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n. 6/2005 - ©
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FEDERICO GUALANDI*
Le innovazioni introdotte dalla l. n. 80/2005 alla legge 241/1990: appunti di prima lettura.
Una riforma contraddittoria, che pare tradire il suo “spirito” (semplificare ed aumentare la competitività).
Non solo.
In nome della semplificazione si sacrifica la partecipazione e la fase istruttoria, che la L. 15/2005 aveva inteso valorizzare, anche a scapito della accelerazione (art. 10 bis).
Ne esce l’idea di una PA alquanto deresponsabilizzata, ma non per questo meno responsabile, come si dirà.
La dottrina, unanime, esprime critiche severe (SANDULLI, SAITTA, FORLENZA) e rilievi più pacati, che però mettono in luce la sostanziale inutilità (in presenza di così corpose eccezione) della modifica normativa.
C’è chi parla – dopo la non felice prova della L. n. 15/2005 - di Legislatore che è “tornato sul luogo del delitto”.
In dottrina (M.A. SANDULLI) si è da tempo evidenziato come il “silenzio” sia pericoloso per i controinteressati (i cui interessi, viceversa, dovrebbero essere tutelati dall’ Amministrazione silente), ma anche poco apprezzato dagli interessati (si veda l’esempio del condono edilizio e della DIA in edilizia, che il Consiglio di Stato ha voluto “facoltativa”). D’altronde, saggiamente, nel noto parere n. 7/1987 (sul disegno di legge che avrebbe condotto alla L. n. 241/1990), il Consiglio di Stato aveva rilevato come DIA e silenzio-assenso si attagliassero a provvedimenti sostanzialmente privi di discrezionalità e che, tendenzialmente, non incidono su diritti di terzi controinteressati. In effetti, come la stessa Corte Costituzionale ha più volte sottolineato (annullando ipotesi di approvazione di strumenti urbanistici in via “silenziosa”), con il silenzio non si amministra.
Ci si può allora chiedere se DIA e silenzio assenso possano considerarsi strumenti “facoltativi”.
Parrebbe di no: il Legislatore si esprime all’ indicativo presente (“ogni atto di assenso ….è sostituito”; “il silenzio dell’ amministrazione ….equivale a provvedimento di accoglimento”), indicando cioè come doveroso l’utilizzo degli istituti.
Come si è accennato, non pare poi che la trasformazione del ruolo della PA si traduca in una sorta di esenzione e/o diminuzione di responsabilità, se si considera tutto il filone giurisprudenziale relativo alla responsabilità per mancato o scorretto esercizio dei poteri di vigilanza e di controllo (cfr., Cass. Sez. Unite, 02.05.2003 n. 6719).
ARTICOLO 2.
Il termine, salvo che non sia diversamente previsto, diviene di novanta giorni.
Per le Amministrazioni statali, viene determinato con un DPR su proposta del Ministro competente, di concerto con la Funzione Pubblica.
Gli altri Enti pubblici nazionali lo stabiliscono “secondo i propri ordinamenti”, tenendo conto che detto termine deve risultare “sostenibile”, in ragione dell’ organizzazione amministrativa e della natura degli interessi pubblici tutelati.
“Sostenibile” pare un’espressione polisensa: sostenibile nel senso di concretamente idoneo ad essere rispettato dalle PA, ma anche “sostenibile” (id est: giustificabile) nei confronti del privato interessato.
La determinazione dei nuovi termini deve intervenire entro 180 gg. dall’entrata in vigore della norma (termine che ritengo non perentorio); nell’ attesa, restano in vigore le disposizioni previgenti.
Il termine di novanta giorni pare però diventare un termine massimo, per i procedimenti in genere, se si considera che decorsi 90 gg. scatta il silenzio assenso nei procedimenti ad istanza di parte e che analogo termine (90 gg.) è quello che la stessa Legge prevede (art. 14 ter) per la conclusione dei lavori della Conferenza di servizi, su procedimenti anche molto complessi.
Viene però introdotta la possibilità di sospensione per acquisire valutazioni tecniche o per acquisire informazioni o certificazioni.
Per le valutazioni tecniche c’è un chiaro contrasto con quanto dispone il successivo art. 17.
Infatti, ai sensi del 4° comma dell’ art. 2, decorsi 90 giorni, il termine per la conclusione riprende a decorrere. Nell’ art. 17 si prevede il noto meccanismo sostitutivo.
E’ significativa anche l’assenza di deroga a favore delle amministrazioni portatrici di interessi “sensibili”(tutela ambientale, paesaggistico territoriale, salute dei cittadini).
Mentre per le valutazioni tecniche la sospensione pare “necessaria”, per l’acquisizione di “informazioni e certificazioni”, la sospensione è chiaramente “facoltativa” ed è possibile per una sola volta.
Se i documenti non arrivano entro trenta giorni, si indice la Conferenza di servizi (art. 14, 2° comma).
Si incide anche sul silenzio, dato che il giudice può conoscere della fondatezza dell’ istanza (ma allora sarebbe stato necessario ridisegnare il “rito giudiziale” del silenzio, dato che i tempi sono troppo stretti, ed inadatto lo strumento della sentenza succintamente motivata: SAITTA).
Si consideri che – per giurisprudenza costante – il “rito del silenzio” non può essere convertito nel “rito ordinario”.
Poi, che cosa significa che il Giudice “può” decidere sulla fondatezza dell’ istanza? Probabilmente si deve interpretare come possibilità che il Giudice ha solo in presenza di atti di natura “vincolata” (ad esempio, se il terzo denuncia un abuso edilizio). In questo senso – forse inconsapevolmente - il Legislatore ha qui risolto un problema, che era quello della (inefficace) “tutela del terzo”, soprattutto a fronte di attività iniziate con DIA.
Ancora, il rito del silenzio vale solo per gli interessi legittimi (come ha affermato univocamente fino ad ora la giurisprudenza) o anche in materia di diritti soggettivi?
Probabilmente tale limite continua a sussistere, anche in considerazione del fondamentale insegnamento della Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 204/2004 8il Giudice dei “diritti” e – di norma – il Giudice Ordinario).
ARTICOLO 18
Si dice che documenti che attestano “atti, fatti, qualità”, ma anche “stati soggettivi” necessari per l’istruttoria del procedimento, sono acquisiti d’ufficio se in possesso dell’ Amm. ne procedente o se “detenuti istituzionalmente” da altre P.A.
Non si comprende bene cosa significhi “stati soggettivi”, ma il riferimento è, presumibilmente a quanto disposto dall’ art. 46 del DPR 445/2000.
Non pare più necessaria la “previa dichiarazione” dell’ interessato (che peraltro, sembra ineliminabile sotto il profilo logico e pratico, dato che la PA altrimenti non può essere omnisciente), ma si dice semplicemente che “la PA procedente può richiedere agli interessati i soli elementi necessari per la ricerca dei documenti”.
ARTICOLO 19
Meglio parlare di “denuncia di futuro inizio attività” (DeFIA).
Si crea uno strano “ircocervo” (SANDULLI), cioè un atto che nasce privato e si tramuta in pubblico, per essere annullato o revocato come un normale provvedimento.
Il Legislatore lo guarda non con totale favore, perché anziché ampliarne l’operatività ne aumenta i limiti: ai limiti o contingenti complessivi si aggiunge la presenza di specifici strumenti di programmazione settoriale e viene poi esclusa la DIA per gli atti rilasciati dalle PA preposte alla difesa nazionale, all’immigrazione, all’ amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, alla tutela della salute, della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesistico (ma non erano stati accorpati nella nozione di “bene culturale” dal D. Lgs. n. 42/2004??) e dell’ ambiente e per gli atti imposti dalla normativa comunitaria.
Però, contemporaneamente si estende alle concessioni traslative[1] (?), ed alle domande per l’iscrizione in albi o ruoli, richiesta per l’esercizio di un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale[2].
In altri termini, il Legislatore fa – come al solito – una scelta a metà: liberalizza, ma poi….si pente.
Restano i limiti generali dell’ istituto, ma viene estesa la possibilità di applicare l’articolo anche ad attività disciplinate da “atti amministrativi generali”.
Cade, poi, la esplicita esclusione della materia edilizia, ma si ritiene che la norma “speciale” continua a prevalere (MARTORANO).
La DIA continua a non essere possibile laddove vi siano settori contingentati (es. installazione impianti pubblicitari, apertura di edicole, farmacie, tec…)
* * *
Si prevede, come è noto, una doppia comunicazione, anche “se la ragione di questo doppio rapporto informativo resta qualcosa di oscuro” (DI NITTO).
La dichiarazione deve essere corredata da “anche per mezzo di autocertificazioni, delle certificazioni e delle attestazioni normativamente richieste”. Ciò comporta un ulteriore onere di verifica di dette autocertificazioni con le modalità di cui al DPR 445/2000 (art. 71).
In caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, si risponde (salvo reato più grave) della violazione dell’ art. 483 c.p. e – come noto - il DPR 445/2000 prevede che l’interessato “decade” (automaticamente) da tutti i benefici che ha conseguito (si pensi, ad esempio, all’iscrizione ad un albo o registro).
Inoltre, la presenza di dichiarazioni mendaci o false attestazioni impedisce altresì che si possa procedere alla “conformazione” dell’ attività.
Un importante questione è quella se la PA possa intervenire subito, per inibire l’attività o debba, viceversa, attendere la scadenza dei 30 giorni. Si ritiene che – anche in ossequio al principio di economicità - si possa, senza dubbio, procedere immediatamente, se non sussistono i presupposti (così anche FORLENZA).
Dalla comunicazione di inizio dell’ attività, decorre il termine (perentorio) per adottare “motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’ attività o di rimozione degli effetti” (fatta salva la possibilità del privato di conformare la propria attività entro un termine fissato dall’ Amministrazione entro un termine non inferiore a trenta giorni[3]).
Ci si potrebbe chiedere se questo motivato provvedimento debba essere preceduto dal preavviso di cui all’ art. 10 bis (come pare ritenere parte della dottrina: CACCIAVILLANI), ma non pare che tale previsione sia compatibile con la disciplina “ad hoc”, compiuta e speciale, dettata dall’ art. 19.
Il termine per adottare “motivati provvedimenti” resta sospeso nei casi in cui la legge (e gli atti amministrativi generali?) preveda la acquisizione di un “parere” di un organo o di enti appositi e fino all’ acquisizione di detto parere, ma con il termine massimo di trenta giorni, decorso il quale, la PA adotta i propri provvedimenti indipendentemente dal parere.
La sospensione del termine va comunicata all’ interessato (trattandosi di provvedimento negativo, va applicato l’ art. 10 bis? Anche in questo caso la risposta pare negativa, stante la natura latu sensu “cautelare” di detta sospensione).
Ci si può invece chiedere cosa si verifichi se manca la “comunicazione di inizio dell’ attività”.
La risposta dipende molto dalla natura giuridica che si assegna all’ istituto (atto oggettivamente e soggettivamente privato, ovvero sorta di silenzio assenso che si forma con un provvedimento anomalo e accelerato).
Dato che la seconda ricostruzione appare meno “elegante”, ma sicuramente più aderente al dettato normativo, si deve ritenere che, in assenza della comunicazione, il silenzio assenso non si formi, e l’Amministrazione resti libera di adottare i provvedimenti inibitori e/o repressivi senza il limite dei trenta giorni di cui si è detto sopra.
Il comma 4° dell’ art. 19 fa salve le norme vigenti che prevedono termini diversi per l’inizio dell’ attività e per l’adozione dei provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’ attività e di rimozione degli effetti.
In effetti, questa previsione parrebbe “fare” salve le norme “speciali”, risolvendo così la non facile questione che avrebbe posto la necessità di armonizzare dette norme “speciali” (si pensi alle varie Leggi regionali che disciplinano la DIA in edilizia o in altri settori) alla nuova configurazione dell’istituto.
Da ultimo, la giurisdizione viene affidata al Giudice amministrativo, con una giurisdizione di tipo “esclusivo”. Nella relazione del Governo, si evidenzia che ciò si verifica “stante la commistione di diritti soggettivi e interessi legittimi”.
Va però ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004 ha affermato di non condividere tale ricostruzione, soprattutto nelle ipotesi in cui siamo di fronte a veri e propri “diritti soggettivi”, come potrebbero essere quelli dei terzi “controinteressati”.
E’ indubbio che, peraltro, dopo tali norme sulla giurisdizione, sui poteri di autotutela e dopo l’art. 21 2°comma bis (che parla di atti di assenso da parte della PA) diventa “pura accademia” discutere sulla natura della DIA (“diritto soggettivo a regime amministrativo” secondo la felice espressione di BOSCOLO), che pare ormai – sostanzialmente – un “silenzio assenso” che si forma all’esito di un procedimento anomalo e accelerato.
Infatti, parlando di autotutela, non si parla di autotutela in genere, ma si citano espressamente gli articoli su annullamento e revoca.
Si deve perciò ritenere che anche per queste ipotesi valga ora il requisito dell’ intervento “entro un termine ragionevole”, il che porterebbe ad escluder la possibilità di annullare DIA a distanza di anni.
A parere dello scrivente, in analogia con quanto dispone l’art. 2, si può ritenere che un termine “ragionevole” sia quello di un anno (se dopo un anno il privato deve ripresentare l’istanza, appare “ragionevole” che anche l’Amministrazione consumi il potere di autotutela).
E’ poi singolare che si sia richiamata la “revoca” che non si riferisce ad atti vincolati (fattispecie a cui implicitamente fa riferimento la disciplina della DIA). E’ indubbio che si tratta di fattispecie assai diversa dall’ annullamento d’ufficio, e che comporterà indubbiamente l’obbligo di indennizzo, dato che si va ad incidere su di una DIA perfettamente legittima, ma “revocata” per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento della situazione di fatto, o nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario.
Conclusivamente, si può affermare che dopo la modifica dell’ art. 19 siamo di fronte ad un procedimento trifasico, che si articola sui seguenti “passaggi”: a) dichiarazione dell’interessato e decorso dei primo 30 gg, nel corso dei quali si può avere un controllo “eventuale” della PA, che può condurre a provvedimenti inibitori e che impediscono l’inizio dell’ attività stessa; b) comunicazione di avvio dell’ attività e controllo (che deve ritenersi) “necessario” da parte della PA circa la sussistenza delle condizioni, modalità e fatti legittimanti e che può condurre ai provvedimenti motivati di cui si è detto; c) decorso di ulteriori trenta giorni senza che la PA sia intervenuta e “consolidamento” della dichiarazione che – da atto privato - si trasforma in una sorta di “provvedimento” assentito per via silenziosa. Da tale momento in poi, la PA può solo intervenire nell’esercizio del potere di autotutela, con provvedimenti “di secondo grado” (revoca o annullamento).
Si è ben coscienti che si tratta di una ricostruzione che lascia quantomeno perplessi sotto il profilo teorico, ma non pare che la vicenda possa essere altrimenti ricostruita.
* * *
Circa l’ambito di operatività (applicabilità a Regioni ed Enti Locali), secondo la dottrina (SANDULLI), la norma è riconducibile alle “garanzie del cittadino nei confronti dell’ azione amministrativa” e, pertanto (art. 29), vincolerebbe anche Regioni ed Enti Locali.
Per altri (MARTORANO) le norme sono “cedevoli”, nel senso che si applicano fino a quando tali Enti non abbiano adottato proprie previsioni normative, peraltro rispettose dei principi sopraindicati.
Vi è poi una tesi ancora più rigorosa (FORLENZA), che trova avallo nella giurisprudenza, che aveva escluso la diretta applicabilità del “vecchio” art. 19 alle Regioni, quantomeno fino a che le stesse non avessero disciplinato la materia (Cons. di Stato, sez. IV, n. 200/1997 e TAR Friuli – Venezia Giulia, 815/1998).
E’ indubbio che si è creata una “ennesima area di incertezza del diritto” (SANDULLI).
Non vi è dubbio, invece, che il 5°comma si applichi in modo generalizzato (Giurisdizione esclusiva).
ARTICOLO 20
L’ istituto del silenzio assenso viene generalizzato, per i procedimenti ad istanza di parte, fatta salva l’applicazione dell’ art. 19 e le esclusioni di cui si dirà.
Resta – ovviamente – salvo il potere di agire in via di autotutela, sull’ assenso illegittimamente formatosi.
La PA ha due possibilità per evitare che si formi il silenzio assenso: a) comunicare il diniego espresso (entro il termine e previa applicazione dell’ art. 10 bis!); b) indire una conferenza di servizi entro trenta giorni (anche se il termine di conclusione è più lungo).
Ciò dovrà fare anche per tenere conto “delle situazioni giuridico – soggettive” dei controinteressati.
Questo “criptico” richiamo ai controinteressati, porta a ritenere che sia fondamentale – anche in questa ipotesi – l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, nei confronti dei controinteressati (ciò dei soggetti che potrebbero ricevere un “pregiudizio” dall’emanazione dell’ atto), per consentire loro di interloquire.
Se essi intervengono e esprimono un “dissenso”, si dovrà applicare, per analogia, quanto dispone l’art. 14, 2° comma (dissenso di una Amministrazione interpellata), e ritenere che la conferenza di servizi divenga il “modulo tipico” per decidere.
Ci si deve chiedere poi se entro il termine previsto per la conclusione del procedimento debba anche essere comunicato il diniego ovvero basti la semplice adozione.
Il Legislatore non lo precisa, ma secondo alcuni Autori, entro tale termine, si dovrebbe effettuare anche la comunicazione, per evitare comportamenti dilatori da parte delle PA (PITTALUNGA).
Anche per l’art. 20 valgono le esclusioni solite, a cui si aggiungono i casi in cui la legge prevede che il silenzio equivalga a rigetto dell’ istanza e i casi in cui la normativa comunitaria richiede l’adozione di provvedimenti amministrativi formali.
Si prevede poi uno o più DPCM, che individuino gli atti e procedimenti esclusi (però, stante il nuovo riparto di competenze Costituzionali, si ritiene che tali decreti non possano incidere su materie di competenza regionale, neanche “concorrente”).
Per i procedimenti già in corso si prevede che le nuove previsioni non si applicano, salvo la possibilità di ripresentare l’istanza per fruire delle nuove disposizioni.
Per le istanze presentate entro 180 gg. dall’entrate in vigore, c’è una sorta di “rodaggio” del nuovo sistema. Si intendono accolte se nel termine di 180 gg. (o nel diverso termine previsto) non viene comunicato il diniego. Qui non si prevede la possibilità di ricorso alla conferenza di servizi, ma si ritiene che sia certamente possibile.
ARTICOLO 21
Si prevede semplicemente che le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni restano ferme, anche se si è dato inizio all’ attività ai sensi dell’ art. 19 e 20.
Rimane – come si è detto – la preclusione alla “conformazione” dell’ attività in caso di false attestazioni o dichiarazioni mendaci.
Anche questa precisazione pare la definitiva morte della cd. “liberalizzazione” dato che si fa espresso riferimento ad “atti di assenso” della PA 8sia pure sostituiti nel modo in cui si è detto).
ARTICOLO 25
Si precisa – probabilmente inutilmente - che le controversie in materia di accesso sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo.
(*) Dottore di ricerca in diritto pubblico. Avvocato in Bologna e Modena.
[1] Si tratta, ovviamente, di quelle che risultano vincolate e non discrezionali (FORLENZA).
[2] In realtà, ciò che viene sostituito non è la domanda, ma il provvedimento che dispone l’iscrizione.
[3] Previsione che in alcuni casi potrebbe produrre conseguenze assurde. Si pensi ad un’ attività limitata nel tempo, e che – stante il termine minimo di trenta giorni per “mettersi in regola” - potrebbe concludersi prima.