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n. 7-8/2006 - ©
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BRUNO E. G. FUOCO*
Le società in house abbandonano il mercato?
(Riflessioni sull’art. 13 del D.L. n. 223/2006)
1. L’art. 13 [1] del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (cd. d.l. Bersani) nel suo impianto generale esprime una finalità molto apprezzabile: impedire, senza lasciare spazio a manovre elusive, che i soggetti, tramite i quali, la p.a. autoproduce beni e servizi, possano operare nel mercato e competere con i soggetti privati. Il D.L. Bersani si prefigge di evitare che i flussi finanziari pubblici possano avvantaggiare alcuni soggetti economici ed alterare, conseguentemente, la concorrenza.
Dietro questa finalità pro-concorrenziale, vi è, implicitamente, anche la tutela dell’uguaglianza sostanziale tra i cittadini. Infatti, che la Pubblica amministrazione possa incontrare difficoltà a rimuovere [2] gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione all'organizzazione economica e sociale del Paese, possiamo comprenderlo, ma che proprio essa assurga a fattore di disuguaglianza sostanziale, avvantaggiando, tramite la gestione della cosa pubblica, alcuni soggetti privati, è per tutti (quasi tutti) inaccettabile.
Per questa ragione, condividiamo lo sforzo compiuto dal legislatore di disciplinare (per la prima volta) l’istituto dell’affidamento in house [3] di beni e servizi, nei settori ordinari.
In questo contesto, il D.L. Bersani dispone che le società strumentali [4]:
- debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti;
- non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara;
- non possono partecipare ad altre società o enti.
La disposizione nel suo complesso, appare anche apprezzabile, se teniamo in debita considerazione, il fatto che la p.a. e le società in house potranno operare, in futuro, in un quadro di certezza operativa, fino ad oggi sconosciuta, ma su questo aspetto torneremo in seguito.
2. Suscita, invero, qualche perplessità l’unificazione operata dal comma 1, del citato articolo 13, in merito ad alcune tipologie di situazioni che trovavano, prima dell’entrata in vigore del D.L. Bersani, una diversa sistemazione normativa. La materia in esame (affidamenti pubblici di beni e servizi in deroga alle procedure di evidenza pubblica, nei settori ordinari) è, infatti, interessata, teoricamente, da tre istituti:
1) gli organismi di diritto pubblico che, in virtù di un diritto esclusivo, ricevono direttamente appalti pubblici di servizi da parte della sola p.a. che ha concesso il predetto diritto. L’art. 19, comma 2, del codice degli appalti dispone, infatti, che “il presente codice non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un’altra amministrazione aggiudicatrice o ad un’associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”. La disposizione codicistica recepisce, peraltro, integralmente, l’articolo 18 della direttiva 2004/18 [5]. La deroga al sistema dell’evidenza pubblica, già prevista dall’art. 6 della direttiva 92/50/CEE sugli appalti pubblici di servizi, era stata recepita dall’art. 5, comma 2, lett. g) del D. Lgs. n. 157 del 1995 [6]. In questa fattispecie, i predetti organismi di diritto pubblico, si ribadisce, possono ricevere direttamente, soltanto, appalti di servizi;
2) le società, a capitale interamente pubblico, che ricevono affidamenti diretti di beni e servizi, a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi [7] e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano. La giurisprudenza nazionale ha precisato che “nell'ordinamento interno si distingue tra affidamenti in house a società a capitale interamente pubblico, e affidamenti a società miste. Per quanto riguarda gli affidamenti di lavori, servizi, forniture, a società a capitale interamente pubblico, si rientra nella tematica del sistema cd. in house, in cui la società opera come longa manus dell'ente-amministrazione aggiudicatrice, per cui l'ipotesi equivale a quella di esercizio diretto dell'attività da parte dell'ente”[8];
3) le società, a capitale misto, distinte dagli organismi di diritto pubblico- titolari di un legittimo diritto di esclusiva, che, a seguito della recente evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, non dovrebbero poter più ricevere affidamenti diretti di beni e servizi, in quanto la presenza effettiva o potenziale [9] del socio privato impedirebbe, a priori, il controllo analogo. Anche su questo aspetto torneremo in seguito.
In sintesi, i tre istituti si fondano su due diverse tipologie di deroghe alle procedure di evidenza pubblica:
a) la p.a. può affidare l’appalto di servizi ad un ente che sia esso stesso un'amministrazione aggiudicatrice, in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il Trattato (deroga ex artt. 18 direttiva 2004/18 e 19 codice appalti);
b) la p.a. può affidare l’appalto di servizi e/o di fornitura ad una controparte contrattuale, ente giuridicamente distinto dall'autorità aggiudicatrice, nell'ipotesi in cui l'autorità pubblica, che è un'autorità aggiudicatrice, eserciti sull'ente distinto di cui si tratta un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e in cui tale ente realizzi la parte più importante della propria attività con l'Ente o con gli Enti locali che la controllano: cd. autoproduzione di beni e servizi, sub specie società a totale partecipazione pubblica, oppure, secondo alcuni e il D.L. Bersani, anche a partecipazione mista (deroghe ex giurisprudenza della Corte di Giustizia[10]).
3. Appare utile verificare, a questo punto, l’ipotetico impatto che il D.L. Bersani può generare sulle predette situazioni.
a) organismi di diritto pubblico (art.18 direttiva 2004/18, art. 19 codice appalti).
A nostro avviso, in assenza di aggiustamenti normativi, vi è il rischio che la fattispecie in esame, da tenere distinta da quella delle società in house [11], possa, inopinatamente, ricadere nell’ambito di applicazione dell’art.13.
In tal caso, il D.L Bersani introdurrebbe per gli organismi di diritto pubblico, per di più di sola matrice societaria (non statale), un regime più restrittivo della stessa direttiva comunitaria e del codice degli appalti, in assenza di una ragione comprensibile, in quanto, questi organismi operano in modo conforme alla concorrenza, sulla base di una disposizione comunitaria e statale. Non possono ricevere commesse (appalti di servizi) in via diretta, se non dal solo soggetto pubblico che ha conferito il diritto esclusivo compatibile con il Trattato.
Forse, le devianze riscontrate nella prassi dal modello comunitario, possono aver indotto il legislatore ad introdurre un assetto estremamente restrittivo.
Se quanto abbiamo, appena, osservato, è, comunque, condivisibile, ne discende che l’intervento statale non può superare il giudizio trifasico del sindacato di proporzionalità, in quanto non appare idoneo, sul piano logico, ad “evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato” e ad “assicurare la parità degli operatori”.
La disposizione statale non opera sul regime della riserva al fine di evitare abusi, ma sull’intera struttura dell’organismo di diritto pubblico.
Ricordiamo che la Corte costituzionale ha precisato a questo proposito: “quello che non può sottrarsi al sindacato di costituzionalità è il fatto che i vari "strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi" (sentenza n. 14 del 2004). Il criterio della proporzionalità e dell'adeguatezza appare quindi essenziale per definire l'ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla "tutela della concorrenza" e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali. Trattandosi infatti di una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per così dire, "trasversale" (cfr. sentenza n. 407 del 2002), poiché si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle regioni - connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, è evidente la necessità di basarsi sul criterio di proporzionalità-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato” [12].
L’intervento statale sull’autogoverno degli enti regionali e locali si rivela, allora legittimo se risulta idoneo, adeguato, e necessario per l’apertura del mercato alla concorrenza. In caso contrario, l’intervento statale, inconsapevolmente, lungi dal favorire il mercato, penalizza alcune società a vantaggio di altre.
Comunque, quale che siano le opinioni maturate su questo punto, appare necessario che il legislatore chiarisca se le società di servizi - organismi di diritto pubblico titolari di un legittimo diritto esclusivo - ricadono nel campo di applicazione dell’art. 13.
b) Le società miste.
Le società miste, invece, a ben vedere, ricevono un beneficio dal D.L. Bersani. La disposizione statale, forse, bypassando la giurisprudenza della Corte di Giustizia che sul punto appare preclusiva, consente che le predette società possano ricevere direttamente affidamenti di beni e servizi, purché rispettino le condizioni dettate all’art.13.
Se analizziamo il catalogo delle condizioni restrittive (applicabili anche alle società a totale partecipazione pubblica) ricaviamo l’idea che queste ultime, per quanto coerenti con la finalità della disposizione, non appaiono, prima facie, idonee a superare gli ostacoli derivanti dal diritto comunitario, in quanto il divieto della partecipazione del privato non è correlato al semplice rischio di una contaminazione di interessi, cui il D.L. potrebbe porre rimedio, mediante il modello della società di scopo, ma al fatto che la presenza del privato impedisce, “a priori”, il controllo analogo sui propri servizi:“la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice (…) esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”[13]. Anche la dottrina ha rilevato che la carenza del controllo sul soggetto affidatario è immanente nelle società miste [14].
Il modello delle società miste dovrebbe collocarsi al di fuori delle possibili opzioni compatibili con il diritto comunitario. L’ordinamento comunitario ammette, quale espressione dei poteri di auto-organizzazione delle amministrazioni pubbliche, l’autoproduzione di beni e servizi [15], non obbliga, cioè tout court, la p.a. a rivolgersi al mercato. Se la p.a. ha le capacità tecniche ed economiche, può autoprodurre beni e servizi, altrimenti, deve ricorrere al mercato. La Corte di Giustizia non pare ammettere una soluzione intermedia (società miste) potenzialmente idonea a frustrare la ratio degli obblighi comunitari.
Bisogna dare atto che al fine di superare i prevedibili ostacoli frapposti, in sede comunitaria, alla partecipazione dei privati, il D.L. Bersani ha congegnato le società in house, come società “fuori mercato”, relativamente alle quali, a priori, dovrebbero essere fugati i dubbi circa potenziali violazioni delle regole di mercato. In siffatte società non dovrebbero sussistere, a priori, interessi privati ingovernabili e conflittuali con quelli pubblici.
In altri termini, la risposta del D.L. Bersani alle eventuali obiezioni della Corte di Giustizia potrebbe essere quella, secondo la quale, nel caso di una società “fuori mercato”, non possono prodursi vantaggi per gli imprenditori, in quanto la società non ha collegamenti con il mercato: né in termini di partecipazioni, né in termini di prestazioni.
Peraltro, il Presidente dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, nulla ha eccepito in merito alle società miste e ha così commentato la disposizione in esame:”L’articolo 13 del decreto ha lo scopo di porre un limite all’attività delle società costituite dagli enti locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività dei medesimi enti. Tali soggetti potranno svolgere l’attività solo a beneficio dell’ente costituente e affidante. Nella misura in cui tale disposizione sia idonea ad evitare qualunque forma di vantaggio in capo a tali società essa è coerente con la logica del mercato. In ogni caso, l’Autorità ritiene che in conformità al diritto comunitario il ricorso all’affidamento diretto (in house) debba essere considerato un’eccezione rispetto al principio generale della gara pubblica”[16].
Non è azzardato ritenere che il legislatore sia stato condizionato dall’esigenza, certamente apprezzabile, di proteggere il valore economico – sociale di tante società (miste) che, nel corso degli anni, hanno operato, nel settore degli appalti, in un quadro giuridico incerto.
Comunque, esistono isolati indirizzi giurisprudenziali, in linea con la scelta del legislatore (in disparte gli orientamenti dottrinari che hanno ipotizzato la deroga dalle procedure di gara, in presenza del carattere strumentale della società affidataria): si è affermato, infatti, che se il socio è scelto mediante gara (su questo aspetto tace il D.L.), i soli appalti conformi allo scopo originario della società mista possono essere affidati direttamente alla società [17]. Recentemente, anche il Consiglio di Stato ha ritenuto non ostativa la partecipazione simbolica del privato (Cassa di Risparmio) in un società in cui il soggetto pubblico deteneva il capitale in misura superiore al 99% [18].
c) Le società a totale capitale pubblico.
Le società a totale capitale pubblico, al fine di poter beneficiare degli affidamenti diretti, devono accettare requisiti di operatività più restrittivi di quelli richiesti dal diritto comunitario: le società in house, infatti, debbono operare, esclusivamente, con gli enti costituenti ed affidanti e non possono partecipare in altri enti. Il D.L. Bersani ha imposto l’esclusività, in luogo del criterio della prevalenza [19] prescritto dalla Corte di Giustizia. Ma il sacrificio imposto non è così rilevante, se consideriamo che, nella sostanza, l’attività prevalente deve essere quella assorbente [20]. In ragione di ciò, le società dovranno rinunciare ad attività effettivamente marginali: “si può ritenere che l’impresa ... svolga la parte più importante della sua attività con l’ente locale che la detiene.. solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale. Per verificare se la situazione sia in questi termini il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitativi” [21] .
La disposizione statale introduce, poi, in luogo del criterio del controllo analogo avente un contenuto precettivo controverso [22], limiti operativi molto restrittivi, da recepire in sede statutaria, ma di chiara applicazione, finalizzati a soddisfare, nella sostanza, la ratio del predetto criterio. Non vi è, quindi, espressa menzione del controllo analogo, in quanto esso dovrebbe essere soddisfatto, nell’intendimento del legislatore, mediante il modello della società di scopo.
Il nesso di assoluta ed esclusiva strumentalità imposto alla società, dovrebbe garantire il controllo analogo e cioè la dipendenza amministrativa, finanziaria e formale della società rispetto agli enti affidanti. Anche se in caso di contenzioso, occorrerà procedere, sempre, secondo le indicazioni della Corte di Giustizia, le quali sono sempre focalizzate, non tanto sull’assetto statutario, quanto sulla realtà operativa della società. Quindi l’omesso riferimento al controllo analogo non è da intendere, quale escamotage, cui ha fatto ricorso il D.L. Bersani per agevolare le società in house o per eludere le prescrizioni di matrice comunitaria.
Possiamo ancora osservare che il D.L. Bersani al fine di legittimare le società in house è intervenuto, anche in negativo, rimuovendo, cioè, quei fattori ritenuti dalla Corte di Giustizia, ostativi alla configurabilità dell’housing providing, tra i quali, ricordiamo, un oggetto sociale ampio che consente di svolgere molteplici attività, anche all’esterno dell’ambito territoriale dell’ente controllante [23]. A tal fine il D.L. Bersani ha imposto un oggetto sociale tipizzato ed esclusivo che risolve in radice il problema della extraterritorialità.
Un ulteriore pregio della disposizione in esame deriva dal fatto che essa appare, prima facie, idonea a risolvere il problema, in caso di capitale detenuto da molteplici enti, relativo alla possibilità da parte di tutti i soci costituenti, di affidare le forniture di beni e servizi alla società strumentale; attualmente, tale facoltà risulta esercitabile con qualche incertezza, a causa della difficoltà di dimostrare che un’influenza determinante, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società, possa essere esercitata da tutti gli enti pubblici detentori del capitale sociale [24]. Il D.L. prevede, espressamente, che tutti gli enti costituenti possano affidare le forniture di beni e servizi alla società strumentale.
I requisiti restrittivi imposti sono, quindi, in funzione di una semplificazione operativa degli affidamenti in house.
Pertanto, il quadro giuridico entro il quale le società strumentali potranno operare, diventa molto chiaro e ciò potrà favorirne un corretto e razionale sviluppo. Non dimentichiamo che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha messo, in forse, la concreta fattibilità del modello organizzativo in esame, perché il requisito del controllo analogo non pare ben sposarsi con il modello societario, in particolare, con quello delle società di capitali, caratterizzato dalla separazione tra proprietà e controllo [25]. La dottrina ha, infatti, evidenziato a questo proposito, che il modello della s.r.l. post - riforma 2003, stante l’assenza della netta separazione tra proprietà e controllo, possa, invece, ben sposarsi con i requisiti richiesti per il controllo analogo [26]. Il modello della società strumentale, proposto dal D.L. Bersani, potrebbe risolvere anche quest’ultima problematica.
Il tempo chiarirà se il tentativo, forse l’unico ragionevolmente ipotizzabile, di salvare l’autoproduzione di beni e servizi, tramite società miste e s.p.a., a totale partecipazione pubblica, attuato tramite il necessario sganciamento radicale delle società strumentali dal mercato, sarà compreso fino in fondo e apprezzato, ma, soprattutto, se andrà a buon fine.
(*) Responsabile Sezione Studi e Consulenza giuridica - Regione Umbria
Le opinioni qui espresse non impegnano l'amministrazione di appartenenza.
Documenti correlati:
G. GUZZO, Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/guzzo_inhouse.htm
L. MANASSERO, Profili problematici dell’art 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 233 in tema di affidamenti in house, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/manassero_inhouse.htm