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Articoli e note

n. 7-8/2005 - © copyright

GIOVANNI GRASSO
(Magistrato amministrativo
TAR Campania - Salerno)

Spunti di riflessione sull’art. 21 octies, 2° comma l. n. 241/90

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Il secondo comma dell’art. 21 octies della l. n. 241/90, introdotto dalla l. n. 15/2005, ha fin da subito suscitato notevoli discussioni e qualche preoccupazione: la dequotazione dei vizi formali, la sanabilità delle violazioni del contraddittorio procedimentale, la difficoltà del giudizio prognostico circa l’esito decisionale conforme affidato al giudice amministrativo e legato ad una singolare inversione dell’onere probatorio (con il rischio di prospettare una anomala forma di giurisdizione estesa al merito solo in correlazione al vizio di omessa e/o irrituale partecipazione di avvio del procedimento) rappresentano alcuni dei punti di maggior interesse. Forti sono anche le perplessità di chi si è spinto fino a dubitare – per plurimi e concorrenti rispetti – della legittimità costituzionale della norma.

Le considerazioni che seguono mirano solo – in estrema sintesi e per punti, senza richiami di dottrina e giurisprudenza – ad un tentativo di lettura razionalizzante.

1)     Va premesso che si tratta, al di là delle apparenze, di norma processuale e non sostanziale: con evidente anfibologia, l’annullabilità di cui si parla (al preordinato fine di escluderla per i due casi presi in considerazione dalla disposizione normativa) è – a differenza del primo comma – non la qualificazione di una patologia del provvedimento amministrativo in quanto contra legem (oggi generaliter contrapposta alla nullità), sibbene (in termini dinamici e non statici) l’esito processuale ordinariamente caducatorio del positivo accertamento giudiziale dei denunziati vizi di illegittimità (art. 45 T.U. Cons. Stato e art. 26 legge T.A.R., in relazione al contenuto delle sentenze). Il che è – a tacer d’altro – reso subito evidente da ciò, che l’accertamento della impossibilità che, in termini palesi, il contenuto dispositivo del provvedimento potesse essere diverso da quello in concreto adottato (che rappresenta il presupposto per escludere l’annullamento anche all’esito del riscontro dei denunziati vizi formali) è operato dal giudice nel primo caso e – come espressamente, ed in modo solo apparentemente ovvio, dice la seconda parte della disposizione – “in giudizio” (si tratta, cioè, rispettivamente di una sanatoria ope judicis e di una sanatoria in jure). Ne discende, tra l’altro, – come la giurisprudenza ha, del resto, subito mostrato di ritenere – l’immediata applicabilità della disposizione ai processi in corso (per esempio, con riferimento alla denunzia di difettosa attivazione del contraddittorio procedimentale olim certamente contra legem e tuttavia apprezzabile, in prospettiva sanante, nei limiti del giudizio di influenza di cui parla la nuova disposizione).

2)     Ciò posto, tutti i commentatori hanno colto ed evidenziato la differenza tra la prima e la seconda parte del comma in questione: sulla ovvia premessa che la mancata comunicazione costituisce violazione di “norma sul procedimento” come tale ex se rientrante nella prima parte della norma, la sua autonoma presa in considerazione nel secondo comma (se non vuol risolversi in una inaccettabile e vuota ripetizione, preclusa non meno che dal comune ed elementare canone ermeneutica che dall’uso del significativo avverbio “comunque”) si riconnette, a prima lettura, a tre differenze testuali:

a) in questa ipotesi (cioè, appunto, nella sanatoria dei vizi della partecipazione) è l’Amministrazione che deve “dimostrare in giudizio” (con quella che sembra – ma non è detto che sia, come dirò subito – una sorta di inversione dell’onere probatorio, ordinariamente gravante, pur con l’attenuazione della regola acquisitiva, sul ricorrente) l’inconfigurabilità di esiti decisori concretamente alternativi (e, per tal via, la sostanziale inutilità della partecipazione), mentre, nell’ipotesi generale, il giudice potrebbe effettuare tali valutazioni in via officiosa ed autonoma, indipendentemente dal dispiegarsi dell’attività defensionale o (come, per le ragioni che dirò, si dovrebbe meglio dire), “integrativa” dell’Amministrazione (sanatoria, appunto, in jure, ma non ope judicis, a differenza della prima parte);

b) non opera, nel caso in esame, il limite (invero, non poco evanescente) della “evidenza” (l’ictus oculi evocato dall’aggettivo “palese”, che del resto è di chiara derivazione germanica);

c) non opera qui , quanto all’ambito applicativo, il limite della “natura vincolata” del provvedimento (con il che – come mi sembra si sostenga, non senza qualche preoccupazione, da tutti i primi commentatori – la sanatoria potrebbe operare anche per l’attività discrezionale dell’Amministrazione).

3)     Mi pare che le tre “differenze” vadano apprezzate in termini non alternativi, ma concorrenti: infatti, solo quando il sindacato giudiziale si esercita su attività vincolata (in cui, per definizione, non esiste, per usare la consueta ma espressiva concettuologia, apprezzamento e/o bilanciamento di confliggenti interessi, che evoca una sfera “riservata” di potere, ma solo accertamento dei presupposti fattuali per l’adozione del provvedimento) la pienezza dell’accesso al fatto (garantita dalla generalizzata previsione del ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio) può consentire al giudice – sulla base del solo ricorso e del confronto con il provvedimento e senza sovrapporsi al potere amministrativo – di ritenere concretamente ininfluenti i denunziati vizi formali, anche quando, in tesi, l’Amministrazione non solo non abbia adeguatamente “difeso” la sua decisione, ma neppure, nel caso estremo, si sia costituita in giudizio. Per contro, ove si trattasse di formulare lo stesso giudizio per l’attività discrezionale, il giudice (che non voglia farsi inopinatamente amministratore) non potrebbe mai respingere il ricorso se l’Amministrazione non dimostri o che l’interesse del privato, la cui formale partecipazione sia mancata, è stato adeguatamente preso in considerazione e ritenuto ininfluente o che, per esempio, non esiste un siffatto interesse che si potesse utilmente prendere in considerazione (il che, incidentalmente, postula – se non erro – due cose:

a) che, anzitutto, il privato (in conformità ad un orientamento già emerso in giurisprudenza anche nella vigenza della originaria l. n. 241) non si possa più limitare in infringendo a denunziare la mancata partecipazione dell’avvio del procedimento, ma debba, per dir così “sostanziare” la doglianza con l’esplitazione o evidenziazione dei fatti o, appunto, interessi che in concreto assuma pretermessi (pena l’inammissibilità del motivo di gravame;

b) che l’Amministrazione possa non solo, in una prospettiva minimale, difendere il proprio provvedimento, spiegando le ragioni della irrilevanza della mancata partecipazione, ma anche, di fatto, integrare l’attività amministrativa, esercitando una attività di convalida in jure che evidentemente non può più ritenersi preclusa).

4)     Ancora: solo per l’attività vincolata (e qui, anzi, ci sarebbe da chiedersi se il riferimento alla “natura vincolata” del provvedimento non vada o non possa, in realtà, più estensivamente intendersi riferito, appunto, all’”attività” e, per tal via, ai “profili” o “momenti” vincolati dell’attività: il che è, all’evidenza, un’altra cosa) in cui la dequotazione del vizio formale, in prospettiva teleologicamente orientata, è rimessa alla autonoma iniziativa del giudice, ha senso invocare il limite della “evidenza” (chiaramente preordinato ad impedire troppo agevoli sanatorie delle violazioni del paradigma normativo di riferimento); limite – per contro – che non a caso non è previsto quando (come per l’ipotesi del difetto di contraddittorio) il giudice deve più semplicemente apprezzare l’utile apporto ad validandum offerto dall’Amministrazione, che abbia essenzialmente integrato la motivazione della propria decisione o anche ripetuto in jure la fase decisionale in senso confermativo.

5)     Ne dovrebbe discendere, se non erro: a) che l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, in caso di attività vincolata, rientra già nella prima parte della norma: di tal che (forse a dispetto di prime apparenze) anche se l’Amministrazione non si attivi per dimostrare l’inutilità della partecipazione e, per dire ancora del più significativo caso, neppure ritenga di costituirsi in giudizio, il giudice potrà comunque respingere la doglianza laddove risulti “palese” (per l’irrilevanza dei fatti dedotti ed eventualmente acquisiti in via istruttoria) l’inconferenza del potenziale apporto partecipativo del privato; b) che solo per l’attività discrezionale potrà operare (secondo le ridette modalità: a) puntuale denunzia “sostanziale” delle conseguenze della mancata partecipazione; b) apporto dimostrativo della loro irrilevanza ad opera dell’Amministrazione ovvero c) integrazione validitiva della contestata fase decisionale) la seconda parte della disposizione.

6)     Si può andare oltre. Anzitutto chiedendosi se, per avventura – come non si è mancato di ipotizzare – la seconda parte del 2° comma in esame non abbia di fatto introdotto una ipotesi di giurisdizione estesa al merito. Tenderei, tuttavia, a negarlo: qui il giudice non si sostituisce, mi pare, a valutazioni pur sempre rimesse all’Amministrazione (non lo fa – certo – quando l’attività è vincolata; ma non lo fa neppure quando, limitatamente all’omesso contraddittorio, l’attività assume connotato discrezionale: poiché qui, mi sembra, si tratta solo di consentire l’integrazione postuma della motivazione o, nei chiariti sensi, la convalida in corso di lite: con l’unica particolarità, direi, che l’esito decisorio non sarà, come in base ai principi, nel senso della improcedibilità del gravame, ma nel senso della sua reiezione nel merito: fermo restando la possibilità per il privato di utilizzare il ricorso per motivi aggiunti contro l’attività integrativa dell’Amministrazione, che non mi sembrerebbe – ancora con deviazione rispetto ai principi comuni – necessario ma solo, appunto, possibile).

7)     Ciò vale, direi, ad evitare alla norma – sulla quale già si addensano notevoli perplessità – una lettura troppo incisiva del fondamentale diritto di partecipazione procedimentale, al quale si riconnette, in fondo, valenza costituzionale ( arg. ex artt. 24 e 97 Cost.): in quanto da un lato (sotto il profilo processuale) si esclude che la cognizione del giudice si estenda, solo ed anormalmente per il profilo in esame, al merito, dall’altro (sotto il profilo sostanziale) si finisce per interpretare la vicenda nei sensi (certo non più eversivi) della (mera) convalida in corso di lite.

8)     Se così stanno le cose, però, il discorso implicato dall’art. 21 octies finisce per essere più generale (e si aggancia – in termini che, ovviamente, non c’è il tempo non dico per illustrare, ma neppure per evocare – ad altri discussi profili, come ai limiti della cognizione sul silenzio dell’Amministrazione ed al coordinamento tra tutela caducatoria, cui la norma ha esclusivo riferimento, e tutela risarcitoria e, in definitiva, alla sempre vexata quaestio – da ultimo emersa in relazione alla tematica del risarcimento in forma specifica e della sua distinzione dall’azione di esatto adempimento e dalla esecuzione in forma specifica – dell’oggetto del processo amministrativo). Per esempio, in ordine al giudizio sul silenzio, la proposta lettura potrebbe indurre a ritenere che l’impossibilità, per il giudice adito ex art. 21 bis l. n. 1034/1971, di andare al di là dell’accertamento dell’inadempiuto obbligo di provvedere, senza possibilità di accertare la fondatezza della pretesa anche in correlazione ad attività vincolata, trovi ormai esclusiva ragion d’essere (di ordine schiettamente processuale) nella particolare celerità del giudizio camerale prefigurato dalla richiamata disposizione normativa: di tal che – ove l’interessato preferisca non limitare la domanda all’accertamento, a cognizione sommaria/camerale, della pretesa formale, ma preferisca, a cognizione piena ed in pubblica udienza, invocare l’accertamento della pretesa sostanziale – non dovrebbe ritenersi precluso l’accesso al rito ordinario (come tutte le volte in cui – si pensi, mutatis mutandis, al procedimento civile monitorio – il legislatore predisponga, per l’accertamento giudiziale, due riti alternativi, di cui, appunto, uno a cognizione sommaria).

9)     In ogni caso (in disparte i profili evocati, meritevoli di ben altro approfondimento) si può dire che, legittimandosi de jure la convalida in corso di lite (che fa tutt’uno con l’impossibilità per il giudice di annullare per vizi meramente formali: sempre per l’attività vincolata; anche per l’attività discrezionale, ove il procedimento sia stato mutilato dell’apporto collaborativo dei privati interessati), ne dovrebbe discendere, in termini sintetici e, ovviamente, senza tentativi di argomentata dimostrazione che:

a) ove il giudice, in un primo ordine di casi, accerti – trattandosi di attività vincolata (o, si potrebbe forse aggiungere, a basso tasso di discrezionalità) – la fondatezza della pretesa del privato, il giudice dovrà annullare l’atto e condannare all’eventuale risarcimento del danno: qui la convalida è, ovviamente, impossibile, proprio perché la pretesa sostanziale è fondata (e – senza il vizio anche formale denunziato – il provvedimento avrebbe dovuto essere necessariamente diverso da quello concretamente adottato);

b) ove – sempre in caso di attività vincolata (o a basso tasso di discrezionalità) – la pretesa risulti infondata, il privato non avrà mai diritto al danno in quanto non ingiusto, l’annullamento non potrà mai essere pronunziato per vizi formali indipendentemente dall’iniziativa assunta dall’Amministrazione e neppure per vizi non formali in caso di convalida in corso di lite, salvi i motivi aggiunti;

c) ove l’attività amministrativa sia discrezionale, la questione è più complessa: anzitutto è dubbio che il giudice possa, pregiudizialmente, accertare la fondatezza della pretesa (anche ai soli fini della tutela risarcitoria: nonostante diffusi ed autorevoli orientamenti contrari, esistono solide ragioni che inducono a propendere per la negativa: per l’attività discrezionale [quella che, essenzialmente, fronteggia situazioni soggettive a contenuto pretensivo] il risarcimento del danno presuppone l’adozione del provvedimento anche in sede di ottemperanza e si atteggia, per tal via, in termini di danno da ritardo; mentre più impervia è la via della c.d. perdita di chances); il giudice non può non annullare l’atto, ove riscontri l’esistenza del vizio denunziato (che non attenga – dovrebbe, peraltro, dirsi – ad un “momento” o “profilo” vincolato della censurata attività), e non dovrebbe essere ammessa la convalida in corso di lite o l’integrazione postuma della motivazione (salva – qui, appunto, in tutta la sua evidenza e la sua concreta portata applicativa – l’ipotesi della mancata comunicazione di avvio del procedimento: nel che sta, in definitiva, il suo unico profilo di eccezionalità).

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Per riferimenti, v. la pagina di approfondimento.


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