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Articoli e note

n. 5/2007 - © copyright

GERARDO GUZZO*

Consiglio di Stato e giurisprudenza comunitaria:
prove tecniche di intesa in tema di “controllo analogo”.

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SOMMARIO 1. Premessa. 2. La nozione di “controllo analogo” nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. 3. Il “controllo analogo” nella recente evoluzione giurisprudenziale amministrativa nazionale. 4. La sentenza del Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 1514, del 3 aprile 2007. 5. Considerazioni finali.

1. Premessa.

La fissazione del concetto di “controllo analogo” sembra costituire una sorta di “tela di Penelope” a causa della costante opera di tessitura del contenuto ordita dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale a partire dalla storica sentenza “Teckal” del 18 novembre 1999. Da quel momento, infatti, gli interventi dei giudici europei si sono succeduti a ritmo incalzante aggiungendo tasselli sempre nuovi ad un mosaico che, a otto anni dal suo primo intreccio, ancora stenta ad assumere connotati precisi nonostante la frenetica stagione riformista che ha visto protagonista la Corte di Giustizia.

In questo contesto si sedimentano le difficoltà dei giudici amministrativi nazionali, Tar e Consiglio di Stato, impegnati nello spinoso compito di intendere al meglio le indicazioni provenienti da Bruxelles e da Lussemburgo. Ciò spiega l’atteggiamento fluttuante assunto dai magistrati di Palazzo Spada a cominciare dalla importante decisione del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440 del 13 luglio 2006, che ha fornito una lettura fortemente restrittiva dei principi fissati dalla giurisprudenza europea, fino a giungere alla recente sentenza della VI Sezione, n. 1514, del 3 aprile 2007, decisamente meno intransigente nello stabilire la sussistenza o meno di un “controllo analogo” nell’ipotesi in cui lo statuto del modulo societario, affidatario diretto del servizio, contempli la mera possibilità e non l’obbligo di cessione di quote di capitale a privati. In sostanza, questa pronuncia rappresenta una sorta di “new deal” della giurisprudenza nazionale, dal momento che ha corretto, de facto, i meccanismi di definizione del concetto di “controllo analogo”, attribuendogli il giusto significato, in linea, cioè, con i principi stabiliti dalla Corte di Giustizia.

Più precisamente, sembra di capire che i criteri identificativi la presenza di un controllo esercitato sull’in house provider dal soggetto affidante non siano più governati da regole ispirate a “dogmatica” severità ma, al contrario, a criteri di moderata elasticità, nel rispetto anche di quanto recentemente affermato dal Parlamento europeo con la Risoluzione n. 2006/2043 (INI) dello scorso 26 ottobre 2006, assunta in tema di PPP. Fatte queste premesse, lo scopo dell’odierno contributo, allora, è proprio di cercare di delineare le probabili traiettorie che la giurisprudenza interna e comunitaria si appresta a tracciare e di capire se e in che modo il legislatore nazionale sarà in grado di determinarsi coerentemente con quanto deciso a livello europeo.

2. La nozione di “controllo analogo” nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Com’è noto, la primigenia codificazione del concetto di “controllo analogo” risale alla sentenza della Corte di Giustizia del 18 novembre 1999 denominata "Teckal" (in causa C-107/98).

In quella occasione i giudici europei affermarono la compatibilità con il diritto comunitario degli affidamenti diretti a condizione che l’ente locale esercitasse sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi e che quest’ultimo realizzasse “la parte più importante della propria attività” con l’ente o gli enti locali che lo controllavano. Successivamente, i giudici lussemburghesi sono ritornati più volte sul concetto nel tentativo di fissarne più dettagliatamente contenuti e limiti.

Così, con la sentenza dell’11 gennaio 2005, meglio conosciuta come “Stadt Halle” (in causa C-26/03), la Corte ha stabilito che “(…) la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi (…)”. Gli stessi magistrati europei hanno avuto modo di chiarire come “(…) il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente (…)”.

Con l’arresto segnalato, dunque, la Corte di Giustizia ha fissato un primo fondamentale principio, vale a dire che la presenza di un apporto partecipativo privato all’interno di un modulo societario ad economia mista è di per sé causa ostativa ad un affidamento diretto del servizio. Di seguito, i giudici del Lussemburgo, con la sentenza “Parking Brixten” del 13 ottobre 2005 (in causa C-458/03), hanno sancito la non applicabilità delle norme comunitarie vigenti in materia di appalti pubblici o di concessioni di pubblici servizi qualora “(…) un’autorità pubblica svolga i compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi tecnici o di altro tipo, senza far ricorso ad entità esterne (…)”, escludendo l’applicazione delle regole cristallizzate negli articoli 12 CE, 43 CE e 49 CE, oltre che dei principi generali di cui queste norme costituiscono espressione, in tutti quei casi in cui “(…) il controllo esercitato sull’ente concessionario dall’autorità pubblica concedente è analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e se il detto ente realizza la maggior parte della sua attività con l’autorità detentrice (…)”.

La sentenza in esame fornisce, poi, ulteriori elementi ai fini della cristallizzazione del concetto di “controllo analogo” affermando che esso deve risolversi in una concreta possibilità “(…) di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti (…)”. Nel caso sottoposto al vaglio della Corte di Giustizia, i giudici comunitari hanno escluso che la società in house provider (la ASM Bressanone Spa) fosse sprovvista di vocazione commerciale - condizione indispensabile per rendere praticabile un affidamento diretto del servizio – in quanto i poteri conferiti al Consiglio di amministrazione della stessa impedivano un controllo gestionale da parte dell’ente locale (Comune di Bressanone).

A questo si aggiunga la ulteriore previsione, contenuta nello statuto, dell’obbligatoria apertura del capitale sociale a partners privati e dell’espansione territoriale delle attività a tutta l’Italia e all’estero; elementi, tutti, in grado di certificare la spiccata vocazione commerciale del gestore. Il problema della cessione di quote societarie a soggetti privati, quale indice per stabilire la presenza o meno di un “controllo analogo” della P.a., è stato successivamente approfondito dai magistrati europei con la sentenza “Modling” del 10 novembre 2005 (in causa C-29/04). In quella occasione la Corte di Giustizia ha affrontato il tema della individuazione della data rilevante ai fini della applicazione della direttiva 92/50 e, dunque, della verifica della sussistenza o meno del “controllo analogo” esercitato dall’ente pubblico sull’affidataria del servizio. Secondo i giudici lussemburghesi il momento cruciale per stabilire l’applicabilità o meno della direttiva 92/50 “(…) non è la data effettiva dell’aggiudicazione dell’appalto (…)”, anche se in questo senso militerebbero ragioni di certezza del diritto, quanto, piuttosto, “(…) gli avvenimenti successivamente intervenuti (…)” consistenti nella apertura del capitale sociale, in origine integralmente pubblico, a soggetti privati. In sostanza, i magistrati comunitari hanno evidenziato la particolare rilevanza delle singole fasi in cui si articola l’aggiudicazione di un servizio e del loro specifico obiettivo.

In altre parole, se il capitale sociale dell’affidataria in house del servizio risulta integralmente detenuto dalla mano pubblica al momento dell’aggiudicazione e questa, a sua volta, si rende protagonista di una cessione di quote ad un terzo soggetto economico, ciò che rileva è proprio quest’ultimo passaggio che determina una sostanziale elusione della direttiva 92/50. Infatti, l’ingresso nell’assetto societario di un partner privato, obbedendo a logiche ed interessi non pubblici ma imprenditoriali, si atteggia a manovra diretta “(…) a celare l’aggiudicazione di appalti pubblici di servizi a società ad economia mista (…)” che, notoriamente, richiede l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica. Un importante contributo in termini di chiarezza che investe da vicino il diritto italiano è stato fornito dalla sentenza della Corte di Giustizia dello scorso 6 aprile 2006, meglio conosciuta come “ANAV” (in causa C-410/04), con la quale i giudici lussemburghesi hanno affrontato e risolto positivamente la tenuta dell’art. 113, comma 5, del T.U.E.L. con gli obblighi di trasparenza e di libera concorrenza di cui agli art. 43 CE, 49 CE e 86 CE. Più nel dettaglio. La suprema Corte ha ritenuto che una normativa nazionale che recepisca integralmente i principi generali posti dalla giurisprudenza comunitaria in tema di “controllo analogo” e di “parte più importante della propria attività” da realizzare con l’autorità pubblica che detiene l’intero capitale sociale, “(…) è in linea di principio conforme al diritto comunitario, fermo restando che l’interpretazione di tale disciplina deve a sua volta essere conforme alle esigenze del diritto comunitario (…)”.

I giudici, anche in quella occasione, hanno ricordato che “(…) se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione “interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (…)”, con conseguente obbligo di aggiudicazione del servizio tramite procedura ad evidenza pubblica. Appena un mese dopo questo importante arresto, la Corte di Giustizia, con la sentenza “Agesp S.p.a.” dell’11 maggio 2006[1], ritornando sull’argomento, ha affermato che “(…) per valutare se l’amministrazione aggiudicatrice eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi è necessario tener conto di tutte le disposizioni normative e delle circostanze pertinenti (…)”. In sostanza, i giudici hanno ritenuto che la sussistenza del requisito in parola dipenda dalla effettiva influenza che la P.a. esercita “(…) sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti (…)” della affidataria, riconoscendo l’insufficienza dei poteri attribuiti alla maggioranza dei soci – se strutturati secondo quanto previsto dal diritto societario – e, pertanto, l’incapacità della stessa P.a. di influire sulle decisioni della società.

Infine, merita di essere segnalata anche la recente sentenza della Corte di Giustizia – I Sezione – del 18 gennaio 2007 che ha affrontato, inter alia, il delicato tema del ricorso a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici di lavori qualora l’aggiudicatario sia un soggetto avente le stesse qualità dell’amministrazione aggiudicatrice. La Corte, attraverso un chiaro e lineare percorso logico - argomentativo ha rilevato che se è vero che “(…) il ricorso alla gara d’appalto non è obbligatorio per appalti conclusi tra un ente locale e un soggetto giuridicamente distinto da quest’ultimo, nell’ipotesi in cui, al contempo, l’ente locale eserciti sul soggetto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e il soggetto di cui trattasi svolga la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono (…)”, tuttavia, ciò non toglie che “(…) l’amministrazione aggiudicatrice non è esonerata dal far ricorso alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori (omissis) per il fatto che intende concludere l’appalto con una seconda amministrazione aggiudicatrice (…)”.

La ratio di questa conclusione è la medesima cristallizzata nella sentenza “Modling” del 10 novembre 2005, vale a dire quella di evitare che attraverso una serie di passaggi fittizi si pervenga alla sostanziale elusione dell’applicazione delle direttive comunitarie che impongono lo svolgimento di procedure selettive nella scelta del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici. Si tratta di una importante sentenza che, mediate un obiter dictum, traccia correttamente i confini degli affidamenti in house nel tentativo di impedire che truffaldini ricorsi a successive cessioni di quote, di fatto, facciano risultare aggiudicato un servizio pubblico a moduli societari ad economia mista senza alcun filtro concorsuale, con conseguente violazione dei principi di parità di trattamento, di divieto di discriminazione e, più in generale, di libera concorrenza.

3. Il “controllo analogo” nella più recente evoluzione giurisprudenziale nazionale.   

 La lunga stagione riformista vissuta dalla giurisprudenza comunitaria nel tentativo di definire appieno contenuti e limiti del concetto di “controllo analogo” ha prodotto, com’era ovvio, delle immediate ripercussioni nella giurisprudenza degli Stati membri e, dunque, anche all’interno di quella italiana.

Un primo importante arresto è stato quello del Consiglio di Stato, V Sezione, n. 4440, del 13 luglio 2006 [2], di poco successivo alla sentenza “Agesp S.p.a.” della Corte di Giustizia dell’11 maggio 2006. In quella occasione, i magistrati di Palazzo Spada hanno affermato che la semplice previsione all’interno dello statuto dell’affidataria della cessione di una quota di capitale sociale a terzi fosse sufficiente ad impedire che l’amministrazione aggiudicatrice esercitasse un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi con conseguente violazione dei principi comunitari della parità di trattamento, di non discriminazione e della libera concorrenza. In pratica, i giudici del supremo consesso amministrativo si sono limitati ad applicare alla lettera i principi codificati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze “Parking Brixten” e “ANAV”.

Particolarmente importante, poi, appare la sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, rubricata n. 589, risalente al 27 ottobre 2006. Si tratta di una pronuncia fortemente innovativa nel panorama giurisprudenziale italiano in quanto introduce il principio della indispensabilità della procedura ad evidenza pubblica nell’affidamento del servizio ad una società mista anche se il partner privato è stato scelto all’esito di una gara pubblica. Partendo dal presupposto che la presenza di un partner privato all’interno di un modulo societario misto renda impossibile l’esercizio del “controllo analogo” da parte dell’amministrazione aggiudicatrice sul soggetto affidatario, a causa della vocazione commerciale dello stesso, i giudici siciliani sono pervenuti alla declaratoria di illegittimità dell’art. 113, comma 5, lett. b) del d.lgs. n. 267/2000, per violazione del diritto comunitario. In sostanza, i magistrati del supremo organo di giustizia amministrativa della Regione Sicilia, facendo propri i principi fissati dalla Corte di Giustizia con la sentenza “Stadt Halle”, hanno disapplicato la norma incriminata applicando al caso di specie la regola conforme all’ordinamento europeo che impone la procedura di evidenza pubblica qualora il soggetto affidatario del servizio abbia una spiccata vocazione commerciale e, dunque, non possa dar luogo ad una situazione di “delegazione interorganica” [3]. Resta da vedere se la scelta coraggiosa dei giudici siciliani resterà un episodio isolato oppure verrà seguito da altri.

Al momento il Consiglio di Stato, con la sentenza della V Sezione, n. 5 dell’8 gennaio 2007, si è limitato ad affermare l’assenza di “controllo analogo” in tutti quei casi in cui lo statuto societario dell’affidataria riconosca alla maggioranza dei soci gli stessi poteri accordati dal diritto societario, notoriamente condizione insufficiente a garantire all’amministrazione aggiudicatrice uno stringente controllo strategico gestionale sull’operato della stessa (vd. sentenza “Agesp S.p.a.”). [4] Si tratta di una sentenza che si colloca nell’alveo della precedente pronuncia del supremo organo di giustizia amministrativa, vale a dire la decisione della V Sezione, n. 5072 del 30 agosto 2006. Con tale dictum i giudici di seconde cure hanno ritenuto insussistente il requisito del “controllo analogo” sul presupposto che lo statuto della società affidataria contenesse la espressa previsione della possibilità che in avvenire il pacchetto societario venisse detenuto da imprese singole o societarie con una partecipazione fino al 49% dell’intero capitale sociale. Applicando i principi codificati dalla sentenza della Corte di Giustizia “Parking Brixten”, il Consiglio di Stato ha escluso che l’amministrazione aggiudicatrice potesse esercitare sulla società affidataria un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi in quanto la presenza di partners privati all’interno dell’assetto societario di quest’ultima imprimeva alla stessa una vocazione eminentemente commerciale che strideva con gli obiettivi e gli interessi pubblici propri della P.a. [5].

Come può facilmente evincersi, i giudici di Palazzo Spada hanno ancorato l’assenza del requisito del “controllo analogo” alla sussistenza nello statuto dell’affidataria della mera possibilità di cedere in futuro una quota del pacchetto societario a terzi e non alla più specifica previsione della obbligatoria cessione in futuro di parte del capitale sociale a imprenditori privati singoli o in forma societaria. Si tratta di una puntualizzazione di non poco momento giacché, proprio recentemente, lo stesso Consiglio di Stato, con sentenza della VI Sezione, n. 1514, del 3 aprile 2007, ha fornito una chiave di lettura sostanzialmente diversa in merito alla sussistenza del “controllo analogo”, certamente improntata ad maggiore apertura nei confronti dell’affidamento diretto del servizio a moduli societari a capitale interamente pubblico.

4. La sentenza del Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 1514, del 3 aprile 2007.

La sentenza della VI Sezione del Consiglio di Stato, n. 1514, del 3 aprile 2007 è destinata ad aprire nuovi scenari nella soluzione del controverso problema della definizione del concetto di “controllo analogo” esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice sul soggetto affidatario del servizio. Si tratta di una decisione che va decisamente nella direzione di una valorizzazione dell’affidamento in house a beneficio moduli societari solo potenzialmente misti, caratterizzati, cioè, dalla presenza all’interno dello statuto di prescrizioni che prevedono la mera possibilità e non l’obbligatorietà dell’apertura del capitale sociale a risorse private.

In sostanza, secondo i magistrati di Palazzo Spada se si procede all’affidamento di un servizio pubblico locale a favore di un soggetto economico a capitale interamente pubblico, caratterizzato da uno statuto che si limita a prevedere l’astratta possibilità di ingresso nelle quote societarie di partners privati non verrebbe incisa la capacità dell’amministrazione aggiudicatrice di esercitare su di esso un “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”; in pratica, si continuerebbe a versare in una ipotesi di “delegazione interorganica” [6]. Diversamente, qualora le previsioni statutarie prevedano l’obbligatoria cessione di quote societarie a soggetti terzi, il modulo societario, affidatario del servizio, inevitabilmente sarebbe destinato ad assumere una vocazione commerciale che, di fatto, renderebbe impossibile alla P.a. di esercitare il “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”. In questi casi, dunque, non sarebbe più possibile procedere all’affidamento diretto del servizio in quanto occorrerebbe l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica.

A ben vedere, sembra di capire che la presa di posizione del Consiglio di Stato si muova nell’ottica di una effettiva incentivazione all’impiego del meccanismo dell’affidamento in house a condizione, però, che non si corra il rischio di “alimentare” manovre elusive, tese, cioè, a raggirare l’applicazione della direttiva 92/50 che, com’è noto, prevede espressamente, in tema di affidamento di appalti di servizi, l’obbligatorietà della procedura di evidenza pubblica.

Dunque, non vi è chi non colga nel principio segnalato una presa di posizione coraggiosa al pari di quella assunta dal Consiglio di giustizia della Regione Sicilia con la sentenza n. 589 del 26 ottobre 2006. In quella occasione, il massimo organo di giustizia amministrativa siciliano ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e i., disapplicandolo per violazione dei principi comunitari fissati dalla sentenza “Stadt Halle” in quanto ha ritenuto che un modulo societario misto, con partner privato scelto all’esito di una regolare selezione, non poteva divenire affidatario diretto del servizio a causa della sua intrinseca vocazione commerciale che impediva all’amministrazione aggiudicatrice di esercitare su di esso un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, ipotizzando, in casi di tal fatta, l’ineludibilità della procedura concorsuale anche nella scelta del soggetto gestore. L’importanza delle sentenze segnalate risiede nel fatto che entrambe sollevano il problema dei limiti che incontra la giurisprudenza interna rispetto al consolidato diritto vivente comunitario.

Ad esempio, la Corte di giustizia, con la sentenza “Modling” del 10 novembre 2005, ha chiarito che il momento rilevante ai fini della individuazione della disciplina applicabile non è quello della aggiudicazione dell’appalto quanto, piuttosto, “(…) gli avvenimenti successivamente intervenuti (…)”, tra i quali rientra certamente l’apertura del capitale sociale a privati. I magistrati lussemburghesi, dunque, con tale pronuncia, hanno lasciato intendere che non vi è una sostanziale differenza tra la previsione statutaria che preveda la mera cedibilità di quote a terzi e la previsione statutaria che preveda la obbligatoria cessione di quote societarie a privati: in ambedue i casi la potenziale elusione della normativa dettata in tema di aggiudicazione di appalti di servizi diventerebbe concreta solo nel momento in cui l’amministrazione aggiudicatrice, per effetto della cessione di parte del capitale operata dall’affidataria a beneficio di terzi, non sarebbe più in grado nel tempo di esercitare su quest’ultima un “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”. Ciò che rileva, pertanto, è soltanto il momento della effettiva apertura del capitale sociale ad imprenditori o a società terzi, sempre che questa si verifichi nel breve periodo.

Contro questa ricostruzione il Consiglio di Stato sembra aver lanciato i propri strali nel momento in cui ha scisso l’astratta cedibilità delle quote societarie, non in grado di incidere sull’esistenza del cosiddetto “controllo analogo”, dalla obbligatoria cessione delle stesse, destinata a privare l’amministrazione aggiudicatrice di quel potere di controllo strategico - gestionale sul soggetto affidatario che ne giustificava, all’origine, l’affidamento diretto del servizio. Si tratta di una interpretazione del diritto comunitario che trova il suo puntuale riferimento nella pronuncia della Corte di Giustizia “Parking Brixten” del 10 ottobre 2005, non debitamente considerata dagli stessi giudici europei nella sentenza “Modling”. In quella occasione, i magistrati lussemburghesi enuclearono tra i requisiti idonei a svelare la vocazione commerciale del gestore di un servizio pubblico locale anche l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali, nulla dicendo in merito alla astratta cedibilità delle quote a terzi eventualmente prevista in statuto, con questo lasciando intendere che qualora ricorresse una situazione del genere era possibile procedere all’affidamento diretto del servizio.  

5. Considerazioni finali.

L’analisi delle pronunce passate in rassegna mostra abbastanza nitidamente l’obiettiva difficoltà che incontra la giurisprudenza comunitaria nel delineare con chiarezza il concetto di “controllo analogo”, soprattutto a causa della ampia casistica sottoposta al suo esame, di volta in volta foriera di ulteriori elementi di riflessione.

In sostanza, proprio la costante opera di definizione dei contenuti del requisito in parola, posta in essere dal diritto comunitario e nazionale - mutuata dallo scrutinio di casi concreti - conferisce allo stesso una natura piuttosto “fluida”. In questo quadro si colloca e va letta la diversa posizione assunta dalla Corte di Giustizia con le sentenze “Parking Brixen” e “Modling”, rispettivamente del 13 ottobre e 10 novembre 2005.

Con la prima pronuncia, i giudici europei ricavavano la presenza di una vocazione commerciale nel soggetto affidatario del servizio da una serie di “spie” tra le quali l’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; mentre con la seconda la natura imprenditoriale dell’affidataria veniva fatta discendere dalla concreta attuazione di una previsione contenuta in statuto contemplante la semplice possibilità di cessione di parte del capitale sociale a terzi; circostanza, questa, che dava luogo ad avvenimenti successivamente intervenuti, tali da far venir meno l’elemento del “controllo analogo” attribuendo, contestualmente, al gestore una spiccata vocazione commerciale incompatibile con l’affidamento diretto del servizio.

Queste aporie interpretative, inevitabilmente, hanno avuto delle profonde ricadute, in termini di incertezza, nelle applicazioni giurisprudenziali operate dagli Stati membri.

In Italia, emblematico è il caso delle due pronunce del Consiglio di Stato: V Sezione, n. 5072, del 30 agosto 2006 e VI Sezione, n. 1514, del 3 aprile 2007. Si tratta di due arresti che hanno affrontato e risolto in modo diametralmente opposto proprio il controverso problema della incidenza sulla vocazione commerciale del soggetto affidatario del servizio delle previsioni statutarie che prevedano l’astratta cedibilità ovvero l’obbligatoria cessione delle quote societarie a soggetti privati terzi.

Secondo la V sezione, la semplice previsione della astratta cedibilità di frazioni di capitale a privati è di per sé elemento sufficiente a mettere in dubbio l’esistenza del “controllo analogo”, mentre, secondo la VI Sezione, a tale conclusione può giungersi soltanto nei casi in cui la previsione statutaria contempli espressamente l’obbligo di apertura del capitale sociale ad altri soggetti economici. Com’è evidente, si tratta dello stesso controverso aspetto affrontato e risolto diversamente dalle sentenze “Modling” e “Parking Brixten” della Corte di Giustizia. La pronuncia della VI Sezione del Consiglio di Stato appare, però, più “intonata” ai principi comunitari di parità di trattamento, divieto di discriminazione e libera concorrenza, per come intesi dai giudici europei con la sentenza “Parking Brixten” (C-458/03) del 13 ottobre 2005, dal momento che la vocazione commerciale dell’affidataria viene fatta discendere dalla apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali e non dalla previsione statutaria della astratta cedibilità di quote societarie a terzi.

Si tratterebbe, dunque, di una sorta di allineamento postumo ai principi comunitari che certifica, in tutta la sua evidenza e pericolosità, le difficoltà che incontrano i giudici nazionali nel relazionarsi e coordinarsi con il diritto europeo sullo spinoso tema del “controllo analogo”, ancora oggi non immune da elementi di incertezza. Infine, non è marginale che i segnali contraddittori che provengono dai giudici europei, oltre a condizionare la giurisprudenza dei singoli Stati membri, rendendola poco uniforme, costituiscano dei punti cardinali niente affatto fermi anche per tutti i legislatori dell’Unione impegnati nel difficile compito di regolamentare funditus la materia dei servizi pubblici locali. Il problema è, peraltro, particolarmente sentito in Italia giacché, proprio in questi giorni, il ddl di delega A.S. 772/06, di riordino dell’intera materia, è stato sottoposto all’esame della I Commissione (Affari costituzionali), impegnata, inter alia, a recepire quanto “suggerito” dal Parlamento europeo con la Risoluzione n. 2006/2043 (INI), assunta in tema di PPP, risalente allo scorso 26 ottobre 2006. [7]

 

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*Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical e partner dello studio legale “Cristofano, Guzzo & Associates”.

[1] Ci si consenta per un approfondimento un rinvio a G. Guzzo, ”Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale”, in www.lexitalia.it, n. 7-8/2006.

[3] In particolare, i magistrati del Consiglio di giustizia della Regione Sicilia hanno affermato che: “(…) la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo la gara) non esime dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio (…)”. Infatti, “(…) se un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società un “controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia europea, sez. I, 10 novembre 2005 n. C-29/04)” (…)”.

[4] Più nel dettaglio di giudici di Palazzo Spada hanno derivato l’assenza di un “controllo analogo” da parte dell’amministrazione aggiudicatrice dalla circostanza che “(…) Lo statuto è quello di una normale società per azioni, nella quale i poteri appartengono agli organi sociali, e non è previsto nessun raccordo tra gli enti pubblici territoriali e la costituzione degli anzidetti organi: il presidente del Consiglio di amministrazione e il direttore sono eletti dal Consiglio di amministrazione, il quale a sua volta è nominato dall’assemblea senza vincoli di provenienza o di proposta, e la stessa assemblea è composta “dai soci” senza ulteriori specificazioni; del collegio sindacale è previstoselo che si compone di tre sindaci elettivi e due supplenti, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili (…). Il consiglio di amministrazione è investito dei più ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della società ed ha facoltà di compiere tutti gli atti che ritenga opportuni per l’attuazione e il raggiungimento degli scopi sociali, fatta eccezione soltanto per gli atti che a norma di legge e del presente statuto sono di competenza dell’Assemblea”.

[5] Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame ha affermato che “(…) il possesso dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi (…)”. Inoltre,  ciò che rileva non è la circostanza che al momento dell’affidamento non vi era stata alcuna cessione di capitale a favore di soggetti terzi e che, dunque, il capitale sociale dell’affidataria era totalmente pubblico, quanto, piuttosto, “(…) il fatto stesso della cedibilità, ancorché solo minoritaria, di parte del capitale sociale a beneficio di soggetti privati (…)”.

[6] Il Consiglio di Stato, ha avuto modo di ricordare che “(…) secondo la Corte di Giustizia (…) la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo.

Con i richiamati precedenti, i giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

- il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

- l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen.; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling; anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati);


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