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Articoli e note

 

Salvatore Giacchetti
(Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)

Gli accordi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990
tra realtà virtuale e realtà reale.
(Rielaborazione della relazione tenuta al 42° convegno di studi amministrativi su
Procedimenti e accordi nell'amministrazione locale, 19-21 settembre 1996, Tremezzo)

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SOMMARIO: 1.- L’attuale esistenza solo virtuale degli accordi previsti dall’art. 11 della legge n. 241 del 1990. 2.- L’evoluzione dell’interesse legittimo dall’autorità all’accordo. 3.- La disciplina normativa degli accordi. 4.- Il confine tra «partecipazione» e «accordi». Il «pubblico interesse» previsto dall’art. 11. Le concessioni-contratto. 5.- Accordi e discrezionalità. 6.- La singolarità civilistica e amministrativistica degli accordi. L’applicabilità della disciplina pubblicistica sui contratti. 7.- Le ragioni della mancata stipulazione degli accordi. 8.- Gli accordi nel quadro della globalizzazione del confronto internazionale e interno. 9.- Gli accordi presso gli enti locali. 10.- Conclusioni.

1.- L’età in cui viviamo ha per protagonista l’informatica; l’informatica con tutte le sue meraviglie. E tra queste meraviglie occupa sicuramente il primo posto la cosiddetta «realtà virtuale»: espressione che sulle ali di un ossìmoro - in quanto, a ben vedere, «realtà» e «virtuale» sono termini antitetici - ci fa superare quel pur esile confine tra realtà e immaginazione, tra essere e pensare, che siamo correntemente costretti ad ammettere anche nella terra di Pirandello. Basta indossare uno speciale casco, una speciale tuta e uno speciale paio di guanti per navigare in piena libertà come vogliamo, dove vogliamo, con chi vogliamo - in un ciberspazio che possiamo vedere, sentire, toccare: in una dimensione a cui per essere reale manca solo la realtà. Dev‘essere un‘esperienza emozionante.

Noi giuristi, però, siamo più fortunati degli informatici. Un‘emozione analoga e senza bisogno di tanti strumenti complicati possiamo provarla semplicemente navigando in alcuni - e purtroppo non pochi - spazi del nostro ordinamento; ed in particolare in quello speciale ciberspazio creato dall’art. 11 della legge 241 del 1990: e cioè nel mondo degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti (1). Anche qui abbiamo una materia che ha tutta l’apparenza della realtà: ha una sua specifica e articolata disciplina normativa primaria e secondaria; è stata oggetto di attento esame da parte dei migliori amministrativisti, che ne hanno analizzato a fondo tutte le sfaccettature; costituisce almeno sulla carta - una delle svolte più significative dell’eterna dialettica autorità-libertà. Ha solo un piccolo ma non trascurabile difetto: riguarda accordi che, almeno fino a questo momento - a quanto mi risulta - non sono mai nati; e non sono nati non perché, in astratto, non potessero nascere ma perché, in concreto, sono mancate le condizioni giuridico-sociologiche per farli nascere: così come mancherebbe la possibilità di far nascere un blocco di ghiaccio nell’acqua bollente.

In questa situazione per chi, come il professor Pastori, il professor Pericu e me, ha partecipato, nel gruppo coordinato dal compianto Mario Nigro, all’elaborazione di quel progetto che poi, con varie modifiche riduttive (basti ricordare che all’art. 5 del progetto originario era enunciato il principio generale secondo cui l’amministrazione avrebbe dovuto favorire la conclusione di una gamma ben più ampia di accordi, facendone così uno strumento ordinario di amministrazione parallelo e alternativo al provvedimento, analogamente a quanto è da oltre vent’anni previsto dalla legge federale tedesca sul procedimento amministrativo), è divenuto la legge n. 241, è necessario fare un esame di coscienza e domandarsi: perché è successo tutto questo? l’art. 11 è stata opera di visionari o ha avuto solo il torto di nascere in un momento sbagliato? ed in questo secondo caso, quali concrete possibilità operative può riservare il futuro all’art. 11, con particolare riferimento all’attività degli enti locali?

Per rispondere a questi interrogativi è necessario cominciare col ricordare perché si è giunti ad introdurre nell’ordinamento gli accordi in questione.

2.- Gli accordi dell’art. 11 rappresentano oggi l’ultima tappa della lunga marcia che l’interesse legittimo ha compiuto dall’autorità al consenso (2).

Sappiamo tutti che gli interessi legittimi sono nati alla fine del secolo scorso come interessi oppositivi, figli dello Stato autoritario ottocentesco e della classica puissance politique teorizzata da Hauriou, che imponeva sovranamente la sua volontà facendo terra bruciata intorno a sé («degradando» - secondo la vecchia terminologia - i diritti soggettivi che incontrava sul suo cammino) e limitandosi a concedere che gli amministrati potessero ricorrere al giudice amministrativo per far correggere gli eventuali errori commessi dall’amministrazione; e questo non tanto per liberale benevolenza quanto nell’interesse preminente della stessa amministrazione.

Negli anni sessanta agli originari interessi oppositivi si sono affiancati gli interessi pretensivi, ai quali corrisponde nell’amministrazione il dovere nel pubblico interesse di erogare una prestazione patrimoniale o un pubblico servizio o - più genericamente - un‘attività; interessi distinguibili dai diritti soggettivi solo in via normativa o giurisprudenziale, tanto da essere talvolta denominati «quasi-diritti». Questa seconda categoria di interessi è tipica dello Stato sociale moderno, che nella misura in cui allarga il suo raggio d’azione ne riduce il suo spessore autoritativo, presentandosi sempre più come service publique come già dagli anni trenta teorizzato da Duguit; sempre più come semplice ente erogatore di servizi e quindi sempre più su un piano di parità con gli utenti dei servizi stessi.

Negli anni ottanta agli interessi oppositivi e pretensivi si sono aggiunti gli interessi partecipativi, con i quali gli «amministrati» sono finalmente divenuti «cittadini», acquistando non solo il potere di opporsi ad attività illegittime o di assorbire passivamente prestazioni legittime ma anche quello di inserirsi, attivamente, nei circuiti decisionali dell’amministrazione. Questi ultimi interessi danno la misura del salto di qualità verificatosi rispetto agli interessi originari, in quanto in sede partecipativa l’interesse non è più dell’amministrato ma dell’amministratore; in altre parole, viene meno la contrapposizione dialettica tra amministrazione e amministrati e tutte le parti, in posizione di parità, collaborano per il perseguimento di un fine comune, sulla base di autonome e contrapposte motivazioni ma pur sempre in un quadro generale di «leale cooperazione». Si ha così una significativa scissione tra la determinazione dell’assetto degli interessi pubblici e privati, che non è più un fatto esclusivamente unilaterale ma un fatto tendenzialmente comunitario, e la realizzazione di questo assetto, che resta compito esclusivo dell’amministrazione.

La punta più avanzata di questi ultimi interessi, già in precedenza individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza (3), è contenuta nelle leggi nn. 142 e 241 del 1990. In particolare la legge n. 241 attribuisce ai cittadini una duplice opzione: la partecipazione al procedimento, che costituisce una sorta di generalizzazione di istituti già previsti dalla legge urbanistica e che è destinata ad essere totalmente assorbita nel provvedimento terminale, e la partecipazione all’accordo accessivo al provvedimento, accordo che è funzionale non al (solo) provvedimento ma al complessivo assetto di interessi disciplinati dal provvedimento e che da quest’ultimo resta formalmente autonomo.

3.- Il capo III della legge n. 241, in cui è inserito l’art. 11, è intitolato «Partecipazione al procedimento amministrativo»; ed in particolare prevede:

a) che i destinatari del provvedimento e gli intervenuti nel procedimento abbiano diritto di prendere visione degli atti del procedimento (art. 10, a), di presentare memorie scritte e documenti (art. 10, b) nonché osservazioni e proposte (art, 11, comma 1);

b) che «in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art. 10, l’amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, ed in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo» (art. 11, comma 1). Si ipotizza così un‘attività amministrativa convenzionale che integra o sostituisce senz’altro la normale attività amministrativa di diritto pubblico;

c) l’applicabilità a detti accordi, «ove non diversamente previsto», dei «principi del codice civile in materia di obbligazioni e di contratti» (art. 11, comma 2). Si lascia intendere, insomma, che - in sostanza - sempre di contratti si tratta, anche se di diritto privato speciale; e che la più generale locuzione «accordi» è dovuta sia ad una sorta di timore sistematico sia alla circostanza che nel testo originario della commissione erano previsti anche accordi organizzativi e normativi, non aventi quindi oggetto direttamente patrimoniale;

d) la possibilità dell’amministrazione di recedere dall’accordo «per sopravvenuti motivi di pubblico interesse» e «salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato» (art. 11, comma 4);

e) la riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle «controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi» (art. 11, comma 5).

Un esame sistematico di queste disposizioni esula dall’economia di questa esposizione, anche perché la dottrina ha ormai arato il campo in profondità. Restando nell’area degli accordi integrativi, in quanto quelli sostitutivi sono ancora - salvo eccezioni (4) - de iure condendo, mi limito perciò a richiamare l’attenzione su alcuni punti, che mi sembra necessario tener presente ai fini delle considerazioni che svilupperò dopo.

4.- Come indicato al precedente n. 3, la legge n. 241 inserisce gli accordi nell’area della partecipazione al procedimento.

Il primo problema di carattere generale che si incontra è quindi quello di stabilire il confine tra la partecipazione per così dire semplice (visione degli atti del procedimento; presentazione di memorie, documenti, osservazioni, proposte), che è interna al procedimento e al provvedimento, e la partecipazione per così dire qualificata (accordi), che è interna al procedimento (non però necessariamente: v. successivo n. 6) ma non al provvedimento, pur essendo funzionalmente collegata con quest’ultimo. Il problema è rilevante in quanto il passaggio dalla partecipazione semplice a quella qualificata comporta un salto di qualità, e precisamente il passaggio dall’area dei soli interessi legittimi all’area (anche) dei diritti soggettivi e quindi il passaggio dalla giurisdizione generale di legittimità a quella esclusiva; e questo in tanto si giustifica in quanto il procedimento semplicemente partecipato non possa fornire alle parti tutela ed utilità equivalenti.

Ciò premesso l’ipotesi di accordo integrativo che di solito viene prospettata per illustrare la previsione dell’art. 11 è quella in cui un privato ottenga una collocazione alternativa di un‘opera pubblica destinata ad insistere su un suo terreno.

Ma l’esempio non mi sembra appropriato.

Infatti, se si vuole intendere che il privato possa così ottenere un provvedimento confliggente con il pubblico interesse o meno satisfattivo del pubblico interesse l’ipotesi è palesemente inaccettabile, perché gli accordi devono «in ogni caso» perseguire il pubblico interesse.

Se poi si vuole intendere che il privato, prospettando una soluzione alternativa, possa indurre l’amministrazione a soddisfare ugualmente - e cioè con non minore intensità - il pubblico interesse oggetto del procedimento, l’ipotesi è palesemente estranea all’art. 11, perché in questo caso non si ha una «proposta» e una «accettazione», e quindi non si ha un «accordo» in senso tecnico; non si ha un fatto che possa costituire fonte di diritti soggettivi, con conseguente necessità di uscire dalla giurisdizione generale di legittimità e di entrare nella giurisdizione esclusiva: si ha semplicemente che da una parte l’amministrazione, mantenendosi nell’ambito del procedimento, ammette «le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate» (art. 3 della legge n. 2248/1865) e ritiene di condividerle nel pubblico interesse, e che dall’altra le parti interessate prestano preventiva acquiescenza al provvedimento conforme alle osservazioni da loro formulate. Pertanto, svolgendosi la vicenda su un piano esclusivamente unilaterale, qualunque richiamo all’art. 11 non risulta giustificato.

L’unico modo di dare un proprio ambito di operatività all’articolo in questione sembra essere quindi quello di ritenere che l’accordo sia uno strumento per far conseguire, ad entrambe le parti, un‘utilità ulteriore rispetto a quella che può essere fornita dal provvedimento terminale, e che può essere conseguita solo uscendo dal procedimento tipico e attribuendo alle parti anche diritti soggettivi. L’esempio più immediato è quello delle cosiddette concessioni-contratto, in cui si ha il caso più antico di accordo integrativo di provvedimento ante literam; accordo che ha la funzione di stabilire una serie di diritti e di obblighi reciproci che, attenendo a situazioni non prefissate dalla legge e disponibili, possono trovare una giustificazione solo nel mutuo consenso.

Da ciò derivano due conseguenze.

In primo luogo l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione con l’accordo va individuato non nell’interesse primario (che continua a poter essere soddisfatto solo dal provvedimento) ma in un interesse secondario, che di solito è un interesse economico, come avviene appunto per le concessioni-contratto; e che pertanto quel «pubblico interesse» che l’art. 11 dispone debba essere perseguito «in ogni caso» va individuato in qualsiasi interesse soggettivamente proprio dell’amministrazione procedente e non nel solo pubblico interesse oggettivamente canonizzato, specifico del procedimento cui si riferisce. L’interesse pubblico dell’art. 11 consiste quindi nella somma degli interessi, globalmente considerati, dell’amministrazione. E ciò anche perché non è infrequente che l’interesse pubblico canonizzato sia un dato non conoscibile a priori nella sua concretezza; si pensi, ad esempio, ai vari procedimenti di disciplina dell’assetto del territorio, che, soprattutto se partecipati (sia nella forma della conferenza di servizi sia nelle forme del capo III della legge n. 241), sono preordinati non tanto a realizzare un interesse pubblico che si conosce già in partenza quanto a stabilire quale sia nel caso concreto l‘interesse pubblico.

In secondo luogo, oggi i contratti accessivi a concessioni vanno ribattezzati accordi integrativi di provvedimenti; e pertanto tutte le controversie relative alle concessioni-contratto debbano ritenersi ormai rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con conseguente venir meno della restrizione dell’art. 5 della legge sui T.A.R., che faceva «salva la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi».

5.- Un secondo problema di carattere generale può derivare dall’espressione «accordi sul contenuto discrezionale del provvedimento».

Tale espressione, infatti, è palesemente ellittica.

Com‘è noto, la pubblica amministrazione ha capacità decisionale sia di diritto pubblico (con conseguente possibilità di esercitare poteri discrezionali) sia di diritto privato (con conseguente possibilità di esercitare poteri di autonomia privata); il privato ha solo capacità decisionale di diritto privato.

Di conseguenza il privato:

- può operare nel campo del diritto pubblico non a livello decisionale ma solo mediante atti o fatti (atti iniziativa, suggerimenti, chiarimenti, produzioni documentali, ecc.) che costituiscano il presupposto di successive determinazioni dell’amministrazione;

- può avere un rapporto alla pari con la pubblica amministrazione in sede di accordo solo sul piano privatistico (attività amministrativa di diritto privato; attività privata dell’amministrazione), dal quale la discrezionalità è assente.

Pertanto, a rigore, non può esserci un accordo sull’esercizio della discrezionalità, poichè è communis opinio che l’esercizio di potestà pubbliche non possa formare oggetto di accordi di diritto privato,

La norma va quindi logicamente intesa nel senso che faculti l’amministrazione a scendere in parte qua dal piano pubblicistico autoritativo a quello privatistico, completando così la sua azione con un accordo stipulato su un piano paritario. Non si ha quindi un (impossibile) accordo «sul contenuto discrezionale del provvedimento», come asserisce l’art. 11, ma un accordo conseguente ad una decisione unilaterale dell’amministrazione di completare in via consensuale il contenuto di un provvedimento discrezionale.

Con questa precisazione l’ellitticità della norma è sostanzialmente innocua, in quanto - ai fini pratici - non è causa di alcuna conseguenza.

6.- Quanto sopra premesso in via generale va ulteriormente precisato:

- che è riduttivo parlare di accordi «preliminari» o «strumentali» al provvedimento, dal momento che - tra l’altro - essi ben possono essere stipulati anche dopo la sua adozione, a procedimento chiuso (in funzione transattiva o interpretativa del rapporto da esso creato). Gli accordi sono strumentali al complessivo assetto di interessi che si intende stabilire tra amministrazione e cittadini: sicché il riferimento al provvedimento è puramente topografico;

- che «contenuto discrezionale del provvedimento finale» è locuzione più ampia di «provvedimento discrezionale finale»; con la conseguenza che, contrariamente a quanto di solito si ritiene, gli accordi in questione sono ammissibili anche nei confronti di provvedimenti vincolati, per quegli aspetti (ad esempio, il quando o il quomodo) che possono presentare carattere di discrezionalità;

- che la locuzione «l’amministrazione procedente può concludere accordi» va intesa come attributiva all’amministrazione non di una facoltà insindacabile ma di una nuova potestà, cosiddetta organizzativa (5), il cui mancato esercizio deve essere motivato e può essere censurato ed eventualmente supplito dal giudice amministrativo.

Vengono così a realizzarsi una singolarità civilistica e una singolarità amministrativistica.

La singolarità civilistica è data dalla formazione di un accordo di natura contrattuale in cui il perseguimento dell’interesse pubblico, interesse di una sola delle parti, pur non essendo stato motivo determinante del consenso dell’altra parte (e anzi pur essendo, di regola, in contrasto con l’interesse dell’altra parte) viene dichiarato avere presenza necessaria, pur se parzialmente disponibile. L’interesse pubblico viene così a godere di una tutela a metà strada tra l’irrilevanza che dovrebbe avere se corrispondesse ad un semplice motivo di un soggetto che agisce in virtù della sua autonomia privata e la piena tutela che dovrebbe avere se corrispondesse ad un fine di un soggetto che esercita una potestà pubblica.

La singolarità amministrativistica è data dal fatto che, poiché - di regola - è il provvedimento ad essere un accessorio dell’accordo e non viceversa (perché - di regola - senza l’accordo mancherebbe un necessario presupposto per adottare il provvedimento), per il provvedimento conforme all’accordo dovrebbe essere ipotizzabile solo il vizio di violazione di norme imperative, non anche quello di violazione di norme non imperative e - soprattutto - non anche quello di eccesso di potere, tipico della giustizia amministrativa anche nelle materie di giurisdizione esclusiva. E per contro dovrebbe essere ipotizzabile l’impugnazione per inadempimento sostanziale di una delle parti o per il verificarsi di una condizione risolutiva. In altre parole il giudice amministrativo dovrebbe giudicare degli accordi e dei relativi provvedimenti con lo stesso metro con cui il giudice civile giudica dei contratti; e ciò con riferimento a pretese che, essendo relative ad atti convenzionali (e quindi paritetici), dovrebbero potersi fare valere nei termini di prescrizione anziché in quelli di decadenza. La conclusione dell’accordo dovrebbe così a trasformare l’attività amministrativa da autoritativa in paritetica, con conseguente trasformazione del regime processuale.

L’incasellamento degli accordi nell’ambito delle obbligazioni e dei contratti, e quindi nell’ambito del diritto privato speciale della pubblica amministrazione, lascia ovviamente aperto il problema dell’applicazione agli accordi stessi della disciplina pubblicistica sui contratti della pubblica amministrazione, ed in particolare dell’applicazione della normativa di contabilità generale dello Stato. Il problema presenta un carattere di attualità, in quanto l’art. 31 bis della legge sui lavori pubblici 11 febbraio 1994 n. 109 prevede la possibilità di concludere un «accordo bonario» nel caso di controversie in materia di riserve conseguenti all’esecuzione di lavori pubblici in appalto o in concessione; accordo bonario che sembrerebbe - pur nella perplessità del procedimento indicato dall’articolo - nient’altro che un accordo integrativo di provvedimento. La recente circolare del Ministero dei lavori pubblici 7 ottobre 1996 n. 4488/U.L. (in suppl. ord. G.U. 25 ottobre 1996 n. 251), nel costruire l’accordo bonario in chiave - sembrerebbe - di accordo sostitutivo, si limita a prevedere, al punto 4, che l’applicazione della norma «non appare compatibile con il ricorso indiscriminato» al parere dell’organo consultivo tecnico (Consiglio superiore dei lavori pubblici; Comitato tecnico amministrativo), «circostanza che evidentemente renderebbe il procedimento stesso più complesso e di maggior durata», sicchè va «valutata caso per caso» l’opportunità di richiedere tale parere (con ciò implicitamente riconoscendosi che si è fuori della normale disciplina dei pareri richiesti dalla consueta procedura pubblicistica). Nulla invece è detto in ordine alla necessità di eventuali pareri degli organi consultivi giuridici (Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato). Sembrerebbe logico però che anche l’acquisizione di questi ultimi pareri sia meramente facoltativa; ciò sia per la ragione pratica che anche per essi sussiste l’esigenza di non aggravare il procedimento sia per la ragione sistematica che gli accordi integrativi, come una sorta di transessuali del diritto, operano in uno spazio loro proprio che nè coincide interamente con quello di diritto pubblico nè coincide interamente con quello di diritto privato. La questione comunque, come dicevo, è aperta.

A questo punto l’interesse legittimo appare aver subìto una trasformazione morfologica e funzionale tale da renderlo non più riconducibile negli schemi tradizionali; e questa evenienza, vista in un quadro generale di «deriva» dell’interesse legittimo verso il diritto soggettivo (6) e di queste due figure verso la nuova e omnicomprensiva figura degli interessi comunitari (7), rende sempre più attuale l’esigenza di una rielaborazione sistematica delle figure soggettive del diritto amministrativo e quindi l’esigenza di un riparto di giurisdizione per blocchi di materie omogenee, fondato essenzialmente sulla giurisdizione esclusiva, come a suo tempo ipotizzata dal noto disegno di legge sulla riforma del processo amministrativo. La lunga marcia dell’interesse legittimo dall’autorità al consenso sembra aver ormai raggiunto il punto di non ritorno rispetto alle originarie fantasiose concezioni dell’interesse «occasionalmente protetto» o «indirettamente protetto».

7.- Ciò premesso, risultano ex post abbastanza chiare le ragioni per le quali, in pratica, non risulta che siano stati mai stipulati accordi integrativi di provvedimenti.

La stipulazione di una accordo integrativo presuppone quattro condizioni:

a) l’esistenza di una parte privata «forte», l’unica in grado di condizionare l’attività dell’amministrazione nel senso di farla scendere dalla sua postazione autoritativa, senza dubbio più comoda e più gratificante;

b) la presa di coscienza che il mito dell’autoritatività come unico modulo per amministrare sta definitivamente tramontando;

c) l’esistenza di un‘amministrazione motivata in senso manageriale;

d) l’esistenza di una magistratura che sia disposta ad accordare quanto meno una presunzione di buona fede ai pubblici amministratori e non sia propensa a qualificare senz’altro illegittimo o addirittura illecito il comportamento di chi nel pubblico interesse si allontana dai binari autoritativi, normali e collaudati ma tipizzati secondo un‘ottica rigidamente settoriale e quindi di regola inidonei a soddisfare interessi diversi da quelli canonizzati.

Ma queste condizioni non sono ancora mature, anche se ad esse ci si va progressivamente avvicinando.

Per quanto riguarda la necessità di parti private «forti», in campo nazionale possono essere tali - escludendo le parti politiche, che rispondono ad una logica diversa - solo o quelle esponenziali del potere economico o quelle a base associativa. Ma le parti esponenziali del potere economico, una volta espunti dal progetto originario gli accordi normativi e organizzativi, hanno scarsa necessità di ricorrere ad accordi formali ex art. 11, dal momento che sono già in grado di condizionare direttamente ex se la vita del paese; e le più importanti parti a base associativa, i sindacati, già da tempo regolano i loro rapporti con accordi collettivi ad hoc e quindi non hanno alcuna necessità di ulteriori accordi specifici. Di conseguenza, salvo che in alcuni limitati settori (quali l’ambiente e la tutela dei consumatori) in cui la presenza di associazioni è veramente avvertita, il tradizionale individualismo italico non ha sinora consentito la nascita di soggetti collettivi forti. Unico ambito in cui oggi, in concreto, può aversi un rapporto paritario è quello locale, in cui la conoscenza diretta tra amministrati e amministratori e l’esigenza del sindaco di realizzare realmente il programma politico amministrativo in base al quale è stato eletto e di conservarsi il necessario consenso può indurre a «rischiare» la via dell’accordo.

Per quanto riguarda il tramonto del mito dell’autoritatività sembra che la tensione in tal senso sia in una fase di stallo per l’attuale incertezza politica sulle grandi linee di riforma delle strutture economiche, anche se si moltiplicano le iniziative di privatizzazione, con risultati peraltro spesso solo formali (non può, ad esempio, ritenersi una vera e propria privatizzazione quella che dia luogo ad una società per azioni il cui unico azionista sia lo Stato).

Per quanto riguarda l’esistenza di un‘amministrazione motivata in senso manageriale va tenuto presente che la managerialità postula un sistema concorrenziale, che a sua volta postula adeguate gratificazioni, gratificazioni che non possono essere che di carriera o retributive, salvo casi sempre più rari di narcisisti masochisti che lavorano per il puro gusto di lavorare. Ma gratificazioni del genere non possono verificarsi in un sistema in cui carriera e retribuzione costituiscono ancora variabili indipendenti dal rendimento; in un sistema in cui è sconosciuta - ad esempio - la pratica statunitense secondo cui un pubblico dipendente può anche essere retribuito in misura sensibilmente superiore a quella di colleghi di pari qualifica che siano risultati meno efficienti secondo parametri obbiettivi di valutazione non rimessi al giudizio discrezionale del capo dell’ufficio.

Per quanto riguarda, infine, la magistratura penale, l’accertata esistenza in alcuni rami dell’amministrazione di un‘illegalità diffusa - dalla quale, peraltro, nessun potere dello Stato pare indenne - ha indotto una cultura del sospetto che, alimentata anche dalla non meditata introduzione del reato di abuso d’ufficio nei termini enunciati dall’attuale testo dell’art. 323 cod. pen., ha finito col paralizzare l’amministrazione onesta e con l’alzare il prezzo di quella disonesta. In particolare è estremamente discutibile la configurazione dell’elemento materiale di tale reato fondata sul «danno ingiusto» o sull’«ingiusto vantaggio» per sé o per altri, amministrazione compresa. Sembrerebbe che i sagaci ideatori della norma abbiano pensato che «danno ingiusto» e «ingiusto vantaggio» siano situazioni simmetriche; e che quindi basti cambiare il segno per passare dal primo al secondo e viceversa, fermo restando il cennato elemento materiale.

Ma la realtà non è così semplice.

Nel diritto civile il concetto di danno ingiusto è abbastanza pacifico: è il danno lesivo di una situazione soggettiva giuridicamente protetta, e come tale sanzionato dall’ordinamento con un giudizio obbiettivo di disvalore, di illiceità, al quale possono poi seguire varie conseguenze civili e penali. Il concetto opposto di vantaggio ingiusto, e cioè che ha alterato in misura eccessiva il tendenziale equilibrio economico tra prestazioni contrapposte, è invece più soft; esprime soltanto il concetto di vantaggio non giustificato ma non per questo necessariamente illecito, e quindi non sanzionato da alcun necessario giudizio di disvalore; vantaggio che, salvi alcuni casi limite di rilevanza penale (originata, peraltro, non dallo squilibrio economico in sé ma dalla coscienza e volontà di originarlo o quanto meno di approfittarne) comporta semplicemente la possibilità di attivare meccanismi ripristinatori dell’equilibrio economico alterato. Nella logica del diritto civile, che è una logica economica globale e quindi quantitativa, è perciò perfettamente ammissibile un vantaggio ingiustificato ma lecito, data l’ampia libertà operativa di cui godono le parti; e pertanto - di regola - un vantaggio ingiustificato ma non eccessivo (ad esempio, una laesio infra dimidium) né costituisce illecito civile né - a maggior ragione - costituisce reato.

Diversa è la situazione nel diritto amministrativo. Infatti nella logica del procedimento amministrativo, che è una logica di settore e quindi qualitativa, il danno ingiusto è sì - come nel diritto civile - quello lesivo di situazioni soggettive protette; ma il vantaggio ingiusto, e cioè quello che non trova giustificazione nel procedimento, è qualunque utilità diversa da quella che può essere fornita dal provvedimento tipico, sia pure con tutte le clausole accessorie in esso inseribili: con la conseguenza che un qualsiasi accordo con i destinatari del provvedimento, in quanto modificativo del regime legale, sarebbe in teoria da ritenere ingiusto a priori in quanto causa di un non previsto vantaggio o del contraente pubblico o del contraente privato o di entrambi. Perciò, se si vuole che gli accordi dell’art. 11 decollino davvero, occorre innanzi tutto che anche il giudice penale, così come - del resto - il giudice amministrativo, si ponga nella logica non del diritto amministrativo ma del diritto civile, e quindi valuti il vantaggio o lo svantaggio dell’art. 323 cod. pen. non in termini giuridico-formali di rispondenza al solo interesse pubblico canonizzato ma in termini economico-sostanziali di rispondenza all’intera sfera di interessi, complessivamente considerata, dell’amministrazione procedente.

Il verificarsi delle quattro condizioni che ho indicato costituiva un‘ipotesi di lavoro abbastanza attendibile quando fu elaborato il progetto della legge 241. Ma fatti successivi (l’attenuarsi della tensione concreta alla privatizzazione, troppo spesso realizzata in forma cartolare e mistificante; tangentopoli; il nuovo testo dell’art. 323) hanno sinora impedito che queste condizioni si realizzassero.

8.- Detto questo, c’è un futuro per gli accordi integrativi di provvedimenti? E’ chiaro, infatti, che se uno scenario del genere non fosse seriamente prospettabile tutto quello detto sinora interesserebbe - al più - non il diritto amministrativo ma la filosofia del diritto amministrativo; gli accordi dell’art. 11 resterebbero, come ho accennato all’inizio, una pura e semplice area di diritto virtuale: una curiosità e nient’altro.

Per rispondere all’interrogativo sul futuro è necessaria una premessa metodologica, forse banale ma spesso dimenticata: e cioè che il diritto è fatto per l’uomo e non l’uomo per il diritto; e che quindi ogni problema giuridico non va considerato sub specie aeternitatis ma va storicizzato, impostandolo e risolvendolo in conformità alle esigenze effettuali prioritarie che l’ordinamento presenta nel momento considerato.

Ora nell’attuale fase storica le esigenze prioritarie tradizionali del nostro diritto pubblico, quali elaborate da un secolo di dottrina e di giurisprudenza e cristallizzate nella Costituzione, sembrano recessive di fronte a nuove esigenze prioritarie che si impongono sempre più nettamente alla consapevole attenzione dei giuristi.

Il diritto pubblico tradizionale, in base alla mentalità statalista e garantista che l’ha espresso, si è preoccupato essenzialmente di precisare i termini della dialettica autorità-libertà, e quindi di precisare da una parte i limiti dell’azione amministrativa e dall’altra di assicurare la pienezza della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, in un quadro generale di legalità e di imparzialità.

In questa ottica il principio di «buon andamento» enunciato dall’art. 97 della Costituzione è stato essenzialmente letto in chiave di comportamento formalmente corretto e sostanzialmente rispettoso delle situazioni soggettive degli amministrati, e cioè come un sistema di equilibri che facevano perno sul principio di giustizia nell’amministrazione: come un sistema di garanzie reciproche dell’amministrazione nei confronti degli amministrati e degli amministrati nei confronti dell’amministrazione.

Questa visione sta però mutando.

Si avvertono oggi esigenze prioritarie nuove che stanno emergendo: e precisamente quelle collegate al problema del risanamento della finanza pubblica, in quanto presupposto necessario per la stessa sopravvivenza del nostro sistema economico-sociale. Sappiamo tutti che l’azione dissennata di passati governi ha indotto alla deleteria convinzione che per lo Stato le uscite potessero essere una variabile indipendente dalle entrate e che quindi un‘istituzione pubblica potesse vivere stabilmente al di sopra delle proprie possibilità contraendo debiti, senza porsi alcun serio problema di equilibrio economico. Conseguenza di ciò è stato che da una parte il debito pubblico è andato fuori controllo e che dall’altra si è a lungo teorizzato che per le aziende di erogazione, quali sono quelle pubbliche, le esigenze di efficienza - e cioè di ottimizzare il rapporto tra costi e ricavi, tra input ed output - e quelle di efficacia - e cioè di effettiva corrispondenza ai fini strategici dell’istituzione considerata, esigenze proprie delle aziende private di produzione, potessero ridursi ad una semplice dichiarazione di buone intenzioni purché tali aziende pubbliche salvaguardassero il principio di buon andamento (nel senso sopra precisato) e ispirassero la loro attività a finalità sociali.

La sopravvenuta globalizzazione del confronto politico-economico lucidamente analizzata da Dahrendorf (8), ed in particolare il confronto con la realtà comunitaria e con la religione della pubblica concorrenza da essa introdotta, il rischio di restare tagliati fuori dall’integrazione europea con conseguente tracollo della nostra economia, l’acquisita - sia pure in ritardo - consapevolezza che non si può vivere stabilmente sui debiti scaricandone l’onere sulle generazioni e sui governi futuri, hanno fatto finalmente comprendere a tutti che il sistema pubblico, se vuole sopravvivere agli attuali livelli di benessere senza essere costretto a rinchiudersi in un sistema autarchico (e autodistruttivo) di tipo cubano, deve allinearsi fin dove è possibile al sistema privato; deve trasformarsi anch’esso in un sistema di aziende di produzione: perché la caduta dell’efficienza e dell’efficacia provocano uno spreco di ricchezza: e la ricchezza sprecata è sprecata per tutti e non può più svolgere alcuna funzione di moltiplicatore economico. Ed è stata proprio questa nuova consapevolezza ad innescare l’attuale trend alla privatizzazione di enti pubblici, ai dirigenti manager, alla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego ed alla mobilità dei pubblici dipendenti, alla fissazione di livelli operativi minimi (standard, carichi di lavoro, ecc.): in una parola ad introdurre un controllo direzionale non troppo dissimile da quello delle aziende di erogazione.

In questa nuova realtà, in cui tutti i soggetti - pubblica amministrazione compresa - si trovano ad operare, il riferimento esclusivo al parametro della giustizia nell’amministrazione, possibile in un sistema chiuso ed autosufficiente, non è più un termometro significativo della salute delle pubbliche istituzioni; e, al limite, tende ad essere un lusso; un lusso che il sistema attuale non può più permettersi. Alla globalizzazione e all’interrelazione esterna di sistemi politici che hanno nella competizione economica il loro più significativo momento di confronto si accompagna necessariamente una globalizzazione e un‘interrelazione interna tra i vari settori della vita sociale del singolo Stato, per cui il diritto né può più operare ignorando le esigenze dell’economia né può più operare a compartimenti stagni, in una visione settoriale e atomistica dell’attività amministrativa: non avrebbe alcun senso pretendere a tavola il rispetto delle norme di etichetta quando i piatti sono vuoti. E’ un discorso difficile e forse amaro per noi giuristi, educati nei principi iustitia omnium est domina et regina virtutum efiat iustitia pereat mundus; ma è un discorso che è necessario fare se si vuole restare con i piedi per terra. Se il mondo perisse davvero non ci sarebbe più niente a cui applicare la giustizia. E quindi la giustizia, anche se intesa - come deve essere - nel senso allargato alla giustizia sociale, non può bastare da sola. In un sistema globale aperto, fondato sulla competizione economica e non autosufficiente, qual è quello proprio dell’Europa occidentale, tutti i paesi che ne fanno parte debbono camminare su due gambe, giustizia e competitività economica; a pena di scomparire. E quindi occorre intendere il concetto di buon andamento non solo come andamento formalmente corretto e sostanzialmente rispettoso delle situazioni soggettive degli amministrati e delle generali esigenze di solidarietà sociale ma anche come andamento economicamente buono nel senso aziendalistico del termine, e cioè efficace ed efficiente. E’ una precisazione che dovrà essere tenuta ben presente in caso di revisione della Costituzione; precisazione già da tempo indicata dal legislatore ordinario, che nell’art. 19 del D.P.R. 30 giugno 1972 n. 748 aveva distinto tra «buon andamento» e «imparzialità e legittimità» dell’azione amministrativa, e all’art. 1 della legge n. 241 del 1990 ha stabilito in via generale che per l’attività amministrativa i fini sono quelli «determinati dalla legge» e i criteri operativi sono quelli «di economicità, di efficacia e di pubblicità». Quest’ultima disposizione ha operato una vera e propria - ancora non completamente avvertita - rivoluzione copernicana, perchè una volta stabilito il principio generale che vanno perseguiti fini concreti con mezzi opportuni, il momento sostanziale del conseguimento dei risultati previsti (=buon andamento, nel senso attuale) viene necessariamente ad assumere un rilievo prevalente rispetto al momento formale di un‘acritica e meccanica applicazione delle procedure che ignori o addirittura precluda il conseguimento dei risultati stessi (basti pensare ai noti esempi di lotte sindacali attuate mediante un‘applicazione ottusa e sleale delle procedure; e cioè spezzando quel legame di «leale cooperazione» che deve esistere tra norma astratta, attività concreta e buonsenso). Di conseguenza il responsabile del procedimento deve ritenersi responsabile non solo e non tanto dell’agire corretto ma anche - e soprattutto - dell’agire efficiente e efficace; e non è da escludere che in un prossimo futuro un comportamento del responsabile del procedimento che privilegi l’aspetto formale rispetto a quello sostanziale sia qualificabile in termini di eccesso di potere (o in termini di quel vizio equivalente che allora sarà stato elaborato).

Ora se questo è - come io credo - esatto vanno viste in una nuova luce tutte quelle iniziative che, nei limiti delle norme imperative, si propongano di conseguire prevalenti vantaggi pubblici; ciò fermo restando, ovviamente, che la loro eventuale finalizzazione a prevalenti vantaggi privati (che, ovviamente, devono comunque esserci, anche se non prevalenti: altrimenti il privato non stipulerebbe mai l’accordo) costituirebbe un illecito penale rilevante quanto meno sotto il profilo dell’abuso d’ufficio. Vanno quindi ritenuti tendenzialmente ammissibili e leciti tutti quegli accordi con cui l’amministrazione, uscendo dai normali binari di tipicità (che sono logicamente incompatibili con il binario convenzionale) e quindi uscendo anche da quei margini di congruità entro cui la prassi ammette che l’amministrazione possa inserire unilateralmente clausole accessorie nel provvedimento, al fine di conseguire essenzialmente un vantaggio pubblico concordi con i privati il soddisfacimento di un loro autonomo interesse, trasformandolo così in un vero e proprio diritto soggettivo (sia pure condizionato al pubblico interesse, per quanto ho rilevato prima); interesse che altrimenti potrebbe vivere nel procedimento soltanto o come interesse legittimo partecipativo, con conseguente esclusivo dovere dell’amministrazione di valutarlo e di motivare la determinazione adottata su di esso, ovvero come semplice interesse di fatto, come tale necessariamente estraneo al procedimento tipico, il quale ultimo costituirebbe quindi semplicemente l’occasione scelta dall’interessato per tentare di soddisfare l’interesse di fatto stesso.

Da tutto ciò discende che la stipulazione di accordi integrativi può avere già oggi una propria nuova ragion d’essere a condizione che essi:

a) forniscano ad entrambe le parti, pubblica e privata, un‘utilità maggiore o quanto meno diversa da quella del normale canale autoritativo (altrimenti, costituendo un inutile doppione del provvedimento, non ci sarebbe alcun motivo pratico di stipularli);

b) consentano di integrare il contenuto discrezionale del provvedimento, costituendo un punto d’incontro e di saldatura tra discrezionalità amministrativa e autonomia privata, che diventano così un continuum, una sorta di terza dimensione (di diritto privato speciale) in cui pubblico e privato diventano indistinguibili tra loro, salva sempre la tutela - irrinunciabile e indisponibile - del pubblico interesse;

c) rispondano sia all’interesse pubblico che all’interesse privato, che in questo caso troveranno essenzialmente un denominatore comune nell’interesse economico; interesse economico che per il privato avrà - di regola - carattere primario mentre per l’amministrazione avrà - di regola - carattere secondario, e cioè paraprocedimentale o addirittura extraprocedimentale, fermo restando che l’interesse procedimentale primario, quello canonizzato, continuerà ad essere essenzialmente soddisfatto dal provvedimento terminale tipico.

9.- Ciò premesso, restringendo l’esame all’area degli enti locali, nella quale - come ho già detto - il rapporto più diretto amministrazione-amministrati rende maggiormente probabile il verificarsi dell’evenienza che stiamo esaminando, non marginali possibilità di accordo sono ipotizzabili nei tradizionali campi di azione a rilevanza esterna di tali enti, e cioè in quelli dei pubblici servizi locali, della gestione dei beni pubblici, dell’assetto del territorio e dell’urbanistica.

Un primo esempio.

Nel caso di una gara per la concessione di un bene demaniale o per l’aggiudicazione di un pubblico appalto dovrebbe essere consentito accettare, a parità di offerte, quella che presenti maggiori utilità accessorie per l’amministrazione, senza necessità di ricorrere al sistema del sorteggio. La questione è stata esaminata dalla giurisprudenza in occasione di controversie relative ad appalti del servizio di tesoreria comunale; appalti che di norma vengono aggiudicati a costo zero, perché l’interesse reale del concorrente non è di lucrare direttamente sul servizio preso in appalto ma di sfruttare tutte le utilità accessorie che gli deriverebbero a seguito del rafforzamento della sua presenza sul mercato. In questi casi si è posto il problema se eventuali prestazioni ulteriori offerte spontaneamente dal concorrente al di fuori delle previsioni del bando (ad esempio, la dazione di determinate somme a titolo di contributo alle spese di gara; l’effettuazione gratuita di servizi accessori o addirittura estranei all’attività di tesoreria) siano o no accettabili e quindi precludano o no il ricorso al sorteggio altrimenti necessitato ai sensi della norme di contabilità generale dello Stato. La giurisprudenza prevalente ritiene che tali prestazioni ulteriori non possano essere prese in considerazione, perché nell’ottica qualitativa del procedimento di appalto del servizio di tesoreria esse non avrebbero alcuna giustificazione, in quanto estranee al rapporto che si andrebbe a stipulare. Ma in un‘ottica aziendalistica quantitativa la conclusione dovrebbe essere diversa; ferma restando - ovviamente - la garanzia della par condicio l’amministrazione appaltante dovrebbe avere il potere di valutare le utilità accessorie (anche se disomogenee) offerte dai concorrenti e di scegliere su tale base l’offerta a suo avviso più conveniente, così come farebbe un qualsiasi appaltante privato.

Un secondo esempio.

Tizio presenta una domanda di concessione edilizia, che chiede venga definita con priorità entro un termine prefissato, impegnandosi in cambio ad eseguire a proprie spese una determinata opera di urbanizzazione di competenza comunale. L’amministrazione in questo caso sarebbe chiamata ad effettuare una ponderazione tra l’opportunità di una deroga al normale criterio dell’esame delle domande di concessione secondo il loro ordine di presentazione (deroga che consentirebbe un beneficio economico e sociale per il comune) e l’opportunità di mantenere fermo il criterio stesso (con conseguente perdita di tale beneficio); ponderazione questa più delicata di quella del primo esempio, perché si tratterebbe di confrontare un beneficio essenzialmente economico con una deroga al principio di parità di trattamento. Anche in questo caso un accordo dovrebbe ritenersi ammissibile, in considerazione sia della diversità di situazione oggettiva della domanda di Tizio rispetto a quelle degli altri richiedenti sia della nota prassi per cui molte amministrazioni fanno pagare i cosiddetti diritti di urgenza per l’effettuazione sollecita della loro attività.

Un terzo esempio.

Insorta una controversia o in prospettiva di una controversia in materia di interessi legittimi l’amministrazione si accorda con l’interessato per comporla convenzionalmente con reciproche concessioni o comunque con uno scambio di utilità estranee all’area della controversia. Un accordo transattivo di questo genere sarebbe oggi da escludere, perché gli interessi legittimi sono correlati a potestà amministrative, sinora pacificamente ritenute situazioni non disponibili. Ma una volta ammesso dalla legge che l’amministrazione possa discrezionalmente uscire dal piano autoritativo e contrattare alla pari, sul piano privatistico, con gli interessati, possa cioè discrezionalmente decidere di trasformare interessi legittimi partecipativi in veri e propri diritti soggettivi, viene meno ogni preclusione sistematica all’accordo.

I problemi che possono sorgere in casi del genere sono essenzialmente tre: l’allontanamento - inevitabile - dall’ordinario binario di soddisfacimento dell’interesse pubblico primario, la tutela dei terzi e il controllo dell’operato dell’amministrazione.

Ma nessuno di esse sembra creare difficoltà insuperabili.

Quanto all’interesse pubblico mi sembra sufficiente ripetere che non esiste solo l’interesse primario, e cioè quello specifico del procedimento de quo. In una concezione globale e non a compartimenti stagni dell’attività pubblica vanno tenuti presenti anche tutti gli altri eventuali interessi secondari o subprimari che è possibile - e in caso positivo, doveroso - soddisfare in occasione del procedimento; e tra questi interessi sono indubbiamente quelli economici. Non c’è quindi nulla di strano se una pubblica amministrazione, come da tempo teorizzato da M. S. Giannini ma in pratica non applicato, si comporti in modo da soddisfare non solo l’interesse primario ma anche eventuali interessi secondari o subprimari compresenti nella fattispecie concreta: si comporti, in altre parole, come pacificamente si comporterebbe una qualsiasi azienda di produzione.

Quanto alla tutela dei terzi l’art. 11 si limita a prevedere che gli accordi integrativi possano essere stipulati solo «senza pregiudizio dei diritti dei terzi» ora, mentre per l’eventuale pregiudizio dei diritti valgono i normali principi civilistici sull’inefficacia del contratto in danno dei terzi, per l’eventuale pregiudizio degli interessi legittimi basterebbe prevedere che venisse portato a conoscenza legale di tutti i potenziali controinteressati un avviso preventivo di accordo - analogo all’avviso di procedimento previsto dall’art. 7 della legge n. 241 - per consentire all’amministrazione una valutazione ponderata dell’opportunità di stipulare l’accordo stesso, con garanzie per i controinteressati non dissimili da quelle sussistenti per i controinteressati al provvedimento.

Più delicato sarebbe il problema dei controlli sul versante sia istituzionale (da parte dell’organo di controllo) sia politico (da parte degli amministrati) sia giurisdizionale (da parte del giudice amministrativo e del giudice penale).

Il controllo istituzionale dovrebbe necessariamente trasformarsi - quanto meno limitatamente agli accordi - da controllo di sola legittimità in controllo esteso al merito, non dissimile da quello esercitato da un collegio sindacale presso un‘azienda di produzione. E se è vero che ciò renderebbe necessaria una profonda modifica dello spessore operativo del controllo e della cultura e delle strutture degli organi che attualmente lo esercitano è anche vero che è proprio questa la dimensione che l’ordinamento - nel quadro di una complessiva manovra di recupero dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa - sembra voler attribuire alla funzione di controllo: basti pensare alla nuove prospettive operative allo studio per la Corte dei conti nell’ottica di organo di controllo non più di atti ma di gestioni.

Nessun problema sussisterebbe invece per il controllo politico da parte degli amministrati (sostanzialmente, gli elettori), perché ad essi interesserebbero soprattutto i risultati concreti e non già i criteri più o meno formalmente legittimi con cui sono stati ottenuti; e che, d’altra parte, con l’apertura dello scenario contrattuale vedrebbero accrescere il loro ruolo di controllo democratico sulla pubblica amministrazione (9).

Il problema più serio resterebbe quello del controllo giurisdizionale. Come ho già detto prima, sia il giudice amministrativo che quello penale dovrebbero attrezzarsi mentalmente e tecnologicamente per giudicare non solo in termini di legittimità formale ma anche in senso di buon andamento in senso aziendalistico. Anche qui, però, grosse difficoltà non dovrebbero essercene. Il giudice amministrativo ha già una sua giurisdizione di merito: basta pensare al giudizio d’ottemperanza; si tratterebbe soltanto di ampliarne i confini, come peraltro già previsto dall’art. 11. E il giudice penale ha ampiamente dimostrato, come nel caso di tangentopoli, di sapersi benissimo orientare anche in materia di comportamenti aziendali; ed inoltre sembra incamminato su un percorso ideologico che lo porta a prescindere dalla legittimità formale del comportamento amministrativo, come quando - il che, peraltro, è molto discutibile ipotizza l’esistenza del reato di abuso d’ufficio anche in presenza di comportamenti che secondo il diritto amministrativo non sarebbero illegittimi o che addirittura il giudice amministrativo abbia riconosciuto legittimi. L’unico vero problema - ma si tratterebbe di un posterius e non di un prius - sarebbe il seguente. La lotta alla mafia prima e tangentopoli poi hanno dimostrato che illegalità complesse e trasversali - quali sono, di regola, quelle economiche - superano le capacità operative del magistrato singolo e possono essere efficacemente combattute solo da pool organizzati di magistrati. Occorrerebbe quindi prevedere - quanto meno - più intense forme di cooperazione tra le varie magistrature, per l’elaborazione di strategie comuni. L’attuale possibilità che la magistratura penale, quella amministrativa e quella contabile abbiano orientamenti diversi è causa di incertezza del diritto e di paralisi operativa; ed a questo proposito è sempre attuale il monito della Corte Costituzionale nella nota sentenza 24 marzo 1988 n. 364, sull’ignoranza scusabile della legge penale, secondo cui «come il cittadino è tenuto a rispettare l’ordinamento democratico, quest’ultimo è tale in quanto sappia porre i privati in condizioni di comprenderlo».

In conclusione, nessun ostacolo sistematico sembra tale da precludere la svolta enunciata dall’art. 11; svolta che comunque sarebbe più una base di partenza, più un ponte proiettato verso un‘Europa futura, che una ricostruzione del presente su basi nuove, sia perché l’area degli accordi, una volta esclusi - come in pratica è adesso - non solo gli accordi sostitutivi ma anche quelli integrativi a contenuto normativo o organizzativo, sarebbe comunque alquanto circoscritta sia perché la pubblica amministrazione manterrebbe pur sempre l’opzione autoritativa.

10.- Le conclusioni di queste considerazioni mi sembrano abbastanza evidenti.

a) E’ necessario prendere atto della circostanza che le monarchie assolute sono ormai un ricordo del passato (salvo la Santa Sede, che però è fondata su presupposti del tutto particolari); e che quindi oggi è inconcepibile l’esercizio di un’autorità senza quel «consenso» che nell’attuale sistema policentrico a sovranità diffusa è comunemente sentito essere la fonte della cosiddetta «legittimazione» di tutti i pubblici poteri, indipendentemente dalla regolarità della loro investitura giuridica, e quindi sembra essere il collante necessario per evitare il distacco tra paese reale e paese legale.

b) La frantumazione soggettiva dell’autorità amministrativa comporta da una parte l’erosione dei principi di tipicità e di formalismo, che caratterizzavano oggettivamente l’azione di tale autorità, e dall’altra il dissolvimento del principio di legalità nel più ampio principio di buon andamento (nel senso sopra precisato), con conseguente ingresso nell’attività amministrativa del momento economico e quindi del modulo convenzionale, che è la forma naturale dell’esercizio dell’attività economica.

c) L’accordo tende così a divenire una necessità pratica di politica del diritto sia per consentire all’amministrazione di operare al di là dei limiti di elasticità consentitile dal procedimento sia per precludere sul nascere un possibile contenzioso, nell’interesse di tutti, giustizia amministrativa compresa, sia per mantenere un saldo rapporto da una parte con i cittadini e dall’altra con il resto dell’Europa. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando nel 1967 le Sezioni Unite della Corte di cassazione affermarono che gli accordi sul rilascio o sul contenuto di un provvedimento erano da ritenersi viziati per illiceità della causa e quindi destinati a ricadere sotto la sanzione civile e penale (10).

d) Il pubblico interesse di una tale politica del diritto deve impegnare tutti gli operatori, ed in particolare la magistratura, ad incoraggiare la stipulazione di accordi.

e) Gli amministratori locali, desiderosi di assumere in pieno quel ruolo di city manager che l’attuale governo intenderebbe affidare loro, possono già trovare negli accordi un modo attuale - e legale - di soddisfare questo loro desiderio.

Insomma la cosiddetta «forza delle cose» sta riproponendo quel principio generale di contrattualità dell’azione amministrativa che forse troppo frettolosamente è stato cancellato dal progetto originario della legge n. 241. Ci sono quindi di nuovo buone probabilità che in un prossimo futuro gli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimenti possano uscire dal limbo della realtà virtuale per entrare finalmente nella realtà reale.

 

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(1) La letteratura specifica sugli accordi ex art. 11 è amplissima. Vanno in particolare ricordati: BERTI, Dalla unilateralità alla consensualità nell'azione amministrativa, A.A. V.V., L'accordo nell'azione amministrativa, Quaderni Formez, 1988, 27; CASTIELLO, Il nuovo modello di azione amministrativa nella legge 7 agosto 1990, n. 241, Rimini, 1996, e Gli accordi integrativi e sostitutivi di provvedimenti amministrativi, Dir. proc. amm., 1993, 124; CORSO, Gli accordi di programma, A.A. V.V., L'accordo nell'azione amministrativa, cit., 51; CORSO-TERESI, Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini, 1991; DE ROBERTO, La legge sul procedimento amministrativo: ambito di operatività e contenuti della nuova disciplina, AA.VV., Procedimento amministrativo e diritto di accesso, Napoli, 1991, 26; FEDULLO, Le convenzioni di lottizzazione: intangibilità del contratto e tutela degli interessi generali, Rass. dir. civ., 1994. 721; FERRARI, La giurisdizione amministrativa esclusiva nell'ambito degli art. 11 e 15, L. 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, Foro amm., 1993, 878; FRANCO, Il nuovo procedimento amministrativo, Bologna, 1995; FRATTINI, Amministrazione per accordi e il principio di gerarchia degli interessi, Cons. Stato, 1991, II, 1773; GIACCHETTI, Partecipazione e tutela cautelare, Riv. amm., 1991, 931; NIGRO, Conclusioni, AA.VV., L'accordo nell'azione amministrativa, cit; 80; PASTORI, Interesse pubblico e interessi privati fra procedimento, accordo e autoamministrazione, AA.VV, Studi in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, II, 1317, e L'amministrazione per accordi nella recente progettazione legislativa, A.A. V.V., Il procedimento amministrativo fra riforme legislative e trasformazioni dell'amministrazione, Milano, 1990, 78; PERICU, L'attività consensuale della pubblica amministrazione. A.A. V.V., Diritto amministrativo, Bologna, 1993.

(2) Circa i più recenti indirizzi in materia di interesse legittimo v: GIACCHETTI, L'interesse legittimo alle soglie del 2000, in Foro amm., 1991, 1907 e SCOCA, Contributo sulla figura dell'interesse legittimo, 1991.

(3) C.G.A., 27 luglio 1989 n. 300, in Foro amm., 1989, 2768.

(4) Un caso - rimasto, a quanto mi risulta, isolato - di accordo sostitutivo introdotto dalle legge è quello previsto dalla L. 28 gennaio 1994 n. 84, sul riordino della legislazione portuale, che all'art. 18 prevede la possibilità di un accordo ex art. 11 in sostituzione della concessione demaniale di aree e banchine. Si ha così una concessione-contratto che viene integralmente contrattualizzata.

Altro caso sarebbe, secondo la circolare ministeriale 7 ottobre 1996 n. 4488/U.L., la conclusione degli accordi bonari previsti dall'art. 31 bis della legge 11 febbraio 1994 n. l09 (v. par. n. 6).

(5) SORACE, Promemoria per una nuova voce Atto amministrativo, in Scritti in onore di Giannini, III, 1988, 756.

(6) CALABRO GRAVE, La discrezionalità amministrativa nella realtà d'oggi. L 'evoluzione del sindacato giurisdizionale sull'eccesso di potere, in Cons. Stato, 1992, 1582; GIACCHETTI, La giurisdizione esclusiva, in Foro amm., 1988, 2O73.

(7) GIACCHETTI, Profili problematici della cosiddetta illegittimità comunitaria, in Rass. giur. en. elettrica, 1993, 549.

(8) DAHRENDORF, Quadrare il cerchio, Bari, 1996.

(9) VILLATA, La trasparenza dell'azione amministrativa, Dir. proc. amm., 1987, 533.

(10) Cass. S.U. 31 marzo 1967 n. 711, in Foro it., 1967, I, 926.


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