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Articoli e note

n. 10/2004

ERNESTO GARGANO
(Magistrato della Corte dei conti)

I debiti fuori bilancio alla luce della normativa

vigente e relativo riconoscimento

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SOMMARIO: 1. La nozione di debito fuori bilancio e la evoluzione normativa. 2. Il riconoscimento dei debiti fuori bilancio e l’utilità ed arricchimento conseguiti dalla P.A. 3. La natura della deliberazione consiliare di riconoscimento. 4. Il finanziamento dei debiti fuori bilancio.

1.- In epoca di federalismo, va subito detto che la legge n. 131/2003 (c.d. legge La Loggia) ha aperto sull’argomento nuovi scenari dai contorni incerti e difficili da definire. In particolare, la disposizione contenuta nell’art. 2, comma 4, lettera e) riguarda la specifica direttiva data dal Parlamento al Governo di attribuire all’autonomia statutaria degli enti locali la potestà di individuare forme e modalità di intervento secondo criteri di neutralità, sussidiarietà e adeguatezza, tra l’altro anche nel caso in cui vi sia stata la mancata adozione dei provvedimenti di riequilibrio del bilancio e, di conseguenza, di riconoscimento dei debiti fuori bilancio.

         Per un corretto inquadramento dell’argomento è opportuno premettere un veloce excursus storico dell’istituto

         L’ordinamento contabile ed amministrativo degli enti locali ha sempre contenuto norme volte ad impedire il costituirsi di posizioni debitorie nei confronti di terzi al di fuori della gestione del bilancio. Già il testo unico della legge comunale e provinciale del 1934 prevedeva una serie di disposizioni di contenuto formale assai rigoroso, quali gli artt. 252, 284, 311 e 327, secondo i quali ogni deliberazione che comportasse una spesa doveva recare l’ammontare della stessa ed i mezzi per farvi fronte; tale deliberazione doveva quindi essere comunicata all’ufficio di ragioneria per la registrazione del relativo impegno contabile. Quanto alla responsabilità di funzionari ed amministratori rispetto a spese non autorizzate era previsto che il funzionario di ragioneria fosse personalmente obbligato a rilevare le eccedenze di spese di fronte agli stanziamenti ammessi in bilancio, mentre gli amministratori che avessero ordinato spese non autorizzate in bilancio, o non deliberate nei modi e nelle forme di legge, o che avessero contratto impegni o dato esecuzione a provvedimenti non deliberati ed approvati nei modi di legge, ne avrebbero risposto in proprio ed in solido.

         A fronte di una normativa dal contenuto formale tanto rigoroso, nel corso degli anni la Corte dei conti ha però rilevato, con crescente preoccupazione, il manifestarsi di un consistente fenomeno di indebitamento sommerso al quale gli enti locali facevano fronte mediante provvedimenti “a sanatoria”. Venivano cioè approvati a posteriori spese già di fatto ordinate senza la preventiva autorizzazione ed in mancanza del relativo impegno contabile.

         Le dimensioni e la portata del fenomeno erano tali da generare dubbi in merito all’effettiva capacità del sistema di contabilità pubblica di tendere in modo naturale, intrinseco, verso quegli obiettivi di pareggio ed equilibrio di bilancio che costituiscono elemento centrale tipico e qualificante del particolare ordinamento contabile.

         L’emergere di siffatti debiti, infatti, oltre ad esporre l’ente al rischio di controversie legali, sconvolge gli equilibri di bilancio togliendo ogni significatività alle scritture contabili, che potrebbero evidenziare avanzi di amministrazione di fatto inesistenti oppure occultare disavanzi sommersi.

         Valutata la rilevante dimensione del fenomeno, si è reso pertanto necessario farlo emergere al fine di riportare i debiti fuori bilancio all’interno delle procedure contabili e tutelare così il principio dell’equilibrio del bilancio.

         La manovra è stata tentata per la prima volta nell’anno 1986. E’ infatti del 1° luglio 1986 la prima disposizione di legge che fa diretto riferimento ai debiti fuori bilancio.

         Si tratta del d.l. 1 luglio 1986 n. 318 convertito in legge 9 agosto 1986 n. 488. L’art. 1 bis del citato d.l., nello stabilire alcune norme comportamentali in materia di controllo della gestione e rispetto degli equilibri di bilancio, disponeva che gli enti che avevano presentato un rendiconto in disavanzo di amministrazione o con debiti fuori bilancio, potessero finanziare le passività pregresse con provvedimenti di riequilibrio estesi ai due successivi esercizi, anticipando quindi una logica di intervento triennale, in linea con il carattere autorizzatorio del bilancio pluriennale e con una misura temporale poi ripresa dagli artt. 193 e 194 t.u.

         Come si può capire chiaramente dalla portata di detta norma, la finalità era quella di rendere manifesto un fenomeno sommerso e di ricondurlo nell’alveo della contabilità dell’ente assicurandone il finanziamento.

         Dello stesso anno è anche la prima deliberazione della Corte dei conti specificamente dedicata al problema dei debiti fuori bilancio. Si tratta della deliberazione n. 30 del 24 novembre 1986.

         Prendendo le mosse dalla disposizione di legge suindicata, la Corte disegna un primo profilo concettuale del debito fuori bilancio.

         Innanzitutto viene giustamente rilevato che alla determinazione dell’effettivo avanzo di amministrazione devono concorrere non solo i residui passivi risultanti dalle scritture contabili, ma anche gli altri eventuali residui passivi (definibili “di fatto”) ricollegati in nesso causale con il mancato rispetto in passato delle regole giuscontabili proprie della gestione degli enti locali.

         Si tratta, cioè, di quei residui passivi “di fatto” che derivano da impegni assunti irritualmente, senza deliberazione dell’organo e oltre il limite di spesa autorizzato.

         Il debito fuori bilancio viene definito come un’obbligazione assunta al di là degli stanziamenti del bilancio di previsione, ovvero che si sarebbe potuta assumere a termini di autorizzazione del bilancio preventivo, e che tuttavia non è stata assunta ritualmente sotto il profilo del diritto amministrativo e dell’ordinamento giuscontabile in particolare. In altri termini è l’ipotesi delle obbligazioni assunte o comunque sorte senza far luogo a regolare impegno e senza tramutarsi successivamente in residuo passivo.

         Dopo aver tentato una prima analisi delle tipologie di debiti fuori bilancio presenti nelle gestioni degli enti locali (il legale rappresentante dell’ente ha agito senza essere stato legittimato dal competente organo ovvero oltre le autorizzazioni preventivamente ricevute; fornitura avvenuta di fatto per prosecuzione di un contratto scaduto ovvero non risolto; debiti fuori bilancio sorti indipendentemente da una vicenda contrattuale, per effetto di puri fatti o di pronunce giudiziarie, anche sommarie (decreto ingiuntivo) o non definitive; spese non recepite con deliberazione soltanto per carenza o insufficienza di stanziamento nel bilancio di previsione), la deliberazione della Corte conclude indicando ai comuni la necessità che “la bozza di conto consuntivo sia portata all’esame del consiglio comunale accompagnata da un elenco dei debiti fuori bilancio, a firma del sindaco e del segretario”. L’elencazione deve inoltre contenere la certificazione che non esistono altri debiti fuori bilancio. Stante la evidente difficoltà per sindaci e segretari di rilasciare una certificazione di tale genere, si rende quindi necessario che il testo della certificazione sia tale da ricomprendere “oltre che lo stato degli atti di ufficio e la conoscenza personale dei fatti di gestione, anche l’acquisita dichiarazione di tutti coloro i quali possano o debbano essere a conoscenza di debiti fuori bilancio”.

Il primo conto consuntivo al quale sono state applicate l’innovativa disciplina di cui al d.l. 318/86 e la deliberazione n. 30 della Corte dei conti è quello relativo al 1985.

Rimanevano comunque molti dubbi sulla non completa rappresentabilità del fenomeno con i dati dei conti consuntivi, tenuto conto da un lato che una percentuale assai rilevante dei comuni non aveva segnalato la presenza di debiti fuori bilancio, dall’altro che molti comuni, pur segnalandone l’esistenza, non avevano poi provveduto al loro finanziamento.

         Era particolarmente evidente quindi la necessità di una normativa più incisiva in materia di debiti fuori bilancio che consentisse di porre un freno allo svilupparsi del fenomeno e costituisse un serio monito per quanti amministrano a livello locale.

         La manovra è stata tentata quindi nell’anno 1989, anno che ha finito per diventare lo spartiacque in materia di debiti fuori bilancio.

         Innanzitutto è stata varata una normativa totalmente innovativa per impedire il formarsi di nuovi debiti fuori bilancio. Si tratta degli artt. 23 e 24 del d.l. 2 marzo 1989 n. 66 convertito in legge 24 aprile 1989 n. 144.

         L’art. 23 stabiliva infatti tre importanti principi che sono divenuti, poi, gli elementi fondamentali della successiva normativa tuttora in vigore.

         In primo luogo veniva stabilito che a tutte le amministrazioni provinciali, ai comuni ed alle comunità montane che presentino, nell’ultimo conto consuntivo deliberato, disavanzo di amministrazione ovvero indichino debiti fuori bilancio, per i quali non siano stati già adottati i provvedimenti previsti nell’art. 1 bis del d.l. 1 luglio 1986 n. 318 convertito nella legge 9 agosto 1986 n. 488, fosse fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge.

         In altre parole, in presenza di debiti fuori bilancio dovevano essere adottati i provvedimenti di riequilibrio previsti dall’art. 1 bis; ove non si fosse provveduto in tal senso, non avrebbero potuto essere sostenute spese per servizi non espressamente previsti per legge.

         Il precetto, già contenuto nel d.l. 318/86, infatti, non era collegato ad alcuna sanzione, ciò che aveva consentito, come abbiamo visto, a molti enti locali di dichiarare l’esistenza di debiti fuori bilancio senza provvedere però al conseguente riequilibrio della gestione.

         In secondo luogo a tutte le amministrazioni provinciali, ai comuni ed alle comunità montane l’effettuazione di qualsiasi spesa veniva consentita esclusivamente in presenza di deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché dell’impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo di bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati.

         Si ribadiva quindi in modo esplicito il principio generale già esistente nell’ordinamento contabile del divieto di effettuazione di spese non preventivamente autorizzate ed impegnate nelle forme di legge, introducendo inoltre l’obbligo di comunicare gli estremi di tale impegno al terzo interessato.

Tale obbligo risulta infatti adempimento strumentale essenziale ai fini della successiva disposizione.

Infatti nel caso in cui vi fosse stata l’acquisizione di beni o servizi in violazione dell’obbligo suindicato, il rapporto obbligatorio sarebbe intercorso, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge, tra il privato fornitore e l’amministratore o il funzionario che avevano consentito la fornitura.

Questa norma rappresenta la vera sostanziale innovazione in quanto tende a risolvere alla radice il problema dei debiti fuori bilancio. In sostanza, si dice, dalla entrata in vigore di questa norma, l’ordinazione di spesa effettuata al di fuori delle corrette procedure giuscontabili non genera più debito nei confronti dell’ente, ma nei confronti di chi ha richiesto la fornitura stessa.

La definizione del fenomeno dei debiti fuori bilancio richiedeva però una norma di chiusura che consentisse di definire le situazioni pregresse non inquadrabili nella norma sopracitata. L’art. 24 del medesimo decreto legge prevedeva pertanto una disciplina specifica per i debiti fuori bilancio già esistenti alla data di entrata in vigore del decreto.

Si stabiliva infatti che le amministrazioni provinciali, i comuni e le comunità montane avrebbero dovuto provvedere, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, all’accertamento dei debiti fuori bilancio esistenti alla data predetta e, con deliberazioni dei rispettivi consigli, avrebbero dovuto provvedere al relativo riconoscimento.

Il riconoscimento del debito poteva avvenire solo ove le forniture, opere e prestazioni fossero state eseguite per l’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dell’ente locale, e doveva essere, per ciascun debito, motivato nell’atto deliberativo. Con la deliberazione suddetta il consiglio avrebbe dovuto indicare i mezzi di copertura della spesa ed impegnare in bilancio i fondi necessari. Veniva inoltre regolamentata la procedura per il finanziamento dei debiti prevedendo anche un piano di rateizzazione con i creditori, fornendo come garanzia i contributi erariali ordinari e perequativi che venivano quindi corrispondentemente vincolati. L’adozione del piano pluriennale di risanamento comportava inoltre il divieto di assumere nuovo personale oltre il limite del 20% di quello cessato dal servizio in ciascun anno di durata del piano.

Successivamente, vista anche l’entrata in vigore della legge di riforma delle autonomie locali, il legislatore ha ritenuto opportuno prorogare la disciplina transitoria dei debiti fuori bilancio contratti antecedentemente al 12 giugno 1990 (data di entrata in vigore della citata legge n. 142/1990) fino alla data del 15 luglio 1991. Ciò è avvenuto con l’art.12 bis del d.l. 12 gennaio 1991 n. 6 convertito in legge 15 marzo 1991 n. 80.

L’art. 12 bis suindicato non si è però limitato a prorogare i termini previgenti; ha ulteriormente specificato la disciplina dei debiti fuori bilancio provvedendo ad una classificazione, tuttora in vigore nelle sue linee essenziali, che costituisce elemento di riferimento essenziale anche oggi.

Dei debiti fuori bilancio, il cui riconoscimento era soggetto a specifici tassativi termini, venivano infatti estrapolate alcune fattispecie non soggette a termini.

Si tratta dei debiti fuori bilancio derivanti dalle seguenti situazioni:

1.      sentenze passate in giudicato o immediatamente esecutive;

2.      copertura dei disavanzi di enti, aziende ed organismi dipendenti dal comune;

3.      procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità;

4.      fatti e provvedimenti ai quali non hanno concorso interventi o decisioni di amministratori o dipendenti.

Si tratta, con tutta evidenza, di debiti fuori bilancio che traggono la loro origine non da comportamenti colpevoli, attivi od omissivi, di amministratori o funzionari, ma da fatti esterni difficilmente prevedibili e regolamentabili all’interno delle procedure di legge.

Quanto alla individuazione dei debiti fuori bilancio bisogna tener conto dell’evoluzione della normativa nel corso degli anni. Infatti, a partire dalla deliberazione n. 30/1986 della Corte dei conti, anche il concetto di debito fuori bilancio si è evoluto in conseguenza del mutare della normativa.

Una definizione di debito fuori bilancio l’ha fornita il Ministero dell’Interno con la circolare 20 settembre 1993 n. F.L.21/1993 dedicata ai problemi applicativi del risanamento degli enti locali territoriali in stato di dissesto.

In particolare, secondo il Ministero dell’Interno, il debito fuori bilancio può essere definito come un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro che grava sull’ente, non essendo imputabile, ai fini della responsabilità, a comportamenti attivi od omissivi di amministratori e funzionari, e che non può essere regolarizzata nell’esercizio in cui l’obbligazione stessa nasce, in quanto assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti locali.

Quanto ai requisiti generali che il debito deve avere, il Ministero dell’Interno indica quello della certezza, cioè che esista effettivamente una obbligazione a dare, quello della liquidità, nel senso che l’importo del debito sia determinato o determinabile e quello della esigibilità, cioè che il pagamento non sia dilazionato da termine o sottoposto a condizione.

Le norme del d.l. n.6/91, così come modificato dalla legge di conversione 15 marzo 1991 n. 80, sono state successivamente riprese dall’art.37 del nuovo ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, il D.Lgs. n. 77/1995, a sua volta modificato dall’art.12 del D.Lgs.11 giugno 1996 n. 336 (che ha sostituito alla lett. c) del comma 1 le parole “ripiano delle perdite” con il più corretto termine di “ricapitalizzazione”) e dall’art.5 del D.Lgs. 12 settembre 1997 n. 342 (che ha sostituito integralmente la lett. e) del comma 1).

2.- Il nuovo testo che ne deriva – ora art.194 del testo unico degli enti locali – disciplina la materia in modo più stringente rispetto al passato, proponendosi di arginare la prassi della formazione dei debiti fuori bilancio, che, nonostante le norme cogenti sopra richiamate, continua a riproporsi nella vita degli enti locali.

La norma è altresì rilevante perché permette di sanare, in modo definitivo, tali debiti, nei limiti della accertata utilità ed arricchimento, acquisiti dall’ente, mentre rimane a carico di coloro che hanno ordinato, o reso possibile la fornitura di beni e l’acquisizione di servizi, la parte residua. Per tale ultima quota del debito, infatti, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e coloro i quali hanno disatteso le norme, che regolano l’effettuazione delle spese dell’ente locale, così come disciplinato all’art. 191 del testo unico.

L’art. 194 costituisce quindi una eccezione ai principi espressi dall’art. 191 T.U. che sancisce la irregolarità di spese assunte senza formale impegno, eccezione da applicarsi solo ad alcune tipologie di debiti fuori bilancio, per le quali è possibile procedere al riconoscimento ed al loro ripiano con i provvedimenti di riequilibrio e le relative modalità disciplinate dall’art. 193 comma 3.

Il comma 1 demanda al regolamento di contabilità dell’ente di fissare la periodicità con cui devono essere adottate le deliberazioni di riconoscimento di eventuali debiti fuori bilancio. Se non diversamente regolato i riconoscimenti medesimi possono avvenire soltanto in occasione dell’adozione della deliberazione prevista dal comma 2, art.193 del T.U. di “ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi” e di contestuale adozione dei provvedimenti a ripiano.

Al riguardo va evidenziato che rispetto alla precedente disciplina contenuta nell’art.37, comma 1, lett. a) del D. Lgs. n.77/95, il D. Lgs. n. 267/2000, nel prevedere il riconoscimento di legittimità dei debiti fuori bilancio, al comma 1, lett.a) include le sole sentenze esecutive, senza far menzione di quelle passate in giudicato.

La nuova dizione recepisce nella sostanza la modifica del c.p.c. intervenuta con l’art. 33 della legge 353/90, con la quale si stabiliva, nel nuovo testo dell’art. 282 c.p.c., che la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti, con la conseguenza della possibilità per l’ente locale di procedere al riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio sin dalla emanazione della sentenza di primo grado, di per sé esecutiva, ancorché provvisoriamente.

Peraltro, il pagamento può comportare per l’ente una difficile e complessa ripetizione in caso di vittoria in un successivo grado di giudizio, dopo aver sostenuto l’onere per il finanziamento, magari con un mutuo.

In alternativa l’ente potrebbe richiedere alla controparte di prestare idonee garanzie (fideiussione, con accollo del costo, in caso di soccombenza o vincolo delle somme da liberare al termine del giudizio), oppure impegnare la spesa senza erogazione, anche se così facendo l’ente si espone al rischio del riconoscimento di interessi per ritardato pagamento, con i conseguenti profili di responsabilità.

La nuova formulazione della lett. e) del comma 1, dell’art.194 T.U. comporta una novità sostanziale.

Si è recepita quella che è stata l’elaborazione giurisprudenziale, in particolare della Corte dei conti, ma anche del giudice ordinario, stabilendo che sono permanentemente sanabili i debiti derivanti da acquisizioni di beni e servizi, relativi a spese assunte in violazione delle norme giuscontabili di cui ai commi 1,2 e 3 dell’art. 191 T.U., per la parte di cui sia accertata e dimostrata l’utilità e l’arricchimento che ne ha tratto l’ente locale.

In tal senso il tenore della novella (che si avvicina in maniera assolutamente evidente al dovere della Corte dei conti di tener conto, nel giudizio di responsabilità, dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o dalla comunità amministrata, la c.d. compensatio lucri cum damno) è coerente con la nuova caratterizzazione impressa all’illecito contabile dalle più recenti riforme intervenute (leggi nn. 19 e 20 del 1994, in tema di riordinamento della Corte dei conti e di riconfigurazione della responsabilità patrimoniale degli agenti pubblici).

Da tale nuova formulazione deriva la modifica apportata al comma 4 dell’art. 191 del T.U. che prevede la non imputabilità all’ente di obbligazioni derivanti da impegni di spesa assunti in violazione delle norme giuscontabili di cui ai commi 1, 2 e 3 dello stesso art. 191, per la parte di debito non riconoscibile.

Un dato colpisce l’interprete: la consacrazione legislativa dell’arricchimento senza causa nei confronti della P.A., istituto, come è noto, di origine pretoria. Si richiama l’attenzione sul fatto che la deliberazione consiliare di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di cui al comma 1, dell’art. 194 T.U. deve fornire la concreta prova dell’utilità, congiunta all’arricchimento dell’ente. I due requisiti devono coesistere, cioè il debito fuori bilancio deve essere conseguente a spese effettuate per le funzioni di competenza dell’ente, fatto che ne individua l’utilità, e deve esserne derivato all’ente un arricchimento.

Al riguardo l’arricchimento non deve essere inteso unicamente come accrescimento patrimoniale, potendo consistere anche in un risparmio di spese.

La proposta della deliberazione per il riconoscimento dei debiti spetta al responsabile del servizio competente per materia.

Utili indicatori per la quantificazione dell’arricchimento possono ricavarsi dalle disposizioni contenute nell’art. 2041 c.c. e dalla elaborazione giurisprudenziale in tema di ingiustificato arricchimento della P.A. L’arricchimento va stabilito con riferimento alla congruità dei prezzi, sulla base delle indicazioni e delle rilevazioni del mercato o dei prezzari e tariffe approvati da enti pubblici, a ciò deputati, o dagli ordini professionali.

Non sono normalmente riconoscibili gli oneri per interessi, spese giudiziali, rivalutazione monetaria ed in genere i maggiori esborsi conseguenti al ritardato pagamento di spese per beni e servizi, in quanto nessuna utilità ed arricchimento consegue all’ente. Con riferimento a quest’ultimo punto, è possibile distinguere una parte della spesa il cui pagamento compete all’amministratore, al funzionario o dipendente che l’ha ordinata in maniera irregolare e una restante parte che configura l’ipotesi di utilità ed arricchimento da parte dell’ente, la quale può essere posta a carico dell’ente medesimo attraverso la procedura di riconoscimento di debito fuori bilancio.

Il riconoscimento dei debiti fuori bilancio è inoltre vincolato all’espletamento di pubbliche funzioni (con una interpretazione che può essere limitata a quelle dettate e imposte per legge, oppure più ampia, legata a tutte le attività che l’ente locale può legittimamente svolgere) e per i servizi di competenza (dove non è chiarito se debba trattarsi delle competenze dell’organo che ha agito, oppure, più propriamente, di competenze riferite alle funzioni pubbliche, quindi con una estensione che ricomprende ad ampio raggio tutti i servizi dell’ente).

La stessa formulazione della disposizione lascia un ampio margine di apprezzamento discrezionale all’amministrazione che riconosce la legittimità del debito, prima, alla Corte dei conti chiamata a verificare se la delibera di riconoscimento del debito è stata legittimamente adottata, in un secondo momento.

La questione è certamente delicata: nel momento in cui l’ente locale assume apposita deliberazione di riconoscimento della legittimità del debito, da un lato esclude la responsabilità patrimoniale del soggetto agente, dall’altro fa sorgere in capo all’amministrazione stessa (componenti del consiglio comunale che hanno adottato la deliberazione, il responsabile del servizio interessato nonché il responsabile del servizio finanziario) la possibilità di soggiacere al giudizio della Corte dei conti.

Va ricordato, infatti, che nell’ambito delle misure finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed a una più razionale gestione delle risorse la legge finanziaria 2003 ha previsto, fra l’altro, varie disposizioni relative ad una serie di divieti e di comunicazioni che le amministrazioni pubbliche sono tenute a fare agli organi di controllo interno ed alla Corte dei conti.

Fra le disposizioni più importanti c’è quella prevista dall’art. 23, comma 5, il quale prevede che “i provvedimenti di riconoscimento di debito posti in essere dalle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs 165/2001, sono trasmessi agli organi di controllo ed alla competente Procura della Corte dei conti.

Come alcuni commentatori hanno già osservato, quest’obbligo di trasmettere gli atti di riconoscimento di debiti alla competente Procura regionale della Corte dei conti comporterà non già la condanna automatica di chi ha riconosciuto il debito, bensì una verifica della singola fattispecie per individuare la sussistenza di eventuali danni patrimoniali a carico delle finanze dell’ente e le eventuali responsabilità nel caso in cui il riconoscimento stesso sia avvenuto al di fuori delle ipotesi previste dalla legge.

In altre parole, si vuole rimarcare come l’introduzione di tale obbligo dovrebbe avere una funzione deterrente nei confronti degli amministratori e dei dirigenti degli enti locali nel far ricorso al riconoscimento di debiti fuori bilancio, anche in ipotesi non riconducibili a quelle previste dall’art. 194.

Per quanto riguarda la comunicazione agli organi di controllo, dopo l’abrogazione dell’art. 130 della Cost. da parte delle legge costituzionale 18/10/2001 n.3 e la conseguente cessazione delle funzioni di controllo del Coreco nei confronti degli enti locali, la trasmissione del provvedimento in parola va fatta solo al Collegio dei revisori o al revisore, ed agli altri organi di controllo interno, ove istituiti ed operanti.

3.- Una particolarità importante è indubbiamente costituta dalla competenza attribuita dalle disposizioni in materia di debiti fuori bilancio al consiglio comunale e non, come avrebbe dovuto essere in applicazione dei principi generali, al dirigente fornito di competenza in materia; del resto, l’eccezione si giustifica agevolmente tenuto conto della eccezionalità della procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio (che importa la sostanziale modifica delle decisioni di bilancio precedentemente adottate e comunque una valutazione di alcuni episodi profondamente disfunzionali per l’organizzazione amministrativa) e della necessità di escludere possibili conflitti di interessi nelle decisioni in materia di riconoscimento.

E’ controversa la natura della deliberazione da adottare da parte del consiglio per il riconoscimento del debito fuori bilancio. Che l’atto di riconoscimento del consiglio sia un atto dovuto e vincolato è indicato da una recente pronuncia della Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, 16/6/2000 n. 8223), secondo cui “l’adeguamento alle statuizioni di una sentenza esecutiva non costituisce acquiescenza alla stessa e pertanto non si configura come comportamento idoneo ad escludere l’ammissibilità della impugnazione. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile l’impugnazione proposta da un comune avverso una sentenza esecutiva che lo condanni al pagamento di una somma di denaro anche quando il suddetto comune abbia, con proprie delibere, riconosciuto ai sensi e per gli effetti dell’art. 37 d.lgs. del 25/2/1995 n.77 la legittimità del debito fuori bilancio, accertata in sentenza, atteso che così agendo il comune si è meramente adeguato alle statuizioni della sentenza esecutiva, nella valutazione dell’interesse pubblico di non gravare il debito dei maturandi accessori, e che il riconoscimento della legittimità del debito risulta un necessario incombente, essendo imposto dalla norma citata per l’adeguamento del debito fuori bilancio”.

4.- Per il ripiano dei debiti fuori bilancio (e del disavanzo) il comma 3 dell’art. 193 offre la possibilità di utilizzare, per l’anno in corso e per i due successivi, tutte le entrate e le disponibilità ad eccezione di quelle:

·         provenienti dall’assunzione di prestiti;

·         aventi specifica destinazione per legge;

·         derivanti da alienazioni di beni patrimoniali disponibili.

E’ ammesso il pagamento tramite il ricorso ad un piano di rateizzazione della durata di tre anni finanziari, da concordare con i creditori, e tramite l’accensione di mutui, ai sensi degli artt. 202 e seg. del T.U., salvo quanto disposto dal comma 4 dell’art. 41 della legge finanziaria per il 2002.

Quest’ultimo aspetto merita particolare attenzione. A seguito della legge costituzionale n. 3/2001, che ha consentito agli enti locali di indebitarsi esclusivamente per le spese di investimento (art. 119 Cost.), l’art. 41, comma 4, legge n. 448/2001 ha chiarito che il ricorso ai mutui per la copertura dei debiti fuori bilancio è ammesso solo per quei debiti maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001. Fa eccezione a tale principio la disciplina prevista per il risanamento degli enti locali dissestati. In particolare, si fa presente che il comma 15 dell’art. 31 della legge 289/2002 (legge finanziaria per il 2003), nell’abrogare le disposizioni del T.U.E.L. relative al risanamento degli stessi, fa salva l’applicazione delle medesime disposizioni a favore di quegli enti che hanno adottato la deliberazione di dissesto prima dell’entrata in vigore della legge cost. n. 3/2001.

Pertanto, gli enti dissestati, rientrando nelle fattispecie previste dalla citata disposizione, possono assumere mutui per il ripiano dell’intero indebitamento pregresso, compreso quello di parte corrente.


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