamente” portatore di interessi differenti da quelli tutelati dalla pubblica amministrazione, e quanta differenza possa scorgersi da quanto, forse ancora più restrittivamente, hanno mostrato di voler ritenere il Consiglio di Stato e il legislatore nazionale il quale, in tempi di diffusa privatizzazione, ha inteso sottrarre la p.a. alla sfida lanciata dal mercato facendola ritirare sull’Aventino.        


 

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* Avvocato e Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical.

[1] Il Consiglio di Stato, con la decisione in commento, preso atto della ricorrenza di entrambe le condizioni segnalate, ha riconosciuto “(…) l’impossibilità di derogare alla regola dello svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del soggetto concessionario o affidatario dell’appalto del servizio pubblico in ossequio ai principi di diritto comunitario invocati dall’appellante” 

[2] Lo stesso Consiglio di Stato risolvendo la questione relativa all’atto di recesso del comune di Bolzano dalla precedente convenzione con l’originaria affidataria del servizio, nel denegare la propria giurisdizione a beneficio di quella del giudice ordinario a seguito della sostanziale riscrittura degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34 del d.lgs. n. 80/98, come sostituiti dall’art. 7 lettere a) e b) della legge n. 205 del 21 luglio 2000, ha chiarito che “(…) Il principio enunciato dall’art. 5 Cod. proc. civ., infatti, a norma del quale la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, non opera quando la norma che detta i criteri determinativi della giurisdizione è successivamente dichiarata illegittima, in quanto l’efficacia retroattiva che assiste tale tipo di pronunce della Corte Costituzionale preclude che la norma dichiarata illegittima possa essere assunta a canone di valutazione di situazioni o di rapporti anteriori alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità, ma non ancora esauriti al momento della pubblicazione della sentenza”. E’ del tutto evidente che il caso esaminato dal Consiglio di Stato non involgesse una questione di giurisdizione ma una semplice norma di diritto sostanziale ritenuta in contratsto con la più recente elaborazione giurisprudenziale comunitaria.

[3] Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house”; in Appalti&Contratti; Luglio 2006;

[4] Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale”; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

[5] Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

[6] Il Consiglio di Stato in quella occasione stabilì testualmente che “(…) l’affidamento di servizi pubblici locali ad una s.p.a. a capitale misto va qualificato come gestione diretta del servizio da parte dell’ente locale”.

[7] Il Consiglio di Stato, con l’arresto in questione, ebbe modo di chiarire che: ”Nell’affidamento diretto di un servizio pubblico locale ad una società mista, è con l’atto di costituzione della società che l’ente locale manifesta l’opzione di tale modulo gestorio, mentre l’assegnazione della gestione del servizio è atto meramente consequenziale: la lesione effettiva degli interessi delle imprese che aspirano alla gestione del servizio rimonta all’adozione delle delibere di costituzione della società mista e di selezione del partner privato, con onere di impugnazione nei termini di decadenza dall’adozione di tali determinazioni”.

[8] I giudici campani, richiamando quanto stabilito dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato il 16 maggio 1996, hanno ritenuto che “ (…) gli atti di costituzione della società mista o quelli successivi, di acquisizione della partecipazione, si rivelano, quindi, i provvedimenti concretamente idonei a sottrarre dal mercato di riferimento la possibilità di accesso alla contrattazione con l’amministrazione che ha optato per quella forma di gestione diretta del servizio, posto che il conferimento della sua titolarità vale quale atto meramente consequenziale rispetto a quelli di formazione della società (o di adesione) e, per certi versi, automatico e vincolato in relazione alla presupposta scelta del modulo in questione (C.S., Ad. Gen. 16 maggio 1996 n. 3035)”.

[9] Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in Appalti&Contratti; Luglio 2006;

[10] L’art. 113, comma 15 – bis, così recita:” Nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione, ai fini dell’attuazione delle disposizioni previste nel presente articolo, le concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano

comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante. Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato sia stato scelto mediante procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, nonché quelle affidate a società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitano sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano.

Sono altresì escluse dalla cessazione le concessioni affidate alla data del 1º ottobre 2003 a società già quotate in borsa e a quelle da esse direttamente partecipate a tale data a condizione che siano concessionarie esclusive del servizio, nonché a società originariamente a capitale interamente pubblico che entro la stessa data abbiano provveduto a collocare sul mercato quote di capitale attraverso procedure ad evidenza pubblica, ma, in entrambe le ipotesi indicate, le concessioni cessano comunque allo spirare del termine equivalente a quello della durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure di evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva qualora la stessa risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti  effettuati da parte del gestore.

[11] L’art. 113, comma 15 –ter, così dispone: Il termine del 31 dicembre 2006, di cui al comma 15 -bis, puo' essere differito ad una data successiva, previo accordo, raggiunto caso per caso, con la Commissione europea, alle condizioni sotto

indicate:

a) nel caso in cui, almeno dodici mesi prima dello scadere del suddetto termine si dia luogo, mediante una o piu' fusioni, alla costituzione di una nuova societa' capace di servire un bacino di utenza complessivamente non inferiore a due volte quello originariamente servito dalla societa' maggiore; in questa ipotesi il

differimento non puo' comunque essere superiore ad un anno;

b) nel caso in cui, entro il termine di cui alla lettera a), un'impresa affidataria, anche a seguito di una o piu' fusioni, si trovi ad operare in un ambito corrispondente almeno all'intero territorio provinciale ovvero a quello ottimale, laddove previsto dalle norme vigenti; in questa ipotesi il differimento non puo' comunque essere superiore a due anni». ))

 

[12] L’art. 13 del d.l. n. 223 del 4 luglio 2006, prevede che:”1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.

2. Le predette società sono oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1.

3. Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite. A tale fine possono cedere le attività non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto – legge 31 maggio 1994, n. 332, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori dodici mesi.

4. I contratti conclusi in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli.

[13] Cfr. G. Guzzo “ La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in Appalti&Contratti;  Luglio 2006;

[14] Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in  Appalti&Contratti ; Luglio 2006;

[15] Cfr. G. Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“; in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

[16] Cfr. G. Guzzo “La giurisprudenza comunitaria detta ai giudici nazionali e al legislatore le nuove regole in materia di affidamenti in house“; in Appalti&Contratti; Luglio 2006;

[17] Cfr. G. Guzzo “ Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale“ in www.LexItalia.it; n. 7-8/2006;

[18] Cfr. G. Bassi; “Le prospettive di riforma delle utilities locali. Prime considerazioni a margine della manovra finanziaria di metà anno (D.L. 223/2006)”; in www.appalti&contratti.it; 7 Luglio 2006;

[19] Cfr. Corte di Giustizia (C-29-04), sentenza del 10 novembre 2005. In quella occasione i giudici comunitari chiarirono che: “(…) anche se è vero che per ragioni di certezza del diritto occorre in generale esaminare l’eventuale obbligo di procedere a una gara di appalto alla luce delle condizioni esistenti alla data di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui si tratta, le circostanze particolari della presente causa richiedono che siano presi in considerazione gli avvenimenti successivamente intervenuti”.

[20] In particolare, i giudici del T.a.r. Piemonte, sede di Torino, hanno affermato che “(…) In sostanza, non può ritenersi “tout court” prevalente l’interesse pubblico ad un mero vantaggio economico sula tutelata aspettativa dell’affidatario ad ottenere la proroga in questione, non essendo questa il risultato di una mera negoziazione tra quest’ultimo e l’ente”.


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