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Articoli e note

n. 7-8/2006 - © copyright

GERARDO GUZZO*

Servizi pubblici locali, Costituzione e giurisprudenza comunitaria: alcune riflessioni all’indomani della riforma “Bersani” e del ddl di delega n. S-722 del 4 luglio 2006.

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SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Il legittimo dubbio di asimmetria costituzionale; 3. La posizione della Corte di Giustizia; 4. Considerazioni finali.

1. Premessa.

Com’è noto, il dl n. 223/06, recentemente convertito con modifiche nella legge n. 248 del 4 agosto 2006, ha suscitato numerose polemiche soprattutto legate alle modalità con cui il legislatore ha inteso attuare il messaggio giuridico contenuto nel provvedimento governativo: la tutela del consumatore da realizzarsi attraverso un proteiforme ventaglio di liberalizzazioni.

In questa ottica vanno letti anche gli articoli 13 e 15 del d.l. “Bersani-Visco”, norme che riguardano da vicino il sistema degli affidamenti in house dei servizi pubblici locali.

Le disposizioni segnalate, seppur oggetto di rivisitazione in sede di conversione del decreto, non hanno convinto fino in fondo, così come, ad una prima scorsa, sembra sollevare non poche perplessità lo stesso impianto del ddl di delega n. S-722 di riforma dei servizi pubblici locali, licenziato dall’Esecutivo il 4 luglio 2006 e transitato, il successivo 7 luglio, innanzi alla I Commissione permanente (Affari Costituzionali), per affrontare la prima tappa del lungo viatico parlamentare.

Nello specifico, quest’ultimo corpus normativo contiene alcuni precetti che appaiono, quanto a contenuto, ben più restrittivi dei principi fissati dalla stessa giurisprudenza comunitaria, freneticamente impegnata nel difficile compito di codificazione di concetti piuttosto astratti quali quello del “controllo analogo” e della “parte più importante della propria attività” svolta dai soggetti in house providers.

Infine, non è marginale che proprio il ddl di delega in parola, a causa di una eccessiva limitazione, anche territoriale, dell’iniziativa economica privata, alimenti sospetti di dubbia coerenza con il dettato costituzionale (artt. 41 - 43) che finiscono per renderlo ancora più controverso a causa della non particolare limpidezza delle linee guida in esso tracciate.

2. Il legittimo dubbio di asimmetria costituzionale.

Uno degli aspetti più delicati delle riforme in commento riguarda proprio la tenuta costituzionale degli interventi legislativi messi in campo dall’attuale Esecutivo.

In prima battuta, occorre ricordare che l’art. 13 del dl n. 223/06, convertito con modifiche nella legge n. 248 del 4 agosto 2006, non disciplina la specifica materia dei servizi pubblici locali. Infatti, la norma in parola si riferisce esclusivamente a quelle “società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali” che, pertanto, costituiscono oggetto di diversa e specifica regolamentazione normativa rappresentata dai precetti contenuti negli artt. 2 e 3 del ddl di delega n. S-722, oggi all’esame della I Commissione permanente (Affari Costituzionali).

Tuttavia, entrambe le disposizioni richiamate, vale a dire l’art. 13 della legge n. 248/06 e l’art. 2 del ddl di delega n. S-722/06, risultano accomunate dalla palpabile restrizione del margine di operatività dei moduli societari costituiti o partecipati da soggetti pubblici (regionali e locali), margine di operatività circoscritto esclusivamente all’interno dei confini territoriali degli enti costituenti, partecipanti o affidanti [1]. Si tratta di una limitazione che finisce per ingenerare non pochi dubbi e perplessità in merito alla tenuta costituzionale, in specie con riferimento all’art. 41 della Carta.

Non si comprende, infatti, come previsioni del genere possano armonizzarsi con il portato dei commi 1 e 3 del precetto costituzionale richiamato, dal momento che, il primo, con una previsione di carattere generale, afferma il principio della libera iniziativa economica privata, mentre il secondo, con un disposto di natura eccezionale, circoscrive l’intervento dello Stato nei limiti dell’esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento dell’attività economica pubblica e privata a fini sociali. Proprio il divieto di svolgere l’attività imprenditoriale al di fuori dell’ambito territoriale degli enti pubblici di riferimento, imposto alle società costituite o partecipate integralmente (o in parte) da pubbliche amministrazioni, si atteggia a vera e propria forzatura del dato costituzionale segnalato del quale ne rappresenta un autentico capovolgimento ideologico, considerata la natura sociale della mission d’impresa.

Il legislatore del 2006, infatti, ha posto quale regola generale non la libera competizione mercantile tra soggetti economici privati quanto, piuttosto, il divieto, sia per le società a capitale interamente pubblico che a capitale misto (pubblico privato), di misurarsi in termini di concorrenzialità con altri protagonisti imprenditoriali.

A tal proposito, non può non considerarsi la circostanza che il privato potrebbe avere uno scarso interesse ad essere parte integrante di un modulo societario misto la cui sfera di operatività risulti limitata all’ambito territoriale dell’ente affidante, considerato anche il modesto ritorno economico che rischierebbe di produrre un investimento del genere a causa della circoscritta durata nel tempo della partecipazione societaria. La stessa costituzione di moduli societari misti o a totale partecipazione pubblica, inoltre, sarebbe consentita soltanto nelle ipotesi in cui ricorrano i requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria, peraltro, ancora in corso di definizione, e particolari situazioni di mercato, non meglio specificate.

L’insieme di queste prescrizioni, soprattutto se riferite ai moduli societari misti caratterizzati dall’apporto partecipativo privato, finisce per dare luogo ad un reticolo di condizionamenti dalle maglie piuttosto strette, decisamente poco compatibili con l’affermata esigenza di “ favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi”, cristallizzati nell’art. 1 del ddl di delega di riordino dei servizi pubblici locali [2].

Ancora. Se si analizza la lettera dei commi 3 e 4 dell’art. 13 della legge n. 248/06 [3], sarà facile gioco scorgere che le società di cui al precedente comma 1, cioè a capitale interamente pubblico o misto che producono beni e servizi strumentali all’attività degli enti pubblici costituenti o affidanti, dovranno cessare le attività non consentite entro dodici mesi dall’entrata in vigore del decreto legge (4 luglio 2006), mentre i contratti stipulati dopo tale data, in violazione dei commi 1 e 2, resteranno irrimediabilmente colpiti da nullità.

In particolare, la cessazione potrà avvenire o mediante la cessione a terzi, seguendo una regolare procedura concorsuale, oppure attraverso la costituzione di una società di scopo - cui affidare le attività non consentite o interi rami d’azienda scorporati - da collocare sul mercato nei successivi diciotto mesi. Una prescrizione legislativa del genere è destinata a produrre, come primo effetto, un sostanziale ridimensionamento del portafoglio di investimenti delle società interessate con conseguente contrazione delle relative aree strategiche di affari frequentate.

Sul piano strettamente organizzativo/gestionale, poi, molto probabilmente si avrà un sensibile ridimensionamento quali/quantitativo del core business con effetti opposti a quelli auspicati nella rubrica del Titolo I della legge n. 248/06: la crescita e la promozione della concorrenza e della competitività. Inoltre, non sono secondarie le ricadute che potrebbero registrarsi sul versante sociale, dal momento che la cessione delle attività non consentite, oppure lo scorporo di specifici rami d’azienda, in taluni casi vere e proprie micro-imprese, rischiano di alimentare degli allarmi di tipo sindacale, soprattutto con riferimento a quei moduli societari a capitale interamente pubblico o misto di grandi dimensioni. Si tratta di “effetti collaterali” evidentemente non adeguatamente ponderati dal legislatore, visto che non è stata predisposta alcuna efficace rete di contenimento o “ammortizzatore sociale”.

Quanto al ddl di delega n. S-722/06, un’ulteriore notazione può essere fatta con riferimento alle lettere b) e c) del comma 1 dell’art. 2. Nelle intenzioni del legislatore, le norme in esse contenute dovrebbero atteggiarsi a precetti di carattere eccezionale rispetto al principio generale codificato nella precedente lettera a), vale a dire l’indispensabilità dell’espletamento di procedure di evidenza pubblica nella selezione di soggetti affidatari della gestione dei servizi pubblici locali [4].

Tuttavia, la scelta operativo/gestionale di procedere all’affidamento diretto di un servizio pubblico locale a beneficio di una società a capitale interamente pubblico ovvero misto, pubblico/privato, dovrebbe essere congruamente motivata dall’amministrazione pubblica, come prescritto dall’art. 2, comma 1, lett. d), dal momento che a quest’ultima viene espressamente richiesta una valutazione ponderata delle ragioni che la indurrebbero ad optare per la scelta dell’affidamento in house in luogo della selezione di un soggetto privato mediante lo svolgimento di una regolare procedura concorsuale. Indubbiamente, una previsione del genere si muove nel quadro dell’avvertita e condivisibile esigenza di evitare che si producano effetti distorsivi sul libero gioco della concorrenza; ciononostante, non convince, sul piano strettamente pratico/operativo, la generica prescrizione imposta indiscriminatamente a carico di tutti gli enti affidanti di far precedere la propria decisione da una previa analisi di mercato [5].

Il problema non è di poco momento, attesa la verosimile difficoltà per i comuni con meno di quindicimila abitanti, notoriamente sprovvisti di personale altamente qualificato, di elaborare una dettagliata analisi di settore, tale, cioè, da sconsigliare all’ente locale di affidare mediante procedura ad evidenza pubblica la gestione di un servizio locale. Parimenti complicato sarebbe, poi - secondo quanto previsto sempre dall’art. 2 comma 1 lett. d) del ddl di delega - l’adozione e la pubblicazione di un programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica.

In sostanza, le condizioni che il legislatore vorrebbe codificare finirebbero, inevitabilmente, per penalizzare i piccoli comuni i quali si troverebbero, di fatto, nell’impossibilità di affidare direttamente la gestione di servizi pubblici locali a moduli societari interamente pubblici o a capitale pubblico/privato a causa della difficoltà di commissionare costose e complicate analisi di mercato a professionalità altamente qualificate. Una previsione di legge così strutturata, dunque, renderebbe evidente una oggettiva diversità applicativa. Infatti, i comuni medio grandi non incontrerebbero particolari ostacoli nel reperimento di professionisti in grado di giustificare e orientare la scelta della p.a. nella direzione dell’affidamento diretto, mentre i comuni minori, per esempio quelli con meno di quindicimila abitanti, troverebbero, al contrario, significativamente difficile avviare tutta la costosa preliminare attività di studio ed analisi del mercato settoriale interessato, obbligatorio crocevia per giungere all’affidamento diretto del servizio.

Non è marginale, inoltre, il pericolo di una sensibile rallentamento dell’azione amministrativa, chiaramente lesivo dei principi di efficienza, efficacia e speditezza che sempre devono innervare l’agere pubblico e, in definitiva, dello stesso principio di buon andamento dell’amministrazione, fissato dall’art. 97 della Costituzione. In una cornice siffatta, gli unici ad essere penalizzati sarebbero, pertanto, le popolazioni dei comuni di piccole dimensioni, soprattutto quelle del Sud, le quali si vedrebbero spogliate della possibilità di fruire di adeguati servizi pubblici a causa del veto posto dalla norma in parola a carico di tali enti di affidare a moduli societari interamente pubblici o misti la gestione di fondamentali servizi pubblici locali (parcheggi, illuminazione, manutenzione strade, etc.).

3. La posizione della Corte di Giustizia.

La griglia normativa esaminata appare nei contenuti ben più restrittiva dell’attuale posizione assunta dalla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Com’è noto, i giudici europei hanno avuto modo, negli ultimi tempi, di tornare più volte sul tema degli affidamenti in house nel tentativo di dare forma e sostanza a concetti piuttosto sfumati quali quello del “controllo analogo” e della “parte più importante dell’attività” che la società affidataria dovrebbe svolgere a favore dell’amministrazione aggiudicatrice [6].

Nel corso della recente “stagione additiva” i magistrati europei non hanno affatto negato la possibilità alle società affidatarie in house di svolgere la propria attività al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente affidante [7].

Infatti, proprio con il decisum dello scorso 11 maggio 2006, C-340/04, la Corte ha chiarito che il vincolo funzionale che lega l’affidataria alla p.a. aggiudicatrice, pur obbligando l’amministrazione, in qualche modo, a svolgere la propria attività essenzialmente all’interno del suo territorio, non può essere considerato elemento decisivo ai fini della verifica della sussistenza del requisito del “controllo analogo”.

In sostanza, il supremo consesso europeo non ha ritenuto che l’extraterritorialità costituisse uno “scientifico” indicatore dell’impossibilità per l’ente pubblico di esercitare sull’affidataria un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, secondo il noto principio coniato con la precedente sentenza “Teckal”. Il corollario che ne discende è che i giudici lussemburghesi non hanno mai categoricamente escluso la possibilità per il gestore in house di un servizio pubblico locale di svolgere la propria attività extra moenia, ma si sono limitati ad affermare che in tal senso militerebbero non meglio precisate ragioni di opportunità.

Il legislatore italiano, sia con l’art. 13 della legge n. 248/06 che con l’art. 2 del ddl di delega n. S-722/06, sembra collocarsi su posizioni più radicali, dal momento che ha escluso tassativamente la possibilità per i moduli societari di “esportare” il proprio know-how al di fuori degli angusti confini del territorio dell’ente locale affidante. Le perplessità aumentano se poi si considera la più recente posizione assunta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4440 del 13 luglio 2006 [8].

In quella occasione i magistrati di Palazzo Spada, richiamando alcuni arresti della Corte Costituzionale, hanno riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia la stessa forza cogente delle direttive, dei regolamenti e delle decisioni della Commissione. Proprio l’intervento del supremo consesso amministrativo nei termini appena segnalati, in ragione dell’autorevolezza della fonte, apre un varco al legittimo sospetto che queste ultime sortite del legislatore italiano, in materia di affidamenti in house, risultino difficilmente sovrapponibili al dettato comunitario per come interpretato dalla Corte del Lussemburgo.

4. Considerazioni finali.

Le riflessioni che precedono evidenziano una certa tensione dell’Esecutivo nella difficile opera di adattamento della normativa interna alla frenetica evoluzione della giurisprudenza comunitaria formatasi in tema di affidamenti in house e, più in generale, di servizi pubblici locali.

Sia l’art. 13 della legge di conversione n. 248/06 del dl n. 223 del 4 luglio scorso, che il ventaglio di norme contenute nel ddl di delega n. S-722/06, destinato a dettare le linee guida dell’intera materia dei servizi pubblici locali, tracciandone funditus le coordinate della futura disciplina, appaiono segnati da una preoccupante, tangibile certa superficialità.

Non vi è chi non colga, per esempio, come l’aver negato alle società a capitale interamente pubblico o misto - costituite o partecipate da amministrazioni pubbliche - la possibilità di operare al di fuori degli angusti confini territoriali degli enti costituenti, partecipanti o affidanti, contrasti con gli stessi obiettivi che la legge n. 248/06 si era proposta di raggiungere: il rilancio economico e la crescita sociale.

In particolare, il limite negativo in parola, imposto a siffatti moduli societari, risulta anche lesivo dei principi codificati dalla Corte di Giustizia europea. I giudici lussemburghesi, infatti, con l’ultima pronuncia risalente all’11 maggio 2006 (C-340/04), non hanno certamente ritenuto che l’extraterritorialità rappresentasse un elemento distorsivo della concorrenza e del mercato, ma si sono limitati ad affermare che ragioni di mera opportunità suggerirebbero che lo svolgimento dell’attività d’impresa dei soggetti economici affidatari in house della gestione di servizi pubblici locali si svolgesse all’interno dei confini degli enti affidanti.

La Corte di Giustizia ha chiarito, senza mezzi termini, che l’extraterritorialità non costituisce affatto un indicatore di cui tenere conto per accertare se il soggetto pubblico eserciti o meno sul modulo societario affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi, ritenendo, al contrario, che la verifica vada compiuta caso per caso in base alla particolarità delle singole fattispecie. In conclusione, si può ben affermare che i giudici europei non abbiano, ad oggi, posto alcun limite territoriale allo svolgimento dell’attività d’impresa dei soggetti affidatari diretti della gestione di un servizio pubblico locale, limitandosi ad affermare che gli effetti derivanti dalla collocazione sul mercato di tali moduli societari debbano essere valutati di volta in volta.

Il legislatore nazionale, con gli interventi legislativi commentati, invece, ha mostrato di voler estremizzare, fino a radicalizzarli, i principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria assumendo una posizione decisamente poco coerente con la promozione della concorrenza, della competitività e della tutela dei consumatori, che pure avrebbero dovuto costituire i punti cardinali della sua opera[9]. Ma vi è di più.

L’aver previsto che l’affidamento diretto a soggetti economici a capitale interamente pubblico o misto debba essere preceduto da una previa analisi di mercato, finisce per produrre una doppia conseguenza negativa: a) un rallentamento dell’azione amministrativa; b) un costo aggiuntivo per le amministrazioni locali costrette a reperire professionalità di alto profilo.

Il problema non è di poco conto, dal momento che il legislatore, secondo quanto attualmente previsto dall’art. 2, comma 1, lett. d) del ddl di delega n. S-722/06, ha previsto in aggiunta alla preliminare analisi di mercato, anche la necessità di predisporre un “programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica”.

In un quadro siffatto è fin troppo facile immaginare che si potranno verificare oltre a delle discriminazione a carico delle amministrazioni locali, soprattutto di quelle con disponibilità finanziarie molto limitate, anche pericolosi ritardi nell’offerta dei servizi, con conseguente vulnerazione del principio del buon andamento dell’azione amministrativa e delle aspettative dei consumatori/cittadini, dei cui bisogni, solo apparentemente, il legislatore ha inteso farsi carico.

 

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* Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical e Partner dello studio legale “Cristofano, Guzzo & Associates.

[1] L’art. 13 della legge n. 248/06, rubricato “Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza”, al comma 1 prevede che “Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti”. Allo stesso modo, l’art. 2, del ddl di delega n. 722/06, rubricato “Delega per la riforma dei servizi pubblici locali”, al comma 1, lett. e), esclude espressamente “la possibilità di acquisire la gestione di servizi diversi o in ambiti territoriali diversi da quello di appartenenza, per i soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nonché  per le imprese partecipate da enti locali, affidatarie della gestione di servizi pubblici locali, qualora usufruiscano di forme di finanziamento pubblico diretto o indiretto, fatta eccezione per il ristoro degli oneri connessi all’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico derivanti dalla gestione di servizi affidati secondo procedure ad evidenza pubblica, ove evidenziati da sistemi certificati di separazione contabile e gestionale”.

[2] L’art. 1 del ddl di delega n. S – 722, rubricato “ finalità e ambito di applicazione” chiarisce che “1. La presente legge provvede al riordino della normativa nazionale che disciplina l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali, al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale di rilevanza economica in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità ed accessibilità dei servizi pubblici locali ed al livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) ed m), della Costituzione, assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i principi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione.

2. Costituisce funzione fondamentale di comuni, province e città metropolitane individuare – per quanto non già stabilito dalla legge - le attività di interesse generale il cui svolgimento è necessario al fine di assicurare la soddisfazione dei bisogni degli appartenenti alla popolazione locale, in condizioni di generale accessibilità fisica ed economica, di continuità e non discriminazione e ai migliori livelli di qualità e sicurezza, ferma la competenza della regione quando si tratti di attività da svolgere unitariamente a dimensione regionale.

3. Le finalità pubbliche proprie delle attività di cui ai commi 1 e 2 sono perseguite, ove possibile, attraverso misure di regolazione, nel rispetto dei principi di concorrenza e di sussidiarietà orizzontale. Gli interventi pubblici regolativi pongono all’autonomia imprenditoriale e alla libertà di concorrenza delle imprese i soli limiti necessari al perseguimento degli interessi generali, nel rispetto del principio di proporzionalità.

4. Ove siano imposti alle imprese obblighi di servizio pubblico che impediscano la copertura integrale dei costi e l’utile d’impresa, devono essere previste le necessarie misure compensative.

[3] I commi 3 e 4 dell’art. 13 della legge n. 248/06, rispettivamente prevedono che “3. Al fine di assicurare l’effettività delle precedenti disposizioni, le società di cui al comma 1 cessano entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le attività non consentite. A tale fine possono cedere, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, le attività non consentite a terzi ovvero scorporarle, anche costituendo una separata società da collocare sul mercato, secondo le procedure del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, entro ulteriori diciotto mesi. I contratti relativi alle attività non cedute o scorporate ai sensi del periodo precedente perdono efficacia alla scadenza del termine indicato nel primo periodo del presente comma. 4. I contratti conclusi, dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 sono nulli. Restano validi, fatte salve le prescrizioni di cui al comma 3, i contratti conclusi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto, ma in esito a procedure di aggiudicazione perfezionate prima della predetta data”.

[4] Le lettere a), b) e c) del comma 1 dell’art. 2 del ddl di delega n. S-722/06, prevedono rispettivamente: “a) prevedere che l’affidamento delle nuove gestioni ed il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica di scelta del gestore, nel rispetto della disciplina dell’Unione europea in materia di appalti pubblici e di servizi pubblici, fatta salva la proprietà pubblica delle reti e degli altri beni pubblici strumentali all’esercizio, nonché la gestione pubblica delle risorse e dei servizi idrici;

b) consentire eccezionalmente l’affidamento a società a capitale interamente pubblico, partecipata dall’ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house;

c) consentire eccezionalmente l’affidamento diretto a società a partecipazione mista pubblica e privata, ove ciò reso necessario da particolari situazioni di mercato, secondo modalità di selezione e di partecipazione dei soci pubblici e privati direttamente connesse alla gestione ed allo sviluppo degli specifici servizi pubblici locali oggetto dell’affidamento, ferma restando la scelta dei soci privati mediante procedure competitive e la previsione di norme e clausole volte ad assicurare un efficace controllo pubblico della gestione del servizio e ad evitare possibili conflitti di interesse”;

[5] La lett. d) dell’art. 2 del ddl di delega di riordino dei servizi pubblici locali impone che “che l’ente locale debba adeguatamente motivare le ragioni che, alla stregua di una valutazione ponderata, impongono di ricorrere alle modalità di affidamento di cui alle lettere b) e c), anziché alla modalità di cui alla lettera a), e che debba adottare e pubblicare secondo modalità idonee il programma volto al superamento, entro un arco temporale definito, della situazione che osta al ricorso a procedure ad evidenza pubblica, comunicando periodicamente i risultati raggiunti a tale fine. In particolare, prescrivere che per giungere alla constatazione della necessità di gestione diretta sia adottata una previa analisi di mercato, soggetta a verifica da parte delle Autorità nazionali di regolazione dei servizi di pubblica utilità competenti per settore, ovvero, ove non costituite, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, ove si dimostri l’inadeguatezza dell’offerta privata. Le società di capitali cui sia attribuita la gestione ai sensi della lett. b) non possono svolgere, né in via diretta, né partecipando a gare, servizi o attività per altri enti pubblici o privati”;

[6] Sull’argomento vedi G.Guzzo “Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale”; in www.LexItalia.it, n.7-8/2006;

[7] Cfr. G.Guzzo “Affidamenti in house: controllo analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi”, in www.LexItalia.it, n. 7-8/2006;

[8] Cfr. G.Guzzo “Affidamenti in house: controllo analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi”, in www.LexItalia.it, n. 7-8/2006;

[9] L’art. 1 della legge di conversione del dl n. 223/06, rubricata n. 248, così dispone:” Finalita' e ambito di intervento. 1. Le norme del presente titolo, adottate ai sensi degli articoli 3, 11, 41 e 117, commi primo e secondo, della Costituzione, con particolare riferimento alle materie di competenza statale della tutela della concorrenza, dell'ordinamento civile e della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, recano misure necessarie ed urgenti per garantire il rispetto degli articoli 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunita' europea ed assicurare l'osservanza delle raccomandazioni e dei pareri della Commissione europea, dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato e delle Autorita' di regolazione e vigilanza di settore, in relazione all'improcrastinabile esigenza di rafforzare la liberta' di scelta del cittadino consumatore e la promozione di assetti di mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio dell'economia e dell'occupazione, attraverso la liberalizzazione di attivita' imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro. 1-bis. Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione.


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