LexItalia.it  

 Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog

 

Articoli e note

n. 7-8/2006 - © copyright

BRUNO E. G. FUOCO*

Le società in house abbandonano il mercato?

(Riflessioni sull’art. 13 del D.L. n. 223/2006)

horizontal rule

1. L’art. 13 [1] del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (cd. d.l. Bersani) nel suo impianto generale esprime una finalità molto apprezzabile: impedire, senza lasciare spazio a manovre elusive, che i soggetti, tramite i quali, la p.a. autoproduce beni e servizi, possano operare nel mercato e competere con i soggetti privati. Il D.L. Bersani si prefigge di evitare che i flussi finanziari pubblici possano avvantaggiare alcuni soggetti economici ed alterare, conseguentemente, la concorrenza.

Dietro questa finalità pro-concorrenziale, vi è, implicitamente, anche la tutela dell’uguaglianza sostanziale tra i cittadini. Infatti, che la Pubblica amministrazione possa incontrare difficoltà a rimuovere [2] gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione all'organizzazione economica e sociale del Paese, possiamo comprenderlo, ma che proprio essa assurga a fattore di disuguaglianza sostanziale, avvantaggiando, tramite la gestione della cosa pubblica, alcuni soggetti privati, è per tutti (quasi tutti) inaccettabile.

Per questa ragione, condividiamo lo sforzo compiuto dal legislatore di disciplinare (per la prima volta) l’istituto dell’affidamento in house [3] di beni e servizi, nei settori ordinari.

In questo contesto, il D.L. Bersani dispone che le società strumentali [4]:

- debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti;

- non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara;

- non possono partecipare ad altre società o enti.

La disposizione nel suo complesso, appare anche apprezzabile, se teniamo in debita considerazione, il fatto che la p.a. e le società in house potranno operare, in futuro, in un quadro di certezza operativa, fino ad oggi sconosciuta, ma su questo aspetto torneremo in seguito.

2. Suscita, invero, qualche perplessità l’unificazione operata dal comma 1, del citato articolo 13, in merito ad alcune tipologie di situazioni che trovavano, prima dell’entrata in vigore del D.L. Bersani, una diversa sistemazione normativa. La materia in esame (affidamenti pubblici di beni e servizi in deroga alle procedure di evidenza pubblica, nei settori ordinari) è, infatti, interessata, teoricamente, da tre istituti:

1) gli organismi di diritto pubblico che, in virtù di un diritto esclusivo, ricevono direttamente appalti pubblici di servizi da parte della sola p.a. che ha concesso il predetto diritto. L’art. 19, comma 2, del codice degli appalti dispone, infatti, che “il presente codice non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ad un’altra amministrazione aggiudicatrice o ad un’associazione o consorzio di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato”. La disposizione codicistica recepisce, peraltro, integralmente, l’articolo 18 della direttiva 2004/18 [5]. La deroga al sistema dell’evidenza pubblica, già prevista dall’art. 6 della direttiva 92/50/CEE sugli appalti pubblici di servizi, era stata recepita dall’art. 5, comma 2, lett. g) del D. Lgs. n. 157 del 1995 [6]. In questa fattispecie, i predetti organismi di diritto pubblico, si ribadisce, possono ricevere direttamente, soltanto, appalti di servizi;

2) le società, a capitale interamente pubblico, che ricevono affidamenti diretti di beni e servizi, a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi [7] e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano. La giurisprudenza nazionale ha precisato che “nell'ordinamento interno si distingue tra affidamenti in house a società a capitale interamente pubblico, e affidamenti a società miste. Per quanto riguarda gli affidamenti di lavori, servizi, forniture, a società a capitale interamente pubblico, si rientra nella tematica del sistema cd. in house, in cui la società opera come longa manus dell'ente-amministrazione aggiudicatrice, per cui l'ipotesi equivale a quella di esercizio diretto dell'attività da parte dell'ente”[8];

3) le società, a capitale misto, distinte dagli organismi di diritto pubblico- titolari di un legittimo diritto di esclusiva, che, a seguito della recente evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, non dovrebbero poter più ricevere affidamenti diretti di beni e servizi, in quanto la presenza effettiva o potenziale [9] del socio privato impedirebbe, a priori, il controllo analogo. Anche su questo aspetto torneremo in seguito.

In sintesi, i tre istituti si fondano su due diverse tipologie di deroghe alle procedure di evidenza pubblica:

a) la p.a. può affidare l’appalto di servizi ad un ente che sia esso stesso un'amministrazione aggiudicatrice, in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù delle disposizioni legislative, regolamentari od amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il Trattato (deroga ex artt. 18 direttiva 2004/18 e 19 codice appalti);

b) la p.a. può affidare l’appalto di servizi e/o di fornitura ad una controparte contrattuale, ente giuridicamente distinto dall'autorità aggiudicatrice, nell'ipotesi in cui l'autorità pubblica, che è un'autorità aggiudicatrice, eserciti sull'ente distinto di cui si tratta un controllo analogo a quello che esercita sui propri servizi e in cui tale ente realizzi la parte più importante della propria attività con l'Ente o con gli Enti locali che la controllano: cd. autoproduzione di beni e servizi, sub specie società a totale partecipazione pubblica, oppure, secondo alcuni e il D.L. Bersani, anche a partecipazione mista (deroghe ex giurisprudenza della Corte di Giustizia[10]).

3. Appare utile verificare, a questo punto, l’ipotetico impatto che il D.L. Bersani può generare sulle predette situazioni.

a) organismi di diritto pubblico (art.18 direttiva 2004/18, art. 19 codice appalti).

A nostro avviso, in assenza di aggiustamenti normativi, vi è il rischio che la fattispecie in esame, da tenere distinta da quella delle società in house [11], possa, inopinatamente, ricadere nell’ambito di applicazione dell’art.13.

In tal caso, il D.L Bersani introdurrebbe per gli organismi di diritto pubblico, per di più di sola matrice societaria (non statale), un regime più restrittivo della stessa direttiva comunitaria e del codice degli appalti, in assenza di una ragione comprensibile, in quanto, questi organismi operano in modo conforme alla concorrenza, sulla base di una disposizione comunitaria e statale. Non possono ricevere commesse (appalti di servizi) in via diretta, se non dal solo soggetto pubblico che ha conferito il diritto esclusivo compatibile con il Trattato.

Forse, le devianze riscontrate nella prassi dal modello comunitario, possono aver indotto il legislatore ad introdurre un assetto estremamente restrittivo.

Se quanto abbiamo, appena, osservato, è, comunque, condivisibile, ne discende che l’intervento statale non può superare il giudizio trifasico del sindacato di proporzionalità, in quanto non appare idoneo, sul piano logico, ad “evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato” e ad “assicurare la parità degli operatori”.

La disposizione statale non opera sul regime della riserva al fine di evitare abusi, ma sull’intera struttura dell’organismo di diritto pubblico.

Ricordiamo che la Corte costituzionale ha precisato a questo proposito: “quello che non può sottrarsi al sindacato di costituzionalità è il fatto che i vari "strumenti di intervento siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi" (sentenza n. 14 del 2004). Il criterio della proporzionalità e dell'adeguatezza appare quindi essenziale per definire l'ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla "tutela della concorrenza" e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali. Trattandosi infatti di una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per così dire, "trasversale" (cfr. sentenza n. 407 del 2002), poiché si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle regioni - connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, è evidente la necessità di basarsi sul criterio di proporzionalità-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato” [12].

L’intervento statale sull’autogoverno degli enti regionali e locali si rivela, allora legittimo se risulta idoneo, adeguato, e necessario per l’apertura del mercato alla concorrenza. In caso contrario, l’intervento statale, inconsapevolmente, lungi dal favorire il mercato, penalizza alcune società a vantaggio di altre.

Comunque, quale che siano le opinioni maturate su questo punto, appare necessario che il legislatore chiarisca se le società di servizi - organismi di diritto pubblico titolari di un legittimo diritto esclusivo - ricadono nel campo di applicazione dell’art. 13.

b) Le società miste.

Le società miste, invece, a ben vedere, ricevono un beneficio dal D.L. Bersani. La disposizione statale, forse, bypassando la giurisprudenza della Corte di Giustizia che sul punto appare preclusiva, consente che le predette società possano ricevere direttamente affidamenti di beni e servizi, purché rispettino le condizioni dettate all’art.13.

Se analizziamo il catalogo delle condizioni restrittive (applicabili anche alle società a totale partecipazione pubblica) ricaviamo l’idea che queste ultime, per quanto coerenti con la finalità della disposizione, non appaiono, prima facie, idonee a superare gli ostacoli derivanti dal diritto comunitario, in quanto il divieto della partecipazione del privato non è correlato al semplice rischio di una contaminazione di interessi, cui il D.L. potrebbe porre rimedio, mediante il modello della società di scopo, ma al fatto che la presenza del privato impedisce, “a priori”, il controllo analogo sui propri servizi:“la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice (…) esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”[13]. Anche la dottrina ha rilevato che la carenza del controllo sul soggetto affidatario è immanente nelle società miste [14].

Il modello delle società miste dovrebbe collocarsi al di fuori delle possibili opzioni compatibili con il diritto comunitario. L’ordinamento comunitario ammette, quale espressione dei poteri di auto-organizzazione delle amministrazioni pubbliche, l’autoproduzione di beni e servizi [15], non obbliga, cioè tout court, la p.a. a rivolgersi al mercato. Se la p.a. ha le capacità tecniche ed economiche, può autoprodurre beni e servizi, altrimenti, deve ricorrere al mercato. La Corte di Giustizia non pare ammettere una soluzione intermedia (società miste) potenzialmente idonea a frustrare la ratio degli obblighi comunitari.

Bisogna dare atto che al fine di superare i prevedibili ostacoli frapposti, in sede comunitaria, alla partecipazione dei privati, il D.L. Bersani ha congegnato le società in house, come società “fuori mercato”, relativamente alle quali, a priori, dovrebbero essere fugati i dubbi circa potenziali violazioni delle regole di mercato. In siffatte società non dovrebbero sussistere, a priori, interessi privati ingovernabili e conflittuali con quelli pubblici.

In altri termini, la risposta del D.L. Bersani alle eventuali obiezioni della Corte di Giustizia potrebbe essere quella, secondo la quale, nel caso di una società “fuori mercato”, non possono prodursi vantaggi per gli imprenditori, in quanto la società non ha collegamenti con il mercato: né in termini di partecipazioni, né in termini di prestazioni.

Peraltro, il Presidente dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, nulla ha eccepito in merito alle società miste e ha così commentato la disposizione in esame:”L’articolo 13 del decreto ha lo scopo di porre un limite all’attività delle società costituite dagli enti locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività dei medesimi enti. Tali soggetti potranno svolgere l’attività solo a beneficio dell’ente costituente e affidante. Nella misura in cui tale disposizione sia idonea ad evitare qualunque forma di vantaggio in capo a tali società essa è coerente con la logica del mercato. In ogni caso, l’Autorità ritiene che in conformità al diritto comunitario il ricorso all’affidamento diretto (in house) debba essere considerato un’eccezione rispetto al principio generale della gara pubblica”[16].

Non è azzardato ritenere che il legislatore sia stato condizionato dall’esigenza, certamente apprezzabile, di proteggere il valore economico – sociale di tante società (miste) che, nel corso degli anni, hanno operato, nel settore degli appalti, in un quadro giuridico incerto.

Comunque, esistono isolati indirizzi giurisprudenziali, in linea con la scelta del legislatore (in disparte gli orientamenti dottrinari che hanno ipotizzato la deroga dalle procedure di gara, in presenza del carattere strumentale della società affidataria): si è affermato, infatti, che se il socio è scelto mediante gara (su questo aspetto tace il D.L.), i soli appalti conformi allo scopo originario della società mista possono essere affidati direttamente alla società [17]. Recentemente, anche il Consiglio di Stato ha ritenuto non ostativa la partecipazione simbolica del privato (Cassa di Risparmio) in un società in cui il soggetto pubblico deteneva il capitale in misura superiore al 99% [18].

c) Le società a totale capitale pubblico.

Le società a totale capitale pubblico, al fine di poter beneficiare degli affidamenti diretti, devono accettare requisiti di operatività più restrittivi di quelli richiesti dal diritto comunitario: le società in house, infatti, debbono operare, esclusivamente, con gli enti costituenti ed affidanti e non possono partecipare in altri enti. Il D.L. Bersani ha imposto l’esclusività, in luogo del criterio della prevalenza [19] prescritto dalla Corte di Giustizia. Ma il sacrificio imposto non è così rilevante, se consideriamo che, nella sostanza, l’attività prevalente deve essere quella assorbente [20]. In ragione di ciò, le società dovranno rinunciare ad attività effettivamente marginali: “si può ritenere che l’impresa ... svolga la parte più importante della sua attività con l’ente locale che la detiene.. solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale. Per verificare se la situazione sia in questi termini il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitativi” [21] .

La disposizione statale introduce, poi, in luogo del criterio del controllo analogo avente un contenuto precettivo controverso [22], limiti operativi molto restrittivi, da recepire in sede statutaria, ma di chiara applicazione, finalizzati a soddisfare, nella sostanza, la ratio del predetto criterio. Non vi è, quindi, espressa menzione del controllo analogo, in quanto esso dovrebbe essere soddisfatto, nell’intendimento del legislatore, mediante il modello della società di scopo.

Il nesso di assoluta ed esclusiva strumentalità imposto alla società, dovrebbe garantire il controllo analogo e cioè la dipendenza amministrativa, finanziaria e formale della società rispetto agli enti affidanti. Anche se in caso di contenzioso, occorrerà procedere, sempre, secondo le indicazioni della Corte di Giustizia, le quali sono sempre focalizzate, non tanto sull’assetto statutario, quanto sulla realtà operativa della società. Quindi l’omesso riferimento al controllo analogo non è da intendere, quale escamotage, cui ha fatto ricorso il D.L. Bersani per agevolare le società in house o per eludere le prescrizioni di matrice comunitaria.

Possiamo ancora osservare che il D.L. Bersani al fine di legittimare le società in house è intervenuto, anche in negativo, rimuovendo, cioè, quei fattori ritenuti dalla Corte di Giustizia, ostativi alla configurabilità dell’housing providing, tra i quali, ricordiamo, un oggetto sociale ampio che consente di svolgere molteplici attività, anche all’esterno dell’ambito territoriale dell’ente controllante [23]. A tal fine il D.L. Bersani ha imposto un oggetto sociale tipizzato ed esclusivo che risolve in radice il problema della extraterritorialità.

Un ulteriore pregio della disposizione in esame deriva dal fatto che essa appare, prima facie, idonea a risolvere il problema, in caso di capitale detenuto da molteplici enti, relativo alla possibilità da parte di tutti i soci costituenti, di affidare le forniture di beni e servizi alla società strumentale; attualmente, tale facoltà risulta esercitabile con qualche incertezza, a causa della difficoltà di dimostrare che un’influenza determinante, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società, possa essere esercitata da tutti gli enti pubblici detentori del capitale sociale [24]. Il D.L. prevede, espressamente, che tutti gli enti costituenti possano affidare le forniture di beni e servizi alla società strumentale.

I requisiti restrittivi imposti sono, quindi, in funzione di una semplificazione operativa degli affidamenti in house.

Pertanto, il quadro giuridico entro il quale le società strumentali potranno operare, diventa molto chiaro e ciò potrà favorirne un corretto e razionale sviluppo. Non dimentichiamo che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha messo, in forse, la concreta fattibilità del modello organizzativo in esame, perché il requisito del controllo analogo non pare ben sposarsi con il modello societario, in particolare, con quello delle società di capitali, caratterizzato dalla separazione tra proprietà e controllo [25]. La dottrina ha, infatti, evidenziato a questo proposito, che il modello della s.r.l. post - riforma 2003, stante l’assenza della netta separazione tra proprietà e controllo, possa, invece, ben sposarsi con i requisiti richiesti per il controllo analogo [26]. Il modello della società strumentale, proposto dal D.L. Bersani, potrebbe risolvere anche quest’ultima problematica. 

Il tempo chiarirà se il tentativo, forse l’unico ragionevolmente ipotizzabile, di salvare l’autoproduzione di beni e servizi, tramite società miste e s.p.a., a totale partecipazione pubblica, attuato tramite il necessario sganciamento radicale delle società strumentali dal mercato, sarà compreso fino in fondo e apprezzato, ma, soprattutto, se andrà a buon fine.

 

horizontal rule

(*) Responsabile Sezione Studi e Consulenza giuridica - Regione Umbria

Le opinioni qui espresse non impegnano l'amministrazione di appartenenza.


 

horizontal rule

[1] Nel corso dei lavori preparatori del Codice degli appalti è stata eliminata una disposizione, in materia  di società in house nei settori ordinari, avente il seguente tenore: “Art.15 (Affidamenti interni) 1. Il presente codice non si applica all’affidamento di servizi, lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da una o più amministrazioni aggiudicatrici a condizione che queste ultime esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la propria attività esclusivamente con dette amministrazioni”. Segnala M. L. Beccaria (in “Dall'in house alla scelta del socio privato”  - Guida agli Enti Locali 8 luglio 2006 -  n. 27,  pag. 109) che “l’articolo 15 ha avuto breve vita scomparendo dal testo approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri. Su tale soluzione legislativa si sono espressi il Consiglio di Stato, nell'adunanza del 6 febbraio 2006, e le competenti commissioni di Camera e Senato. Il Supremo Collegio ha rilevato che sarebbe stata conseguenza coerente l'esclusione dal Codice anche della norma sulla scelta del socio privato di società miste. Invece è tuttora mantenuto l'articolo 1, comma 2, che prescrive la selezione del socio privato di società miste, per la realizzazione e/o gestione di un'opera pubblica o di un servizio, con procedure a evidenza pubblica”. 

[2] Come prescrive l’art. 3, secondo comma, della Costituzione.

[3] Le espressioni “in house” o affidamento interno non sono presenti nell’art. 13 del D.L Bersani. Come ricorda C. Alberti (“Appalti in House, concessioni in House ed esternalizzazione” Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2001, n. 3 - 4, 495 ss.) “il  primo accenno alla questione degli "appalti in house" si ritrova nel Libro bianco del 1998, nel quale la Commissione si era impegnata a pronunciarsi, nell’avvenire, con interventi chiarificatori sulle oltre trecento osservazioni formulate da soggetti giuridici ed economici presentate in risposta al Libro verde del 1996. Fra le questioni sollevate vi era anche la specificazione del concetto di "appalti in house", ossia "quelli aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra amministrazione centrale e locale o, ancora, tra un’amministrazione e una società da questa interamente controllata". Tematica poi ripresa, anche se con una formulazione diversa, dalla Comunicazione interpretativa sulle concessioni all’art. 2.4, nella parte in cui recita: "un problema particolare si pone, invece, se tra concessionario e concedente esiste una forma di delega interorganica che non esula dalla sfera amministrativa dell’amministrazione aggiudicatrice”.

Sotto il profilo organizzativo, possiamo affermare che l’in house providing “evidenzia un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione provvede ai propri bisogni mediante lo svolgimento di un’attività interna, contrapposto al modello di “outsourcing” (o contracting out)  in cui, invece,  il pubblico si rivolge al privato esternalizzando l’esercizio stesso dell’attività amministrativa o, più semplicemente, la produzione ed il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento” così F. Caringella  (Corso diritto amministrativo, pag. 752 - Milano -  Giuffré  2005).

E’ opportuno ricordare che anche la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Politiche Comunitarie del 19 ottobre 2001, n. 12727 (in GURI n. 264 del 13.11.2001), faceva menzione della nozione di affidamento in house: “quando un contratto sia stipulato tra un ente locale e una persona giuridica distinta, l’applicazione delle direttive comunitarie può essere esclusa nel caso in cui l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona (giuridica) realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano. Segnatamente, ad avviso delle istituzioni comunitarie, per controllo analogo si intende un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica in particolare quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario. In detta evenienza, pertanto, l’affidamento diretto della gestione del servizio è consentito senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica prescritte dalle disposizioni comunitarie innanzi citate”.

La dottrina ha ben precisato l’ubi consistam del controllo analogo in questi termini: “solo se il vincolo tra l’ente che bandisce l’appalto e l’amministrazione aggiudicatrice è qualificabile in termini di delega interorganica, si esulerà dalla normativa comunitaria e per compiere tale valutazione si deve constatare la compresenza di più elementi, quali: la dipendenza formale, la dipendenza economica, la dipendenza amministrativa e il il destinatario del servizio (cioè  prevalenza delle attività a favore dell'amministrazione aggiudicatrice) Solo nel momento in cui queste condizioni siano soddisfatte, allora l’amministrazione aggiudicatrice risulterà essere un tutt’uno con l’ente, senza soluzione di continuità, una sorta di longa manus e, quindi, le regole stabilite dalle direttive in materia di appalti non troveranno applicazione” (Alberti, op. cit). 

[4] Sono strumentali, secondo l’art.13  del D.L Bersani  le società costituite dalle Regioni e dagli Enti locali per acquisire  beni e servizi, nonché per svolgere compiti  che p.a. ha inteso affidare all’esterno  (cd. esternalizzazione). Ricordiamo che l’art. 29, comma 1, lett. b) della legge n. 448/2001 contempla la facoltà di costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità,  soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza. La disposizione in esame non dovrebbe concernere i servizi pubblici” Considerata la sua attuale formulazione, il riferimento alla «strumentalità» rispetto all'attività di tali enti della produzione di beni e servizi di cui trattasi, nonché allo «svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza», nei casi consentiti dalla legge, rendono dubitabile che rientrino nell'ambito di applicazione della norma anche le società di cui agli articoli 113 e seguenti del Dlgs 267/2000. Con riferimento ai servizi dati in gestione a dette ultime società, infatti, per un verso sarebbe estremamente riduttivo, e comunque inesatto, definirli «strumentali all'attività» delle amministrazioni (non soltanto locali, ma anche regionali) e, per altro verso, non paiono riconducibili alla categoria delle «funzioni amministrative di loro competenza» (quanto meno nel caso dei servizi pubblici di rilevanza economica” ( M.  Atelli, Società pubbliche locali: no all’extra moenia, Guida al Diritto, numero 29 del 22/07/2006, pag. 96).

[5] “La presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a un'altra amministrazione aggiudicatrice o a un'associazione di amministrazioni aggiudicatrici in base a un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato” (art. 18 della  Direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi in G.U.C.E. n. 134 del 30 aprile 2004)”.

[6] “Il presente decreto non si applica (…) agli appalti pubblici di servizi aggiudicati a un ente che sia esso stesso un'amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell'articolo 2, in base a un diritto di esclusiva di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, purché' queste siano compatibili con il trattato” (art. 5, comma 2, lett. g) del D. Lgs. n. 157/1995). “La giurisprudenza si è orientata nel ritenere che la direttiva CEE 18 giugno 1992, n. 92/50 (recepita nel nostro ordinamento con D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 157), in tema di procedure concorsuali, si applica esclusivamente alle forniture dì servizi che si fondino su “contratti”, restando esclusi gli appalti di servizi che derivano da “diverso titolo”, come rende esplicito il nono “considerando”, secondo cui esula dall'ambito della medesima direttiva “la prestazione di servizi nascente da leggi o regolamenti ovvero da contratti di lavoro”. Conseguentemente la predetta direttiva non trova applicazione per gli appalti pubblici di servizi aggiudicati ad un ente che sia esso stesso un'amministrazione ai sensi dell'art. 1, lett. b), in base ad un diritto esclusivo di cui beneficia in virtù di disposizioni legislative, regolamentari od amministrative (Cons. Stato, sez. IV, 13 febbraio 1996, n. 147)”: in questi termini, Tar Catania  sentenza n. 671/2005.

[7] Precisa il Tar Brescia con sentenza n. 430/2006: “Sul significato, in concreto, di tale requisito, è intervenuta la Corte di Giustizia delle Comunità Europee che, nella sentenza del 13 ottobre 2005 in causa C- 458/03 Parking Brixen GmbH, ha affermato che esso presuppone che la società di gestione sia soggetta ad un controllo che consente all’autorità pubblica di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti, di modo tale che esso deve essere escluso laddove lo statuto conferisca al consiglio di amministrazione poteri teoricamente illimitati e configuri un ampio oggetto sociale. Per poter ritenere sussistente il controllo analogo è infatti necessario uno strumento, di carattere sociale ovvero anche parasociale, ma diverso dai normali poteri che un socio, anche totalitario, esercita in assemblea, che in ogni momento possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante ovvero la possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni più importanti (cfr. il paragrafo 65 della citata sentenza Parking Brixen GmbH). Tali elementi a maggior ragione devono ricorrere nei casi in cui l’ente affidante dispone non della totalità delle quote dell’affidataria, ma di una partecipazione di minoranza assolutamente insufficiente ad integrare la forma di controllo in questione (Corte di Giustizia CE Grande sezione 21 luglio 2005 in causa C-231/03, Coname - Comune di Cingia De’Botti; Tar Lombardia, Brescia, 5 dicembre 2005, n. 1250; 7 novembre 2005, n. 1123; 28 febbraio 2006, n. 238).  La giurisprudenza interna ha individuato la sussistenza di tale forma di controllo ove lo statuto della società preveda poteri speciali in capo all'ente pubblico, quali la nomina del Presidente e di un numero  predeterminato di membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. I, 30 marzo 2005 n. 2784) ovvero quando venga costituito un apposito organo - quale l’Assemblea di coordinamento intercomunale, costituita dai legali rappresentanti o loro delegati di ciascun ente locale, ognuno con responsabilità e diritto di voto pari alla quota di partecipazione - con penetranti poteri di controllo sulla gestione straordinaria ed ordinaria della Società (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia 15 luglio 2005 n. 634)”. Cfr. nota n. 2. 

[8] Così,  Tar Catania, sentenza n. 671/2005.

[9] Ad esempio, con la sentenza 21.7.2005 c. 231/03 (Consorzio Azienda Metano - Coname) la Corte di Giustizia ha affermato che “una società aperta, almeno in parte, al capitale privato…impedisce di considerarla una struttura di gestione ”interna" di una servizio pubblico nell’ambito dei comuni che ne fanno parte”. Invece per i servizi pubblici, l’art.113, comma 5, del T.U.E.L. prevede che “l'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio (..) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”.

[10] Le sentenze della Corte di giustizia delle comunità europee, come è noto, hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli stati membri, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della Commissione, vincolando il giudice nazionale alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (Corte costituzionale, sentenze n. 113 del 1985 e 389 del 1989; ordinanze n. 274 del 1986 e 132 del 1990). Cfr. Consiglio di Stato, sez. V - sentenza 13 luglio 2006 n. 4440.

[11] Cfr.su questo punto,  Caringella, op. cit pag. 776. 

[12] Corte costituzionale, sentenza  n. 272/2004.

[13] “Nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso (…), con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici (…) debbono sempre essere applicate (..). La partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi(…) al riguardo, occorre anzitutto rilevare che il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente. In secondo luogo, l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti (Sentenza Corte di Giustizia Stadt Halle).  “Il rapporto tra un'autorità pubblica, che è un'autorità aggiudicatrice, e i suoi propri servizi è disciplinato da considerazioni ed esigenze proprie al perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Al contrario, qualsiasi piazzamento di capitale privato in un'impresa obbedisce a considerazioni relative agli interessi privati e persegue obiettivi di natura diversa. L’ aggiudicazione di un appalto pubblico ad un'impresa ad economia mista senza appello alla concorrenza comprometterebbe l'obiettivo di concorrenza libera e non falsata e il principio di parità di trattamento degli interessati previsto dalla direttiva 92/50, in quanto tale procedura offrirebbe ad un'impresa privata presente nel capitale di tale impresa un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti” (Sentenza Corte di Giustizia 10 novembre 2005, causa C-29/04). Da ultimo, anche  la Corte di Giustizia, con sentenza 06/04/2006 -  C- 410/04,  ha confermato l’incompatibilità tra controllo analogo e società mista.

[14] In questi termini, S.Baccarini,  L’appalto di Opere Pubbliche a cura di R. Villata  Cedam  pag. 143. 

[15] Un notorio arresto del Consiglio di Stato, sez. V, 23 aprile 1998 n. 477 afferma che”l’organizzazione autonoma delle pubbliche amministrazioni rappresenta un modello distinto ed alternativo rispetto all’accesso al mercato (…). La tutela comunitaria del mercato non interferisce sino a disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di autonomia organizzativa nell’approntare la produzione  e l’offerta dei servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza. Le pubbliche amministrazioni possono legittimamente optare per schemi di coordinamento e formule organizzatorie, teoricamente alternative rispetto all’acquisizione delle prestazioni destinate alla collettività per il tramite del mercato. In sostanza si tratta dell’estensione alla pubblica amministrazione, della libertà di autoproduzione (…). Il ricorso alla produzione privata, disciplinato dalle regole di salvaguardia della concorrenza e l’esercizio del potere di organizzazione, sottratto ai vincoli concorsuali o concorrenziali validi per il ricorso al mercato, costituiscono due schemi distinti che vanno preservati da ogni equivoca commistione”.

Giustamente, F. Gambato Spisani osserva (“L’affidamento in house nei recenti sviluppi giurisprudenziali: una  ricognizione ed una possibile ipotesi ricostruttiva” in Rivista telematica di dottrina giuridica del Friuli Venezia Giulia - Edizioni Giuridiche A.P.A. - Foro di Pordenone- maggio 2006) ) che “Il Trattato europeo tutela sì la concorrenza ed il mercato, ma non impone agli enti pubblici un obbligo generalizzato di outsourcing: in altre parole, presuppone e fa salvo il concetto dell’ente pubblico come azienda pubblica composta … garantendo all’ente pubblico stesso la cd. “libertà di autoproduzione” (…) nei seguenti termini, la Corte di Giustizia con la sentenza Stand Halle: “Un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono dunque i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”.

Su questo aspetto delicato concernente il bilanciamento tra il potere di auto-organizzazione e i principi a tutela della concorrenza,  cfr. anche Caringella, op.cit., pag. 752. Questa operazione di bilanciamento deve essere effettuata con cura, anche, dal legislatore quando interviene in subiecta materia.   

[16] Audizione del Presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato Cons. Antonio Catricalà, dell’11 luglio 2006 – Senato.

[17] Il  Tar Catania con la sentenza n. 671/2005 ha affermato che “In relazione agli affidamenti a società miste, sono due i momenti e le tematiche esaminati dalla giurisprudenza nazionale, e su cui ha riflessi la  recente decisione della Corte di Giustizia sez. I, 11 gennaio 2005, n. 2603, C-26/03, e segnatamente la scelta del socio privato, e contestuale affidamento dell'appalto cui è finalizzata la costituzione della società e l'affidamento di ulteriori appalti alla società mista. In relazione al primo profilo, nel diritto italiano è ormai incontroverso che per la scelta del partner privato occorra seguire procedure di evidenza pubblica, anche se si tratta di socio di minoranza, con la conseguenza, avvertita dalla prevalente dottrina, che se si è seguita la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato, sembra corretto ritenere che non occorra ulteriore gara per l'affidamento alla società mista dell'appalto originario cui è finalizzata la sua costituzione. Questo specifico profilo non è esaminato espressamente dalla sentenza della Corte di Giustizia sez. I, 11 gennaio 2005, n. 2603, C-26/03. Dalla disamina della decisione si evince che della fattispecie prese in esame  si trattava di affidamento di appalto, nel 2001, ad una società mista già costituita e operante da tempo (dal 1996), dunque si rientrava in un'ipotesi dì affidamento successivo ad una società mista già costituita. Pertanto, si deve ritenere corretta una esegesi del diritto comunitario secondo cui:

- per la scelta del socio privato occorre seguire una procedura di evidenza pubblica;

- non occorre seguire procedura di evidenza pubblica per l'affidamento alla società mista dell'appalto cui è finalizzata la costituzione della società, se per la scelta del socio privato si è seguita procedura similare;

- per gli ulteriori affidamenti a società mista, occorre seguire le procedure di evidenza pubblica (ed è questo il caso pratico deciso dalla Corte di Giustizia)”. Il T.a.r ha poi proseguito: “Il Collegio è dell’avviso che limitatamente ai lavori e servizi specifici e originari, per i quali è stata costituita la società, è sufficiente una sola procedura di evidenza pubblica, e dunque basta quella utilizzata per la scelta dei soci privati, da intendersi come finalizzata alla selezione dei soci più idonei anche in relazione ai lavori e servizi da affidare alla società.  In sostanza, la mancata osservanza della procedura concorsuale nell'affidamento dell'appalto, è compensata dal rispetto di una procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato. La più recente giurisprudenza nazionale si è pronunciata nel senso della non necessità della gara per l'affidamento di appalto a società mista partecipata da enti locali, anche se non sempre dalle pronunce si evince se la società era stata o meno costituita mediante scelta del socio privato con procedura di evidenza pubblica.  Il Collegio, anche alla luce delle predette considerazioni, condivide le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato con la recente sentenza sez. V 3 febbraio 2005 n. 272 con la quale si è ritenuto che “Essendo le società per azioni a capitale pubblico maggioritario alternative alle aziende specializzate costituite dagli Enti locali, la concessione di pubblici servizi a tali società non richiede il previo esperimento di procedure ad evidenza pubblica e, quindi, viene legittimamente affidata in via diretta, così come viene affidata in via diretta alle dette aziende specializzate. Il che è ovvio, se appena si considera che le società per azioni a capitale misto sono costituite dagli Enti locali al precipuo scopo di affidare loro i servizi pubblici di propria competenza. La costituzione di una società mista a capitale pubblico maggioritario non avrebbe, invero, alcuna utilità per l’Ente locale che la ha costituita, ove, poi, lo stesso Ente non potesse affidarle direttamente i servizi pubblici di propria competenza. Né è a dire che tale affidamento diretto a siffatte società a capitale misto contrasti con il sistema garantistico dell’ordinamento, che richiede i procedimenti ad evidenza pubblica nella scelta degli affidatari di pubblici servizi. La scelta del partner privato di una società a capitale misto avviene, infatti, attraverso procedura ad evidenza pubblica, così come nel caso è avvenuto. Considerato che la società a capitale misto con capitale pubblico maggioritario è costituita attraverso procedura ad evidenza pubblica e allo specifico scopo di affidarle i servizi pubblici dell’Ente locale che la ha costituita, è immediatamente conseguenziale che il relativo affidamento debba avvenire in modo diretto. Altrimenti opinando, la costituzione di tali società miste non avrebbe alcuna pratica utilità, mentre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei singoli servizi costituirebbe un’inutile duplicazione di un procedimento già esperito”.

[18] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione v, sentenza 22 dicembre 2005, n. 7345. In senso contrario,  Tar Lazio – Latina, 5 maggio 2006, n. 310 e  da ultimo Consiglio di Stato, sez. V - sentenza 13 luglio 2006 n. 4440, in questa rivista. Per inciso, osserviamo, al fine di evidenziare il grado di incertezza che caratterizza l’eventuale soluzione di queste problematiche, che, anche in materia di servizi pubblici, ci si chiede, se la scelta, tramite gara, del socio privato, possa legittimare l’affidamento del servizio pubblico alla società mista, malgrado le previsioni favorevoli dell’art. 113 del Tuel. A questo proposito, osserva R. Ursi (“Una svolta nella gestione dei servizi pubblici locali: non c’è «casa» per le società a capitale misto in Foro Italiano” anno 2005, parte IV, col.136) “non sembra che, ai fini della compatibilità comunitaria della disposizione, possa essere data eccessiva rilevanza alla selezione del socio privato attraverso gara, laddove per i giudici comunitari è la commistione tra pubblico e privato che esclude in radice la possibilità di affidamento diretto... occorre comunque porre in risalto come la questione circa la situazione di vantaggio di cui godrebbe il partner privato non viene risolta dalla mera circostanza che esso sia selezionato secondo le procedure di evidenza pubblica. Infatti, il novellato testo dell’art. 113 non sembra prevedere alcunché in ordine alla durata della permanenza della partecipazione dello stesso. Nonostante sul punto si sia evidenziato come la norma debba essere interpretata alla luce di quanto disposto dal successivo 12° comma — dal quale si ricava che il socio non è socio stabile della società, perché le procedure per la relativa selezione devono essere rinnovate alla scadenza del periodo di affidamento — giova ribadire che la norma in esame non sembra regolare la fuoriuscita del socio privato alla scadenza dell’affidamento; e ciò si ripercuote, al di là di quanto affermato dal governo italiano, sulla tenuta delle regole della concorrenza”. Cfr. anche gli artt.1, comma 2 e  32, comma 3, del Codice degli appalti.

[19] Da ultimo, la Corte di Giustizia con la sentenza 11 maggio 2006 - procedimento C-340/04, ha affermato che “la condizione che il soggetto di cui trattasi realizzi la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono è finalizzata, in particolare, a garantire che la direttiva 93/36 continui ad essere applicabile nel caso in cui un’impresa controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa pertanto entrare in concorrenza con altre imprese. Infatti, un’impresa non è necessariamente privata della libertà di azione per la sola ragione che le decisioni che la riguardano sono prese dall’ente pubblico che la detiene, se essa può esercitare ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori. È inoltre necessario che le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente locale in questione. Entro tali limiti, risulta giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 93/36, in quanto questi ultimi sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere. In applicazione di detti principi, si può ritenere che l’impresa in questione svolga la parte più importante della sua attività con l’ente locale che la detiene, ai sensi della menzionata sentenza Teckal, solo se l’attività di detta impresa è principalmente destinata all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale. Per verificare se la situazione sia in questi termini il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative. Quanto all’accertare se occorra tener conto in tale contesto solo del fatturato realizzato con l’ente locale controllante o di quello realizzato nel territorio di detto ente, occorre considerare che il fatturato determinante è rappresentato da quello che l’impresa in questione realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente locale controllante, compreso quello ottenuto con gli utenti in attuazione di tali decisioni. Infatti, le attività di un’impresa aggiudicataria da prendere in considerazione sono tutte quelle che quest’ultima realizza nell’ambito di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente dal fatto che il destinatario sia la stessa amministrazione aggiudicatrice o l’utente delle prestazioni.  Non è rilevante sapere chi remunera le prestazioni dell’impresa in questione, potendo trattarsi sia dell’ente controllante sia di terzi utenti di prestazioni fornite in forza di concessioni o di altri rapporti giuridici instaurati dal suddetto ente. Risulta parimenti ininfluente sapere su quale territorio siano erogate tali prestazioni. Dal momento che, nella causa principale, il capitale dell’impresa aggiudicataria appartiene indirettamente a vari enti locali, può essere rilevante esaminare se l’attività da prendere in considerazione sia quella che l’impresa aggiudicataria realizza con tutti gli enti che la detengono o soltanto quella realizzata con l’ente che, nel caso specifico, agisce in qualità di amministrazione aggiudicatrice. A tale proposito si deve rammentare che, secondo quanto precisato dalla Corte, la persona giuridicamente distinta di cui trattasi deve realizzare la parte più importante della propria attività «con l’ente o con gli enti locali che la controllano» (sentenza Teckal, cit., punto 50). La Corte ha quindi contemplato la possibilità che l’eccezione prevista si applichi non solo all’ipotesi in cui un solo ente pubblico detenga una siffatta persona giuridica, ma anche a quella in cui la detengano più enti. Nel caso in cui diversi enti locali detengano un’impresa, la condizione relativa alla parte più importante della propria attività può ricorrere qualora l’impresa in questione svolga la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo o quell’ente locale ma con tali enti complessivamente considerati.  Di conseguenza, l’attività da prendere in considerazione nel caso di un’impresa detenuta da vari enti locali è quella realizzata da detta impresa con tutti questi enti”.

[20] Il Tar Napoli, I, con la sentenza n. 2784/05, ha interpretato la prevalenza quale percentuale assorbente.

[21] In questi termini, Corte di Giustizia sentenza 11 maggio 2006 - procedimento C-340/04.

[22] ”La verifica del requisito del controllo analogo richiede un accertamento concreto sulla base dei contratti stipulati in quanto le  “disposizioni statutarie…sono poco indicative. Da un lato, infatti, non di rado le disposizioni statutarie sono caratterizzate da una formulazione particolarmente ampia, atta a comprendere non necessariamente soltanto le attuali, ma anche le possibili future attività della società…Se si ritenessero determinanti i settori di attività che dal punto di vista esclusivamente giuridico (secondo la legge e lo Statuto della società) rientrano nel raggio d’azione generalmente abbastanza ampio di una società per azioni o anche in quello di una società a responsabilità limitata, allora sarebbe praticamente impossibile il rispetto del secondo criterio Teckal da parte di siffatte imprese…Piuttosto basta prendere come punto di riferimento la concreta attività di ciascuna impresa. Difatti, indipendentemente dalla forma giuridica in cui essa è organizzata, l’attività svolta concretamente da un’impresa è il migliore criterio per accertare se tale impresa si muova all’interno del mercato come le altre o se, al contrario, sia così strettamente collegata alla pubblica amministrazione che i contratti con l’amministrazione aggiudicatrice possano essere equiparati a procedure interne e dunque giustificare una deroga alla disciplina in materia di aggiudicazione di pubblici appalti”(Conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott, 1/3/2005 n. C-458/03).

[23] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 13 ottobre 2005, causa C 458/03 paragrafo 67. 

[24] Da ultimo, la Corte di Giustizia ha chiarito con la recente sentenza del 6 maggio 2006 cit. che  “dal momento che il capitale dell’impresa aggiudicataria appartiene indirettamente a vari enti locali, può essere rilevante esaminare se l’attività da prendere in considerazione sia quella che l’impresa aggiudicataria realizza con tutti gli enti che la detengono o soltanto quella realizzata con l’ente che, nel caso specifico, agisce in qualità di amministrazione aggiudicatrice. A tale proposito si deve rammentare che, secondo quanto precisato dalla Corte, la persona giuridicamente distinta di cui trattasi deve realizzare la parte più importante della propria attività «con l’ente o con gli enti locali che la controllano» (sentenza Teckal, cit., punto 50). La Corte ha quindi contemplato la possibilità che l’eccezione prevista si applichi non solo all’ipotesi in cui un solo ente pubblico detenga una siffatta persona giuridica, ma anche a quella in cui la detengano più enti.  Nel caso in cui diversi enti locali detengano un’impresa, la condizione relativa alla parte più importante della propria attività può ricorrere qualora l’impresa in questione svolga la parte più importante della propria attività non necessariamente con questo o quell’ente locale ma con tali enti complessivamente considerati”. La Corte ha ritenuto, quindi, configurabile un legittimo affidamento in house anche nell'ipotesi in cui la società sia detenuta da più enti. Osserva F. Patroni Griffi (“L’in house providing: un de profundis rinviato?” in Quaderni del DAE - Rivista di Diritto Amministrativo Elettronico - 2006) in riferimento alla predetta sentenza che “in altri termini, la Corte sembra fare riferimento all'ipotesi in cui più enti (per esempio, più comuni) detengano, anche per quote tra loro significativamente di diversa consistenza, azioni di una società, che pertanto si configura in house nei confronti di ciascuno di questi enti, dovendosi fare riferimento, per valutare la condizione dell'attività prevalentemente prestata in favore dell'ente, a tutti gli enti complessivamente considerati e non all'ente che nel caso specifico funge da amministrazione aggiudicatrice. Una siffatta impostazione sembra oggettivamente consentire, ai fini dell'affidamento diretto, la costituzione di società in house che siano al servizio di più enti, anche se il controllo analogo sarà esercitato, presumo, dall'amministrazione di volta in volta interessata”.

[25] Infatti, il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione quinta, con ordinanza n. 2316/2004 ha  rimesso  alla Corte di giustizia della Comunità Europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato istitutivo, la questione pregiudiziale avente ad oggetto il seguente quesito: “se è compatibile col diritto comunitario, in particolare con la libertà della prestazione di servizi, il divieto di discriminazione e l’obbligo di parità di trattamento, trasparenza e libera concorrenza, di cui agli artt. 12, 45, 46, 49 e 86 del Trattato, l’affidamento diretto, ossia in deroga ai sistemi di scelta del contraente di cui alla Direttiva 92/50 CEE, della gestione di parcheggi pubblici a pagamento, ad una società per azioni, a capitale interamente pubblico(…)”. Il Consiglio di Stato rileva che “si tratta di capire se il possesso dell’intero capitale del soggetto affidatario, nella specie una società per azioni, possa garantire quella situazione di dipendenza organica che normalmente si realizza nell'organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione”. 

[26] Cfr. su questo aspetto le riflessioni  di  R. Ursi “La Corte di giustizia stabilisce i requisiti del controllo sulle società "in house", in Il Foro italiano 2006 IV Col. 79 – 82.

horizontal rule

Documenti correlati:

G. GUZZO, Servizi pubblici locali e affidamenti in house nella più recente giurisprudenza comunitaria e nazionale, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/guzzo_inhouse.htm

L. MANASSERO, Profili problematici dell’art 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 233 in tema di affidamenti in house, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/manassero_inhouse.htm


Stampa il documento Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico