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SALVATORE GIACCHETTI
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)

La riforma infinita del processo amministrativo (*)

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SOMMARIO: 1. - L'attesa messianica della riforma del processo amministrativo. - 2. - La necessità di un'integrazione della procedura giurisdizionale amministrativa. - 3. - L'insufficienza di un semplice rinvio alla procedura civile. - 4. - I limiti del disegno di legge in corso. 4.1. - la nomofilia; 4.2 - la proliferazione dei giudizi speciali; 4.3 - l'ingiunzione di pagamento, la cauzione e la provvisionale in sede cautelare; 4.4 - l'assemblaggio e lo scoordinamento delle norme; 4.5 - la perenzione ex lege dei ricorsi ultradecennali; 4.6 - le decisioni per ordinanza e in camera di consiglio; 4.7 - la concezione veteroprivatistica del risarcimento del danno. - 5. - Conclusioni: la necessità di nuovi interventi sulla base di un concorde contributo di tutti gli operatori del diritto.

 

1. - Il rituale legislativo di dieci-quindici anni fa prevedeva di frequente un'enunciazione di tipo messianico: e cioè l'enunciazione della «attesa». Erano molto frequenti disposizioni del tipo «In attesa della riforma del Servizio sanitario nazionale», «In attesa della riforma previdenziale», e simili.

Era una formula rituale in verità piuttosto strana, perché si risolveva in una sorta di raccomandazione che il Legislatore faceva a se stesso; ed in sostanza costituiva una dichiarazione con cui il Legislatore diceva: so bene che per un intervento legislativo nazionale e coerente dovrei rimodellare l'intero disegno legislativo della materia; ma ora non ho la possibilità o la voglia di farlo; e quindi mi riservo di farlo in futuro. E così tutti erano contenti.

La formula della «attesa» ritorna ora all'art. 15 del disegno di legge in corso (Atto Senato n. 2934; atto Camera n. 5956); è riferita formalmente solo al «riordino dell'ordinamento della giustizia amministrativa» come apparato magistratuale, ma in realtà interessa anche il riordino della procedura giurisdizionale amministrativa che il disegno di legge si limita a modificare parzialmente, lasciando intendere che si debba in futuro procedere ad una nuova sistemazione generale.

Di fronte ad un'operazione di questo genere c'è da porsi tre domande:

1) ma è proprio necessario riordinare la procedura amministrativa?

2) nel caso positivo, non è possibile attingere ad un sistema già bell'e pronto, come la procedura civile, considerato che i problemi di adeguamento sorgono essenzialmente dall'ampliamento dell'area della giurisdizione esclusiva?

3) nel caso sia necessaria una procedura ad hoc, quello prefigurato dal disegno di legge n. 2934 è un modello condivisibile?

 

2. - La prima domanda non è oziosa; per due considerazioni.

In primo luogo quello, in esame dovrebbe essere all'incirca il trentesimo disegno di legge in materia di riforma del processo amministrativo. Sembra quindi di assistere ad una sorta di accanimento legislativo a voler riformare il processo amministrativo, al dichiarato intento di conferirgli maggiore effettività, e ad una sorta di correlativo accanimento del processo amministrativo a non volersi fare riformare affatto: dal che potrebbe trarsi il convincimento che o il Legislatore, soggettivamente, non ha voglia di riformare quel processo o quel processo, oggettivamente, non è - almeno allo stato - riformabile. E la giustificazione di ciò potrebbe essere la considerazione che la procedura amministrativa costituisce una proiezione processuale della realtà sostanziale dell'Amministrazione; e con un'Amministrazione non stabilizzata ma addirittura in stato di rivoluzione permanente (basti pensare alle leggi Bassanini) non è tecnicamente possibile pensare ad una stabilizzazione della procedura.

In secondo luogo il disegno di legge si propone essenzialmente un'integrazione della procedura giurisdizionale amministrativa. Ma la procedura attuale ha finora assicurato abbastanza bene la qualità della giustizia nell'amministrazione; e con le modeste correzioni già ottenute dalla Corte costituzionale e con quelle che potrebbe ancora ragionevolmente ottenere, sembrerebbe in grado di continuare ad assicurarla. Sicché l'asserita caduta di effettività della giustizia amministrativa e la conseguente asserita necessità ed urgenza di riforma del processo sembrerebbero quanto meno eccessive.

La risposta a queste considerazioni deve essere articolata, tenendo presente che nel quadro generale del recupero dell'effettività occorre tener distinti il versante della qualità del servizio dal versante della tempestività.

Sul versante della qualità bisogna riconoscere che il servizio è complessivamente buono; e che quindi ora non ci sarebbe grande necessità di riforme se non fosse intervenuto il D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80 con il fatto nuovo dell'attribuzione di nuove aree di giurisdizione esclusiva, con attribuzione quindi della tutela anche di situazioni di diritto soggettivo, e del conseguente aprirsi di aree operative nuove in precedenza impensabili. Dico aree operative nuove perché vero è che la giurisdizione esclusiva esisteva anche prima, da oltre un settantennio; ma costituiva più che altro una curiosità. Questo perché i settori principali erano tre: il pubblico impiego, l'edilizia, ai sensi dell'art. 16 della legge Bucalossi 28 gennaio 1977 n. 10, e le concessioni, ai sensi dell'art. 5 della legge T.A.R.

Ora l'unico settore di giurisdizione anche su diritti era - in pratica - solo il primo, in cui peraltro, secondo un orientamento giurisprudenziale cristallizzato dall'Adunanza plenaria 25 del 1979, erano riconosciute e tutelate come diritti solo le situazioni soggettive ad immediato e diretto contenuto patrimoniale, e cioè quelle attinenti al trattamento economico: una goccia nel mare dei diritti. Nei settori dell'edilizia e delle concessioni l'attribuzione della giurisdizione esclusiva aveva semplicemente significato - di regola - omologare al regime degli interessi legittimi le situazioni soggettive interessate.

Il D.L.vo n. 80 del 1998 ha invece aperto al giudice amministrativo un orizzonte operativo realmente nuovo: perché gli ha attribuito controversie non solo anche tra privati, quali sono - di regola - i gestori di pubblici servizi, ma anche aperte a qualsiasi contenuto civile o commerciale; e questo rende attualmente necessario un riposizionamento del giudice amministrativo su procedure diverse, specie per quanto riguarda il regime probatorio, le misure cautelari, i procedimenti sommari, ecc. In questa nuova situazione, un riordino legislativo della procedura, pur se - ripeto - non indispensabile (data la duttilità della procedura amministrativa e la possibilità di interventi additivi della Corte costituzionale) può essere senz'altro utile.

Dove invece è drammaticamente necessario e urgente l'intervento del Legislatore è sul versante della tempestività.

L'innegabile caduta di effettività del processo amministrativo non dipende dall'inadeguatezza degli strumenti processuali; non dipende da un'inadeguatezza normativa superabile con altre norme tecnicamente più precise e più appropriate; dipende semplicemente dalla sproporzione tra quantità di cause che affluiscono ai T.A.R. e quantità di cause che possono esser umanamente definite, tenendo presente:

- che, come risulta dai lavori parlamentari dell'epoca, i T.A.R. erano stati istituiti per far fronte ad un numero di ricorsi preventivato in 15-16.000 l'anno mentre oggi viaggiamo verso i 100.000 ricorsi l'anno;

- che attualmente i T.A.R., impegnandosi al massimo, riescono appena a definire la metà dei ricorsi che vengono annualmente proposti;

- che solo per smaltire l'arretrato di circa 850.000 ricorsi che si è creato occorrerebbe l'impegno a tempo pieno dei T.A.R. per 19 anni;

- che in ordinamenti simili al nostro, come quello tedesco, un numero equivalente di ricorsi amministrativi è affrontato da un numero di magistrati quasi sei volte il nostro.

In sintesi, la giustizia amministrativa è in crisi di effettività perché, statistiche alla mano (1), c'è un magistrato dove ce ne vorrebbero almeno tre. Questa è matematica; non un'opinione. Sicché la guerra per l'effettività della giustizia amministrativa non la si può risolvere con norme di procedura, non la si può risolvere con missili più o meni intelligenti: occorrono le truppe di terra, e cioè i magistrati e le forze ausiliarie.

Perciò l'adeguamento dei loro organici al di là degli aumenti assolutamente insufficienti previsti dal disegno di legge (sessanta magistrati T.A.R. quando ce ne vorrebbero almeno seicento) è la precondizione di un qualsiasi discorso serio sull'effettività della giustizia amministrativa, tenendo anche conto che l'attribuzione delle nuove aree di giurisdizione esclusiva, e quindi di giurisdizione anche su diritti, comporta che il processo amministrativo debba perdere in parte qua la sua tradizionale natura di processo su documenti, che si possono anche studiare a casa, per diventare un processo su comportamenti, con conseguente eventuale necessità di compiere una serie di accertamenti di fatto spesso da compiere in udienza e che quindi allungheranno necessariamente i tempi processuali: sicché nelle nuove materie non potrà più accadere che il collegio in una sola udienza decida cento e più ricorsi come accade attualmente.

Mi rendo perfettamente conto che non è né politico né concretamente possibile triplicare subito gli organici. Ma se si vuole davvero che la giustizia funzioni occorre quanto meno programmare subito un congruo aumento da realizzare in un arco di tempo ragionevole.

Deve quindi essere ben chiaro che il problema di fondo della giustizia amministrativa non è il miglioramento della sua qualità (che attualmente è buona) ma il conseguimento della sua tempestività (che attualmente è inesistente, salvo che nella fase cautelare); e che il disegno di legge non risolve questo problema di fondo.

La risposta alla prima domanda è quindi positiva: in effetti occorre una riforma del sistema. Ma è positiva nei limiti suindicati.

 

3. - La risposta alla seconda domanda, relativa alla possibilità di utilizzare un prodotto già pronto e collaudato come il Codice di procedura civile, è più semplice. Vero è, infatti, che gli attuali problemi sorgono essenzialmente dalle nuove esigenze di dover giudicare a tutto campo in materia di diritti.

Ma questo da una parte non fa venir meno l'esigenza di dover continuare a giudicare degli interessi legittimi; e dall'altra non deve far dimenticare che si tratta di materie la cui privatizzazione è stata gattopardesca, secondo l'autorevole opinione di Cassese, e cioè di materie che sono state formalmente privatizzate ma che sostanzialmente sono rimaste come erano (con conseguente creazione, secondo la dottrina più accreditata, di un tertium genus intermedio tra il pubblico e il privato); materie quindi in cui il giudice amministrativo continua ad essere chiamato ad assicurare non solo la tutela soggettiva delle parti, ai sensi dell'art. 24, ma anche la tutela oggettiva della giustizia nell'Amministrazione, ai sensi del successivo art. 100 della Costituzione. Di conseguenza, attesa la specificità della tutela, continua l'esigenza di una specifica disciplina processuale.

 

4. - Passando infine all'esame dei singoli articoli del disegno di legge molte sarebbero le osservazioni da fare. Le principali sono le seguenti.

4.1. - In primo luogo si avverte una certa nomofilia, che percorre trasversalmente tutto il disegno di legge e tende ad esprimersi attraverso due vie, altrettanto deleterie: i precetti senza sanzione e i precetti senza ragione.

Come precetti senza sanzione abbiamo - ad esempio - l'art. 1 comma 1 che per quasi mezza pagina dello stampato disciplina termini e oggetto del dovere di deposito dei documenti sia da parte del ricorrente sia da parte dell'Amministrazione. Dall'affermazione di questi doveri un lettore ingenuo sarebbe portato a concludere che la loro violazione comporti una qualche decadenza o comunque una qualche conseguenza. Ed invece no. Se questi doveri non vengono adempiuti alle necessarie acquisizioni documentali può provvedere il giudice d'ufficio, senza nessuna conseguenza per gli inadempienti. Ma allora la previsione dei «doveri» a che serve?

Come precetti senza ragione abbiamo - ad esempio - l'art. 1 comma 3 secondo cui la parte che ha necessità di copia conforme dei documenti e degli atti prodotti ha diritto al loro rilascio solo nel caso «di appello con richiesta di sospensione della sentenza impugnata ovvero di impugnazione del provvedimento cautelare». Ora quale motivo c'è di restringere solo a questi casi una facoltà che attualmente l'interessato può esercitare senza alcun limite?

Oltre tutto il comma viene a creare un circolo vizioso perché prevede da una parte che l'interessato ha solo il diritto al ritiro degli originali dopo il passaggio in giudicato ed il diritto al rilascio di copie nel caso citato di giudizio cautelare in corso e dall'altra che il tribunale ha solo la facoltà di autorizzare la sostituzione degli originali con copie conformi.

La conseguenza apparente di ciò è che l'interessato, se ha depositato i documenti in originale senza farsene prima una copia e non c'è un'impugnazione cautelare in corso, da una parte non può ritirare gli originali (perché ancora non c'è il giudicato) e dall'altra non può sostituire gli originali con una copia conforme (perché il tribunale né può autorizzare la sostituzione degli originali con le copie conformi dal momento che per far questo l'interessato dovrebbe prima ritirare gli originali, cosa che non può fare in corso di giudizio, né può rilasciare copia conforme, perché non pende l'impugnazione cautelare). E' il classico serpente che si morde la coda.

Ulteriore effetto di questo orientamento nomofiliaco è una sorta di burocratizzazione del processo.

Sappiamo tutti che sino alla legge n. 241 del 1990 l'azione amministrativa è stata priva di un quadro generale di riferimento; e che tuttora, a fronte di una procedura civile che conta un migliaio di articoli tra codice e norme di attuazione, ed è quindi una disciplina a maglie strette, la procedura amministrativa conta solo poche decine di articoli (anche se poi opera alcuni rinvii alla procedura civile), ed è quindi una disciplina a maglie larghe.

Questa relativa libertà d'azione nei limiti della legge ha consentito nel corso del tempo al giudice amministrativo non solo di creare il sistema sostanziale del diritto amministrativo ma anche di fabbricarsi i suoi attrezzi processuali da solo, acquisendo così quella mentalità creativa che tanto ha contribuito sia all'evoluzione teorica degli istituti (in gran parte frutto dell'elaborazione giurisprudenziale) sia alla tutela della giustizia nell'amministrazione.

Ora l'indulgere ad una disciplina legislativa minuta, oltre tutto in controtendenza con gli attuali generali orientamenti di delegificazione, avrebbe questo di negativo: abbassare la tensione soggettiva dei giudici verso un adeguamento elastico della procedura alle esigenze sostanziali che via via si presentano nella realtà, facendone una sorta di burocrati del processo, dei minisistemi computerizzati che non possono uscire di una virgola dai programmi predisposti da altri. Penso che il danno, per tutti, non sarebbe trascurabile.

La nomofilia peraltro è alquanto squilibrata; perché disciplina aspetti del tutto marginali o addirittura inesistenti (ad esempio, il fascicolo d'ufficio, che nel processo amministrativo - a quanto mi risulta - ha una realtà solo virtuale) e poi non affronta uno dei problemi più rilevanti del processo amministrativo, con ricadute anche di ordine costituzionale: è cioè i poteri del giudice nei vari procedimenti speciali in cui alla magistratura amministrativa, con un significativo potenziamento del ruolo, vengono affidati ex novo poteri sostitutivi modellati su quelli esercitabili nel giudizio d'ottemperanza.

Non viene neppure affrontato un problema pratico che presumibilmente creerà grosse difficoltà: quello dei termini per ricorrere. Sappiamo tutti che questi termini sono di decadenza per gli interessi e di prescrizione per i diritti. Ora finché i diritti sono stati pochissimi e ben determinati è stato facile distinguere i relativi termini. Ma nelle nuove materie i diritti saranno molti e molto intrecciati con gli interessi: sicché la determinazione dei termini rischia di diventare un ginepraio inestricabile. Perciò bisognerebbe cominciare a valutare l'opportunità di unificare tali termini.

4.2. - I procedimenti speciali previsti dal disegno di legge sono: quello sul silenzio (art. 2 comma 2 che non precisa peraltro di quale silenzio si tratti: rifiuto, rigetto, inadempimento, assenso, etc.; sembrerebbe solo il primo); quello di ottemperanza all'ordinanza cautelare (art. 3 comma 2); quello in particolari materie, quali le opere pubbliche, i pubblici servizi, i provvedimenti delle Autorità indipendenti, etc. (art. 4) e quello di esecuzione delle sentenze del T.A.R. non ancora passate in giudicato e non sospese dal giudice d'appello (art. 7); e sono tutti caratterizzati dai termini brevi in cui dovrebbero concludersi.

A parte la considerazione che sarebbe stato preferibile non creare una pluralità di procedimenti speciali con contenuti simili, la disciplina è molto lacunosa sotto i profili dei poteri del giudice, dei poteri del commissario ad acta e dei poteri dell'Amministrazione.

Sotto il profilo dei poteri del giudice è nota la querelle sorta circa l'ammissibilità di ordinanze cosiddette propulsive, o - più esattamente - «a propulsione illimitata». Si tratta di un punto molto delicato in cui sarebbe opportuno un intervento del Legislatore, perché possono darsi casi in cui il giudice, di fronte a manifestazioni di illegittimità amministrativa da lui ritenute macroscopiche ma non accertate da un giudicato, può tendere ad assumere un ruolo di supplenza che lo porti ad operare in un campo che sarebbe riservato ad un altro pubblico potere; il che è molto rischioso perché ad un'Amministrazione che può anche lavorare male, ma che se lo fa va incontro a responsabilità sul piano dirigenziale, disciplinare, penale, amministrativo e civile, si sostituisce un giudice che può anche essere illuminato, ma che non risponde a nessuno, e quindi può essere indotto a strafare, e che soprattutto non può avere quella conoscenza concreta, dall'interno, dei problemi amministrativi che necessariamente ha chi da sempre ci vive dentro. Il danno per il buon andamento dell'Amministrazione potrebbe quindi essere molto pesante. Ma nel disegno di legge non c'è una sola parola sui poteri del giudice in questi casi.

Analogo discorso va ovviamente fatto per i poteri del commissario ad acta.

Quanto infine all'Amministrazione dovrebbe quanto meno precisarsi se conservi il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta e se possa impugnarne i relativi provvedimenti, tenuto presente che nel caso in cui il commissario sostituisce l'Amministrazione inadempiente solo impropriamente si parla del commissario come «organo straordinario» dell'Amministrazione, tenuto conto che essa - in realtà - non agit sed agitur; e quindi, dal momento che conserva la potestà di tutelare i pubblici interessi che costituiscono per essa canone di comportamento, dovrebbe poter quanto meno resistere ad iniziative del commissario ritenute illegittime o non conformi all'interesse della comunità interessata (ove ovviamente non discendenti direttamente dalla statuizione giurisdizionale di investitura del commissario stesso).

C'è infine una considerazione di costituzionalità. Prevedere procedimenti accelerati con termini brevi non aumenta l'effettività assoluta della giustizia amministrativa, così come le «buone leggi» invocate nel palazzo di don Rodrigo non aumentavano la farina disponibile; aumenta solo l'effettività relativa della giustizia di alcune controversie a danno delle altre. Crea cioè corsie preferenziali in cui determinati interessi pubblici, guarda caso coincidenti con quelli di determinati settori forti del mondo economico, acquistano il diritto di precedenza su altri interessi pubblici, guarda caso coincidenti con quelli deboli dei comuni mortali; interessi questi ultimi che vengono così relegati in un limbo senza tempo e senza speranza, dal momento che le nuove materie di giurisdizione esclusiva previste dal D.L.vo n. 80 del 1998 - ad organico della magistratura costante -potrebbero finire con l'occupare tutto lo spazio disponibile.

Una situazione di questo genere ben difficilmente potrebbe ritenersi compatibile con l'art. 24 della Costituzione e con il principio del «tempo ragionevole» richiesto dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo,

4.3. - Particolari perplessità fa poi sorgere l'art. 3, recante disposizioni generali sul processo cautelare, che prevede: la condanna ad una provvisionale, quando il credito azionato sia certo, liquido ed esigibile (comma 4); «l'emanazione di misure cautelari, compresa l'ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso» (comma 1); e «altresì» la imposizione di una cauzione cui subordinare la concessione o il diniego della misura cautelare (comma 1). Personalmente comprendo con una precisazione la provvisionale; comprendo molto meno la cauzione; e non comprendo affatto l'ingiunzione di pagamento.

Comprendo la provvisionale con la precisazione che l'art. 26 della legge T.A.R. prevede solo la possibilità di condannare l'Amministrazione, mentre qui la condanna dovrebbe riferirsi a qualsiasi parte, e quindi anche al ricorrente (pensiamo ad esempio ad una riconvenzionale). Sarebbe quindi opportuno un chiarimento.

Comprendo molto meno la cauzione. Il Legislatore si è evidentemente ispirato all'art. 8 della L. 27 maggio 1975 n. 166, che nel caso di ricorsi avverso provvedimenti di espropriazione o di occupazione d'urgenza prevede la cauzione come misura alternativa alla sospensione.

Ma in questi casi la cauzione ha la funzione indiretta di assicurare il pagamento dell'indennità definitiva di esproprio o d'occupazione; è cioè finalizzata al ristoro del danno subito dal diritto di proprietà dell'espropriato; ristoro che l'espropriato potrà ottenere in un altro processo dinanzi ad un altro giudice. Il disegno di legge invece inserisce la cauzione tra le norme generali, che si riferiscono all'intero processo amministrativo, e quindi anche a quello sugli interessi legittimi: e quindi potrebbe essere inteso nel senso della previsione di un analogo ristoro direttamente nello stesso processo amministrativo anche per la lesione di interessi legittimi, la cui risarcibilità peraltro - com'è noto - è ancora tutt'altro che pacifica.

Vero è che l'art. 5 del disegno di legge afferma che il T.A.R. conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno «nelle materie deferite alla sua giurisdizione» (in generale), proponendosi così di modificare l'art. 35 del D.L.vo n. 80 del 1998 che fa riferimento al risarcimento del danno ingiusto «nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva»; ma sembra che il risarcimento del danno «eventuale» non sia cosa diversa dal risarcimento del danno «ingiusto» tradizionale (e cioè consistente nella lesione di un diritto).

Insomma si resta nell'ambito di affermazioni ambigue e polivalenti, senza che ci sia una univoca affermazione del principio della risarcibilità degli interessi legittimi lesi. Sembra quindi poco credibile che un'innovazione del genere, che sarebbe la più importante del disegno di legge, venga introdotta in modo così implicito e sfuggente.

Il Legislatore, se ha effettivamente voluto questa diretta risarcibilità dovrebbe dirlo chiaro e forte; se non l'ha voluta dovrebbe spiegare a che serve in materia di interessi legittimi imporre una cauzione che l'interessato non avrebbe mai titolo di acquisire e fare propria; se infine - come sembra più probabile - ha inteso continuare a riferirsi alle sole controversie in materia di diritti soggettivi dovrebbe porre la norma non tra quelle generali ma tra quelle relative alla giurisdizione esclusiva. E questo a meno che la cauzione non costituisca un mezzo surrettizio per conseguire una deflazione del contenzioso o addirittura un mezzo surrettizio per una riduzione del controllo giurisdizionale coerente con la già avvenuta riduzione dei controlli neutrali.

Infine non comprendo affatto l'ingiunzione di pagamento. A parte la considerazione che, contrariamente a quanto affermato dal disegno di legge, l'ingiunzione di pagamento non è una misura cautelare (v. libro IV, titolo 1, del c.p.c.); a parte la considerazione che un'ingiunzione di pagamento è per sua natura ad effetti definitivi e quindi è incongruo utilizzarla a fini cautelari, per loro natura ad effetti provvisori; a parte la considerazione che inserire un procedimento sommario autonomo (quale quello per ingiunzione) in un normale procedimento di cognizione è un'evidente anomalia anche perché il procedimento di cognizione ha già strumenti adeguati come la cauzione e la provvisionale; e ripetuto che la norma per la sua collocazione dovrebbe applicarsi anche al giudizio su interessi: che senso ha un'ingiunzione di pagamento in corso di giudizio che si somma alla cauzione (che è concessa «altresì») e - parrebbe - anche alla provvisionale?

 E in ogni caso, ingiunzione di pagamento di che, se per i diritti sono già sufficienti cauzione e provvisionale e per gli interessi il risarcimento è quanto meno dubbio? E che succede se l'ingiunto che ha pagato risulta poi il vincitore della causa?

4.4. - Il disegno di legge dà talvolta l'impressione di un lavoro fatto al computer mediante assemblaggio - col sistema informatico del copia e incolla - di vari pezzi separati; pezzi che poi restano logicamente scollegati tra loro.

A parte il caso già indicato dell'art. 3, relativo a provvisionale, cauzione e ingiunzione di pagamento, la disposizione dell'art. 4 comma 1, relativa ai giudizi accelerati in determinate materie, è scoordinata rispetto a quella dell'art. 5 comma 2, relativa all'attribuzione di giurisdizione esclusiva, dal momento che l'art. 4 non parla di forniture (al contrario dell'art. 5) e fa riferimento a «i provvedimenti relativi a procedure», dimenticando che siamo nell'area della giurisdizione esclusiva e che quindi bisogna far riferimento a provvedimenti e comportamenti, o - meglio - a controversie in materia di procedure; ciò a parte la sia pur formale erroneità del riferimento ai «giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa», dal momento che il giudice amministrativo non è organo di nessuno e la locuzione qui è usata in termine atecnico e descrittivo così come quando si parla di «organi» di stampa. Sempre gli artt. 4 e 5 sono poi scoordinati rispetto all'art. 34 del D.L.vo n. 80 del 1998, che include nella giurisdizione esclusiva anche la materia dell'edilizia e dell'urbanistica (dimenticate nel disegno di legge).

Ancora, l'art. 4 comma 1 ripete l'inutile previsione dell'art. 19 della legge n. 135 del 1997 sui lavori pubblici relativa alla possibilità di proporre appello sulla base del solo dispositivo, con riserva di motivi da proporre dopo la pubblicazione del testo integrale della sentenza; previsione che presuppone un Legislatore che non abbia mai visto una sentenza amministrativa, perché il dispositivo della sentenza amministrativa, a differenza di quello della sentenza civile, è estremamente povero: dice semplicemente che il ricorrente ha torto o ha ragione ma non spiega perché.

Sicché nessun interessato farebbe un appello totalmente al buio, senza avere la minima idea del perché ha avuto torto; e d'altra parte nessuna Amministrazione prudente darebbe esecuzione ad una sentenza sulla sola base del dispositivo. Oltre tutto non è previsto alcun termine per il deposito della sentenza; sicché al limite potrebbe accadere che la decisione sull'appello al buio intervenga prima che si concreti la possibilità di presentare motivi aggiunti. Anche in questo caso l'accelerazione è puramente virtuale.

Il successivo comma 2, poi, abroga l'art. 19 della legge n. 135 del 1997, che avrebbe così vissuto solo il malinconico espace d'un matin, giusto il tempo di farci qualche convegno su; ma dimentica di precisare se intenda abrogare anche l'art. 31 bis, comma 2, della legge quadro sui lavori pubblici, che per la maggior parte degli interpreti sopravvive tuttora.

4.5. - La disposizione più discutibile è quella dell'art. 6 comma 2 che dichiara perenti i ricorsi depositati da oltre dieci anni «salvo che le parti propongano istanza per la decisione entro novanta giorni» dalla data di entrata in vigore della legge.

Ora, a parte la considerazione che il riferimento a «le parti» è impreciso e deve intendersi relativo a «una qualsiasi delle parti» dal momento che spesso una concorde richiesta di tutte non è neppure ipotizzabile, la norma prefigura un tentato assassinio premeditato di un ricorso innocente.

 Malgrado l'esistenza - purtroppo - di precedenti legislativi analoghi è giuridicamente ed eticamente inaccettabile che ad un ricorrente che attende giustizia da più di dieci anni, e che ha già presentato domanda dì fissazione d'udienza e domanda di prelievo, venga imposto l'ulteriore onere (e la relativa spesa) di presentare l'istanza suddetta.

E' giuridicamente inaccettabile perché si fa ricadere sulla parte incolpevole il peso della disfunzione del sistema. E' eticamente inaccettabile perché il sistema, invece di chiedere scusa al ricorrente che aspetta da più di dieci anni, gli prepara una trappola sperando che ci caschi dentro (cosa ben possibile dal momento che gli archivi degli studi legali sono tenuti in ordine alfabetico e non in ordine cronologico). Questa non è una via compatibile con la dignità della tutela giurisdizionale sancita dall'art. 24 della Costituzione, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza 16 aprile 1998 n. 111, relativa al contenzioso tributario.

4.6. - Si avvertono qua e là alcune ingenuità; quali quella di favorire il procedimento in camera di consiglio nel presupposto che sia necessariamente più rapido di quello in udienza pubblica o quello di ritenere che una decisione in forma di ordinanza comporti un consistente risparmio di tempo. La verità spesso è di segno contrario.

Le discussioni in camera di consiglio, proprio perché meno formali, ben possono durare di più delle discussioni in pubblica udienza; e comunque non va incoraggiata la tendenza a sottrarre la discussione alla trasparenza le alla pubblicità dell'udienza pubblica specie in materie di grande interesse generale quali quelle oggetto della nuova giurisdizione esclusiva.

Probabilmente il Legislatore è stato indotto in errore dal procedimento in camera di consiglio in sede civile, che effettivamente è più semplice di quello in udienza pubblica; ma nel processo amministrativo non c'è alcuna sostanziale differenza.

Quanto poi alle ordinanze, a parte la considerazione che già adesso nulla vieta di redigere le decisioni nella forma più stringata e meno discorsiva dell'ordinanza, va tenuto presente che le decisioni amministrative, in base al regolamento del 1907, già devono essere redatte in forma succinta; sicché un'ulteriore contrazione della loro dimensione darebbe luogo a decisioni non semplicemente sintetiche ma sommarie, che cioè non spiegano appieno il perché del dispositivo; cosa che in materie di grosso rilievo economico si presterebbe a facili insinuazioni sulla mancanza di obbiettività del giudice. E comunque nella decisione delle controversie amministrative il tempo maggiore è quello preso dallo studio e dalla deliberazione; quando tutto è stato chiarito scrivere materialmente la decisione in forma di sentenza o in forma di ordinanza non cambia molto.

4.7. - Infine il disegno di legge, se davvero vuole sancire la risarcibilità degli interessi legittimi lesi (v. prec. n. 4.3), sta mancando l'occasione storica di superare l'attuale - errata - concezione veteroprivatistica del risarcimento del danno nel processo amministrativo.

Nel processo civile il danno dell'attore si contrappone - di regola - a quello del convenuto. La controversia interessa solo loro; il rapporto complessivo costi-benefici è uguale ad 1. Per il resto della collettività l'esito del giudizio è - di regola - giuridicamente ed economicamente irrilevante; il saldo sociale è uguale a zero.

Nel processo amministrativo invece accanto al danno del ricorrente e a quello dell'Amministrazione resistente può esserci, ed essere molto più rilevante, quello della collettività interessata. Pensiamo ad esempio ad un ricorso con cui si chieda l'annullamento, per un vizio di procedura, di uno strumento urbanistico o di una graduatoria concorsuale che interessa migliaia di persone; o con cui si chieda l'annullamento, per un vizio di procedura, di un appalto pubblico di lavori o di servizi necessari per la qualità della vita dell'intera collettività.

In questi casi l'eventuale accoglimento del ricorso, ed il conseguente annullamento dell'atto impugnato, possono dar luogo ad un giusto risarcimento 100 per il vincitore e ad un ingiusto danno 100.000 per la collettività: il rapporto complessivo costi-benefici può essere fortemente passivo. Una situazione del genere, in un mondo dominato da una parte dal crescente rilievo dell'economia sulla giustizia formale e dall'altra dall'affermarsi sempre più consapevole della necessità di richiedere «l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale prescritti dall'art. 2 della Costituzione, è un evidente controsenso, originato dal fatto di non essersi resi ancora conto che il danno privato, cui evidentemente si ispira il disegno di legge, è cosa diversa dal danno sociale, che può derivare dal pur giusto accoglimento del ricorso; danno sociale che non solo può incidere pesantemente sul complessivo tenore di vita della collettività ma che - al limite- potrebbe essere del tutto ingiustificato, in quanto il ricorrente potrebbe avere interesse al solo risarcimento, che peraltro - allo stato - non potrebbe ottenere che tramite il previo annullamento del provvedimento lesivo.

Perciò, in un momento in cui l'impegno prioritario del governo è quello di aumentare la ricchezza in termini globali della comunità nazionale per un rilancio dell'economia ottenuto non a spese del welfare state, sarebbe quanto mai opportuno raccogliere le indicazioni già da tempo ragionevolmente formulate in sede comunitaria circa l'ammissibilità di un risarcimento alternativo all'annullamento (art. 2 direttiva 89/665/C.E.E., art. 2 direttiva 92/13/C.E.E.), che consenta un equilibrato soddisfacimento sia dell'interesse azionato in giudizio sia di tutti gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nella controversia.

 

5. - In conclusione il disegno di legge: a) non risolve il problema essenziale della giustizia amministrativa, che è quello di acquisire effettività sul versante della tempestività; b) pur proponendosi come integrazione della legge generale del 1971 non contiene tutte le materie che nel frattempo sono state attribuite alla giurisdizione esclusiva: mi riferisco in particolare alle materie dell'urbanistica e dell'edilizia previste dall'art. 34 dei D.L.vo n. 80 del 1998, in parte già anticipate dall'art. 16 della legge Bucalossi 28 gennaio 1977 n. 10. Questo potrebbe far sorgere il dubbio di un'eventuale abrogazione di questi ultimi;

c) va integrato sotto il profilo sistematico ed affinato sotto il profilo della tecnica giuridica, in particolare per quanto riguarda il risarcimento del danno;

d) può creare problemi di compatibilità con il regolamento, del 1907, dì cui non viene contestualmente previsto l'aggiornamento;

e) in sostanza, pone più problemi di quanti ne risolva, anche perché se fosse davvero approvato così com'è non potrebbe poi ragionevolmente pretendersi una sua ulteriore modifica a breve termine.

Questi rilievi vengono formulati in chiave di critica costruttiva, perché il disegno di legge è purtuttavia un buon contributo per un adeguamento del processo amministrativo. Buono, ma non ottimo. Neanche Leibnitz potrebbe ritenere che si tratti della migliore delle riforme possibili. Vero è che qualche volta il meglio è nemico del bene; ma comunque il meglio vale la pena di tentare di averlo. Altrimenti anche stavolta l'attesa messianica di una riforma che dia maggiore effettività alla giustizia amministrativa sarebbe destinata ad allungarsi ancora.

A questo riguardo va forse va tenuto presente che il Parlamento è la sede naturale per leggi a contenuto politico o comunque di grande respiro; ma non è la sede più adatta per leggi a contenuto specialistico minuto, come quelle processuali. E quindi, se proprio non si ritiene praticabile - come personalmente crederei opportuno- lasciare ampi margini di manovra all'interpretazione creatrice della giurisprudenza amministrativa e costituzionale, la via più congrua per una riforma del processo potrebbe essere non quella della legge ordinaria ma quella della legge delega, come del resto è stato già fatto in casi consimili.

Ma qualunque sia la soluzione è necessario che tutti quanti noi si prenda coscienza che il problema della riforma del processo amministrativo è un problema tecnico che interessa tutti, come operatori del diritto e come cittadini, e che quindi deve trovarci tutti quanti uniti e concordi per contribuire a risolverlo, perché è un problema che vede tutti noi cointeressati e nessuno di noi controinteressato.

Ne va della sopravvivenza stessa della giustizia amministrativa, che se dovesse fallire l'attuale sfida all'effettività sarebbe destinata inevitabilmente a scomparire nel mare della giustizia ordinaria; il che farebbe perdere all'intero sistema amministrativo - magistratura, dottrina e foro, che tanto ha contribuito alla creazione di una democrazia sostanziale, la sua specifica professionalità e la sua particolare mentalità creativa di cui a buon diritto possiamo essere orgogliosi. Teniamo presente che in un periodo - come l'attuale - di complicazione ordinamentale crescente la pur lieve flessione dei ricorsi rilevata da Talice in quest'ultimo periodo (2) rischia di non essere affatto un buon segno: rischia di essere una fuga dalla giustizia da parte di chi ormai dispera di poter avere ragione in tempi congrui.

Questo per quanto riguarda il problema generale del riordino del processo. Per quanto poi riguarda il problema particolare del riordino della magistratura l'unica norma del disegno di legge di immediata applicazione sarebbe quella dell'art. 17, che ci dà il porto d'armi gratuito, fidando probabilmente nel fatto che la magistratura amministrativa, nel suo notorio pragmatismo, non è solita frequentare le aule di filosofia del diritto. Per il resto, come ho già detto all'inizio, occorre restare «in attesa».

Ed allora, approfittando del fatto che non ho più nulla da chiedere alla mia carriera e che quindi mi auguro di essere abbastanza credibile» rivolgo un invito all'impegno concorde di tutti: perché iniziative singole o peggio veti incrociati potrebbero paralizzare sine die un rinnovamento interno che è quanto mai auspicabile nell'interesse non solo della giustizia amministrativa ma anche in quello della fiducia nelle istituzioni. Non sarà facile; ma dobbiamo farlo.

Per realizzare questo rinnovamento non credo che sarà addirittura necessario invocare l'aiuto dello Spirito Santo, come fece il pur laico Benedetto Croce quando si trattò di mettere mano all'attuale Costituzione; ma credo che sarà quanto meno necessario realizzare una salda comunione dei santi, da San Corrado a Santa Gabriella Arcangelo. Altrimenti sarà l'Inferno; e per tutti.

 

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(*) Relazione al convegno svoltosi il 24 giugno 1999 presso il T.A.R. del Lazio sul tema «Prime considerazioni sul disegno di legge di riforma del processo amministrativo alla stregua dei principi di celerità, esaustività ed effettività».

(1) C. TALICE, Analisi dell'attività della giustizia amministrativa nel 1997, in Il Cons. Stato 1998, 11, 1345.

(2) C. TALICE, cit.

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