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n. 6/2005 - ©
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BRUNO E. G. FUOCO (*)
L’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 241/1990.
Alla ricerca delle proprietà alchemiche del diritto privato.
SOMMARIO: 1. Le motivazioni della novella: i lavori parlamentari - 2. Una proposta interpretativa - 3. Gli artt. 1, comma 1 bis e 11 della legge n. 241/1990 – 4. Il favor del diritto privato e il Titolo V della Costituzione - 5. Alcune problematiche interpretative - 6. Riflessi in materia di politica legislativa - 7. Conclusioni.
1. Le motivazioni della novella: i lavori parlamentari.
“La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, e salvo che la legge disponga diversamente”: questo è quanto prevede l’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 1 della legge n. 15/2005.
Questa disposizione è stata salutata, come si desume dall’esame dei lavori parlamentari, come il frutto di una grande conquista di civiltà, come il segnale di una inversione di tendenza, rispetto al passato, foriera di benefici effetti per il sistema paese.
Considerazioni interessanti, ai fini della comprensione delle intenzioni del legislatore, sono contenute nella relazione della 1ª Commissione permanente, Affari costituzionali della Presidenza del consiglio e Interni, del 6 novembre 2003 [1].
Da questa relazione, in particolare, possiamo estrarre i seguenti punti significativi, con la consapevolezza che comunque “la legge va valutata in base a suoi effetti obiettivi e non in base alle motivazioni del legislatore” [2]:
- “la disposizione consente alle amministrazioni pubbliche di operare secondo le norme del diritto privato e, quindi, mediante moduli negoziali, anche per la realizzazione di propri compiti istituzionali. La norma (...) esprime un principio tendenziale dell’attuale ordinamento, in favore del superamento del vecchio dogma che attribuiva alla pubblica amministrazione, in generale, il dovere di agire mediante poteri di imperio ed attraverso atti unilaterali;
-“la modifica si inquadra nelle moderne tendenze di privatizzazione volte a sottrarre parte delle connotazioni pubblicistiche tipiche dell’amministrare, si pensi alla trasformazione del rapporto di pubblico impiego in rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni disciplinato dal diritto comune, ed alla conseguente trasformazione degli atti amministrativi di gestione del rapporto in atti negoziali;
- “la scelta operata non è soltanto una scelta tecnica ma è anche una scelta culturale e istituzionale perché tende a sostituire un rapporto paritario tra i cittadini e le amministrazioni, in luogo del vecchio rapporto gerarchico, espressione di una concezione autoritaria e statalistica”;
-“la nuova disposizione non incide, pertanto, sulla natura della funzione amministrativa che rimane finalizzata al miglior perseguimento dell’interesse pubblico, ma soltanto sulla sua forma”.
Si è anche aggiunto, per sottolineare la bontà della disposizione in esame, che “la pubblica amministrazione deve porsi il più possibile su un piano di parità, di rispetto del cittadino che spesso, di fronte alle burocrazie dell’amministrazione, si trova assolutamente indifeso ed esposto anche a patenti violazioni, piccole o grandi, dei propri diritti e dei propri interessi legittimi. Questo provvedimento ha il pregio, all’articolo 1, di privilegiare, come strumento giuridico di formazione del rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino, lo strumento privatistico. Ciò ha un significato rilevante, anzi fondamentale, perché mette sullo stesso piano, nel momento in cui si conclude l’accordo tra potere pubblico e cittadino, i due soggetti e quindi garantisce al cittadino una forza, una presenza e un mezzo di tutela dei propri interessi indubbiamente più rilevanti e più significativi di quanto sia avvenuto fino ad oggi. È quindi un passaggio rivoluzionario” [3].
Noi riteniamo utile soffermarci su alcune affermazioni contenute negli estratti dei lavori parlamentari sopra riportati, prima di provare ad esporre alcune nostre considerazioni interpretative.
Il presupposto implicito, non dichiarato, di questa nuova asserita conquista giuridica è che l’agere della P.A. tramite il procedimento amministrativo rappresenti una modalità obsoleta, espressiva di poteri autoritari, unilaterali e gerarchici.
A nostro avviso, appare non convincente dare per scontato un simile concetto, ed assumerlo a presupposto di una riforma (quella della privatizzazione) contenuta in un provvedimento normativo (la legge n. 15/2005) che introduce, inter alia, nell’ambito del procedimento amministrativo ulteriori garanzie procedimentali, rafforzando il principio di legalità e sopprimendo, conseguentemente, i poteri impliciti della P.A.
Che il carattere democratico abbia, ormai, permeato il procedimento amministrativo non è più un dato dottrinario o ideologico, ma risulta un fatto acquisito dalla stessa giurisprudenza amministrativa: “la legge n. 241/90 ha introdotto, nell’attività amministrativa del Paese, un elemento di riqualificazione di grande rilievo civile e cioè l’innesto nel procedimento amministrativo della cultura della dialettica processuale. Pertanto alla prassi della definizione unilaterale del pubblico interesse, è subentrato il sistema della democraticità delle decisioni e dell’accessibilità dei documenti amministrativi (Cons. St. Ad. Plen. 15 settembre 1999 n. 14)” [4].
Lo stesso Cerulli Irelli, affermava, se pur in riferimento al disegno di legge A. C. n. 6844 (Sulla disciplina generale del provvedimento amministrativo) che ”non esistono poteri amministrativi impliciti o occulti ma i poteri sono quelli previsti dalla legge. Le parti di un rapporto amministrativo sono poste tendenzialmente in una posizione di parità, tutelata dai principi di legge” [5].
Se così è, non si comprende come sia possibile sostenere il contrario, in sede di confronto tra procedimento amministrativo e modulo negoziale, e precisamente, sostenere (implicitamente) il carattere autoritario del primo e il carattere democratico del secondo, ad un punto tale da ipotizzare un criterio di preferenza del diritto privato rispetto al diritto pubblico.
Inoltre, il procedimento amministrativo non è il riflesso di una concezione statalista, come è stato sostenuto nella citata relazione, in quanto la fonte regolativa del singolo procedimento si è, ulteriormente, avvicinata alle comunità locali, grazie ai nuovi spazi concreti di regolazione spettanti alle Regioni e agli enti locali [6], in conseguenza della riallocazione dei poteri normativi e regolamentari, avvenuta nel sistema delle fonti, con la riforma del titolo V. Anche se la questione delle dimensioni concrete dell’autonomia normativa degli enti locali, osserviamo per inciso, è una partita tuttora aperta in quanto essa è condizionata dal dispiegarsi dei poteri normativi statali e regionali.
Ciò considerato, appare, a noi incomprensibile, che il sistema di garanzie procedimentali, faticosamente costruito, debba diventare, ex abrupto, di scarso rilievo e debba cedere il posto, tendenzialmente, ad una nuova forma di esercizio della funzione amministrativa, ovvero, a quella privatistica tout court.
L’affermazione del condivisibile principio di parità non può implicare automaticamente l’inadeguatezza del giusto procedimento e la superiorità del diritto privato, fino a prova contraria. E la prova contraria, a nostro avviso, non si ricava dai lavori parlamentari [7] o dai primi commenti alla novella della legge n. 241/1990.
Si afferma, inoltre, che la disposizione si inquadra nelle moderne tendenze di privatizzazione che hanno, ad esempio, caratterizzato la materia del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Tale riferimento non appare idoneo, a nostro avviso, a supportare la generalizzata preferenza dei modelli negoziali in quanto trascura di considerare che il modello privatistico non è stato introdotto al fine di instaurare rapporti paritari tra dipendenti e P.A. – datore di lavoro. Il diritto privato non è stato preferito al diritto pubblico, per una presunta scarsa democraticità di quest’ultimo, ma, al contrario, esso è stato scelto, come è noto a tutti, in quanto ha permesso l’ingresso dei poteri direttivi di diritto comune in capo al datore di lavoro; questi poteri, infatti, “consentono, meglio che in passato, di assicurare il contenuto della prestazione in termini di produttività ovvero una sua ben più flessibile utilizzazione” [8]. Stante questa finalità peculiare, il diritto privato si appalesava strumentale rispetto al perseguimento della finalità del buon andamento della pubblica amministrazione.
Abbiamo, pertanto, l’impressione che la preferenza generale del modello negoziale, per come essa si è palesata nella discussione parlamentare, non sia stata supportata da analisi puntuali, o dall’indicazione dei benefici concreti che questa disposizione avrebbe potuto arrecare in specifici settori della vita amministrativa. Ci si è limitati, invece, all’enunciazione e all’esaltazione di istanze democratiche e paritarie tra il pubblico e il privato.
Si è partiti, a nostro avviso, da una diagnosi poco chiara del presente per arrivare alla somministrazione di una cura i cui effetti collaterali potrebbero essere (a seconda delle interpretazioni che prevarranno dell’art.1, comma 1 bis in questione) imprevedibili e, proprio in ragione di ciò, alcuni giuristi hanno manifestato, da subito, notevoli dissensi [9].
Sul piano tecnico, le aspirazioni paritarie si traducono, sia nel principio di favor del diritto privato, sia nell’esigenza di ridurre l’area dei moduli di diritto pubblico che, nel corso degli anni, avrebbero acquisito una estensione smisurata, per varie ragioni [10]:
- un indirizzo giurisprudenziale dominante secondo cui le amministrazioni pubbliche devono agire, di regola, sulla base del diritto pubblico, generale o speciale, e soltanto, ove previsto dalla legge, mediante l’impiego del diritto privato [11];
- il tralaticio convincimento secondo cui lo strumento privatistico non è idoneo a recepire i principi di imparzialità e soprattutto le esigenze di tutela dei terzi. Si è detto, a tal proposito, che la rilevanza giuridica della posizione soggettiva dei terzi costituisce “la ragione per la quale la disciplina pubblicistica si è estesa storicamente al di fuori dell’ambito degli atti di natura autoritativa sino ad investire tendenzialmente tutta l’azione delle Amministrazioni pubbliche (salva quella di carattere strettamente privatistico - patrimoniale” [12].
Se è vero quanto sopra riportato, non si comprende come, cambiando oggi queste regole, possano essere parimenti soddisfatte, con gli strumenti privatistici, le esigenze (tutela dei terzi e imparzialità) tuttora immanenti all’agere della P.A. [13]. Ed è questo, forse, uno dei problemi di fondo; giova, a questo proposito, richiamare quanto afferma la giurisprudenza amministrativa: “La tutela dell'interesse legittimo non è un minus di tutela rispetto a quella del diritto soggettivo ma è, al contrario, un plus, ossia una tutela aggiuntiva, che permette all'interessato di reagire contro la violazione di quelle "norme di azione" che non potrebbero essere invocate nei confronti di un privato tenuto solo all'osservanza delle "norme di relazione" [14] .
Il vero punto nodale della questione, non concerne l’utilizzo, in astratto, degli strumenti privatistici per la cura concreta dell’interesse pubblico in quanto “è ormai consolidato il principio in forza del quale normalmente l'amministrazione può eseguire i compiti istituzionali affidatile dall'ordinamento, tanto mediante l'uso di strumenti autoritativi, quanto attraverso l'applicazione di istituti di diritto comune. Ne deriva che, assai frequentemente, la finalità pubblicistica è presente in atti di diritto comune, che restano comunque disciplinati dalla normativa civilistica. Sotto altro profilo, è evidente che l'attività delle amministrazioni, anche se formalmente connotata da aspetti civilistici, deve sempre rispettare il generale criterio di adeguata tutela dell'interesse pubblico, senza per questo trasformarsi in attività di carattere autoritativo” [15].
Uno dei punti concreti, invece, oggetto di controversia (e che il legislatore, forse, non ha chiarito con precisione) concerne la perimetrazione degli esatti confini dell’impiego del diritto privato nelle attività amministrative: stabilire quali atti pubblicistici possono o devono essere sostituiti dal diritto privato, e in caso affermativo, stabilire se la privatizzazione concerne la sola fase dell’adozione dell’atto, oppure, deve estendersi anche all’attività che precede l’adozione dell’atto.
Proviamo a verificare, ora, se le intenzioni del legislatore, sopra evidenziate, risultano obiettivamente trasfuse nel testo in commento, e, in che misura, le cennate problematiche possano aver trovato una risposta chiara nella disposizione legislativa in esame.
2. Una proposta interpretativa.
A nostro avviso, la disposizione in esame (“La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, e salvo che la legge disponga diversamente”) [16] potrebbe essere letta in questi termini: la pubblica amministrazione, se deve adottare atti privi dell’autoritatività, ovvero, se deve compiere atti che non sono qualificati dalla legge, in base al principio di legalità, “provvedimenti amministrativi o atti autoritativi”, agisce (cioè deve agire) secondo le norme di diritto privato [17] (cioè secondo le norme applicabili nei rapporti tra i privati), a meno che la legge [18] disponga diversamente e cioè a meno che la legge preveda, ad esempio, norme speciali (derogatorie al diritto privato) che alterino il rapporto paritario o impongano un determinato modulo negoziale. Evidentemente, la legge potrebbe anche rimettere alla P.A. la scelta tra lo strumento autoritativo e quello privatistico: in questo caso, l’applicazione del diritto privato non è obbligatoria, ma facoltativa.
Con l’espressione “atti autoritativi” [19] possiamo intendere, come appare pacifico ad alcuni commentatori, gli atti emanati dalla P.A. in qualità di autorità, cioè nell’esercizio di un potere amministrativo: non solo i provvedimenti restrittivi, ma anche quelli ampliativi e vincolati, nonché gli atti che creano certezza pubblica [20]; se concordiamo con questa accezione, la locuzione prescelta dal legislatore “atti di natura non autoritativa” dovrà essere posta in relazione agli atti compiuti dalla P.A. nella qualità di mero soggetto privato (atti paritetici). Trattasi della notoria distinzione utilizzata dalla Corte costituzionale nella famosa sentenza n. 204/2004 in materia di giurisdizione [21], con la differenza che il tertium genus (il diritto privato speciale), forse, non appare, qui, precluso dall’art. 1, comma 1 bis, posto che quest’ultimo potrebbe ricadere nelle previsioni derogatorie di una legge di settore. Un indizio, in questo senso, potrebbe trarsi dalle nuove previsioni in materia di giurisdizione esclusiva contenute nell’articolo 21 quinquies e septies della legge n. 241/1990 [22].
Invece, secondo altro orientamento (Cerulli Irelli), con la locuzione “atti privi di autoritatività”, dobbiamo ricomprendere l’area dell’attività amministrativa nella quale la P.A. opera con strumenti aventi effetti giuridici che non possono essere in alcun modo ottenuti, per ragioni tecnico-giuridiche, con gli strumenti privatistici: ”non tutti i settori di amministrazione, come cura degli interessi pubblici, si prestano ad essere svolti attraverso strumenti negoziali in grado di raggiungere il risultato pratico voluto. In certi ambiti sono, infatti, indispensabili mezzi di azione alternativi al diritto privato. Questa esclusione degli strumenti negoziali vale sempre laddove si ponga l’esigenza di usare dell’autorità; cioè di produrre un effetto giuridico in assenza del consenso del destinatario dell’atto. E si pone anche nei casi in cui si tratta di produrre atti o effetti sconosciuti al diritto privato (provvedimenti di autorizzazione o di certificazione)” [23].
Secondo questa tesi, in altri termini, non rientrerebbero, tra gli atti autoritativi, i provvedimenti che, previo consenso del destinatario, possono tecnicamente essere sostituiti con atti privatistici [24].
Questa interpretazione riduttiva della locuzione “atti privi di autoritatività”, a nostro avviso, non trova riscontro nella lettera della legge che non dà alcun rilievo all’eventuale consenso del destinatario, propedeutico ad un incontro negoziale alternativo al provvedimento; infatti, il dato legislativo è focalizzato, esclusivamente, sulla natura, ex se, dell’attività esercitata ( nell’adozione di atti di natura non autoritativa) a nulla rilevando la disponibilità dell’interessato ad addivenire ad un negozio o l’eventuale fattibilità tecnico-giuiridica della fungibilità tra negozio e provvedimento. Su questa opzione interpretativa ritorneremo, comunque, nel prosieguo delle nostre riflessioni.
L’area di applicazione dell’art. 1, comma 1 bis, si rivela, quindi, almeno per noi, estranea all’area dei provvedimenti amministrativi e degli atti dotati di autoritatività.
Allora, se il primo presupposto necessario, affinché possa trovare applicazione la norma legittimante l’impiego tout court del diritto privato è costituito dall’assenza di poteri autoritativi ex lege, il secondo presupposto, che deve coesistere con il primo, è costituito dall’assenza di una legge che in una data materia prescriva l’adozione di regole derogatorie rispetto al diritto privato.
Questo ultimo aspetto rende evidente da un lato, l’importanza di un esame puntuale delle leggi di settore al fine di verificare, in concreto, l’operatività della disposizione in esame, e dall’altro, che la citata disposizione non può, naturaliter, a prescindere da altre considerazioni, sortire effetti modificativi o abrogativi rispetto alla legislazione precedente. E ciò si spiega con il fatto che l’art. 1, comma 1 bis, demanda, in concreto, proprio alle singole leggi di settore la regolamentazione della materia.
Ciò considerato, se la nostra ricostruzione è corretta, non si può affermare che la norma contenga un principio di favor degli atti privatistici rispetto agli atti autoritativi.
3. Gli artt. 1, comma 1 bis e 11 della legge n. 241/1990
Anzi, in generale, la stessa legge n. 15/2005 non esprime una perfetta fungibilità tra modulo negoziale e provvedimento, se consideriamo che dal novellato art. 11 della legge n. 241/1990, possiamo trarre il pacifico convincimento che lo strumento negoziale, nell’area delle attività autoritative, non può, ex se, sostituire il provvedimento.
Infatti l’art. 11, comma 4 bis, esige, in caso di accordi, come già rilevato, che la stipulazione degli stessi debba essere preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.
La motivazione di questa esigenza è chiarita dallo stesso art. 11, comma 4 bis: “a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa”. Ciò attesta che lo strumento privatistico, nell’area dell’azione amministrativa autoritativa, non si pone sullo stesso piano del provvedimento, a cagione di una intrinseca inidoneità al raggiungimento delle finalità ex art. 97 Cost. [25]. Già, la Cassazione ricordava che “l'atto privato è tale proprio perché non può essere funzionalizzato al perseguimento dell'interesse pubblico senza contraddirne l'intima essenza di espressione dell'autonomia dell'autore, salve deroghe espresse a tale principio” [26].
Quindi, il matrimonio tra l’attività privatistica ispirata all’autonomia privata e cioè libera nei fini, o altrimenti detto, a fattispecie libera (art. 1, comma 1 bis) e i principi generali dell’azione amministrativa comportanti una funzionalizzazione dell’attività (art. 1, comma 1), esige, nell’area dell’autoritatività, la presenza officiante del provvedimento amministrativo. Solo a questa condizione l’accordo può essere stipulato.
Per converso, come questo matrimonio possa essere celebrato nella residuale attività amministrativa (ovvero, in quella paritetica) è questione controversa.
La disposizione legislativa in esame non lo chiarisce, in quanto si presta ad una duplice lettura.
Secondo una certa dottrina la privatizzazione ex art.1, comma 1 bis, non attiene solamente alla forma dell’atto finale, ma a tutta l’azione che porta al compimento dell’atto finale (ad esempio, CERULLI IRELLI [27], PIOGGIA) ed in questo senso si parla di privatizzazione sostanziale: lo statuto dell’azione amministrativa non diventa unitario, resta duplice. Militerebbe in questo senso, il tenore letterale della disposizione in esame che pone una relazione stretta tra l’agire secondo il diritto privato (“agisce”) e l’azione finalizzata all’adozione dell’atto non autoritativo. La tesi della privatizzazione sostanziale appare conforme alle intenzioni del legislatore che, come abbiamo già osservato, riteneva che il diritto privato dovesse incidere sulla forma della funzione e, quindi, non soltanto sulla forma dell’atto finale.
L’espressione “agisce secondo le norme di diritto privato” è collocata, invece, in una dimensione attizia, da altra dottrina [28] che ipotizza uno statuto unitario delle attività amministrativa, in ragione del quale i poteri amministrativi sono presenti in tutte le attività amministrative, e, in questo senso, si parla di privatizzazione formale per esplicitare una sorta di avvenuta procedimentalizzazione dell’attività privatistica.
I problemi si pongono, in questa materia, soprattutto, in relazione al fatto che l’attività negoziale è di regola libera, non procedimentalizzata ed improntata al rispetto dei principi di correttezza e buona fede: in altri termini, non vi è un giusto procedimento da rispettare. Queste caratteristiche fanno dubitare del fatto che l’atto negoziale possa far trasparire il rispetto dei principi ex art.1 della legge n. 241/1990 [29].
In senso critico, si è, infatti, osservato, per evidenziare le difficoltà di dare un senso ragionevole alla disposizione in esame che “i criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e di trasparenza nonché i principi del diritto comunitario (tra cui, in particolare, il principio di proporzionalità) sono criteri e principi che sono tutti riconducibili al principio generale di discrezionalità amministrativa e non certo al principio generale di autonomia privata” [30].
Per tale ragione, a nostro avviso, la tesi della privatizzazione formale ha il duplice pregio di coniugare i vantaggi derivanti dall’impiego del procedimento (verificabilità della tutela dei terzi, imparzialità, emersione trasparente degli interessi, ecc.) e quelli del contratto (flessibilità dello strumento, effetti deflattivi del contenzioso, maggiore certezza e stabilità giuridica grazie alla regolamentazione consensuale della fattispecie).
Però, stante il tenore letterale non perspicuo della disposizione, la questione della privatizzazione formale o sostanziale, esige, senza dubbio, ulteriori approfondimenti di carattere sistematico.
Ciò considerato, i campi di applicazione degli art. 1, comma 1 bis e dell’art. 11 della legge n. 241/1990, restano, comunque, nettamente distinti. Il primo opera mediante strumenti privatistici puri, in assenza di previsioni legislative in materia di esercìzio dei poteri amministrativi; il secondo, opera, in sede di esercizio di poteri autoritativi, mediante contratti ad oggetto pubblico [31], o secondo altro orientamento, con moduli di attività amministrativa alternativi al provvedimento ”[32].
L’area amministrativa residuale, ovvero, quella priva di autoritatività, su cui opera, invece, l’art. 1, comma 1 bis, può essere individuata sulla base di quanto affermato in giurisprudenza: “l’attività amministrativa è configurabile non solo quando l’amministrazione eserciti pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando essa (nei limiti consentiti dall’ordinamento) persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività sottoposta, in tutto o in parte, alla disciplina prevista per i rapporti tra i soggetti privati (anche quando gestisca un servizio pubblico o amministri il proprio patrimonio o il proprio personale)"[33].
Quindi l’area su cui interviene l’art. 1, comma 1 bis, è quella riguardante:
- gli atti di amministrazione correlati, soprattutto, alla gestione del patrimonio (attività private di diritto privato: ad esempio, contratti di affitto o di locazione);
- gli atti con i quali l’amministrazione persegue scopi di interesse pubblico con gli strumenti del diritto privato (l’area denominata del diritto privato speciale).
In questo senso, Cerulli Irelli ha, giustamente, affermato che “i problemi applicativi della norma si pongono al di fuori dell’ambito dei poteri autoritativi, in tutti quei casi di esercizio dell’azione amministrativa non autoritativa mediante moduli di azione di diritto pubblico”.
Lo stesso autore ha, pure, affermato, come abbiamo sopra rilevato, che la norma “trovi applicazione in tutti i casi in cui lo strumento autoritativo può essere sostituito da quello negoziale, in virtù del consenso del soggetto privato nella cui sfera l’effetto è destinato a prodursi” [34].
A nostro avviso, la problematica relativa all’alternatività tra provvedimento e negozio giuridico è estranea all’art. 1, comma 1 bis, in quanto il presupposto di applicazione di questo articolo è l’assenza di previsioni legislative circa l’adozione di atti dotati di autoritatività.
Sostenere, il contrario, comporta, secondo noi, una notevole forzatura del dato letterale della disposizione in esame e l’inserimento di un precetto corrispondente, forse, alle intenzioni del legislatore, ma che la legge non contiene. L’art. 1, comma 1 bis, malgrado le intenzioni del legislatore, non è la sedes materiae recante un eventuale principio di fungibilità tra provvedimento e atto negoziale [35].
Non a caso, dall’esame dei lavori parlamentari si evince che vi era sì l’intenzione di recepire la predetta fungibilità, ma in sede di novella dell’art. 11 della legge n. 241/1990: ” si tratterebbe di riformulare e generalizzare la disposizione di cui all'articolo 11, comma 2, della stessa legge n. 241 in materia di accordi, che stabilisce che a essi si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Si potrebbe procedere in modo ancora più preciso, riprendendo il principio di contrattualità formulato a suo tempo dalla Commissione Nigro, sulla scorta della legge tedesca sul procedimento amministrativo, che ha introdotto espressamente la regola della fungibilità del contratto rispetto al provvedimento “[36].
In sintesi, i casi di applicazione obbligatoria dell’impiego del diritto privato puro nell’azione amministrativa, possono avverarsi in una delle seguenti situazioni [37]:
1) quando la P.A. agisce su rapporti giuridici non disciplinati dalla legge [38];
2) quando la P.A. agisce su rapporti giuridici disciplinati da una legge che non contempla, però, l’adozione di atti autoritativi [39];
3) quando la P.A. compie atti paritetici per espressa disposizione di una legge che non contempla alcuna deroga al diritto privato.
In queste tre ipotesi, la P.A. deve compiere atti privatistici o negoziali tout court, non potrà far uso di poteri gerarchici (i cd. “privilegia fisci”) e dovrà muoversi in una ottica paritaria con la parte negoziale.
Vi è, poi, un’altra ipotesi in presenza della quale l’applicazione del diritto privato è, invece, facoltativa: ciò accade quando la stessa legge rimette alla P.A. la scelta dello strumento [40].
Se, invece, una legge impone per l'esercizio di funzioni pubbliche, una determinata forma giuridica di diritto privato [41] ”quest'ultima deve essere utilizzata nella sua tipicità (…) in caso contrario risulterebbe non rispettato il principio di legalità e tipicità dell'azione amministrativa ed il principio di funzionalizzazione, cioè di contenimento delle capacità negoziali delle amministrazioni pubbliche nell'ambito ristretto delle funzioni loro conferite dalle norme di diritto pubblico” [42].
4. Il favor del diritto privato e il titolo V della Costituzione.
La disposizione in esame, a ben vedere, si è limitata, quindi, a positivizzare alcuni corollari del principio di legalità ex art. 97 Cost.:
1) in base al principio di legalità, la P.A. può esercitare poteri pubblicistici se questi sono contemplati dalla norma di legge (principio di tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi);
2) la P.A. può agire con regole speciali (pubblicistiche) nei rapporti negoziali, solamente sulla base di una disposizione legislativa ad hoc,in caso contrario, trova applicazione la capacità giuridica di diritto comune. In questa direzione, opera anche l’art. 21-sexies che ammette il recesso unilaterale della P.A. dai contratti solo nei casi in cui vi sia una previsione contrattuale o di legge. Questa disposizione dovrebbe incidere, sotto i citati profili, su taluni indirizzi giurisprudenziali propensi a riconoscere una intrinseca preminenza della P.A. nei rapporti con i privati in materie ritenuti sensibili.
In sintesi, l’art. 1, comma 1 bis, esprime una opzione di preferenza (che, in realtà, è una estrinsecazione del principio di legalità) del diritto privato rispetto al diritto privato speciale [43].
Questa preferenza si muove, per certi versi, nel solco delle competenze esclusive dello Stato, se accediamo alla tesi secondo cui la locuzione “ordinamento civile “ex art. 117 Cost. è idonea a ricomprendere anche il diritto privato speciale della P.A. [44].
Letta in questi termini, la disposizione non appare vincolante per le regioni per almeno due motivi:
- l’art. 1, comma 1 bis, contempla in capo alla legge, il potere di regolamentazione della materia in esame, e non procede, quindi, a dettare direttamente requisiti di uniformità sul territorio nazionale [45]. Questo frammento della norma, stante il tenore ricognitorio, non crea un nuovo vincolo per il legislatore e, quindi, appare privo di forza lesiva delle attribuzioni regionali;
- il canone interpretativo recante il favor del diritto privato (rectius, la riaffermazione del principio di legalità), si applica alle regioni in forza degli artt. 3 e 97 cost. Se una legge regionale stabilisse, ad esempio, il favor verso il diritto pubblico, potrebbe essere illegittima non per contrasto con l’art. 1, comma 1 bis, ma con gli artt. 3 e 97 cost.
Infatti, secondo un orientamento autorevole “la norma, anzitutto, esprime un principio tendenziale dell’ordinamento, un indirizzo politico legislativo si potrebbe dire, di un certo valore, invero, tenendo conto che su di esso il Parlamento si è pronunciato con cinque letture di esito positivo e con il voto favorevole della grandissima maggioranza delle forze politiche” [46].
Peraltro, a nostro parere, una legge dello Stato, e non è il caso della legge n. 15/2005, non potrebbe imporre, come misura generalizzata, il diritto privato in luogo del diritto pubblico alle Regioni, nelle materie di competenza regionale esclusiva o concorrente. Una legge del genere, sarebbe in contrasto con l’art. 117 cost, in quanto comporterebbe uno spostamento in avanti delle competenze statali esclusive (ordinamento civile) a detrimento delle competenze regionali in materia di procedimento e organizzazione amministrativa riconosciute dalla Corte costituzionale, anche prima della riforma del titolo V, in disparte la considerazione che aumentare in modo generalizzato l’area degli atti privatistici vuole anche dire sottrarre ai terzi la tutela degli interessi legittimi garantita dall’art. 111 della Costituzione [47]. Potrebbero essere legittime, invece, puntuali previsioni ancorate a competenze esclusive statali (in materia di concorrenza, giustizia amministrativa, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali…).
La scelta della “forma della funzione” è il cuore di una competenza legislativa, e conseguentemente, non può essere avocata dallo Stato nelle materie ove le Regioni hanno competenze legislative. Non ci sentiamo di escludere che, in casi particolari, la forma della funzione possa assumere la veste di principio fondamentale, nelle materie di competenza concorrente, laddove si dimostri che determinati requisiti di uniformità su tutto il territorio si rendano necessari, in una data materia, per la tutela di valori costituzionali, affidata allo Stato in via esclusiva [48].
5. Alcune problematiche applicative.
A livello applicativo, può destare qualche preoccupazione quanto potrebbe accadere relativamente alle ipotesi nelle quali la P.A. agisce su rapporti giuridici disciplinati da una legge che non contempla l’adozione di atti autoritativi. Non tanto in riferimento alla legislazione futura (posto che il fenomeno potrà e dovrà essere governato dal legislatore) quanto alla legislazione passata, ove è possibile riscontrare leggi statali e regionali che, nel disciplinare una data materia, non hanno contemplato, in modo esplicito, l’adozione di atti autoritativi.
Si aprono qui delicati problemi ermeneutici, in quanto, alla base di questa evenienza può non esservi la scelta consapevole di voler applicare il diritto privato, ma una applicazione poco limpida del principio di legalità, sub specie delle regole della tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi. Ai fini dell’esame di queste fattispecie, assume rilievo pregiudiziale il significato concreto che noi oggi attribuiamo ai principi di tipicità e nominatività.
In ragione di ciò, l’applicazione del nuovo canone interpretativo secondo cui, in caso di dubbio, si applica la normativa di diritto comune, può occupare, da subito, spazi notevoli a seconda della concreta valenza applicativa dei principi di tipicità e nominatività.
Sandulli scriveva che “i provvedimenti amministrativi sono atti tipici. I tipi sono quelli previsti dall’ordinamento e quelli soltanto e ciascuno di essi è caratterizzato dalla funzione peculiare assegnategli dall’ordinamento: la realizzazione dell’interesse pubblico specifico cui è preordinato (…) quanto si è detto importa la nominatività dei provvedimenti amministrativi: a ciascun interesse pubblico particolare corrisponde un tipo di atto perfettamente definito (esplicitamente o per implicito) dalla legge” [49]. E’ pacifico in giurisprudenza che “i principi di nominatività e di tipicità esigono che ad ogni interesse pubblico vada correlato uno specifico potere in capo all’amministrazione in modo da determinare, in esito al procedimento, un giudizio di coerenza tra potere esercitato e risultato concretamente perseguito” [50].
Non si riscontrano precedenti giurisprudenziali che abbiano diluito di molto la vincolatività di queste regole, mentre la dottrina più recente sostiene, al contrario, che “il provvedimento non può risultare atto tipico quando ormai il fenomeno del procedimento amministrativo è in bilico tra autorità e contrattazione (…); il tramonto del mito della tipicità dovrebbe oscurare il principio della nominatività del provvedimento” [51].
Da una certa giurisprudenza si ricava, però, che la tipicità della causa del potere esercitato costituisce il dato imprescindibile rispetto a quello della nominatività: “Il valore della tipicità degli atti amministrativi, che è di diretta derivazione dal principio di legalità, non può essere inteso, né è stato inteso dalla più accreditata dottrina, nel senso della necessaria nominatività degli atti autoritativi, quanto piuttosto nella tipicità della causa del potere esercitato e delle finalità d'interesse pubblico perseguite con l'atto amministrativo. La stessa autotutela dell'amministrazione, su atti e su beni pubblici, sarebbe pregiudicata da un concetto di tipicità tanto angusto da richiedere l'espressa previsione del singolo provvedimento per ciascuna occasione di esercizio del potere conferito” [52].
Infatti, già il Virga, rilevava che “ad una causa del potere non si accompagna anche una nominatività dei tipi dei provvedimenti, nel senso che possono ammettersi figure di atti diverse da quelle già conosciute, giacché esistono atti amministrativi non precisamente inquadrabili nei tipi conosciuti” [53].
Questo indirizzo dottrinario e giurisprudenziale dovrebbe far maturare nel legislatore la consapevolezza di adottare una tecnica legislativa, molto chiara, nella disciplina delle attività amministrative ed, in particolare, della causa del potere sub specie finalità ed effetti dell’atto [54]
Non dobbiamo celare che, nella prassi, i regolamenti abbiano svolto un ruolo importante in materia di disciplina dell’azione amministrativa, e forse per questa ragione, il comma 1 bis dell’art.1, in una delle precedenti formulazioni (disegno di legge A.S. n. 4860 presentato da Cerulli Irelli) menzionava anche i regolamenti quali fonti attributarie dei poteri amministrativi e, non mancarono, peraltro, avverso questa previsione, le critiche della dottrina [55].
L’attuale formulazione dell’art. 1, comma 1 bis, non contiene più alcun riferimento in merito alla fonte attributaria dei poteri, anche perché la sede più corretta per affrontare questa problematica è quella costituzionale.
Ciò considerato, potrebbe accadere che taluni procedimenti amministrativi disciplinati in sede regolamentare, risultino, ex abrupto, inapplicabili, se il potere amministrativo ivi contemplato e disciplinato, dovesse risultare privo di radicamento in una sede legislativa.
Questa evenienza non è teorica e potrebbe facilmente prospettarsi, se consideriamo che alcuni commentatori (Cerulli Irelli, Spasiano, Pioggia) ritengono applicabile l’art. 1, comma 1 bis, ad esempio, in materia di concessione di contributi ex art. 12 della legge n. 241/90 [56] in quanto, l’art. 12 della citata legge dispone “l’obbligo di predeterminare criteri e modalità; ma ciò non significa affatto che si tratti di esercizio di poteri amministrativi, ché la predeterminazione di criteri e modalità dell’erogazione può avvenire senz’altro nell’ambito di attività negoziale” [57].
Occorre premettere che allo stato, l’attività amministrativa finalizzata alla concessione dei contributi ex art. 12 della legge n. 241/1990, si muove in ambiente pubblicistico, come si evince dalla giurisprudenza amministrativa e contabile “ [58].
A ben vedere, l’art. 12 della legge n. 241/90, prescrive, al secondo comma, che i “singoli provvedimenti” di cui al primo comma (i provvedimenti di concessione) devono esplicitare l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di intervento. Praticamente, la disposizione impone l’adozione di singoli provvedimenti concessori (a fronte di ogni erogazione) che diano contezza del rispetto delle regole procedimentali. Questa penetrante motivazione per ciascun provvedimento finale, si spiega con il fatto che nella gestione delle risorse della collettività, l’interesse dei terzi è particolarmente forte. Ora la locuzione “provvedimento”, in questa “sedes materiae” (l’art. 12 è, infatti, inserito nel capo III, denominato “Partecipazione al procedimento amministrativo”) sicuramente intende riferirsi all'esercizio di un potere amministrativo. Se così è, manca, a nostro avviso, in questa fattispecie, uno dei presupposti prescritti dall’art. 1, comma 1 bis, per rendere applicabile il diritto privato: e cioè l’assenza di una legge che prescriva il compimento di atti autoritativi.
6. Riflessi in materia di politica legislativa.
La novella, in esame, esercita, comunque, una indubbia influenza favorevole in materia di politica e tecnica legislativa, in quanto il legislatore è stimolato:
- ad individuare ex ante, cioè in sede di progettazione dell’atto normativo, lo strumento più appropriato, laddove le materie lo permettano (modulo provvedimentale, modulo negoziale con deroghe, oppure modulo negoziale puro) per raggiungere i fini prefissati;
- ad esplicitare con chiarezza la scelta compiuta nel testo della legge. Il legislatore potrà anche definire modalità alternative di azione e rimettere all’autonomia delle amministrazioni la scelta dello strumento più appropriato sulla base delle peculiarità del contesto locale nel quale esse operano, fatta salva l’applicabilità, ex lege, dell’art. 11 della legge n. 241/1990. Il legislatore dovrà assumere, quindi, la consapevolezza di compiere queste scelte, anche al fine di non produrre testi lacunosi di difficile applicazione per gli Enti preposti allo svolgimento delle attività amministrative ivi contemplate.
Non riteniamo di escludere a priori che le Regioni possano introdurre elementi di specialità nel diritto privato, malgrado la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, in quanto la Corte costituzionale ha ammesso che il legislatore regionale possa, in taluni casi, e a certe condizioni, apportare adattamenti alle norme di diritto privato:"l'ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale, in quanto fondato sull'esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l'uniformità della disciplina dettata per i rapporti fra privati. Esso, quindi, identifica un'area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprendente i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione, tra i quali, in particolare, per quanto rileva in questo giudizio, rientrano i rapporti di condominio, quali disciplinati dagli artt. 117-1139 del codice civile.
Si tratta di un limite che attraversa le competenze legislative regionali, in ragione appunto del rispetto del fondamentale principio di eguaglianza. L’incidenza sulla competenza regionale del limite del diritto privato non opera però in modo assoluto, in quanto anche la disciplina dei rapporti privatistici può subire un qualche adattamento, ove questo risulti in stretta connessione con la materia di competenza regionale e risponda al criterio di ragionevolezza, che vale a soddisfare il rispetto del richiamato principio di eguaglianza (sentenze n. 441 del 1994 e n. 35 del 1992)” [59].
Il legislatore nel compiere le scelte di politica legislativa in merito alla “forma della funzione” non è, però, libero, ma deve muoversi nell’ambito di una discrezionalità che è censurabile avanti alla Corte costituzionale. La stessa Corte con la sentenza n. 135 del 1998 ha puntualizzato che “occorre ricordare che il canone costituzionale del buon andamento riguarda anche gli aspetti attinenti alle funzioni ed all'esercizio dei poteri amministrativi, cosicché "i relativi procedimenti debbono essere idonei a perseguire la migliore realizzazione dell'interesse pubblico nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell'attività amministrativa" (sentenza n. 40 del 1998). L'obiettivo del buon andamento della Amministrazione può essere tuttavia perseguito e realizzato con strumenti e modalità diversi, parimenti efficaci, la cui scelta é rimessa alla discrezionalità del legislatore, naturalmente nei limiti della ragionevolezza (sentenza n. 103 del 1993)” [60].
7. Conclusioni.
Che anche i negozi giuridici possano essere idonei a realizzare i fini pubblici è qualcosa che nessuno mette in dubbio. Ma l’identificazione delle proprietà alchemiche concretamente possedute dal “diritto privato”, idonee a giustificarne un impiego generalizzato, è questione tuttora aperta e controversa. I fautori del favor del diritto privato dovrebbero spiegare [61], analogamente, a quanto è accaduto in materia di rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in quali settori specifici dell’attività amministrativa possono manifestarsi le presunte proprietà curative del diritto privato, e come questa nuova forma (il diritto privato) possa portare giovamento alla funzione amministrativa, trasformando gli eventuali mali da cui essa è afflitta (la materia grezza) in benefici effetti per il perseguimento dell’interesse pubblico (in oro).
In concreto, sarebbe opportuno e più funzionale al dialogo tra tutti gli attori coinvolti nel processo di privatizzazione, che i sostenitori della generalizzata preferenza del diritto privato focalizzassero l’attenzione, ad esempio, sui seguenti problemi concreti:
- l’individuazione, all’interno della “specialità amministrativa”, delle norme espressive di posizioni di privilegio e di quelle che appaiono espressive di garanzie a tutela della collettività;
- l’individuazione dei settori specifici nei quali dovrebbe essere implementata la privatizzazione, evidenziandone i relativi vantaggi;
- la specificazione delle modalità operative tramite le quali l’attività privatistica, a fattispecie libera, possa incorporare l’interesse pubblico e la tutela dei terzi.
Ciò sarebbe doveroso anche per il buon fine della riforma, a prescindere dalla condivisibilità o meno della stessa. Infatti, l’Amministrazione Pubblica non può essere in grado di applicare una riforma i cui contenuti ed effetti sono genericamente adombrati ed incerti. Appare evidente a tutti che solo una riforma dai contenuti chiari, può permettere all’amministrazione di attrezzarsi tecnicamente per implementare la “forma negoziale” nelle attività amministrative [62].
Lo stesso legislatore, a ben vedere, potrebbe intervenire, da subito, con una nuova formulazione dell’art. 1 comma, 1 bis, al fine di chiarire la portata della privatizzazione (formale o sostanziale); in caso contrario, i contenuti della riforma potranno essere pienamente noti, paradossalmente, solamente negli anni a venire, e cioè quando si sarà consolidato un indirizzo giurisprudenziale in materia.
In generale, un approccio meno autoreferenziale e più pragmatico, può, a nostro avviso, favorire anche il dialogo armonioso e trasparente tra il diritto comunitario [63] che sospinge la vita amministrativa verso rapporti paritari e il nostro diritto nazionale e, nel caso di specie, il nostro procedimento amministrativo [64].
(*) Responsabile Sezione Studi e Consulenza giuridica - Regione Umbria.
[1] La relazione, presentata alla Presidenza il 6 novembre 2003, concerneva il disegno di legge n. 3890 approvato dal Senato della Repubblica il 10 aprile 2003, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241 concernenti norme generali sull’azione amministrativa”.
[2] Così, S. GIACCHETTI, Giurisdizione amministrativa e legge n. 15/2005: verso la riscoperta dell’unitarietà dell’interesse pubblico o verso una riserva indiana?, in www.giurisprudenza.it. Si veda, S. CIVITARESE MATTEUCCI (Regime giuridico dell’attività amministrativa e diritto privato, in Diritto Pubblico, n. 2/2003, p. 405 e segg.) il quale afferma che “la delicatezza del tema è tale per cui ritengo che l’interprete debba prendere attentamente in esame innanzitutto il significato letterale delle disposizioni in esame prescindendo da elementi extratestuali, quali, ad esempio, le intenzioni del legislatore, eventualmente evincibili dai lavori preparatori”.
[3] Così, Pastore, in seduta pubblica n. 362 del 20 marzo 2003 - Senato della Repubblica. Le stesse motivazioni riecheggiano nelle dichiarazioni di voto finale (A.C. 6844) di Soda: “l'avere oggi affermato in questo testo di legge che le pubbliche amministrazioni, che pure perseguono sempre pubblici interessi e che, quindi, trovano il fondamento della loro condotta nei principi di imparzialità, di trasparenza e di pubblicità sanciti dalla Costituzione, non abbiano però in sé quel carattere di autorità assoluta per cui nei rapporti con i cittadini si pongono in una sfera sempre e comunque di supremazia; l'aver affermato in questo testo che le pubbliche amministrazioni debbono regolare la propria condotta, i propri atti e le proprie relazioni secondo lo ius commune segna un passaggio decisivo per creare rapporti di maggiore democraticità tra pubblica amministrazione e cittadini”. In forma dubitativa, nella stessa seduta, Acquarone afferma: “ Io non appartengo alla categoria di coloro i quali ritengono che debba essere tutto affidato al diritto privato, perché ho la sensazione che esso sia, molto spesso, il diritto del più forte e che il diritto pubblico sia, invece, un diritto più equilibrato ed armonico. Ma qui questi principi vengono riaffermati”.
[4] Così, ad esempio, il T.A.R. Campania - Salerno con la sentenza n. 566/2004.
[5] Così, V. CERULLI IRELLI, Dichiarazione di voto finale sulla proposta di legge n. 6844.
[6] La nuova autonomia normativa degli enti locali dovrà essere costruita sulla base degli articoli 114 e 117, comma sesto, Cost., nonché dell’art. 4 della legge 5 giugno 2003, n. 131.
[7] Forse, il rapporto paritario a cui si voleva alludere nella realtà, concerneva non la relazione cittadino - amministrazione, ma la relazione imprenditore - amministrazione: l’implementazione del diritto privato nell’azione amministrativa, in materia di utilizzo delle risorse pubbliche (beni immobili, ad esempio) in un’ottica di parità con il privato, incentiva questo ultimo ad entrare in affari con l’amministrazione, senza dover subire i poteri speciali di cui la P.A. ha goduto tradizionalmente.
[8] Così, Corte costituzionale, sentenza n. 309/1997. Si veda, A. PIOGGIA, La competenza amministrativa. L’organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001.
[9] Ad esempio, F. SATTA, “La riforma della legge 241/90: dubbi e perplessità” in www.giustamm.it, osserva ”disporre in una legge che l’amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato (…) significa che essa è svincolata dalla regola dell’interesse pubblico e che persegue viceversa interessi propri, alla stregua di qualsiasi privato. È facile replicare che, nella pratica, nessuno interpreterà così l’art. 1. È possibile. Ma se così è, quale motivo c’era di scrivere una cosa del genere?”.
[10] Giannini, già nel 1959, segnalava che taluni atti considerati di diritto pubblico potevano essere considerati di diritto privato in quanto ne avevano tutti gli attributi (M.S. GIANNINI, Atto amministrativo, in Enc. del Dir., 1959, Giuffrè, p.169).
[11] “La giurisprudenza amministrativa, dalla natura paritetica, non ha mai fatto derivare ex abrupto l’applicazione all’atto del regime di diritto privato. Secondo l’impostazione tralaticia, infatti, gli enti e le amministrazioni pubbliche agiscono di regola sulla base del diritto pubblico, generale o speciale, e soltanto in alcune ipotesi, tassativamente previste dalla legge, è ammesso l’utilizzo delle norme sostanziali di diritto privato ed in particolare del codice civile”, così N. DURANTE, L’adozione degli atti di natura non autoritativa, con elettivo riferimento alla tematica del conferimento e della revoca dell’incarico di funzione dirigenziale nell’ambito del rapporto di lavoro con l’amministrazione dello Stato, in www.giustizia-amministrativa.it. E’ d’obbligo richiamare quanto scriveva F. Cammeo: “Il diritto pubblico è il diritto comune ordinario per i rapporti fra individui e Stato come quello che risponde alla natura dei subietti e dei rapporti; il diritto privato non può apparire come regolatore di quei rapporti se non in via eccezionale” (Corso di diritto amministrativo, Cedam, 1960, p. 51).
[12] Così, V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale dell’azione amministrativa, in www.astridonline.it.
[13] Anticipando un po’ l’esito delle nostre riflessioni, possiamo dire che lo stesso legislatore ha dimostrato di non credere molto in questa possibilità, se consideriamo che ha condizionato la stipula di accordi integrativi o sostitutivi alla preventiva adozione di un provvedimento amministrativo, a garanzia dell’imparzialità e buon andamento (art. 11, comma 4 bis, della legge n. 241/90).
[14] Così, T.A.R. Umbria, Perugina, sentenza 08.03.1999, n. 193. Cfr., pure, Corte costituzionale - ordinanza 21 luglio 1988 n. 867, con nota di G. VIRGA, “Interessi legittimi e diritti soggettivi: una distinzione ancora utile per conseguire una maggiore tutela in http://www.lexitalia.it/articoli/virgag_interessi.htm.
[15] Così, Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 1327/2000. “Il provvedimento amministrativo è, oggi, uno solo dei possibili atti che le pubbliche amministrazioni possono adottare per il perseguimento dei propri fini, giacché ad esso si accompagnano modelli procedimentali più vicini al diritto privato; è quindi necessario accogliere una nozione oggettiva di attività amministrativa e ritenere che essa si qualifichi tale in quanto consista nello svolgimento di una pubblica funzione o di un pubblico servizio, indipendentemente dalla riconducibilità dell’atto emesso all’ambito del diritto privato o del diritto pubblico; lo strumento del diritto privato consente una maggiore efficienza dell’azione amministrativa; le esigenze del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione, come disciplinate dall’art. 97 Cost., riguardano allo stesso modo l’attività volta all’emanazione di provvedimenti e quella con cui sorgono o sono gestiti i rapporti giuridici disciplinati dal diritto privato, e per conseguenza l’attività amministrativa è configurabile anche quando l’amministrazione persegua le proprie finalità istituzionali mediante un’attività sottoposta in tutto od in parte alla disciplina prevista per i rapporti tra soggetti privati, come ha affermato anche il Consiglio di Stato (adunanza plenaria n. 4/99 del 22 marzo 1999) l’amministrazione svolge attività amministrativa non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato ”così, Cass. civ. SS.UU - 22 dicembre 2003 – n. 19667.
[16] Per le implicazioni di ordine sistematico ricollegabili all’art.1, comma 1 bis, cfr l’analisi di S. GIACCHETTI, op.cit.
[17] La locuzione “diritto privato” attiene, evidentemente, a tutte le norme, e non solo a quelle collocate nel codice civile (cfr. art. 11 legge n. 241/1990) applicabili nei rapporti tra i privati, considerato che la ratio ultima della disposizione è quella che la P.A. debba agire come un qualsivoglia privato e cioè in posizione di parità nei confronti degli altri contraenti.
[18] Considerato che la materia “ordinamento civile” è di competenza esclusiva dello Stato, le deroghe al diritto privato dovrebbero essere contenute in una legge statale; però, come vedremo in seguito, la Corte costituzionale ammette un limitato potere di adattamento da parte delle regioni: entro certi limiti, quindi, le deroghe potrebbero essere contenute anche in una legge regionale nelle materie di competenza esclusiva e concorrente. Qualche autore non esclude “che la previsione derogatoria sia contenuta in un regolamento” così, G. NAPOLITANO, L’attività amministrativa e il diritto privato, in “Giornale del diritto Amministrativo”, Ipsoa, n. 5/2005, p. 485.
[19] G. NAPOLITANO, op.cit., osserva che “Tale formula che impiega un termine dalla forte valenza evocativa, ma dalla dubbia pregnanza giuridica, si presta ad una duplice interpretazione”. S. GIACCHETTI, op.cit. osserva che “per dare un minimo di senso all’apertura al diritto privato bisognerebbe quindi ipotizzare che il legislatore abbia inteso – in realtà - fare riferimento a tutti quegli atti amministrativi che l’ordinamento consente che siano sostituiti o integrati con il sistema del silenzio assenso, della DIA, delle autocertificazioni e simili; e che quindi, facendosi riferimento non tanto alla “legge” quanto all’interpretazione del sistema, gli “atti autoritativi” sottratti all’adozione nelle forme privatistiche siano da limitare logicamente agli ordini, ai provvedimenti ablatori, a quelli di secondo grado nonché ai provvedimenti concessori o autorizzatori caratterizzati dalla presenza di un forte interesse pubblico (come di regola accade, ad esempio, in materia ambientale). Comunque, possiamo aggiungere che la natura unilaterale dell'atto non ”può ritenersi indice univoco del suo asserito carattere autoritativo e pubblicistico, posto che anche il recesso relativo ad un ordinario rapporto contrattuale presenta la struttura unilaterale tipica delle manifestazioni di volontà espresse nell'esercizio di diritti potestativi”, così Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza del 13 marzo 2000 n. 1327.
[20] A. SANDULLI (Manuale di diritto amministrativo, 1978, Jovene, p. 420) rilevava che “oltre ai provvedimenti anche altri atti amministrativi sono caratterizzati da una certa autoritarietà; così alcune certificazioni, la autoritarietà delle quali consiste nel creare certezze legali privilegiate”. Cfr. M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, p. 712-713, Giuffrè, 1988.
[21] Cfr. G. VIRGA “ Il giudice della funzione pubblica (sui nuovi confini della giurisdizione esclusiva tracciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004” in http://www.lexitalia.it/articoli/virgag_204.htm
[22] Si veda in questo senso S. GIACCHETTI, op.cit.
[23] V. CERULLI IRELLI, Il negozio come strumento di azione amministrativa, in http://www.lexitalia.it/articoli/cerulli-irelli_negozio.htm. Questo autore aggiunge: “solo per fare alcuni esempi, in questi settori può porsi l’alternativa tra il provvedimento di concessione e il contratto di affitto, di locazione o di appalto; tra il provvedimento di espropriazione e il contratto di compravendita; tra il provvedimento di requisizione e il contratto di affitto o di locazione; tra la costituzione coattiva di servitù e quella volontaria; tra il provvedimento di nomina a pubblico impiego e il contratto di lavoro; ecc. Cfr. Idem, Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione, http://www.lexitalia.it/articoli/cerulli-irelli_riformapa.htm.
[24] Nello stesso senso, appare l’interpretazione di G. NAPOLITANO (op. cit. p. 485) che dà atto “ di un diffuso orientamento giurisprudenziale a estendere la categoria concettuale e il regime giuridico proprio del provvedimento autoritativo ad ogni altro atto funzionalizzato con cui l’amministrazione assolve ai propri compiti”. Si veda anche M. ATELLI, Attività non autoritativa: largo al diritto privato”, Guida al diritto, Il sole 24-0re, n. 10/2005, p. 49 e ss.
[25] L’art.1, comma 1 bis, può essere letto come espressione della "fuga dal diritto amministrativo"; ma parimenti il comma 1 ter dello stesso articolo 1 può essere letto come il "ritorno del diritto amministrativo" (com'è testimoniato anche dall'inserimento di un nuovo atto amministrativo nel cuore stesso della disciplina di uno dei momenti più significativi della spinta verso il polo della consensualità: la determinazione previa dell'amministrazione, come atto unilaterale, in vista della stipulazione dell'accordo” così A. MASERA in “La riforma della Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo: una prima lettura” in www.astrid.it.
[26] Così, Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2004 n. 5659.
[27] “Quando le modalità giuridiche dell'azione sono quelle del diritto privato, la valutazione del rispetto di questi principi e di queste finalità, non dà luogo ad una valutazione di legittimità degli atti giuridici adottati, secondo lo schema dell'eccesso di potere (che è proprio degli atti amministrativi in senso stretto). Ma dà luogo a valutazioni circa il complesso dell'azione amministrativa posta in essere, in sede di controllo di gestione, in sede di esercizio dell'azione di responsabilità davanti alla corte dei conti, in sede di esercizio dell'azione di responsabilità civile, e così via”, così, Dichiarazione di voto finale del deputato Vincenzo Cerulli Irelli sulla proposta di legge n. 6844 (Atti parlamentari, Discussioni, seduta del 25 ottobre 2000 - n. 798 - p. 134)
[28] Si veda, S. CIVITARESE MATTEUCCI, op.cit., p. 422. Sullo statuto dell'azione amministrativa cfr. F. G. SCOCA, Autorità e consenso (Relazione al convegno di Varenna, settembre 2001), Diritto amministrativo, 2002, fasc. 3 p. 431 – 457. Idem, Attività amministrativa, ad vocem, Enc.del dir.,vol.VI, 2002, p. 95. “Non pare azzardato sostenere che il legislatore con la nuova dicitura "principi generali dell'attività amministrativa" abbia voluto tradurre in norma di diritto positivo quell'orientamento dottrinale (cfr., ex plurimis, G. Morbidelli) che da tempo andava affermando la applicabilità dei criteri generali enunciati nel I comma non solo ai procedimenti formali, ma a tutta l'attività amministrativa, ivi compresa, quindi, l'attività di diritto privato, le operazioni amministrative, i comportamenti…”Così, T.TESSARO, La nuova legge 241: il nuovo "statuto" dell'attività della p.a (www.comuni.it).
[29] Comunque nell’area degli atti datoriali privatistici, la circostanza sopra evidenziata non ha impedito al giudice ordinario di effettuare controlli penetranti: “Correttezza e buona fede significa, poi, che nell’esercizio del potere discrezionale parte datoriale deve dar conto delle ragioni che sottendono l’atto di gestione ed , in definitiva, della scelta; e che poi quest’ultima debba essere coerente con la determinazione datoriale e con gli eventuali criteri predeterminati (…) E’ opinione del Tribunale che anche il datore di lavoro pubblico quando pone in essere un atto gestorio del rapporto ( come una selezione per la promozione) debba attenersi ai criteri su enunciati e che, in assenza di motivazione esplicita dell’atto, la verifica giudiziale debba necessariamente investire, mediante il ricorso alla ragionevolezza, il percorso utilizzato dal datore di lavoro per operare la scelta”(Tribunale di Pisa, sentenza del 2/12/2003).
[30] Così’, S. GIACCHETTI, op.cit. Questo autore aggiunge: ”Ma allora è evidente che si tratta di una norma non scritta da civilisti; perché se a un civilista si parlasse di diritto privato retto dal principio generale di discrezionalità amministrativa e non da quello dell’autonomia privata resterebbe esterrefatto”.
[31] Cfr. Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza n. 2636 del 15 maggio 2002. Cfr. pure L. OLIVERI, “Negli accordi un atto non basta più”, Italia Oggi del 16 marzo 2005.
[32] Cfr. il considerato in diritto 3.4.2 della sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale.
[33] Così, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza n. 4 del 22 aprile 1999 in Cons. Stato 1999, I, 557. Ricorda GIACCHETTI, op. cit., “Giorgio Amorth aveva teorizzato sin dagli anni trenta l’esistenza di un’attività amministrativa di diritto privato, distinta sia dall’attività amministrativa di diritto pubblico sia dall’attività privata della pubblica amministrazione, ed anche se la giurisprudenza del Consiglio di Stato sin dal 1939-1940 aveva teorizzato la categoria dell’atto amministrativo paritetico, questa attività amministrativa paritetica (ritenuta correntemente “spuria”) copriva fasce marginali dell’azione amministrativa e quindi, ai fini pratici della costruzione del sistema, poteva anche essere considerata un’eccezione senza che ciò creasse troppi problemi. Ma l’originario rapporto tra regola (attività autoritativa) ed eccezione (attività paritetica) si è poi profondamente mutato, sino a ribaltarsi”.
[34] V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto cit. p. 9.
[35] Critico su questa opinione di Cerulli con altre motivazioni è M. R. SPASIANO, L’interesse pubblico e l’attività della p.a. nelle sue diverse forme alla luce della novella della l. 241 del 1990, in giustamm.it, il quale osserva che “Non si ritiene di condividere tout court l’opinione di chi (Cerulli Irelli) ritiene applicabile l’art. 1, comma 1-bis,“in tutti i casi i cui lo strumento autoritativo può essere sostituito da quello negoziale, in virtù del consenso del soggetto privato nella cui sfera l’effetto è destinato a prodursi”. In questo caso, proprio l’esigenza comunque persistente di massima tutela dell’interesse pubblico induce ad affermare, piuttosto, che si tratterà di accertare, attraverso le motivazioni addotte (Montedoro), che le condizioni che l’amministrazione è in grado di conseguire mediante il ricorso a modulo privatistico, rispetto all’uso di poteri unilaterali, risultino più favorevoli”.
[36] Seduta n. 145 del 16 maggio 2002 –Senato della Repubblica.
[37] Cerulli Irelli, in op.cit, ha segnalato la seguente casistica: “la norma, allo stato, diviene operativa soltanto nei casi in cui le Amministrazioni agiscono instaurando rapporti con soggetti terzi non previsti da specifiche norme di diritto pubblico e precisamente rapporti di godimento e di uso di beni demaniali, al di fuori della loro specifica destinazione oppure esercizi commerciali, di ristorazione o altrimenti serventi ad una pubblica istituzione, ma collaterali rispetto alla sua principale destinazione e non espressamente previsti dalla relativa normativa. In questi casi, lo strumento pubblicistico della concessione, non imposto da singole norme, potrebbe essere sostituito da negozi di diritto comune”.
[38] Cfr. la nota precedente: rapporti di godimento e di uso di beni demaniali, al di fuori della loro specifica destinazione. “I beni del demanio archeologico che sono destinati alla realizzazione degli scavi e a scopi di interesse culturali possono presentare utilitates di tipo agricolo (ad esempio, il pascolo) che non sono contemplate affatto dalla legge”, così V. CERULLI IRELLI in, Corso di Diritto Amministrativo, op.cit. Inoltre si pensi alla concessione di spazi pubblicitari nell’ambito di porti e aeroporti da parte dei relativi concessionari non disciplinati dalla legge (SPASIANO).
[39] Una parte della dottrina, come vedremo in seguito, ad esempio, ritiene che l’art. 12 della legge n. 241/1990 ricade nel campo di applicazione dell’art.1, comma 1 bis.
[40] Ad esempio, l’art. 120 del d.lgs. n. 267 del 2000, in riferimento alle società di trasformazione urbana, prevede la preventiva “acquisizione” degli immobili interessati dall’intervento, precisando che le “acquisizioni possono avvenire consensualmente o tramite ricorso alle procedure di esproprio da parte del comune”. Se un Comune decide di esercitare la “facoltà” attribuita dalla legge, si prospetta evidentemente una possibilità di scelta tra la stipula di un contratto di compravendita, con il consenso dell’alienante, e l’esercizio delle potestà ablatorie demandate all’autorità per la realizzazione degli interventi di pubblica utilità (cfr. in questi termini, TAR Campania, sez. Napoli, 18 maggio 2005, n. 6505).
[41] L’art. 10 del decreto legislativo 368/1998 recita “Il Ministero ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali puo': a) stipulare accordi con amministrazioni pubbliche e con soggetti privati; b) costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società (…).
[42] Parere Consiglio di Stato - sezione seconda, 20 giugno 2001, n. 1428/2000 , in riferimento alla disposizione citata nella nota precedente.
[43] “La portata della norma è molto meno rivoluzionaria di quanto essa appaia ad una prima lettura, nè essa comporta la morte e trasfigurazione del diritto amministrativo. In realtà, il tentativo di trasformare l’attività della P.A. in attività di diritto comune non è nuovo. Nello scorso decennio, andava di moda lo slogan che preannunciava una amministrazione “per accordi”, soggetta alle norme di diritto civile. Tale slogan, tuttavia, non si è mai tradotto in realtà e gli accordi tra privati e P.A., addirittura sostitutivi del provvedimento conclusivo, già previsti dalla L. n. 241/90, non hanno fin qui avuto successo” così, G. VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge n. 241 del 1990 recentemente approvate, http://www.lexitalia.it/articoli/virgag_mod241.htm.
“Il citato comma 1 bis dell’art. 1, sistematicamente collocato nell’articolo dedicato ai principi generali dell’attività amministrativa, potrebbe voler soltanto chiarire che l’amministrazione gode della generale capacità di diritto privato riconosciuta alle persone giuridiche, e non richiede l’attribuzione di un potere nominato per poter agire jure privatorum (cosa che si escludeva nei primi del secolo scorso); fermo restando che, tanto se agisca jure privatorum, quanto se agisca jure imperii, l’azione rimane sempre “amministrativa”, finalizzata cioè alla cura concreta dell’interesse pubblico” cosi, F. FRANCARIO, Dalla legge sul procedimento amministrativo alla legge sul provvedimento amministrativo, in Il Corriere del Merito n. 4/2005, p. 470 .
“Non pare che la disposizione abbia un concreto e sostanziale contenuto innovatore, visto che già oggi i rapporti tra amministrazione ed amministrati in cui la prima non agisce in via autoritativa sono applicate le norme di diritto privato (…) a nostro avviso ha più natura enfatica, che portata reale. E ciò per un duplice ordine di considerazioni. Anzitutto è un regola posta da una legge ordinaria, come tale derogabile o superabile da una fonte normativa di primo grado; inoltre è un principio di carattere residuale, diretto a valere solo nei casi in cui non esistano discipline di settore, o, più correttamente, quando l' amministrazione ponga in essere con i terzi rapporti non disciplinati dal diritto pubblico” così, G. TARANTINI, L. 11 febbraio 2005, n. 15 “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa in www.prefettura.perugia.it.
”Il legislatore ha tradotto in forma scritta principi insiti nel sistema (…) deve essere correttamente intesa come una mera norma di apertura di una legge generale sull’attività amministrativa alla quale non può essere conosciuto alcun contenuto innovatore” così A. SANDULLI, Commento alla legge di riforma della legge n. 241/1990 (a cura di Vittorio Italia), Giuffrè, 2005. “E’ evidente la rivoluzione copernicana apportata dal comma 1 bis dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990, nel testo novellato dalla legge n. 15 del 2005, che, per l’appunto, segna un’inversione di tendenza chiarissima: nell’ambito dell’attività paritetica, il rinvio alla disciplina privatistica e codicistica diventa la regola, mentre l’applicazione del diritto pubblico, generale o speciale, resta confinato al rango di eccezione, da prevedersi in forma espressa”, così, N. DURANTE, op.cit.
[44] ”Anche la riserva in materia di ordinamento civile sembra dover essere interpretata non già come mera riformulazione del vecchio limite del diritto privato, bensì con riferimento a fattispecie o modelli giuridici che ricorrono ordinariamente nei rapporti tra privati e, complementarmente, in altri rapporti. Potrebbe dunque interpretarsi, quella riserva, come riguardante la disciplina dell’attività amministrativa derogatoria del diritto privato e delle clausole normative che definiscono il particolare regime di determinati poteri amministrativi e la loro tipologia. La riserva risponde evidentemente all’esigenza di assicurare sul territorio nazionale pari garanzie delle libertà e dei diritti costituzionali; rappresentando un’eccezione alla potestà legislativa generale delle Regioni, essa non potrà tuttavia essere interpretata in modo da oltrepassare il limite necessario per raggiungere il suo fine (secondo il principio di proporzionalità) e deve dunque interpretarsi come limitata alla riserva al potere legislativo dello Stato della definizione di princìpi, da attuare poi a livello regionale”così, Relazione Prima commissione cit. Si veda, in questo senso, anche G. NAPOLITANO, op. cit, p. 486.
[45] L’art. 1, comma 1 bis, impone all’apparato amministrativo, invece, un canone interpretativo ricavabile autonomamente dall’art. 97 cost.
[46] Così, V. CERULLI IRELLI, op. cit. Se, invece, accediamo alla tesi secondo cui l’art. 1, comma 1 bis, ha procedimentalizzato l’attività privatistica, allora, la disposizione contiene anche un quid novi e non una esplicitazione del principio di legalità.
[47] “Ho anche qualche dubbio che la disposizione comporti violazione dell’art. 113 Cost., in quanto, trasformando gli atti “non qualificati” delle amministrazioni in atti di diritto privato, diminuisce la tutela in relazione ad essi, eliminando la rilevanza per i terzi e di conseguenza la tutela degli interessi legittimi degli amministrati… Secondo me comunque la disposizione va soppressa integralmente: il che non sarà facile ottenere, dato che qualcuno si immagina di ottenere chissà cosa dal mitico “diritto privato” (G. Falcon, Associazione Italiana dei Professori di Diritto Amministrativo, Dossier sul disegno di legge, A.S. n. 4860, Roma, 5 febbraio 2001. Cfr. sul grado di vincolatività della novella della legge n. 241/1990 rispetto agli enti locali, C. E. GALLO, La riforma della legge sull’azione amministrativa ed il nuovo Titolo V della nuova costituzione in giustamm.it; E. BARUSSO, La legge di riforma del procedimento amministrativo, Comuni d’Italia, n. 3/2005.
[48] Cfr. L. OLIVERI, Il disegno di legge di riforma della legge 241/1990 - Problemi di compatibilità con la riforma della Costituzione, http://www.lexitalia.it/articoli/oliveri_rif241.htm.; CERULLI IRELLI, Ancora sulla riforma della legge 241/1990 in rapporto alla legge costituzionale 3/2001, in http://www.lexitalia.it/articoli/cerulli-irelli_riformapa.htm
[49] A. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo cit., p. 420.
[50] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 1 febbraio 2000, n. 530.
[51] B. CAVALLO, Provvedimenti e Atti amministrativi, in Trattato di diritto Amministrativo (a cura di Caianiello), Cedam, 1993, p. 365 e segg.
Altri autori sostengono che nel quadro di una P.A. orientata alla pariteticità, il principio in parola opera quasi esclusivamente per i provvedimenti sfavorevoli per gli interessati.
[52] Così, il Parere Consiglio di Stato - Adunanza generale, 11 aprile 2002, n. 2340/2001. “Il principio di tipicità dei contratti è distinto dal principio di tipicità del provvedimenti amministrativi atteso che se in forza del principio di legalità dell'amministrazione è consentita l'adozione dei soli provvedimenti che costituiscono espressione di una specifica attribuzione di potere, al soggetto pubblico non è negata la libertà di contrarre ai sensi dell'articolo 1322 del codice civile, sicché esso potrà avvalersi delle figure negoziali tipiche disciplinate dal codice civile, ma potrà anche concludere contratti atipici, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela non confliggenti con le finalità istituzionali, e cioè contratti aventi una causa non illecita”, così, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 7 settembre 2001, n. 4680. Cfr. da ultimo, la sentenza del T.A.R. Lecce 5 aprile 2005, n. 1847.
[53] P. VIRGA, Diritto Amministrativo, vol. II, 1997, p. 11.
[54] Cfr sulla nozione di causa di potere, P. VIRGA, op. cit . p. 10.
[55] Il disegno di legge A.S. n. 4860 d’iniziativa del deputato CERULLI IRELLI recante “Norme generali sull’attività amministrativa”, prevedeva all’art.2, quanto segue “ Salvi i casi di poteri amministrativi espressamente conferiti da leggi o da regolamenti, le amministrazioni pubbliche agiscono secondo le norme del diritto privato (…).Cerulli Irelli, osservò, nel dibattito parlamentare, che il testo da lui proposto riprendeva l'affermazione di principio già approvata dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (legge costituzionale n. 1 del 1997) ( Atti parlamentari, Discussioni, Seduta del 25 Ottobre 2000 - n. 798 p. 134-137).
G. PASTORI, in senso critico, osservò, in Dossier sul disegno di legge cit.: “nell’art. 2 si ammette che i poteri amministrativi (di carattere autoritativo) possano essere previsti anche da regolamenti: il che contrasta con il principio di legalità e con quanto ribadito al riguardo dalla costante giurisprudenza costituzionale”.
A. TRAVI, in Dossier sul disegno di legge cit, rilevò: “Il testo dell'articolo mi lascia perplesso, sia per il riferimento generico ai regolamenti come fonte del potere amministrativo, sia per l'idea che quando l'Amministrazione opera con strumenti di diritto privato (si pensi al caso dell'attività contrattuale) sia soggetta solo alle norme di diritto privato. Il procedimento che precede l'accordo contrattuale non è (almeno secondo molti) esercizio di potere, ma non è neppure regolato dal diritto. Anche G. ROSSI, in Dossier sul disegno di legge cit, in senso critico, evidenziò: “Il disegno di legge si ispira a un intento garantista, ma, allora perché prevede che un regolamento possa conferire un potere? In questi termini la norma solleva obiezioni di costituzionalità, salvo che non ci si voglia riferire ai regolamenti di organizzazione che ripartiscono tra gli organi i poteri già previsti da leggi?”.
F. MERLONI , in Dossier sul disegno di legge cit, evidenziò le possibili lacune rintracciabili nei testi legislativi: “Non si dimentichi che, nella gran parte dei casi, la legge si limita a conferire “funzioni” a pubbliche amministrazioni, cioè a definire finalità generali che le amministrazioni devono perseguire, ipotizzando che le stesse amministrazioni agiscano attraverso procedimenti amministrativi o, in alternativa, attraverso strumenti di diritto privato”.
[56] L’art 12 della legge n. 241 /1990 dispone al primo comma che “ la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi; al secondo comma, che “l'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.
[57] V. CERULLI IRELLI, op.cit.
[58] Cfr. TAR Lazio, sez. III - ter, sentenza 8 marzo 2004, n. 2159. Per le problematiche in materia di giurisdizione, cfr. P. VIRGA, Giurisdizione sulle controversie in tema di incentivi, in http://www.lexitalia.it/articoli/virgap_giurisdizione.htm
“L’atto di indirizzo previsto dall’art. 12 l. 7 agosto 1990 n. 241, sui criteri guida e modalità per la concessione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati, ha natura di atto normativo a rilevanza esterna e non di mero atto di gestione” così, Corte dei conti, sez. contr. Stato, 23-11-2000, n. 106. “Ai sensi dell’art. 12 l. 7 agosto 1990 n. 241, la normativa relativa alla concessione di contributi ad istituti, enti ed associazioni, la quale, oltre ad essere subordinata alla predeterminazione ed alla pubblicazione dei criteri da adottare è generale, astratta ed innovativa, ha natura regolamentare”, così Consiglio di Stato, sez. consultiva atti normativi, 31-08-1998, n. 163/98.
[59] Corte costituzionale, sentenza n. 352/2001. Cfr. Cons. Stato, sezione VI, sentenza, 05–03-2002, n. 1303.
[60] La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal giudice remittente riguardava l'art. 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, nella parte in cui non prevedeva la possibilità per i privati proprietari di dare esecuzione direttamente alle prescrizioni del piano di edilizia economica e popolare, con lo strumento dell'accordo con il comune interessato. L'art. 97 risultava violato “poiché tra i principi atti a garantire il buon andamento dell'Amministrazione rientrano anche quelli della "massima collaborazione coi privati (...) e della piena fungibilità dello strumento autoritativo con quello concordato, laddove il fine (ovvero l'assetto degli interessi) voluto dalla legge sia raggiunto".
[61] Al di là della casistica proposta dall’opera meritoria di Cerulli Irelli.
[62] S. GIACCHETTI rileva: ”Ma, in un sistema di diritto privato sempre più complessificato, rilasciare alla pubblica amministrazione – che, per la sua genesi storica, non dispone di funzionari ad alta specializzazione civilistica e che quindi dovrebbe riprogrammare la cultura e soprattutto la mentalità di centinaia di migliaia di dipendenti - un’autorizzazione in bianco ad abbandonare i binari fissi, noti e collaudati del procedimento e ad avventurarsi nelle sabbie mobili di negozi atipici mai in precedenza praticati prima rischierebbe di mettere la pubblica amministrazione nelle mani degli specialisti di controparte”.
[63] ”A partire dalla fine degli anni sessanta la frantumazione della struttura monolitica dei tradizionali poteri politici forti con conseguente sviluppo di un diffuso policentrismo politico-sociale, le esigenze di competitività economica, frutto dell’apertura dei mercati e della globalizzazione economica nonché del sacrificio rituale dei più deboli sull’altare della lex mercatoria, e la crescente pressione conformativa di un diritto europeo formalmente non articolato in diritto privato e diritto pubblico, hanno fatto evolvere gran parte delle tradizionali forme pubblicistiche verso nuove figure soggettive ed operative di stampo privatistico (…) ritenute – a ragione o (più spesso) a torto – più efficaci ed efficienti delle tradizionali figure soggettive ed operative di stampo pubblicistico tradizionale e quindi più in grado di stimolare la competitività economica dell’azienda Italia, che nella fase politica ed economica attuale costituisce la prima lex”, così , S. GIACCHETTI, op. cit.
[64] Il diritto alla buona amministrazione ex art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può coniugarsi con le regole relative al nostro giusto procedimento. “Lo statuto del cittadino, inaugurato dalla legge 241/90, deve essere portato avanti ed affinato, sempre nella prospettiva dell’amministrazione di risultato in quanto quest’ultima consente la scrittura di uno statuto unitario armonizzandolo con l’amministrazione multilaterale e con il nuovo processo amministrativo che è volto primariamente a far conseguire la pretesa sostanziale al ricorrente in applicazione del principio di effettività di origine comunitaria. Tale statuto è coerente con il principio di sussidiarietà nel quale trova fondamento e del quale rappresenta un’articolazione e pare teso a convergere con quello presente nello spazio giuridico europeo disegnato dall’articolo 41 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali, ponendosi come comune denominatore per i cittadini europei” così , E. SANNA TICCA, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, Giuffrè, 2004 p. 6.
Per ulteriori riferimenti, v. la pagina di approfondimento.