LexItalia.it  

 Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog

 

Articoli e note

n. 7-8/2006 - © copyright

GERARDO GUZZO*

Servizi pubblici locali e affidamenti in house
nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale

horizontal rule

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La sentenza dell’11 maggio 2006, C- 340/04. 3. La sentenza del TAR Lazio – Latina n. 310, del 5 maggio 2006. 4. La sentenza della Corte costituzionale n. 29, dell’1 febbraio 2006. 5. Brevi cenni alle novità introdotte dal d.lgs. n. 163/06 (T.U. degli appalti) in tema di concessione di servizi. 6. Spunti e riflessioni finali.

1. Introduzione.

Il presente lavoro si propone di analizzare, sommariamente, la posizione assunta dai giudici comunitari e nazionali sul delicato tema degli affidamenti in house.

Le recenti oscillazioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia dell’Ue in tema di affidamento diretto dei servizi pubblici locali sono state oggetto di puntuale recepimento da parte dei giudici nazionali, non sempre, invero, rispettandone l’intrinseco messaggio giuridico.

L’ultima decisione in ordine di tempo, che in questa sede si intende brevemente commentare, è costituita dalla sentenza dell’11 maggio 2006, C -340/04, di poco successiva alla sentenza del T.a.r. Lazio, sezione di Latina, datata 5 maggio 2006, n. 310, anch’essa oggetto del presente lavoro. Si tratta di due arresti particolarmente significativi in quanto, entrambi, esprimono lo sforzo compiuto dai giudici nazionali e comunitari di definire concetti, forse un po’ troppo generici, quali quello del “controllo analogo” e quello “della parte più importante dell’attività svolta dall’affidataria”, coniati a suo tempo dalla nota sentenza “Teckal”.

Si intende, inoltre, analizzare la sentenza della Corte costituzionale, rubricata n. 29, dell’1 febbraio 2006, con la quale i Giudici delle leggi hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Abruzzo n. 23/04, nella parte in cui essa non prevedeva un periodo transitorio per l’entrata in vigore delle nuove regole dettate in materia di servizi pubblici locali a rilevanza economica, vietando, da subito, alle società a capitale interamente pubblico, già affidatarie, di partecipare alle gare indette per l’affidamento di servizi pubblici locali prima dell’1 gennaio 2007.

Infine, verrà affrontato il tema delle concessioni di servizi, esaminando le norme contenute nel d.lgs. n. 163/06 (Codice De Lise), recentemente entrato in vigore anche se in parte qua, che ha introdotto nel sistema ordinamentale italiano la nuova disciplina degli appalti pubblici, recependo la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004, n. 2004/18/Cee, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi.

L’esame si rende necessario nonostante l’art. 17 del provvedimento legislativo comunitario richiamato prevedesse espressamente l’inapplicabilità delle disposizioni in esso contenute alle concessioni di servizi; norma, questa, integralmente riprodotta dall’art. 30 del d.lgs. n. 163/06. Si tratta di un aspetto di non poco momento proprio in ragione dei principi codificati dalla giurisprudenza comunitaria che fa salva, in ogni caso, l’applicazione delle regole fondamentali del Trattato Ue, più precisamente, dei principi di non discriminazione e di parità di trattamento degli offerenti.

2. La sentenza dell’11 maggio 2006, n. C-340/04.  

L’ultimo intervento in ordine di tempo della Corte di Giustizia in materia di affidamento in house risale alla sentenza dell’11 maggio 2006, conclusiva del procedimento C-340/04.

In quella occasione i giudici comunitari hanno affrontato una controversia riguardante la fornitura di combustibili e la manutenzione degli impianti termici a favore del Comune di Busto Arsizio (MI) disciplinata attraverso la stipula di contratti, qualificati come appalti di fornitura, aggiudicati, senza gara, alla società Agesp S.p.a., in ragione del controllo esercitato sul soggetto affidatario dal Comune mediante l’Agesp holding S.p.a, società a capitale interamente pubblico. Più nel dettaglio, mentre la Agesp holding S.pa. era interamente controllata dal Comune di Busto Arsizio, la Agesp S.p.a., affidataria del servizio, veniva controllata dalla Agesp holding S.p.a. nella misura del 99,98%. Proprio in ragione di questo controllo mediato, il Comune di Busto Arsizio riteneva che l’Agesp S.p.a. non costituisse una persona giuridica diversa dall’ente affidante e che, pertanto, non esistesse un vero e proprio contratto a titolo oneroso tra la p.a. aggiudicatrice ed il soggetto affidatario, versandosi, al contrario, in una ipotesi di affidamento in house secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia con la sentenza “Teckal”.

I Giudici comunitari, dunque, sono stati chiamati a definire, ancora una volta, il perimetro del concetto di “controllo analogo” e di “svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente locale”, trattandosi dei due invariabili requisiti richiesti perché si possa procedere all’affidamento diretto di un servizio.

Quanto al “controllo analogo”, la Corte, riprendendo il ragionamento svolto nella sentenza “Parking Brixen”, improntato sull’effettività e concretezza del sindacato, riconduce la nozione di “controllo” nell’alveo dell’esercizio da parte dell’ente affidante di un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti delle società partecipate, avendo cura di precisare che la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale dell’affidataria non è elemento sufficiente e decisivo ai fini della sussistenza del requisito in parola. Ancora. Ripercorrendo lo snodo argomentativo svolto nella sentenza “Parking Brixen” i giudici europei escludono nel caso sottoposto al loro vaglio la sussistenza del “controllo analogo” in ragione oltre che dell’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione della società anche dell’assenza di specifiche riserve a favore del Comune.

In sostanza, il controllo dell’ente pubblico risulta circoscritto all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza alcuna previsione aggiuntiva a beneficio dell’ente con la conseguenza che, trattandosi di un controllo esercitato in via indiretta (mediante una holding), nessuna significativa influenza sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti dell’affidataria potrà essere esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice.

Quanto alla definizione dell’altro requisito fissato dalla giurisprudenza comunitaria perché sia possibile l’affidamento diretto del servizio, vale a dire “lo svolgimento della parte più importante dell’attività a favore dell’ente controllante”, il ragionamento compiuto dalla Corte muove dall’esigenza di tutelare il libero gioco della concorrenza. Il naturale corollario che discende da tale presupposto è che i principi comunitari non trovino applicazione nei soli casi in cui l’impresa non sia attiva nel mercato, dunque, in concorrenza con altri soggetti economici, e che le sue prestazioni siano rivolte in via esclusiva all’ente partecipante. Dal che ne discende che ogni altra diversa attività da quella principale, svolta dalla affidataria, deve essere considerata assolutamente marginale.

A tal proposito la Corte di Giustizia evidenzia come il vincolo funzionale che lega l’affidataria all’amministrazione aggiudicatrice, in un certo senso, imponga all’impresa di svolgere la propria attività all’interno del territorio del soggetto pubblico, pur non considerando l’extra territorialità elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del “controllo analogo”.

Al contrario, osserva la Corte, appare decisiva la circostanza che l’affidataria realizzi il proprio fatturato direttamente nei confronti dell’ente pubblico, condizione, questa, che ricorre anche nel caso in cui l’attività svolta dall’impresa a favore della amministrazione aggiudicatrice sia fatturata agli utenti in ragione di una specifica decisione assunta dall’ente locale controllante. Interessante, poi, è il successivo sviluppo logico argomentativo compiuto dai giudici di Lussemburgo riguardante l’ipotesi di affidamento congiunto del servizio da parte di più comuni. In questi casi, i magistrati ritengono che la parte più importante dell’attività svolta dall’affidatario debba essere valutata con riferimento a tutti gli enti complessivamente considerati e non a questo, piuttosto che quell’altro, soggetto pubblico. Infine, i giudici comunitari sollevano la questione in merito all’applicazione dei principi codificati con la sentenza Teckal agli appalti di servizi.

In sostanza, la Corte rileva che se l’applicazione dei citati principi in materia di appalti di forniture trova una sua evidente giustificazione nella circostanza che la Direttiva 93/36 non contiene alcuna disposizione che “escluda dal suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni aggiudicatici”, il discorso con riferimento alla Direttiva n. 92/50, dettata in materia di appalti di servizi, può essere risolto indipendentemente dall’applicazione dei principi codificati dalla Corte europea, dal momento che l’art. 6 della citata direttiva contiene una disciplina derogatoria meno stringente rispetto ai requisiti fissati dalla giurisprudenza “Teckal” [1], con questo mettendo in discussione la stessa indispensabilità ed utilità della codificazione giurisprudenziale.

 3. La sentenza del T.A.R. Lazio – Latina, 5 maggio 2006, n. 310.  

Particolarmente rigorosa, nell’opera di recepimento della giurisprudenza comunitaria, è sembrata la pronuncia del TAR Lazio – Latina, di seguito commentata.

I giudici laziali, con un decisum perfettamente in linea con la più attuale elaborazione giurisprudenziale comunitaria della Corte di giustizia dell’Ue in materia di affidamento di appalti in house, hanno ritenuto illegittimo l’affidamento del servizio pubblico locale ad una società mista pubblico – privata, nonostante il socio di minoranza sia stato scelto all’esito dello svolgimento di una procedura concorsuale. I magistrati del TAR dopo aver risolto l’inquadramento sistematico del rapporto, propendendo per una concessione di pubblici servizi in luogo di un appalto di servizi, ricavando tale soluzione dalla circostanza che il prezzo del servizio gravava sull’utente e non sull’ente pubblico affidante, hanno ritenuto, secondo costante giurisprudenza comunitaria, che nonostante la Direttiva n. 92/50 non trovasse applicazione in materia di concessione di servizi questo non esimeva l’ente aggiudicatore dalla osservanza dei principi fissati nel Trattato Ce, in particolare di quelli di non discriminazione e di trasparenza consacrati negli articoli 43 e 49.

In particolare, i giudici amministrativi, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia, per come scolpita nelle sentenze “Stadt Halle” fino alle più recenti “Modling” e “Agesp”, hanno considerato lesivo dei principi comunitari l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale ad una società mista giacché la semplice presenza del capitale privato, seppur di minoranza, risulterebbe incompatibile con l’esercizio di “un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”, coerentemente con quanto a suo tempo stabilito dai magistrati europei con la sentenza “Teckal”.

In sostanza, la partecipazione societaria del privato introdurrebbe nella dinamica societaria interessi ed obiettivi diversi da quelli tradizionalmente soddisfatti e traguardati dalla p.a., impedendo alla società affidataria di atteggiarsi a soggetto meramente delegato dall’ente aggiudicatore. In questo modo, sempre secondo i giudici amministrativi laziali, verrebbe alterato il libero gioco della concorrenza proprio a causa della presenza di un soggetto privato all’interno del modulo societario che obbedisce a logiche diverse rispetto a quelle tipicamente pubbliche, con conseguente violazione della stessa parità di trattamento tra soggetti economici che si contendono il medesimo mercato. Interessante, infine, è l’ampiezza del concetto di trasparenza per come definito dai giudici del TAR Latina i quali ritengono che esso debba essere misurato non nel corso della gara quanto prima dell’inizio della procedura concorsuale.

Più in particolare, i giudici ritengono che la trasparenza dell’azione amministrativa presupponga la predisposizione di modalità tali da rendere possibile ad una impresa che operi in uno Stato membro diverso “(…) di avere accesso alle informazioni adeguate riguardo alla detta concessione prima che essa sia attribuita, di modo che tale impresa sarebbe stata in grado di manifestare il proprio interesse a ottenere la detta concessione”. In conclusione, si ritiene che i giudici laziali abbiano operato un’applicazione eccessivamente restrittiva dei principi codificati dalla giurisprudenza comunitaria, in particolare di quelli fissati con la sentenza “Stadt Halle” e “Agesp”, non considerando indispensabile l’esigenza di un concreto sindacato sull’assetto societario come pure la Corte di Giustizia nella sentenza del 6 aprile 2006 ( C-410/04) aveva auspicato.

4. La sentenza della Corte Costituzionale n. 29 dell’1 febbraio 2006.

Particolarmente importante appare il principio codificato dal Giudice delle leggi a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, lett. b) della legge della Regione Abruzzo, n. 23 del 5 agosto 2004, nella parte in cui non prevede che il divieto di partecipare alle gare di evidenza pubblica bandite per la scelta del soggetto cui conferire la gestione del servizio – divieto posto a carico delle società a capitale interamente pubblico già affidatarie di un servizio pubblico locale a rilevanza economica - operi a partire dall’1 gennaio 2007. Il principio non trova applicazione nei casi in cui si tratti di espletamento delle prime gare aventi ad oggetto i servizi forniti dalle società partecipanti alla gara stessa. La censura di legittimità costituzionale trova la sua ratio nel fatto che la norma regionale contrasta con quanto previsto dall’art. 113, comma 15-quater del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i. [2], ponendosi, pertanto, in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. e) che demanda alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della “tutela della concorrenza”.

Invero, la pronuncia n. 29/06 della Corte Costituzionale non si distacca da quanto precedentemente affermato dagli stessi giudici con la sentenza n. 272/04, giacché anche in quella occasione i magistrati costituzionali affermarono che la disciplina transitoria in tema di servizi pubblici locali obbedisce alle finalità garantistiche della concorrenza e, pertanto, rimane attratta dall’orbita della competenza esclusiva dello Stato, attesa la evidente ricaduta sul piano della concorrenzialità del mercato.

In sostanza, dunque, la previsione contenuta nell’art. 113, comma 6 del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i. [3], che vieta di partecipare alle gare di cui al precedente comma 5 [4], risulta funzionale all’esigenza di garantire massimamente la libera concorrenza in un settore, quello dei servizi di rilevanza economica, estremamente incidente sul mercato. Secondo la Corte delle leggi, al fine di una ottimale attuazione del nuovo regime dei divieti, si è resa necessaria una disciplina transitoria, ragionevolmente dettata dal legislatore statale con il comma 15 – quater dell’art. 113, già citato, indispensabile per un progressivo riequilibrio e progressivo adeguamento del mercato. In conclusione, la mancanza all’interno della disciplina regionale scrutinata di un simile regime transitorio, posto a tutela della concorrenza, ha determinato, secondo la ricostruzione dei giudici costituzionali, la violazione non solo dei principi generali contenuti nell’art. 113 d.lgs. n. 267/00 e s.m. e i., ma anche dello stesso parametro costituzionale posto dall’art. 117 comma 2, lett. e) che demanda allo Stato, e solo allo Stato, la disciplina della “tutela della concorrenza” all’interno della quale la norma transitoria inequivocabilmente si colloca.

5. Brevi cenni alle novità introdotte dal d.lgs. n. 163/06 (T.U. degli appalti) in tema di concessioni di servizi.

Com’è noto il d.lgs. n. 163/06, pubblicato sul S.O. n. 107 alla G.U. n. 100 del 2 maggio 2006 entrerà, in parte qua, in vigore a partire dal prossimo primo luglio.

Tralasciando tutte le polemiche sollevate in merito alla con divisibilità o meno di talune disposizioni relative ad alcuni istituti, quali il dialogo competitivo, l’appalto integrato, gli accordi quadro e la trattativa privata, per l’entrata in vigore delle quali si profila un differimento all’anno 2007, la nostra attenzione verrà rivolta, in questa sede, allo spazio riservato dal legislatore del codice degli appalti alla sola concessione di servizi. In effetti il corpus juris in esame si occupa delle concessioni di servizi al solo fine di escluderle dal range di applicazione delle norme in esso contenute.

Ciò appare assolutamente in linea con quanto previsto sia dalla Direttiva del Consiglio del 18 giugno 1992, 92/50/Cee, che dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004, 2004/18/Cee, dal momento che l’art. 17 del provvedimento comunitario da ultimo richiamato esclude espressamente l’applicabilità delle disposizioni che lo compongono alle concessioni di servizi. Come cennato, anche il T.U. degli appalti, meglio conosciuto come “Codice De Lise”, recependo gli articoli 3 e 17 della Direttiva 2004/18/Cee, all’art. 30, rubricato “ Concessioni di servizi”, ha stabilito che “Salvo quanto disposto nel presente articolo, le disposizioni del codice non si applicano alle concessioni di servizi”, con questo mostrando di voler integralmente recepire, nello spirito della legge delega, la n. 62/05, le direttive comunitarie dettate in materia di appalti pubblici, vale a dire la 2004/17/Cee e, appunto la 2004/18/Cee.

Particolarmente significativo appare il comma 5 dell’art. 30 del d.lgs. n. 163/06 che riconosce, indirettamente, la possibilità di affidare senza alcun filtro di evidenza pubblica i servizi cosiddetti in house, cioè a beneficio di altra amministrazione. Infatti, la norma segnalata dispone che “restano ferme, purché conformi ai principi dell’ordinamento comunitario le discipline specifiche che prevedono, in luogo della concessione di servizi a terzi, l’affidamento di servizi a soggetti che sono a loro volta amministrazioni aggiudicatici”. In questo modo l’estensore del T.U. ha inteso recepire l’elaborazione giurisprudenziale formatasi in materia di affidamenti in house, quale eccezione alla regola generale della scelta del contraente attraverso l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica, purché l’affidatario costituisca una sorta di longa manus dell’ente affidante e non vengano violate le norme dettate dal Trattato in materia di parità di trattamento, di non discriminazione e concorrenza. Resta inteso che il soggetto affidatario deve essere destinatario di un controllo analogo a quello che l’amministrazione aggiudicatrice esercita sui propri servizi, nei termini precisati dalla più recente giurisprudenza comunitaria, e che deve svolgere a beneficio dell’ente pubblico che lo controlla la parte più importante della sua attività, secondo quanto più volte chiarito dalla Corte di Giustizia nel corso di questi ultimi mesi.

5. Spunti e riflessioni finali.

L’inesorabile opera di chiarificazione posta in essere dalla Corte di Giustizia in tema di in house providing sembra mossa dal bisogno di fissare dei paletti insormontabili in tema di affidamenti diretti di servizi pubblici locali. L’impresa appare tutt’altro che agevole, considerato l’uso improprio che talvolta può essere fatto dei principi cristallizzati di volta in volta dalla fluida giurisprudenza comunitaria (vd. sentenza del TAR Lazio, Latina).

Il rischio che si annida nel costante sforzo di individuazione di nuovi elementi, in grado di svelare l’intrinseco contenuto giuridico di concetti, quali quello del “controllo analogo” e della “parte più importante dell’attività”, forse fin troppo astratti, è che possano compiersi delle applicazioni distorsive/restrittive degli stessi che trascendono la reale portata del messaggio giuridico contenuto nelle sentenze della Corte di Giustizia.

Infatti, la dilatazione del principio secondo il quale la presenza del capitale privato in un modulo societario misto dovrebbe necessariamente rendere particolarmente arduo all’amministrazione aggiudicatrice il compito di esercitare un adeguato controllo assimilabile a quello svolto sui propri servizi ha subito un ulteriore estremizzazione ad opera della giurisprudenza nazionale in quanto quet’ultima l’ha svuotato di quell’indispensabile filtro sostanzialista costituito dalla concreta verifica dei meccanismi di controllo effettivamente operanti all’interno della compagine societaria affidataria oggetto di indagine. In questa ottica si muovono le prime sortite dei giudici italiani a cominciare proprio da una delle sentenze commentate nell’odierno lavoro: quella del TAR Lazio – Latina – n. 310, del 5 maggio 2006. In quella occasione, i magistrati laziali non compirono alcuna verifica tesa ad accertare il funzionamento degli organi interni del modulo societario ma ritennero, quasi dogmaticamente, che la presenza di un partner privato, seppur di minoranza, fosse condizione sufficiente a negare la possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di esercitare “un controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi. In sostanza, la sensazione diffusa è che la giurisprudenza amministrativa nazionale si sia avviata lungo un crinale estremamente pericoloso: la criminalizzazione dell’apporto privato sempre e comunque.

Queste pericolose dinamiche ermeneutiche, in un certo senso, sono state alimentate, talvolta, proprio dalla stessa giurisprudenza della Corte europea, apparsa, in alcuni casi, estremamente rigorosa al punto di ritenere che anche uno 0,02% del capitale sociale, detenuto, peraltro, da soggetti pubblici diversi dall’amministrazione aggiudicatrice, si atteggi ad elemento destabilizzante il mercato, a causa dell’ampiezza dei poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione dell’affidataria.

Seguendo questo snodo argomentativo, la Corte di Lussemburgo ha sancito l’illegittimità dell’affidamento diretto di un servizio locale ad un modulo societario con capitale interamente pubblico (cfr. sentenza C-340/04, dell’11 maggio 2006, n. 41/06).

In conclusione, l’esame delle sentenze commentate ha mostrato, abbastanza nitidamente, il carattere dinamico della giurisprudenza comunitaria in materia di affidamento di servizi in house, tendenza certamente destinata, nel corso del tempo, a cristallizzare principi inderogabili a presidio di diritti fondamentali quali quello della parità di trattamento, del divieto di discriminazione, della libera concorrenza.

Tuttavia, la tutela di tutti questi diritti, aventi tutti cittadinanza all’interno del Trattato Ce, rischia di costituire una sorta di schermo protettivo nell’indiscriminata opera di bocciatura dell’apporto partecipativo privato nell’ottica dell’affidamento del servizio in house. In attesa che la Corte definisca i punti cardinali di questo suo “peregrinare”, vi è da auspicare che i giudici nazionali, nel frattempo, recepiscano in modo più attento ed equilibrato i principi codificati dai loro colleghi lussemburghesi, ispirandosi sempre di più a logiche di contenuto, piuttosto che a prassi di formale adattamento di schemi processuali non sempre sovrapponibili ai casi esaminati.   


 

horizontal rule

(*) Avvocato e Professore di “Organizzazione Aziendale” presso l’Unical.

[1] L’art. 6 della Direttiva 92/50 così recita: “ La presente Direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un’amministrazione ai sensi dell’art. 1, lettera b), in base a un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”.

[2] L’art. 113, comma 15 – quater così recita:”A decorrere dal 1° gennaio 2007 si applica il divieto di cui al comma 6, salvo nei casi in cui si tratti dell’espletamento delle prime gare aventi ad oggetto i servizi forniti dalle società partecipanti alla gara stessa. Con regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 1, della Legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sentite le Autorità indipendenti del settore e la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, il Governo definisce le condizioni per l’ammissione alle gare di imprese estere, o di imprese italiane che abbiano avuto all’estero la gestione del servizio senza ricorrere a procedura di evidenza pubblica, a condizione che, nel primo caso, sia fatto salvo il principio di reciprocità e siano garantiti tempi certi per l’effettiva apertura dei relativi mercati”.

[3] Il comma 6 dell’art. 113 del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i., dispone che “Non sono ammesse a partecipare alle gare di cui al comma 5 le società che, in Italia o all’estero, gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica, o a seguito dei relativi rinnovi; tale divieto si estende alle società controllate o collegate, alle loro controllanti, nonché alle società controllate o collegate con queste ultime. Sono parimenti esclusi i soggetti di cui al comma 4.”

[4] Il comma 5 del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i. prevede che:”L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:

a)      a società  di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;

b)      a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;

c)       a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici che la controllano”.


Stampa il documento Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico