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n. 2/2009 - © copyright

ANTONIO GUANTARIO

Il caso “Punta Perotti”

La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia a responsabilità
civile da sentenza, ma si contraddice: confisca arbitraria e demolizione ammissibile.

(causa Sud Fondi srl e altre 2 c/ Italia – Ricorso n. 75909/01)

sentenza del 20 gennaio 2009

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SOMMARIO: 1) Premessa. 2) I punti fondanti del ragionamento svolto dalla Corte europea: a) la violazione dell’art. 7 CEDU; 3) I punti fondanti del ragionamento svolto dalla Corte europea: b) la violazione dell’art. 1 del Protocollo n.1; 4) Considerazioni critiche; 5) Profili di incostituzionalità dell’art.44,comma 2°del d.p.r. 06.06.2001,n. 380 (T.U. dell’Edilizia).

1) Premessa.

Questo breve scritto tende a fissare i punti fondanti del ragionamento seguito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per pervenire alla declaratoria di violazione dell’art. 7 CEDU e dell’art.1 del Protocollo n. 1 e alla condanna risarcitoria dell’Italia in favore dei soggetti ricorrenti. Seguiranno poi alcune riflessioni su un tratto della motivazione che ci è apparso contraddittorio e infondato e su un aspetto di incostituzionalità della norma interna esaminata dalla Corte europea.

Senza ripercorrere le tappe della cronaca processuale, per le quali si rinvia alla chiara ricostruzione contenuta nella sentenza della Cassazione penale, Sez. III, 29 gennaio 2001, n. 11716 e della sentenza della Corte europea in commento, basti in questa sede prendere le mosse dalla sentenza della Cassazione con cui è stata disposta la confisca del terreno lottizzato e delle opere costruite, nella parte in cui ha statuito: “Deve essere disposta, a norma dell'art. 19 della legge n. 47-1985, la confisca e l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di Bari dei suoli abusivamente lottizzati e dell'intero complesso immobiliare di cui ai piani di lottizzazione nn. 141 e 151 del 1989.

Trattasi - secondo la giurisprudenza costante di questa Corte Suprema - di provvedimento obbligatorio per il giudice che accerti la sussistenza di una lottizzazione abusiva, anche indipendentemente da una pronuncia di condanna (vedi Cass., Sez. III: 13.7.1995, ric. Barletta; 20.12.1995, n. 12471, ric. P.G. in proc. Besana ed altri; 15.10.1997, ric. Sapuppo ed altri; 23.12.1997, n. 3900, ric. Farano ed altri; 11.1.1999, n. 216, ric. Iorio Gnisci Ascoltato)”.

E ciò, si badi bene, nonostante la stessa Corte di Cassazione avesse rilevato per tutti gli imputati l'insussistenza dell'elemento soggettivo dei reati contestati, alla stregua di quanto previsto dall'art. 5 cod. pen., nell'interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988. Tutti gli imputati, è stato statuito, “sono incorsi in errore scusabile nell'interpretazione delle norme violate”:

- per l'esistenza di una legislazione regionale oscura e male formulata che, nell'interferenza con la legge Galasso, non ha mancato di produrre contrasti giurisprudenziali;

- per l'ottenimento delle concessioni edilizie accompagnato da ripetute rassicurazioni del direttore dell'ufficio tecnico del Comune di Bari;

- per la mancata riproduzione dell'esistenza dei vincoli nella planimetria allegata al secondo programma pluriennale di attuazione (trasmessa alla Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali in data 26.10.1984 ed in ordine alla quale tale ultimo organo ebbe a richiedere spiegazioni ed a sollevare eccezioni solo in data 10.2.1997, restando poi inerte nell'attesa di una risposta intervenuta, quasi un anno più tardi, con nota comunale del 26.1.1998);

- per il comportamento di sostanziale inerzia della stessa Soprintendenza a fronte di una attività di edificazione che (secondo la valutazione poi espressa in data 30.4.1998, con nota indirizzata al Ministero dei beni culturali ed ambientali) presentava un "impatto ambientale negativo percettibile visivamente".

Inoltre,

- non sussiste la dimostrazione di uno stato di incertezza degli imputati in ordine alla liceità o meno dei loro comportamenti (tale da indurli ad astenersi dall'azione);

- essi non si sono "accontentati" delle "assicurazioni erronee" di organi tecnici comunali non istituzionalmente preposti alla tutela del vincolo, ma hanno fatto affidamento sulla mancanza di qualsiasi rilievo da parte della competente Soprintendenza, non inconsapevole della situazione;

- ben più approfondite indagini sarebbero state necessarie per individuare le motivazioni dei comportamenti tenuti degli organi pubblici coinvolti nella vicenda, valutare le correlazioni tra tali organi ed i soggetti destinatari delle loro illegittime determinazioni, ravvisare l'eventuale esistenza di condotte coscienti e volontarie dirette a limitare e condizionare, con ostacoli di fatto e di diritto, la riserva pubblica di programmazione territoriale che la legge vuole rispettosa dell'ambiente e del paesaggio. Indagini siffatte non sono state eseguite, sicché non sono consentite illazioni e la prospettazione dell'errore interpretativo non trova alcuna smentita che si fondi su elementi concreti.

* * *

Esperiti inutilmente tutti i rimedi giurisdizionali interni all’ordinamento italiano, i proprietari si sono rivolti alla Corte europea, in applicazione dell’articolo 34 CEDU, ed hanno sostenuto, in particolare, che la confisca di cui sono stati fatti oggetto in virtù dell’art. 19 della L. n. 47/85 (oggi trasfuso nell’art. 44, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 -T.U. dell’Edilizia), è incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione e con l’articolo 1 del Protocollo n. 1.

2) I punti fondanti del ragionamento svolto dalla Corte europea: a) la violazione dell’art. 7 CEDU.

Le parti ricorrenti hanno denunciato l’illegalità della confisca che ha colpito i loro beni in quanto questa sanzione sarebbe stata inflitta in un caso non previsto dalla legge, nel senso che il carattere abusivo della lottizzazione non era «previsto dalla legge». I loro dubbi circa l’accessibilità e la prevedibilità delle disposizioni applicabili sarebbero confermati dalla sentenza della Corte di cassazione, che ha constatato che gli imputati si erano trovati in una situazione di «ignoranza inevitabile». Il tutto in violazione dell’articolo 7 della Convenzione, che recita:

«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.»

La Corte europea ha accolto la doglianza sulla scorta delle seguenti motivazioni.

La legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, e se necessario con l’aiuto dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omissioni implicano la sua responsabilità penale (par. 107), anche se non si può interpretare l’articolo 7 della Convenzione nel senso che esso vieti la graduale chiarificazione delle norme in materia di responsabilità penale mediante l’interpretazione giudiziaria da un caso all’altro, a condizione,però, che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (par. 108).

La portata della nozione di prevedibilità dipende in gran parte dal contenuto del testo normativo denunciato, dall’ambito che esso copre nonché dal numero e dalla qualità dei suoi destinatari. La prevedibilità di una legge non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono risultare da un determinato atto. Questo accade specialmente con i professionisti, abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell’esercizio del loro mestiere. Da essi ci si può pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione i rischi che esso comporta (par. 109). Ciò chiarito, alla Corte europea spetta il compito di assicurarsi che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo al procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione legale che rendeva l’atto punibile, e che la pena imposta non abbia ecceduto i limiti fissati da tale disposizione (par. 110).

In applicazione al caso di specie dei principi esposti, la Corte europea, previa presa d’atto che, secondo la Corte di Cassazione, gli imputati hanno commesso un errore inevitabile e scusabile nell’interpretazione delle norme violate, ha riconosciuto che le condizioni di accessibilità e prevedibilità della legge, nelle circostanze specifiche del presente caso, non sono state soddisfatte. In altri termini, dal momento che la base giuridica del reato non rispondeva ai criteri di chiarezza, accessibilità e prevedibilità, era impossibile prevedere che sarebbe stata inflitta una sanzione (par. 113-114).

Parallelamente, la Corte si è occupata della natura “amministrativa” riconosciuta dalla giurisprudenza italiana alla confisca controversa, dando atto che essa permette di sottrarre la sanzione in questione ai principi costituzionali che regolano la materia penale e segnatamente all’art. 27, comma 1° della Costituzione (la «responsabilità penale è personale») e all’articolo 27, comma 3° della Costituzione («Le pene .... devono tendere alla rieducazione del condannato») (par. 115). Senonchè, ed è questo il punto saliente, se è pur vero che l’articolo 7 della Convenzione non menziona espressamente il legame morale esistente tra l’elemento materiale del reato e la persona che ne viene considerata l’autore, tuttavia, la logica della pena e della punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «persona colpevole» (nella versione francese) vanno nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato. In caso contrario, le pena non sarebbe giustificata. Sarebbe peraltro incoerente, da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra, permettere che si consideri una persona come «colpevole» e «punirla» quando essa non era in grado di conoscere la legge penale, a causa di un errore insormontabile che non può in alcun modo essere imputato a colui o colei che né è vittima (par. 116).

Sotto il profilo dell’articolo 7, per i motivi sopra trattati, un quadro legislativo che non permette ad un imputato di conoscere il senso e la portata della legge penale è lacunoso non solo rispetto alle condizioni generali di «qualità» della «legge» ma anche rispetto alle esigenze specifiche della legalità penale (par.117).

Per tutti questi motivi, di conseguenza, la confisca in questione è stata ritenuta non prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Essa si traduce perciò in una sanzione arbitraria, consumata in violazione dell’articolo 7 della Convenzione (par. 118).

3) I punti fondanti del ragionamento svolto dalla Corte europea: b) la violazione dell’art. 1 del Protocollo n.1.

La Corte ricorda che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 esige, anzitutto e soprattutto, che un’ingerenza della pubblica autorità nel godimento del diritto al rispetto di beni sia legale: la seconda frase del primo comma di tale articolo autorizza una privazione di proprietà solo «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce agli Stati il diritto di regolamentare l’uso dei beni facendo entrare in vigore delle «leggi». Inoltre, la preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è inerente a tutti gli articoli della Convenzione. Ne consegue che la necessità di stabilire se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo può farsi sentire solo quando è risultato che l’ingerenza in questione ha rispettato il principio della legalità e non era arbitraria (par.136).

La Corte, constatato che il reato, rispetto al quale la confisca è stata inflitta ai ricorrenti, non aveva alcuna base legale ai sensi della Convenzione e che la sanzione era arbitraria, conclude con l’affermazione che l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni dei soggetti ricorrenti era arbitrario e che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (par. 137).

La Corte ritiene, infine, ad abundantiam, che la portata della confisca (85% di terreni non edificati), in assenza di un qualsiasi risarcimento, non si giustifichi rispetto allo scopo annunciato, ossia mettere i lotti interessati in una situazione di conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche. Secondo la Corte europea sarebbe stato ampiamente sufficiente demolire le opere incompatibili con le disposizioni pertinenti e dichiarare inefficace il progetto di lottizzazione (par. 140).

* * *

4) Considerazioni critiche.

4.1.) La Corte europea nella motivazione della decisione in commento ha ammesso, rispetto alla sanzione della confisca dell’intera area ricompresa nel piano di lottizzazione, la possibilità di comminare la demolizione delle opere edilizie realizzate, ritenuta più limitata e adeguata.

Non sfugge che l’affermazione si pone in aperta contraddizione con la tesi di fondo accolta dalla Corte, non appena si osservi che anche il reato di costruzione abusiva, e la sanzione demolitoria che ne consegue, devono nella specie ritenersi, alla stessa stregua del reato di lottizzazione abusiva, sforniti di base legale e/o viziati da arbitrarietà per difetto dell’elemento psicologico del reato.

Tale contraddizione non è di poco conto e l’affermazione della Corte europea da cui trae origine non può essere trattata come un semplice ed innocuo obiter dictum.

Essa, al contrario, è idonea a produrre effetti esiziali sulla quantificazione del danno risarcibile.

Difatti, la ammessa possibilità di demolizione dei manufatti realizzati potrebbe costituire un primo tassello per fornire linfa alla tesi dell’irrisarcibilità dei costi di costruzione sopportati dai proprietari, e, di conseguenza, limitare la commisurazione del risarcimento del danno esclusivamente alla privazione delle aree confiscate, con esclusione del soprassuolo. E’ noto infatti il principio generale che un manufatto realizzato abusivamente non può costituire oggetto di indennizzo in caso di esproprio del suolo su cui insiste (ex multis cfr. Cass. civ., Sez. I, 23/04/2004, n.7758).

4.2) La rilevata contraddizione, oltre ad essere negativa in sé, rivela che la Corte europea non ha condotto alle estreme e necessarie conseguenze il suo ragionamento sulla arbitrarietà della sanzione della confisca, applicata in assenza di un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato.

Allo stesso modo detta arbitrarietà non può non estendersi alla sanzione della demolizione delle opere edilizie realizzate in buona fede, in conformità della concessione edilizia, a sua volta rilasciata in conformità del piano di lottizzazione approvato dal Comune e ritenuto illegittimo e illecito dalla Cassazione penale, ma non addebitabile alla responsabilità degli imputati.

Si aggiunga che l’ordinamento italiano aggancia espressamente il potere-dovere del Giudice penale di ordinare la demolizione del manufatto ad una sentenza di condanna per il reato di costruzione abusiva (art.31, comma 9° d.p.r. n. 380/2001, rinveniente dall’art. 7, comma 9° della L. n. 47/85). Proprio la condanna che nel caso in esame è mancata.

Sorge spontanea una domanda: se è vero che ai sensi dell’art. 7 CEDU il reato imprevedibile non può costituire base legale per la privazione della proprietà, la demolizione non è anch’essa una forma di privazione della proprietà, riferita al manufatto? Se così è non sembra peregrina la tesi che nel caso in esame consideri illegittima e risarcibile la sanzione della demolizione, sia pure astrattamente ipotizzata dalla Corte.

5) Profili di incostituzionalità dell’art.44,comma 2°del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 (T.U. dell’Edilizia).

In sostanza la condanna dello Stato italiano a risarcire i danni alle parti, subiti per la confisca decretata dalla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 19 della legge n. 47/1985 (trasfuso nell’art. 44, comma 2° del dpr 06.06.2001, n. 380 -T.U. dell’Edilizia) ed in virtù di una interpretazione estensiva che non trova base nella lettera della norma, pone il legittimo interrogativo sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 -T.U. dell’Edilizia, in relazione all'art. 7 CEDU, nonché all'art. 117, primo comma, della Costituzione, secondo l’interpretazione recente della Corte Costituzionale. Con sentenza 22.10.2007, n. 348 il Giudice delle leggi, in applicazione del citato art. 117, primo comma Cost., come sostituito dalla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha ritenuto le norme CEDU, nell’interpretazione ad esse data dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sopraordinate alle leggi ordinarie, quali norme di rango intermedio rispetto a quelle costituzionali. Tali norme, pertanto, divengono anche esse parametri di riferimento per valutare la legittimità costituzionale delle leggi ordinarie.

La disposizione censurata, nella parte in cui impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite, anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti, violerebbe il principio di cui all’art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte europea, che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato, e, conseguentemente, il citato art. 44, comma 2° sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto in contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost.

Stando così le cose non appare azzardato immaginare che il Giudice penale dovrà prendere atto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in subiecta materia e sollevare, quanto prima, adeguata questione di costituzionalità dell’art. 44, comma 2° d.p.r. 06.06.2001, n. 380 sotto i profili dianzi illustrati.

Sul punto è interessante segnalare che la Corte di appello di Bari, prima sezione penale, con ordinanza del 9 aprile 2008 (Reg. ord. n. 272 del 2008, pubblicata su G.U. del 10.09.2008, n.38), ha sollevato la riferita questione di legittimità costituzionale sul presupposto che “la lettera dell'art. 44, comma 2, del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 autorizza con carattere univoco l'interpretazione secondo cui la confisca dei terreni e degli immobili abusivamente realizzati debba essere pronunciata dal giudice penale quante volte questi abbia accertato il ricorrere di una lottizzazione abusiva e che ciò debba fare anche in ipotesi di proscioglimento degli imputati con formula diversa da quella il fatto non sussiste e persino per beni appartenenti a persone estranee all’accertamento penale (cfr. Cass. Sez. III, 07.07.2004, Lazzara, in C.E.D. Cass., Rv 229608, 9 e 10 (1))”.

E’ alquanto strano, tuttavia, che l’ordinanza in questione, pur conscia delle implicazioni negative in punto di costituzionalità della norma interna sospettata di contrasto con l’art. 7 CEDU, non abbia sollevato la questione di costituzionalità in asserita violazione dell’art. 117 Costituzione, ma limitatamente ai profili di asserito contrasto con gli artt. 3, 25, comma 2°, 27, comma 1°, della Costituzione.

Più di recente anche la Corte di cassazione, terza sezione penale, è intervenuta in argomento con l’interessante sentenza 17.11.2008, n. 42741 (pubblicata sulla rivista elettronica: www.lexambiente.it) che supera ogni ipotesi di incostituzionalità della norma interna sospettata, sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’art. 44, comma 2° Testo Unico dell’Edilizia, secondo cui deve escludersi “..dall’ambito di operatività della norma la possibilità di confiscare beni appartenenti a soggetti estranei alla commissione del reato e dei quali sia stata accertata la buona fede”.

In conclusione, la stessa Corte di cassazione, terza sezione penale, ha dimostrato, attraverso la sentenza testè citata, che la confisca dei suoli della lottizzazione “Punta Perotti” non era affatto inevitabile in un’ottica interpretativa costituzionalmente orientata, anche in relazione alla corretta interpretazione dell’art. 7 CEDU e dell’art. 1 del Protocollo n. 1.


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